HEYSEL
Le verità di una strage annunciata
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TRAGEDIE SORELLE
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LIBRO EDIZIONE 2003
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DOCUMENTARIO 2003
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HEYSEL
Le verità di una strage
annunciata
di Francesco Caremani
"HEYSEL
le verità di una strage annunciata" è l’aggiornamento
doveroso e importante del libro che dopo diciotto anni
di assordante silenzio ha raccontato la strage di 39
tifosi juventini del 29 maggio 1985 e, soprattutto, il
lungo e dimenticato processo dell’"Associazione fra le
famiglie delle vittime di Bruxelles" contro tutto e
tutti. Un Heysel 2.0 che riporta in libreria e
all’attenzione generale una vicenda italiana ed europea
che ha segnato per sempre il calcio, quello prima e
quello dopo la tragedia di Bruxelles. Forse nessuno sa
che se oggi gli stadi designati per le finali di
Champions League devono avere determinati requisiti di
sicurezza lo devono a Otello Lorentini, l’uomo di Arezzo
che ha lottato per difendere la memoria del figlio
Roberto, perso sulle gradinate della Curva Z mentre
cercava di salvare un connazionale, sconfiggendo l’Uefa
e condannandola alla corresponsabilità degli eventi che
organizza. Da qualche tempo a questa parte molte persone
mi hanno chiesto del libro, mi hanno ringraziato per
averlo scritto e per aver raccontato la verità su quella
maledetta notte di Coppa dei Campioni. Attestati che mi
hanno consegnato la certezza dell’importanza della
memoria, soprattutto di fatti drammatici come la morte
di 39 persone per una partita di calcio, operazione che
in questo Paese è più facile irridere e stigmatizzare
che apprezzare. Riproporla oggi, arricchita di
interventi di grande spessore professionale, umano e
giuridico, è per me qualcosa che va al di là della
gratificazione professionale, qualcosa che provo solo
quando guardo dritto negli occhi Otello o Andrea, figlio
primogenito di Roberto, qualcosa che a parole non si può
spiegare e che spero proverete leggendo questo libro.
Fonte:
Bradipolibri © 29 maggio 2010
Fotografie: Bradipolibri © Francesco Caremani ©
Curvafiladelfia.wordpress.com
© Andrea
Lorentini © GETTY IMAGES © (Not for commercial use)
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La prefazione di
Walter Veltroni
È
una mano pietosa e indignata, quella di Francesco
Caremani che ci guida in quel 29 maggio 1985, il giorno
in cui lo sport dismise i panni dell’amicizia e della
gioia per vestire quelli del dolore e della violenza.
Avvenne, a Bruxelles, ciò che in molti avrebbero potuto
facilmente prevedere ed evitare, e non vollero o non
seppero farlo. Quel giorno lo stadio del gioco diventò
lo stadio della morte, una morte trasmessa in diretta e
in mondovisione. Una morte che si mescolò col gioco del
pallone (e per questo fu più crudele e più odiosa) che
portò via il soffio della vita a chi avrebbe voluto
semplicemente applaudire, vincere o perdere con la
propria squadra, coi propri beniamini. E invece persero
tutti, nonostante la coppa alzata, il giro del campo,
nonostante i sorrisi, i "non sapevamo", nonostante il
gol. Nonostante la vittoria, persero tutti, in quella
sera luttuosa all’Heysel, quando il battito del cuore
improvvisamente cessò per trentanove persone. Erano
italiani in gran parte, ma il necrologio riporta anche
quattro nomi belgi, due francesi e uno irlandese. Il più
giovane aveva undici anni e si chiamava Andrea. Seicento
furono i feriti. Le cronache ci raccontarono che la
violenza degli hooligans inglesi non rispettò nemmeno i
poveri corpi senza vita, oltraggiati col furto, con la
denigrazione. La pietà muore più volte, e ciò che
chiamiamo bestiale è, purtroppo, proprio dell’Uomo, non
della ferinità, poiché solo l’Uomo può adoperare con
consapevole raziocinio la crudeltà, l’offesa, il gesto
delittuoso fine a se stesso. Scriveva Salvatore
Quasimodo in "Uomo del mio tempo", nel 1946, cogli
orrori della guerra davanti agli occhi: "(…) Hai ucciso
ancora,/ come sempre, come uccisero i padri, come
uccisero/ gli animali che ti videro per la prima volta./
E questo sangue odora come nel giorno/ Quando il
fratello disse all’altro fratello:/ "Andiamo ai campi".
E quell’eco fredda, tenace,/ è giunta fino a te, dentro
la tua giornata (…)". Anche all’Heysel si udì quell’eco,
nelle urla degli hooligans, nel silenzio della polizia
belga, nei piani di sicurezza mal attuati. È facile
alzare la mano sugli innocenti, sui più deboli, sugli
inermi. Questo ci insegna la strage dell’Heysel: il Male
ha una sua feroce semplicità, lo si incontra anche nel
luogo che per sua fattura dovrebbe invitare
all’amichevole aggregazione, come uno stadio. E invece
no: il gioco è il pretesto, la violenza è il fine.
Quegli hooligans cercavano lo scontro, questo ci
racconta il libro, e cercavano d’uccidere, dopo aver
fatto crescere l’eccitazione con fiumi di alcol. Nelle
pagine successive i lettori troveranno ricostruzioni
esatte e agghiaccianti. Un testimone così racconta:
"Queste cose dovete scriverle. Quelli del Liverpool
avevano pistole, forbici, coltelli, spranghe. Hanno
ammazzato un ragazzo con un lanciarazzi, ho visto tutto
con i miei occhi… È cominciato tutto col lancio di
razzi. Dalla zona degli inglesi ne è arrivato uno, poi
un altro e un altro ancora. Il quarto razzo ha colpito
in pieno un tifoso. Era a venti metri da me. L’ho visto
cadere, era una maschera di sangue. Nessun poliziotto è
intervenuto".
I lettori troveranno
spiegazioni, opinioni, denunce. Troveranno le cronache
dei processi, i pareri degli avvocati. Troveranno le
parole di Otello Lorentini, l’anziano padre di Roberto,
uno dei morti dell’Heysel cui è dedicato il libro.
Roberto è morto mentre tentava di salvare un bambino
ferito con la respirazione bocca a bocca. Quando
Caremani chiede il motivo per cui ha deciso di
costituire l’Associazione tra le famiglie delle vittime
di Bruxelles, Lorentini risponde che non poteva
sopportare che si pensasse anche solo per un attimo che
"39 persone erano morte da sole, per pura fatalità".
Arrivando alla fine del libro, quelle parole saranno una
delle chiavi di lettura dell’intera vicenda, perché quel
giorno della fine di maggio del 1985 furono gli uomini e
non il Fato a decidere come in un’antica arena romana se
avesse dovuto esserci il pollice verso, e fu così che
morirono gli innocenti dell’Heysel: qualcuno li uccise,
qualcuno lasciò fare. Caremani è un ottimo giornalista.
Ci emoziona, ci commuove anche, eppure ci avverte a ogni
passo di non lasciarci distogliere dal dolore, perché
oltre il dolore deve esserci giustizia. Non è un lieto
fine, quello che l’autore ci racconta, né potrebbe
esserlo, poiché non c’è letizia per chi ha perso i
propri amici e familiari, ma c’è un risultato importante
che l’impegno di Otello Lorentini e di altri riescono a
raggiungere: la condanna della Uefa non è solo un atto
giudiziario, ma indica un dovere di assunzione di
responsabilità. Caremani sa bene che la giustizia degli
uomini non è infallibile, ma è conscio di come quella
sentenza rappresenti davvero un fatto storico per la
giurisprudenza. Questo libro è prezioso e bellissimo. Lo
è perché ci ammonisce a non dimenticare, e perché narra
puntualmente e con notizie verificate tutto ciò che è
accaduto; ma lo è anche perché è un libro d’inchiesta
che ha dentro la passione del diario, della pagina
biografica. Caremani dichiara che questo è il libro che
non avrebbe voluto mai scrivere, eppure ciò che è
avvenuto ha trasformato queste pagine nel "suo libro".
Dentro e dietro il cumulo di dimenticanze, di
superficialità, di pressappochismo, di mancanze, di
colpe, l’autore indaga con la passione di chi ha
ricevuto il testimone più scomodo: quello della memoria.
Egli raccoglie indizi, ascolta e riferisce, forse
affinché quel suo dolore si asciughi almeno un poco, e
davvero quel dolore, quel nodo scuro, quel groppo alla
gola che Caremani si portava dentro, si trasformano in
coraggio e tenacia. La rabbiosa voglia di sapere diventa
forte denuncia civile, diventa un pezzo di storia da
leggere e conservare, diventa testimonianza lucida e
critica di un massacro evitabile. Voglio bene a questo
libro: è un grande atto d’amore verso trentanove
innocenti, e un monito a non perdere la strada
dell’umanità e della pietas.
Fonte:
Bradipolibri © 29 maggio 2010
Fotografia:
Francesco Caremani
©
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Introduzione di
Roberto Beccantini
Non
esiste libro più attuale di questo. Già il titolo,
"HEYSEL, le verità di una strage annunciata", fa capire
che siamo sempre a metà del guado. E sono passati
venticinque anni. Francesco Caremani ha deciso di
ritornare sulla tragedia che affiorò dalla pancia di
Juventus-Liverpool, il 29 maggio 1985. Idea nobile e
grande. Mi ha chiesto, Francesco, cosa volessi fare
della mia introduzione. Ho deciso di lasciarla tale
quale. Non per pigrizia, ma perché non la considero
"vecchia". Era il 2003, quando uscì il libro. Il 2
febbraio scorso abbiamo celebrato, in sordina, il terzo
anniversario dell’uccisione dell’ispettore di polizia
Filippo Raciti, morto il 2 febbraio 2007 allo stadio
Cibali di Catania, durante il derby con il Palermo.
Violenza da stadio, con il calcio ora mezzo ora fine.
Siamo il Paese degli slogan ("Tolleranza zero") e dei
tornelli. Siamo quelli che un nero non può essere
italiano (Mario Balotelli). Siamo sempre quelli. Ho
citato parole e fatti successivi all’Heysel e, dunque,
alla prima edizione delle sue "Verità". Tutto passa,
tutto si tiene. Al di là degli aggiornamenti, curati
dall’autore, resta il dramma di una carneficina che ci
ha insegnato poco, fedeli all’"homo homini lupus" del
filosofo inglese Thomas Hobbes. Non bisogna abbassare la
guardia. "Gli stadi italiani sono in mano agli ultrà",
parole e musica di Fabio Capello. L’ha detto, e
ripetuto, "dopo", non "prima". In mano agli ultrà e,
aggiungo io, alle televisioni, spesso non meno
estremiste e faziose dei nuovi barbari. L’Heysel rimane
una ferita immane che riga la memoria e sfigura molte
coscienze che, non solo in Italia, sanno di averla fatta
sporca. Ritornarci sopra significa scacciare la
tentazione indecente di metterci una pietra sopra.
Venticinque anni e trentanove morti dopo.
Premetto: sono juventino e ho sposato Liliana con la
musica di "You’ll never walk alone", l’inno del
Liverpool, la squadra inglese del mio cuore. Lo era
prima dell’Heysel, lo è rimasta dopo. C’ero anch’io,
quella sera. Lavoravo per la Gazzetta dello Sport, avevo
contribuito a preparare un inserto celebrativo che, come
tale, sarebbe uscito soltanto in caso di vittoria.
Naturalmente, non uscì. Ricordo che faceva caldo e che
all’improvviso, in una porzione di stadio alla mia
sinistra, si scatenò l’inferno. Trentanove morti sono il
prezzo dell’apocalisse e possono diventare la ragione di
un libro, questo. Un libro scomodo, va detto subito. E
di parte. Ma della parte giusta. Francesco Caremani ha
scavato fra lacrime e autopsie, spiegando come e perché
allo sdegno e al dolore provocati dalla carneficina,
evitabilissima, si siano aggiunti altro sdegno e altro
dolore, per le lungaggini di una burocrazia troppo
distratta e per il disimpegno di un apparato sportivo
che si è chiamato fuori dalla tragedia con disgustoso
senso di irresponsabilità. Era il 29 maggio del 1985.
L’Heysel è stato buttato giù e ricostruito, adesso si
chiama stadio "re Baldovino", e del settore Z, il
famigerato settore Z, trappola fatale e mortale, è
scomparsa ogni traccia. In realtà, l’Heysel e il suo
"gulag" vivranno sempre. Mai come quella sera sarebbe
bastato un briciolo di efficienza organizzativa per
scongiurare l’eccidio. Le autorità belghe e l’Uefa
peccarono di omessa prevenzione. La furia degli
hooligans inglesi completò l’infame opera. Lo straziante
paradosso è che l’ecatombe di Bruxelles è servita più
agli inglesi che a noi, più agli aggressori che agli
aggrediti. A ogni incidente, non si parla che del loro
modello e delle loro leggi, dure, severe, immediate. Noi
ci abbiamo capito poco. E siamo sempre lì, a morderci la
coscienza, un decreto e un emendamento, un emendamento e
un decreto. Se non proprio l’io narrante, Otello Lorentini, che all’Heysel perse il figlio, Roberto, è
una sorta di Virgilio che scorta l’autore nell’inferno
del "durante" e del "dopo". Lorentini è stato il
presidente dell’Associazione costituita fra le famiglie
delle vittime di Bruxelles. Ha trasformato la
sofferenza, indicibile, in energia propositiva e
riparatrice, ha sfidato tutti, e a tutti ha bussato, pur
di evitare che "quella povera gente morisse una seconda
volta".
Non è stato facile, e ci è voluto tempo.
Qualcosa, alla fine, ha ottenuto. Imbarazzi, diffidenze
e reticenze ne hanno accompagnato la strenua azione di
rottura. Al posto di Giampiero Boniperti avrei nascosto
e poi riconsegnato a chi di dovere quella stramaledetta
coppa. La partita venne giocata esclusivamente per
scongiurare altre risse, altri lutti. Fu vinta su un
rigore non meno inesistente della inesistenza del
diritto a considerare ufficiale una recita così macabra
e così fuori del mondo (il mondo civile). Impossibile
dimenticare certe scene di esultanza, impossibile non
stigmatizzarle: anche se dal pulpito i fendenti costano
meno e vengono meglio. La memoria va allenata, e queste
pagine sono palestra per esercizi che la pigrizia degli
italiani tende sistematicamente a schivare, soprattutto
se portatori di ricordi agghiaccianti e di atteggiamenti
non proprio edificanti. Al di là dei risarcimenti, e del
poco o molto che è stato fatto, non bisogna mai
arrendersi all’inerzia. L’Heysel è un peso che ci
portiamo dentro. Non riusciremo mai ad appoggiarlo da
qualche parte. Non sarebbe neppure giusto. Trentanove
morti per una partita di calcio. Forse (anche) per
biglietti smerciati alla carlona, sicuramente per
ubriachezza molesta e carenza di ordine pubblico. La
campana del destino prima o poi suona per tutti, ma
quando i rintocchi assordano uno stadio, non resta che
ribellarsi. O documentarsi, come ha fatto Francesco.
Senza astio, senza paura, senza secondi o terzi fini.
Pane al pane. L’Heysel è stato una tragedia. La speranza
è che la contabilità del sangue e delle urla aiuti a
prevenirne altre. Perché il tempo sia galantuomo, serve
che lo siano anche gli uomini, e le loro istituzioni.
Leggete queste pagine: non scoprirete novità
sconvolgenti. Scoprirete, semplicemente, com’è stato
duro accendere una candela di giustizia. Una candela,
non un lampadario.
Fonte:
Bradipolibri © 29 maggio 2010
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Roberto Beccantini
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Presentazione di
Andrea Lorentini
Quando
Francesco Caremani, l’autore di questo libro, mi ha
chiesto di scrivere alcune righe di presentazione ho
accettato ben volentieri perché la violenza nello sport
e nel calcio in particolare è qualcosa che mi tocca da
molto vicino. Sono vittima di questa violenza: mio padre
è deceduto allo stadio Heysel di Bruxelles quella
tragica sera del 29 maggio 1985. Io, bambino di appena
tre anni, non ho ricordi particolari di mio padre, ma
dai racconti dei miei familiari traspare un uomo
generoso a tal punto da sacrificare la vita per aiutare,
nella sua qualità di medico, i connazionali feriti sugli
spalti. Vado enormemente fiero di questo suo gesto, la
sua immagine d’uomo altruista, buono e affettuoso mi
accompagnerà per tutta la vita. Nonostante ciò lo sport
è la mia più grande passione e sono diventato
giornalista per poter raccontare il calcio nella sua
espressione più pura, poiché lo ritengo un importante
veicolo d’incontro culturale e un significativo collante
per la nostra società. Il calcio e la violenza sono due
aspetti che non hanno e non devono avere niente in
comune; calcio significa divertimento, salute,
socializzazione, sano agonismo; il calcio aiuta a
crescere, insegna il rispetto per l’avversario e queste
sono regole di vita che un uomo si porta dentro per
sempre. Della mia "esperienza" di calciatore ricordo
tutto con molto piacere; quegli anni mi hanno arricchito
profondamente, mi hanno fatto vivere un’adolescenza
meravigliosa. Sconfiggere la violenza è un dovere morale
e civile di ogni uomo; purtroppo, ancor oggi assistiamo
a episodi di teppismo, a scene di violenza e
d’intolleranza che non hanno niente a che vedere con il
calcio. È e sarà una lunga battaglia, ma mi auguro che
con l’impegno di tutti il gioco del pallone sia soltanto
puro e semplice momento di festa. Il calcio è vita
perciò, a chi ne è protagonista attivo, chiedo di
trasmettere la gioia di vivere che questo sport porta
con sé, con la speranza che tutto ciò che gli nuoce sia
sconfitto. Mi auguro che questo libro apra una profonda
riflessione affinché la società prenda coscienza che una
tragedia come quella di Bruxelles non debba ripetersi
mai più.
Fonte:
Bradipolibri © 29 maggio 2010
Fotografie: Bradipolibri
©
Andrea Lorentini
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Heysel The Truth (English
Edition)
On
29 May 1985 at the Heysel stadium in Brussels, before
the European Cup final between Juventus and Liverpool,
39 people died. They died in block Z, crushed and
suffocated by the crowd, under the blows of English
hooligans dulled by alcohol; and due to the distinct
complicity of the Belgian authorities, the local police
and UEFA were unable to predict what would occur, and to
intervene. It was a predictable tragedy that struck the
sport of football and our consciences with desperate
drama. It is an open wound that has never healed,
because no one can or should die during a simple
football match. What happened before Juventus–Liverpool
has been recounted by everyone; many have told about
what happened during and after the event, including
their own stories, but no one has ever really delved
into the real, uncomfortable truths. The personal
effects stolen, the arrogance of the authorities, the
long, hard, disdained legal battle carried out by the
Association of Victims, by Otello Lorentini who in
Belgium lost his son Roberto (awarded a silver medal for
Civil Valour for having died trying to save a fellow
human being). The humanity of 39 families has been
trampled for no justifiable reason.This book is a
gesture owed to the memory and dignity of 39 people who
lost their lives to watch a game. To remember what the
football environment has triedtoo often and too quickly
to forget. "This book is the Bible of Heysel" (Emanuela
Casula, sister of Andrea and daughter of Giovanni, two
of the 39 victims of the massacre in Brussels). "If the
British had learned the lesson of Heysel, maybe the
Hillsborough tragedy would never have happened".
(Francesco Caremani,
author)
"Il
29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, prima
della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool,
muoiono 39 tifosi bianconeri. Muoiono nel settore Z,
schiacciati e soffocati dalla calca, sotto i colpi degli
hooligans inglesi instupiditi dall’alcool, con la
connivenza decisiva delle autorità belghe, della polizia
locale e dell’Uefa, incapaci di prevedere e
d’intervenire. Una tragedia annunciata che si è
abbattuta con disperante drammaticità sul calcio come
sport e sulle coscienze di tutti noi come uomini
prim’ancora che come sportivi. Una ferita aperta e mai
rimarginata, perché non si può e non si deve morire di
calcio. Tutti hanno raccontato quello che è successo
prima di Juventus-Liverpool, molti hanno raccontato il
durante e il dopo, anche il proprio, ma nessuno s’è mai
veramente addentrato nelle scomode verità. Gli effetti
personali rubati, l’arroganza delle autorità, la lunga,
faticosa e snobbata battaglia legale portata avanti
dall’Associazione delle vittime, dall'aretino Otello
Lorentini che in Belgio ha perso il figlio Roberto.
L’umanità calpestata di 39 famiglie tra meschinità
d’ogni genere. Questo libro è un atto dovuto alla
memoria e alla dignità di 39 persone che hanno perso la
vita per assistere a una partita. Ho scritto questo
libro ("Heysel, le verità di una strage annunciata",
editore Bradipolibri, NdR) per ricordare ciò che
l’ambiente calcio ha cercato troppo spesso e troppo in
fretta di dimenticare".
(Francesco Caremani, l'autore)
Fonte:
Amazon.it
© 12 maggio 2015
Fotografie:
Bradipolibri
©
Francesco Caremani
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La Memoria è una cosa seria,
la Memoria non è
protagonismo,
la Memoria non è spettacolarizzazione,
la
Memoria, in Italia, è spesso sporca, brutta e cattiva.
La Memoria è un gesto quotidiano, una battaglia senza
fine.
La Memoria non ha né vinti né vincitori,
perché
quando si deve difendere
la dignità di 39 morti dagli
idioti
siamo tutti sconfitti
Francesco Caremani
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