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LIBRI e HEYSEL 2010
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Heysel Le verità di una strage... Francesco Caremani 2010
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  ARTICOLI HEYSEL FRANCESCO CAREMANI
 

I morti di Valencia e il calcio che va

avanti: ma l'Heysel è un'altra storia

di Francesco Caremani

Roma-Real Madrid, 11 settembre 2001. Per la mia generazione, quelli di noi che amano il calcio, la prima giornata della Champions League 2001-02 è passata alla storia per essersi giocata nello stesso giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Si giocò mentre New York bruciava, si giocò mentre c’era chi lottava per estrarre i corpi da sotto le macerie, si giocava mentre il mondo, al di qua dell’Atlantico, era incollato, attonito, dal primo pomeriggio davanti al televisore, confondendo il fumo dell’attentato con quello dei fumogeni dentro uno stadio.

Il dramma di Valencia - All’epoca l’Uefa non fu in grado di rimandare la prima giornata, rimandando solamente le partite del giorno dopo. Un meccanismo, già allora, incapace di fermarsi, incapace di portare rispetto a qualcosa che era molto più grande di lui, dentro un calendario che più di venti anni fa era difficile da gestire, figurarsi oggi. È accaduto di nuovo. In questi giorni in cui la Comunità Valenciana sta affrontando il disastro di un evento climatico senza precedenti, mentre la conta dei morti diventa insopportabile e la ripresa della vita quotidiana un miraggio, e mentre la MotoGP ha rinunciato a correre nel circuito cittadino, accettando anche di finire il Mondiale allo stato delle cose per poi virare su Barcellona, il calcio non si è fermato, non lo ha fatto l’Uefa con la Champions League, non lo ha fatto la Liga del grande “moralizzatore” Javier Tebas Medrano. Che immensa vergogna. Il calcio non si è fermato nemmeno durante la pandemia di Covid-19, ovvero lo ha fatto ma dopo, lo ha fatto perché non poteva farne a meno riprendendo la maggior parte dei campionati e le coppe europee in estate per consegnare premi e trofei, mentre c’è chi ha avuto più dignità e ha interrotto tutto, chi non assegnando il titolo e chi riconoscendolo alla squadra oggettivamente più forte, roba da Europa del Nord ma non del Sud. In Italia, per esempio, si è forzata la mano fino all’impossibile, facendo giocare le squadre in stadi vuoti e in un clima surreale, poi ripartendo e violando più volte i protocolli senza subire sanzioni; parte di un capitolo ben peggiore di un Paese che si è vergognosamente scoperto nemico della scienza.

The show must go on - Restando all’Italia, sono all’ordine del giorno le polemiche per partite non giocate a causa delle alluvioni o di eventi climatici disastrosi, che hanno causato danni ingenti alla popolazione e morti. In questi anni è accaduto per un Napoli-Juventus (c’era stato un morto), per Fiorentina-Juventus (con la Toscana sott’acqua) e per Bologna-Milan con l’Emilia Romagna in ginocchio da due anni. Spesso si è polemizzato sul fatto che il giorno della partita c’era il sole dimenticando tutto il resto. E forse, allora, è il caso di dirselo fino in fondo. Se il calcio fosse ancora un gioco lo si interromperebbe sempre di fronte a cose più importanti, di fronte alla Storia, di fronte alle calamità naturali, di fronte ai morti. Evidentemente non lo è più e forse non lo è mai stato. Il calcio, invece, è un’industria e come tale deve andare avanti, non si può fermare altrimenti collassa dal punto di vista economico, come ha rischiato di fare durante la pandemia. Continuare a dirsi che è altro è ipocrita e fuorviante, quindi anche i protagonisti dovrebbero avere il coraggio di ammetterlo. Un brutto risveglio per chi crede ancora alle favole. Però c’è un concorso di colpa, perché parte dei tifosi (?) sui social media ha sempre espresso il parere di voler vedere le partite a tutti i costi: a Napoli, come a Firenze e Bologna. Vogliono la partita, qualunque cosa accada, perché se non sono colpiti personalmente dalle tragedie non gliene frega niente e basta con questa storia che il tifo organizzato “fa anche cose buone”, certo, quando non è impegnato nelle partite o quando, come a Valencia, non c’è spazio per altro che per gli aiuti e dove ogni secondo è prezioso, ma potendo scegliere… Dirò di più. Ricordo ancora il giorno della morte di Davide Astori, quando la Serie A, udite Merano, si è fermata. Ricordo tutto, i commenti sotto un mio post, tifosi (?) che mi hanno bloccato, che rivendicavano il diritto alla gradinata di uno stadio sulla pelle di un ragazzo che era morto da poche ore, rivendicando anche i soldi spesi (tutte le settimane di tutte le stagioni, ma non ce l’hanno il mutuo da pagare e i figli da mandare a scuola?!) e dimenticando che l’industria ha solamente clienti e che quando qualcuno, molti anni fa, lo scriveva e lo faceva notare in molti hanno girato la testa dall’altra parte perché l’unica cosa che contava era poter andare allo stadio, le coreografie, battere i “nemici”, mica fermarsi a riflettere. Perché, va detto, un calcio diverso pretenderebbe una presa di posizione radicale e si dovrebbe stoppare prima di ripartire in modo completamente differente, e chi pensa che si possa fare in corsa non ha alcun contatto con la realtà.

L’Heysel e le ricostruzioni posticce - In questi giorni alcuni siti, sul fatto che il calcio non si ferma mai, nemmeno davanti ai morti, hanno ricordato l’Heysel. E come al solito lo hanno fatto male. Era osceno giocare con i morti messi in fila sotto la tribuna ? Sì lo era. E chi meglio di Otello Lorentini che piangeva Roberto, il figlio unico, medaglia d’argento al valore civile per essere morto tentando di salvare un connazionale, poteva saperlo, lui che poi ha fondato l’Associazione tra le famiglie delle vittime di Bruxelles per affrontare il processo e ottenere giustizia dopo quella strage, perché di strage si è trattato. Eppure, durante il processo, ha capito che quella scelta è stata oculata e che ha impedito altri morti, nel momento in cui tutti erano a conoscenza di quello che era accaduto nella curva Z. Il 29 maggio 2025 saranno passati 40 anni da quella maledetta notte di Bruxelles e nell’avvicinarsi a quell’anniversario si inizia già a sentire il rumore delle fake news e delle ricostruzioni posticce per coprire la vergogna di chi non ha mai fatto niente per ricordare le 39 vittime e di chi, gli antijuventini, le hanno offese dalle gradinate di uno stadio. Gli stessi che vogliono andarci a tutti i costi, anche quando ci sono dei morti, anche quando la Storia gli suggerisce che sarebbe meglio non farlo: ma che ne sanno loro della storia e, soprattutto, della pietas. Termino con un’autocitazione, poco simpatica me ne rendo conto: chi volesse saperne di più sull’Heysel in maniera corretta può leggere il mio libro “Heysel - le verità di una strage annunciata”, il primo sull’argomento, mentre gli altri sono arrivati tutti dopo. Per chi, invece, vuole credere agli asini che volano c’è solo l’imbarazzo della scelta. Fonte: Today.it © 6 novembre 2024 Fotografie: Bradipolibri © Francesco Caremani © Lastampa.it © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Quarantennale della Strage allo Stadio Heysel

di Francesco Caremani

"Nel 2025 saranno 40 anni e già si sono mosse varie truppe cammellate alla ricerca del nulla. Purtroppo è già tutto scritto, anche in una sentenza del tribunale di Bruxelles: non c'è niente da scoprire, niente da gossippare, niente da scooppare. L'unica cosa rimasta opaca è come i biglietti della curva Z siano arrivati agli italiani, ma questo, purtroppo, non cambia niente: né della storia, né della memoria della strage dell'Heysel ! Tra tutti i libri che sono stati scritti, dopo il mio - tutti dopo il mio - il più importante - anche del mio - è quello del vice direttore de L'EQUIPE Jean-philippe Leclaire - amico e collega di grande spessore umano e professionale - dal quale è stata tratta una serie televisiva che ho già definito "bellissima e definitiva"; una serie, è bene ricordarlo, che dopo essere andata in onda in Belgio e in Francia fatica a trovare un canale, una piattaforma, che possa mandarla in onda in Italia e questo, più di ogni altra cosa, dà il senso della grande fatica che è stata portare avanti la memoria dell'Heysel in questo Paese; con tanti motivi evidenti e alcuni assolutamente oscuri. Il mio pensiero è sempre rivolto all'Associazione fra i Familiari delle Vittime dell'Heysel e ad Andrea Lorentini. E oggi più che mai manca Otello Lorentini, al quale mi piacerebbe che Arezzo dedicasse qualcosa di imperituro: la prossima Lancia d'Oro del Saracino di giugno ? Da qui al 29 maggio la strada è lunga, con la speranza che cialtroni, schiavi e lecchini stiano alla larga dalla memoria: siamo sempre stati in pochi e ci conosciamo e riconosciamo tutti !". Fonte: Facebook (Pagina Autore) © 30 agosto 2024 Fotografie: Bradipolibri © Francesco Caremani © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Che cosa resta dell'Heysel, trent'anni dopo

di Francesco Caremani

Trent'anni fa la tragedia sugli spalti dello stadio belga prima della finale di Coppa Campioni tra Liverpool e Juventus. I silenzi, gli imbarazzi e la lotta dei sopravvissuti in questi anni.

Otello è morto l’anno scorso, di maggio come Roberto, il suo unico figlio deceduto nella strage dell’Heysel il 29 maggio 1985. Era un giovane e bravo medico di Arezzo, Roberto, tifoso della Juventus, era stato ad Atene nel 1983 (quando a sorpresa l’Amburgo vinse la coppa dalle grandi orecchie), a Basilea nel 1984 (quando contro il Porto i bianconeri conquistarono la Coppa delle Coppe) e a Bruxelles ci andò, come sempre, col padre e i due cugini, Andrea e Giovanni. Un viaggio che doveva essere una festa, la finale del secolo (come fu ribattezzata allora) contro il Liverpool che si trasformò nella tragedia del secolo e nella definitiva perdita dell’innocenza del calcio mondiale. Roberto era salvo, nonostante la calca e le cariche degli hooligan del Liverpool, ma si lanciò in mezzo all’inferno per tentare di salvare un connazionale (molto probabilmente Andrea Casula, 11 anni, la vittima più piccola) con la respirazione bocca a bocca, gesto che gli è stato fatale e che oggi una medaglia d’argento al valor civile appesa nel salotto di via Giordano Bruno 51 ricorda. A Bruxelles, nel fatiscente stadio Heysel, il 29 maggio 1985 morirono 39 persone, 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e un nordirlandese. Uccisi dagli hooligan inglesi, ubriachi all’inverosimile (tanto che avevano messo a ferro e fuoco la Grand Place poche ore prima) e armatisi in un cantiere adiacente l’impianto che era in ristrutturazione, con la responsabilità dell’Uefa e delle autorità sportive e politiche belghe, che non si curarono di scegliere uno stadio sicuro e che organizzarono cialtronescamente l’ordine pubblico. Senza dimenticare che il settore Z sarebbe dovuto essere completamente appannaggio del tifo neutrale accanto alla marea inglese, invece molti di quei biglietti furono venduti dai bagarini in Italia a prezzi maggiorati e per 39 angeli si rivelarono di sola andata. Angeli delle famiglie e delle comitive che entrarono in quello spicchio di stadio dopo una fila di quasi tre ore passando da una porta larga 80 centimetri, l’unica via di fuga che diventerà di fatto inaccessibile. Angeli impreparati all’improvviso lancio di oggetti contundenti, ai pochi (circa sei) poliziotti che scappano, alla rete da giardino che li divideva e che viene giù in un secondo, alle cariche continue, impreparati a morire per una partita di calcio. Partita che si gioca lo stesso, decide l’Uefa insieme al Belgio. Non sanno più cosa fare e devono evitare altri morti. Si gioca per chiamare l’esercito (arriveranno i carri armati), si gioca per una questione di ordine pubblico e si assegnerà la Coppa dei Campioni perché così hanno voluto quelli del Liverpool. Non è un’amichevole, ma diventa una farsa perché si gioca mentre i 39 corpi sono ancora lì, in fila sotto la curva Z ridotta a un campo di battaglia, in cui gli hooligan hanno irriso i morti prima che li portassero via. Si gioca sapendo, come ha sempre confermato Stefano Tacconi, portiere di quella Juventus. Otello Lorentini non poteva accettare di avere perso l’unico figlio (assunto dall’ospedale di Arezzo con lettera datata 29 maggio 1985) per una partita di calcio, così, su consiglio di un avvocato, fondò l’Associazione tra le famiglie delle vittime di Bruxelles per portare davanti a un giudice i responsabili della strage che ha cambiato per sempre il football. Un processo lungo, difficile, condotto in solitudine, quella solitudine che è durata decenni e che in parte dura ancora, perché ricordare l’Heysel dà fastidio a tanti, ricordare quello che è accaduto, le colpe, i comportamenti durante e dopo, soprattutto dopo, non è cool, in particolare oggi dove imperversano il gossip e il patinato, dove si scrive e si parla sempre meno di calcio. L’Heysel fa parte della nostra storia, anche sportiva, e ogni 29 maggio è lì a ricordarcelo, nonostante le amnesie, che vengono a galla quando nei nostri stadi o nelle adiacenze accade qualcosa di violento (inaspettato ?), allora tutti a sciacquarsi la bocca con la strage di Bruxelles, senza sapere, senza essersi documentati, tutti a citare la Thatcher e fare figure meschine, perché chi sa non confonde.

Gli inglesi non hanno messo mano al loro football dopo l’Heysel bensì dopo Hillsborough e ancora oggi, sono passati 26 anni, non conoscono la verità e le cause che hanno determinato la morte di 96 tifosi del Liverpool; non sanno che la tragedia di Hillsborough è figlia dell’Heysel, perché gli inglesi hanno preferito polemizzare, inventare scuse, arrabbiarsi per la squalifica dei club dalle coppe europee, mettendo la testa sotto la sabbia. Mai risveglio è stato più drammatico. Se avessero imparato la lezione, quella che nessuno, soprattutto in Italia, pare aver imparato, forse Hillsborough sarebbe rimasto solamente il nome di uno stadio. E la Juventus ? Una messa nel 2010 e una messa quest’anno, nel mezzo uno spazio dentro il Museum bianconero con targa e nomi, di più nemmeno Andrea Agnelli sembra capace di fare, il primo presidente che ha intrapreso, con difficoltà, un percorso verso la rinata Associazione fra i familiari delle vittime dell’Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, figlio di Roberto e nipote di Otello, vice presidente Emanuela Casula che all’Heysel ha perso il padre e il fratello, Giovanni e Andrea. Rinata anche per difendere la memoria dei propri cari, vituperati e ignominiosamente offesi negli stadi italiani da trent’anni, cori sanzionati per la prima volta nel 2014, la perdita di memoria genera mostri come il sonno della ragione. Non c’è, infatti, una memoria condivisa e in troppi preferiscono cullare il proprio Heysel dimenticandosi dei familiari delle vittime e di quei 39 morti, quasi fossero un ostacolo per ammirare una coppa. L’Heysel sarebbe dovuta diventare la Superga bianconera, con tutte le differenze che in troppi banalmente sottolineano: un momento di comune condivisione di un ricordo che non potrà mai essere cancellato, dalle nostre memorie e dalle nostre coscienze. Senza dimenticare che a Bruxelles sono morti tre interisti, come Mario Ronchi che andò con gli amici, forse quando l’amicizia era più importante del tifo. Per questo l’Heysel dovrebbe essere, come Superga, una tragedia italiana non solo juventina, ma Lega e Figc hanno brillato meno della Juventus in questi trent’anni e mai hanno tentato di ricordare e di commemorare i 39 angeli di Bruxelles. Qualche settimana fa l’Associazione ha chiesto il ritiro (simbolico) della maglia azzurra numero 39, simbolico perché quel numero di maglia in Nazionale non esiste, gesto accolto con scetticismo e critiche dall’opinione pubblica, si sa i parenti delle vittime si preferiscono silenziosi e discreti, quando reclamano rispetto e memoria vengono attaccati e stigmatizzati, perché, come ha detto Paul Valéry, "quando non si può attaccare il ragionamento, si attacca il ragionatore". E pare proprio una gara quella che in questi ultimi mesi ha tentato di sminuire l’autorevolezza dell’Associazione fra i familiari delle vittime dell’Heysel e di chi li ha sostenuti e accompagnati in tutti questi anni. Ma allora cosa resta dell’Heysel ? C’è stata giustizia ? Come ha sempre detto Daniel Vedovatto, l’avvocato italo belga dei familiari italiani, in quelle condizioni e con il diritto che all’epoca vigeva in Belgio è stato ottenuto il massimo: condanna dell’Uefa, di un capitano di polizia, dei pochi hooligan rintracciati e risarcimenti, che nessuno ha mai chiesto. Forse qualcuno s’è perso, ma la condanna dell’Uefa, resa corresponsabile delle manifestazioni che organizzava e che organizza è storica, ha fatto giurisprudenza e ha cambiato per sempre il football europeo, soprattutto le coppe, esigendo severi requisiti di sicurezza per gli stadi delle finali e non solo. Se non ce ne siamo accorti è perché ce ne siamo dimenticati. Trent’anni sono una vita, un vuoto incolmabile e recuperare terreno è quasi impossibile. Resta la forza di Otello Lorentini che ha guidato i familiari delle vittime italiane contro i migliori avvocati d’Europa, la forza che l’ha spinto a citare direttamente l’Uefa nel processo, dopo che in primo grado erano stati tutti assolti, restano i volti, le immagini, i ricordi, i sogni, i sorrisi e il terrore di 39 persone che sono morte dentro uno stadio per vedere una partita di calcio. Li sentite ? Stanno sussurrando qualcosa: "La storia (dell’Heysel) siamo noi, nessuno si senta offeso". (NdR: articolo premiato agli Oscar del Giornalismo Sportivo 2016) Fonte: Il Foglio.it © 26 Maggio 2015 Fotografie: Bradipolibri © Francesco Caremani © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

 

Heysel, le verità di una strage annunciata.

Trent’anni dopo

di Francesco Caremani

Ricordo ancora quella sera e i giorni seguenti il 29 maggio 1985. Un ricordo violento, perché quello che accadde cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha cambiato anche il giornalista che sono diventato. L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi hanno cercato di cancellarla, ma non c’è cura. Anzi, una ci sarebbe: la memoria, una memoria condivisa che dovrebbe avere (ha) come assioma l’unica verità storica e processuale riconosciuta (perché dimostrata e dimostrabile) dall’"Associazione fra i familiari delle vittime dell’Heysel", presieduta da Andrea Lorentini che a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico aretino medaglia d’argento al valor civile per essere morto mentre tentava di salvare un connazionale. "Abbiamo sconfitto l’Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la sono cavata", mi ha detto Otello Lorentini prima di soccombere sotto gli acciacchi della vecchiaia e morire lo scorso maggio. Lui che le udienze del processo di Bruxelles se l’è fatte tutte, lui che prendeva l’aereo da Roma, lui che cercava i giornalisti per informarli di quanto stava accadendo. Un processo per iniziare il quale i familiari delle vittime italiane si sono autotassati. Otello Lorentini - nonno di Andrea e padre di Roberto - fondò la prima Associazione per avere giustizia di fronte a una strage in cui tutti volevano farla franca: gli hooligans inglesi come l’Uefa, come le istituzioni sportive e politiche belghe. Otello ha fatto meno fatica a portare avanti il processo che non il ricordo di quella sera. La paura era che le 39 vittime fossero uccise una seconda volta dall’ignavia, spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere le tragedie. Soprattutto per questo ha litigato spesso, a distanza, con Giampiero Boniperti, ricambiato. Perché, come mi ha detto Antonio Conti (che ha perso la figlia diciassettenne Giuseppina), guardandomi negli occhi: "è dura, sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore non se ne va". In questi trent’anni non si è dimenticata solo la strage, ma anche la solitudine, la dignità e la forza con cui i familiari delle vittime sono andati avanti: "Mi hanno detto che m’avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l’ero comprata con quei soldi - ricorda Rosalina Vannini vedova di Giancarlo Gonnelli. Nessuno sa cosa ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i problemi che ha avuto Carla (la figlia, NdR)", che dell’Heysel non vuole ancora parlare. E allora cosa ci resta di quella vicenda, di quella battaglia condotta in solitudine da 32 famiglie italiane che si sono fatte forza nella figura di un uomo che aveva perso l’unico figlio per una partita di calcio e che non si dava pace ? Sicuramente la condanna dell’Uefa, passata anch’essa sotto i tacchi di una certa inconsistenza giornalistica, che l’ha resa, per sempre, corresponsabile delle manifestazioni che organizza. Se gli stadi delle finali delle Coppe europee devono avere determinati requisiti di sicurezza (con biglietti nominali, dotati di microchip) non lo si deve certo all’evoluzione del calcio, bensì alla testardaggine di Otello Lorentini e allo choc di vedere tutti gli imputati assolti in Primo grado.  Così decise, insieme con gli altri familiari delle vittime italiane, di citare direttamente l’Uefa, che è stata condannata in Appello e in Cassazione. Non tutti sanno che in Inghilterra, ancora oggi, è al lavoro una commissione d’inchiesta per stabilire le vere cause di un’altra strage, quella dell’Hillsborough Stadium di Sheffield, dove il 15 aprile 1989 morirono 96 tifosi del Liverpool. Quella che poi ha dato il via ai grandi cambiamenti che fanno della Premier League il campionato televisivamente più affascinante e il più sicuro dal punto di vista degli impianti. Disorganizzazione e inadeguatezza delle forze di polizia sono alcune delle cause, forse le più importanti, ma questo lo stabilirà l’inchiesta. Sono passati 26 anni. Ecco, se avessero imparato la lezione del 29 maggio 1985, se avessero riflettuto invece di respingere le accuse e cercare di nascondere la vergogna di quello che, in concorso, avevano fatto all’Heysel, forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno stadio. In Italia, se possibile, è andata anche peggio. Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini promettono una puntata del Processo del Lunedì ad Arezzo, ma poi non se ne farà niente. Nel 2010 la prima messa della Juventus, che con la presidenza di Andrea Agnelli ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso i familiari delle vittime. Dietro 25 anni di vuoto. "Ho ricevuto l’invito ma non andrò, ognuno ha la sua coscienza" mi disse Maria Teresa Dissegna, che all’Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio, questo hanno continuato a subire i familiari delle vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985, insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi mai sanzionate: "In tutti questi anni la Procura federale non mi è sembrata così pronta e attenta", mi ha confidato Andrea Lorentini. La memoria va allenata per non dimenticare, perché non accada mai più. Grazie a Otello Lorentini, Domenico Laudadio, Annamaria Licata, Claudio Il Rosso, il Nucleo 1985, lo Juventus Club Supporters Juve 1897, il Comitato "Per non dimenticare Heysel" Reggio Emilia, Andrea Lorentini, che ha la stessa stoffa del padre e la stessa tenacia del nonno, e a tutti gli altri famigliari che meritano (glielo dobbiamo, glielo dovete!) dopo 30 anni che si parli dell’Heysel con cognizione di causa, senza edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici. Anche per questo vado fiero della scritta che posso esibire sul mio libro "Heysel, le verità di una strage annunciata": "L’unico libro ufficialmente riconosciuto dall’Associazione familiari vittime Heysel". Sperando che chi ha ancora voglia di raccontare quello che è accaduto trent’anni fa faccia finalmente i conti con le famiglie delle vittime, stranamente dimenticate in tanti libri e documentari. Li sentite ? Stanno sussurrando qualcosa: "La storia (dell’Heysel) siamo noi, nessuno si senta offeso". Fonte: Francescocaremani.com © 23 maggio 2015 Fotografie: Francesco Caremani Icona: Itcleanpng.com ©

 

Le famiglie italiane hanno combattuto nei tribunali. Un giornalista è stato vicino a loro.

"Da soli per avere giustizia"

di Francesco Caremani

Ricordo ancora quella sera del 29 maggio 1985 e i giorni seguenti. Un ricordo violento, perché quello che accadde cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha cambiato anche il giornalista che sono diventato. L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi hanno cercato di cancellarla, ma non c'è cura. Anzi, una ci sarebbe: una memoria condivisa che dovrebbe avere (ha) come assioma l'unica verità storica e processuale riconosciuta dall'Associazione fra i familiari delle vittime dell'Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, che a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico aretino medaglia d'argento al valore civile per essere morto mentre salvava un connazionale. "Abbiamo sconfitto l'Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la sono cavata" mi ha detto Otello Lorentini prima di soccombere sotto gli acciacchi della vecchiaia e morire lo scorso maggio. Otello era il padre di Roberto e il nonno di Andrea. Lui le udienze del processo di Bruxelles se l'è fatte tutte. Prendeva l'aereo da Roma e poi cercava i giornalisti per informarli di quanto stava accadendo. Un processo per il quale i familiari delle vittime italiane si sono autotassati. Otello Lorentini fondò la prima Associazione per avere giustizia di fronte a una strage in cui tutti volevano farla franca: gli hooligans inglesi come l'Uefa, le istituzioni sportive come la politica belga. La paura era che le 39 vittime fossero uccise una seconda volta dall'ignavia, spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere le tragedie. Soprattutto per questo Otello e gli altri hanno litigato spesso, seppure a distanza, con Giampiero Boniperti. Perché, come mi ha detto Antonio Conti (che ha perso la figlia Giuseppina, 17 anni, guardandomi negli occhi: "Sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore non se ne va". In questi trent'anni non si è dimenticata solo la strage, ma anche la solitudine, la dignità e la forza con cui i familiari delle vittime sono andati avanti: "Mi hanno detto che m'avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l'ero comprata con quei soldi" ricorda Rosalina Vannini, vedova di Giancarlo Gonnelli. "Nessuno sa cosa ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i problemi che ha avuto nostra figlia Carla". Lei dell'Heysel non vuole ancora parlare. E allora, cosa ci resta di una battaglia condotta in solitudine da 32 famiglie italiane, fattesi forza nella figura di un uomo che aveva perso l'unico figlio per una partita di calcio ? Sicuramente c'è la condanna dell'Uefa, passata anch'essa sotto i tacchi di una certa inconsistenza giornalistica, che l'ha resa per sempre corresponsabile delle manifestazioni che organizza. Se gli stadi delle finali delle Coppe europee devono avere determinati requisiti di sicurezza (con biglietti nominali, dotati di microchip) non lo si deve certo all'evoluzione del calcio, bensì alla testardaggine di Otello Lorentini e allo choc di vedere tutti gli imputati assolti in Primo grado. Così il presidente dell'Associazione decise, insieme con gli altri familiari delle vittime italiane, di citare direttamente la Uefa, che è stata poi condannata in Appello e in Cassazione. A Hillsborough, Sheffield, il 15 aprile 1989, morirono 96 tifosi del Liverpool. E’ la strage che ha dato il via ai grandi cambiamenti che fanno della Premier League il campionato più sicuro dal punto di vista degli impianti. Disorganizzazione e inadeguatezza delle forze di polizia sono forse le cause più importanti, ma questo lo stabilirà l'inchiesta ancora in corso dopo 26 anni. Ecco, se avessero imparato la lezione del 29 maggio 1985, se avessero riflettuto invece di respingere le accuse e cercare di nascondere la vergogna dell'Heysel, forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno stadio. In Italia, se possibile, è andata anche peggio. Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini promisero una puntata del Processo del Lunedì ad Arezzo, ma poi non se ne fece niente. Nel 2010 ci fu la prima messa della Juventus, che con la presidenza di Andrea Agnelli ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso i familiari delle vittime. Dietro, 25 anni di vuoto. "Ho ricevuto l'invito ma non andrò, ognuno ha la sua coscienza" mi disse Maria Teresa Dissegna, che all'Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio: questo hanno continuato a subire i familiari delle vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985, insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi mai sanzionate: "In tutti questi anni la Procura federale non mi è sembrata cosi pronta e attenta" dice Andrea Lorentini. La memoria va allenata, perché non accada mai più. Lo dobbiamo a Otello Lorentini, Domenico Laudadio, Annamaria Licata, Claudio II Rosso, il Nucleo 1985, lo Juventus Club Supporters Juve 1897, il Comitato "Per non dimenticare Heysel" di Reggio Emilia, Andrea Lorentini e a tutti gli altri famigliari. Senza edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici. Anche per questo vado fiero della scritta che posso esibire sul mio libro "Heysel, le verità di una strage annunciata": "L'unico libro ufficialmente riconosciuto dall'Associazione familiari vittime Heysel". Chi ha ancora voglia di raccontare quello che è accaduto 30 anni fa, faccia i conti con le famiglie delle vittime. La storia dell'Heysel sono loro, nessuno si senta offeso. Fonte: Guerin Sportivo © 11 maggio 2015 (Testo © Fotografia) Icona: Itcleanpng.com ©

 

Heysel e dintorni

Questo è il libro che non avrei mai voluto scrivere. Conoscevo Roberto Lorentini, era un amico di famiglia, un collega di mio padre e, ripensandoci oggi, anche molto di più. Al tempo stesso è il "mio" libro. Non solo perché conoscevo bene Roberto, non solo perché ero tifoso della Juventus, non solo perché a Bruxelles avrei dovuto esserci anch’io, non solo… Ricordo quei giorni come fosse oggi. La sera del 29 l’appuntamento era con tutti, o quasi, i compagni di classe a casa di Simone. Una specie di rito, dato che l’anno prima, sempre a casa sua, di ritorno dalla gita scolastica avevamo visto Juventus-Porto, finale di Coppa delle Coppe. Era andata bene, la Juve aveva vinto, perché non replicare, nonostante Simone fosse tifoso della Roma e un po’ gli piaceva gufare. Ricordo il sole di quella giornata, un po’ livido, ricordo che avevo preparato le bandiere. Ero scaramantico e avevo il cuore in gola quando decisi di utilizzare quella nuova, invece dell’altra vecchia e lisa. Stupidi timori adolescenziali. Dopo sarei andato a dormire da un mio amico, Francesco, juventino anche lui. Prima, magari, avremmo fatto baldoria anche noi per le strade di Arezzo. Il salotto era pieno di ragazzi, si scherzava, si facevano pronostici, si mangiava qualcosa. Il ricordo di Atene pesava come un macigno, quella notte di due anni prima, tredicenne, avevo pianto. Non ricordo bene quando iniziammo a fissarci sulle immagini televisive, non si capiva cosa stesse accadendo e il telecronista non ci aiutava. Ho imparato allora che le cose brutte della vita ti arrivano addosso e ti travolgono all’improvviso, quando meno te lo aspetti. Qualcosa era successo. Avevo il magone, qualunque cosa fosse successa, anche se nessuno poteva immaginare la devastante verità, quella partita per me non era più la stessa. Tutta l’attesa, tutta l’emozione era svanita, si era come sciolta di fronte al calore delle immagini, restava solo un disagio difficile da interpretare. Quando fui chiamato al telefono ero come stordito: "Francesco, sono la mamma… Roberto è ferito". Ricordo solo queste parole, io biascicai qualcosa, poi abbassai l’apparecchio. In realtà Roberto era già morto, le notizie arrivavano sconnesse e la distanza faceva il resto. Oggi penso a Otello ma non l’immagino. Non si può immaginare un uomo che deve avvisare la madre e la moglie, dire loro che hanno perso la persona più cara al mondo per colpa di una partita di calcio, non si può. Non ricordo bene quello che accadde dopo. Iniziò la partita, guardavo ma ero imbarazzato, non sapevo cosa pensare, Roberto ferito, la Juventus che gioca. So per certo che non ho esultato al gol di Platini su rigore, so per certo d’aver provato disagio per quel penalty che non c’era e vergogna per l’esultanza degli altri. Quando siamo usciti Arezzo bianconera festeggiava, le strade erano bloccate dai caroselli di auto, io camminavo a testa bassa, accanto a Francesco, anche lui per niente soddisfatto di quello che vedeva. L’angoscia aumentava. La prima cosa che ho fatto quando mi sono svegliato, l’indomani, è stata quella di telefonare a mia madre: "Francesco, Roberto è morto, Roberto non c’è più", mi disse con la voce rotta dall’emozione. Iniziai a piangere mentre abbassavo il telefono. Comprai i giornali, volevo capire e vedere. A scuola, però, fu ancora peggio. Da una parte chi mi diceva che eravamo dei ladri, i più cattivi esultavano all’idea che al mondo ci fossero 39 "gobbi" di meno, dall’altra gli juventini che esultavano, ancora, beffardamente. Oggi il mio giudizio è severo e inappellabile, allora, però, eravamo tutti adolescenti, sciocchi e ignoranti di tante, troppe cose. Gli insegnanti dicevano stoltezze senza senso, mentre io cercavo di nascondere il mio dolore, in quell’ambiente non potevo condividerlo con nessuno. Entrai in un’aula vuota e ricominciai a piangere sussurrando il nome di Roberto. Ancora oggi non so perché, ma non avevo voglia di tornare a casa, pensavo a mio padre sconvolto per l’accaduto ed ero consapevole che non avrei saputo consolarlo, non avevo le parole e forse neanche il diritto. Uscimmo un’ora prima e decisi di andare con gli altri in una pista di pattinaggio, dietro Porta San Lorentino, a giocare a pallone. Sentivo il bisogno fisico di fare qualcosa che mi impedisse di pensare e il calcio era l’unica che conoscevo e che sapevo fare. Mia madre quando lo seppe s’infuriò, questo mio gesto le apparve brutale: "Meglio che il babbo non lo sappia", sibilò. Io e il babbo non ci parlammo quel giorno, non avevamo niente da dirci. Io sarei dovuto andare a Bruxelles, io dovevo essere insieme a Roberto. Frequentavo il secondo anno del Liceo scientifico ed ero reduce da un esame di riparazione, inglese e latino. Avevo recuperato la prima materia, ma non la seconda, si prospettava un’altra estate di studio. Il 5 nell’ultimo compito segnò il mio destino, niente promozione, ma per me in quel momento voleva significare, soprattutto, niente Bruxelles, niente Juve. Ancora oggi non so come, ma la cosa fu pubblicata su un giornale locale, cioè il mio 5 e tutto il resto. Parole che metto insieme al peggio, tutto il peggio che s’è poi scatenato intorno alla strage dell’Heysel. Perché di strage dolosa si tratta, non di tragedia, parola che in genere si accosta alla fatalità. Al funerale, in Duomo, c’era tutta Arezzo, lo strazio rendeva i volti sfigurati, le parole colpivano senza pesare. Di quei giorni, oltre alla memoria di Roberto e a un’idea diversa del calcio e della Juventus, mi è rimasto addosso il disagio, per quanto nascosto negli anfratti dell’anima, d’essere andato a giocare a pallone il mattino dopo, all’uscita di scuola. Se oggi mi sono liberato di questa sensazione lo devo a Otello Lorentini, padre di Roberto e presidente dell’"Associazione fra le famiglie delle vittime di Bruxelles", che ha cresciuto Andrea e Stefano, i due nipoti, a cuore e calcio. Una cosa normale per tanti, una cosa eccezionale per chi ha perso l’unico figlio sulle gradinate di uno stadio. Per tutte le cose scritte fino a qui e per mille altri motivi questo è il "mio" libro. Innanzi tutto devo confidare che come uomo non riesco a perdonare chi ha esultato, chi è sceso in strada, chi ha virtualmente calpestato i 39 morti dell’Heysel. A maggior ragione nutro, ancora oggi, rancore per tutti coloro che hanno gioito per quelle vite brutalmente stroncate, per quelle scritte che sono comparse sui muri di tutta Italia, per quelle frasi che da "juventino" ho dovuto subire e subisco. Nessuno di loro sa che una piccola parte di me è morta a Bruxelles insieme a Roberto, ma questo pensiero non mi aiuta ad essere meno duro. Non so, forse non voglio, perdonare. Chi si riconosce in queste parole abbia la forza e il coraggio di chiedersi se è un uomo. Il sentimento è amplificato all’ennesima potenza quando penso all’esultanza dei giocatori bianconeri, alla panchina della Juventus, che al gol schizza in campo ubriaca di gioia e di rabbia, al giro di campo, al resto. Non ci sono scuse o teorie sociologiche che tengano, l’unica via d’uscita è la vergogna. Sapevano dei morti, sapevano tutto. Chi ha il coraggio, ancora oggi, di negare, vada a rivedersi nelle immagini televisive e nelle fotografie.

 

Scriveva, nei giorni immediatamente successivi la strage, l’Osservatore Romano: "L’uomo allo stadio di Bruxelles è stato tremendamente offeso anche dopo che i tanti Caino, sparsi sulle gradinate, lo avevano ammazzato. Per calmare i Caino non si è rispettato il sangue degli Abele: si è giocato mentre i morti erano ancora lì scomposti nella violenza appena subita; si è tifato; si è gioito. In una giornata in cui tutti e tutto sono stati sconfitti, è assurdo pensare che alcuni si ritengano vincitori ed è amaro vedere volti sorridenti per una vittoria senza senso. Nella serata di mercoledì 29 maggio 1985 lo sport è stato sconfitto e mortificato". Giocare, lo sappiamo tutti, era necessario, esultare no. Maurizio Naldini, su La Nazione, annotava: "… A Bruxelles, mercoledì notte, si è giocata una partita di calcio e si è festeggiato un successo, mentre il sangue colava dalle gradinate, i cadaveri ancora non avevano un nome, i feriti non cessavano di lamentarsi. Per quale centurione vittorioso dovevamo celebrare questo rito ? Forse per Paolo Rossi, per Trapattoni, per i colori bianconeri ? C’era chi piangeva l’amico e chi urlava nello stesso istante per il gol di Platini, c’erano donne che cercavano i loro morti, migliaia di famiglie in angoscia, e giovani tifosi che sventolavano le bandiere del successo. Tutti insieme, accalcati nello stesso stadio. È questo che ci dà nausea e disagio. Mentre la televisione proseguiva implacabile con le sue immagini, potevamo accorgerci che la soglia fra dolore ed entusiasmo, non era fra la curva Sud e la Nord, fra le gradinate più basse e quelle più alte. Era invece, purtroppo, labile e inconsistente, in ognuno di noi. Certo la partita si doveva giocare, non poteva essere altrimenti. Se si fosse chiesto alla folla di lasciare lo stadio senza aver prima consumato i giochi, il rito di tante pallonate intelligenti, la tragedia sarebbe stata forse ancora più grande. Era giusto far giocare l’incontro perché era l’unico modo per tenere sotto controllo una situazione sfuggita colpevolmente di mano. Era giusto anche, anzi era ammirevole, che i giocatori della Juventus uscissero in mezzo alla gente per spronare alla calma, per riportare alla ragione gli scalmanati. E ancor più convincenti ci sono apparse le frasi di Scirea quando ha detto "Giochiamo per voi, giochiamo perché ci hanno chiesto di farlo". A quel punto gli atleti ci sono apparsi dei professionisti costretti comunque a far bene il loro mestiere. Ma alla fine la loro esultanza, il loro abbracciarsi e sbracciarsi, i loro sguardi sorridenti, francamente non ci sono piaciuti. Né ci è piaciuta la frase di Pizzul, certamente stremato da una lunghissima radiocronaca che mai avrebbe pensato di fare, quando ci ha detto che il significato sportivo della gara era riuscito per qualche minuto a farci dimenticare la tragedia. No, caro Pizzul, la tragedia non si poteva dimenticare. Ed era talmente intensa, assillante, provocatoria, da rendere stupido tutto il resto, e non solo i poliziotti belgi che brillavano per la loro insipienza, vuoti come lattine di birra. Ci appariva stupido Paolo Rossi che alzava le mani al cielo, stupidi quanti applaudivano, stupida la coppa e i significati che si erano voluti attribuirle. Dopo quanto era accaduto, non c’era più spazio se non per il dolore. E non bastano novanta minuti, non bastano neppure a un campione, per dimenticare una strage che si è svolta sotto i suoi occhi…". Qualche anno dopo Prandelli dichiarerà: "Ancora una volta furono le autorità e il delegato Uefa a premere perché andassimo sotto la curva dei nostri tifosi, per "festeggiare" la vittoria. Lo facemmo a malincuore, soltanto perché ci avevano spiegato che quello sarebbe stato un modo per rasserenare gli animi. Ecco perché ci infastidirono le polemiche divampate in Italia su quella Coppa e su quelle scene di esultanza che non erano vere, non potevano essere vere. Ho letto che Platini ha dichiarato di essere morto a Bruxelles il 29 maggio ’85…", mai espressione fu più infelice nei confronti di chi era morto veramente. Semmai, del numero 10 francese, era più consona all’occasione questa dichiarazione: "Al circo quando muore il trapezista entrano i clown in pista. Noi non siamo dei clown, credo, ma il discorso è lo stesso". Penso, infatti, a Giuseppina Conti, all’epoca adolescente come me, di lei hanno scritto: "Per Platini e compagni era disposta a qualsiasi sacrificio. La Juventus era la sua passione, voleva vederla vincere quella Coppa dei Campioni tanto agognata…". Anch’io la pensavo come lei e mi piace credere, con tutto il rispetto che ho per il dolore altrui, che oggi lei la penserebbe come me. Da quella sera, infatti, ho sempre desiderato che la Juventus restituisse quella coppa e che negli almanacchi, che per lavoro ho sfogliato sino allo sfinimento, comparisse la scritta: non assegnata. Giampiero Mughini scrisse che era troppo facile restituire le coppe altrui, ma quella sarebbe stata anche "mia" e se qualcuno dubitasse dell’onestà intellettuale basta che chieda in giro quanto ero tifoso della Juventus. Ciò non toglie che persone ridicole sono tutte quelle che in quei giorni e negli anni seguenti si sono solamente preoccupate, per mero interesse antisportivo, di cancellare dal palmares della Juventus quel trofeo, che in effetti non c’è, perché non ci può essere coppa, trofeo, vittoria, calcio e sport quando ci sono 39 morti sugli spalti, uccisi dagli hooligans inglesi e dalle mancate misure di sicurezza di Gendarmeria, Governo e Federcalcio belga da una parte, Uefa dall’altra. Sciacalli, sciacalli tutti quanti. Penso, da giornalista e da amante del calcio, che il gesto, e io credo nei gesti, di restituire quella Coppa dei Campioni abbia senso anche oggi. Me l’ha confermato Otello Lorentini, al quale l’esultanza bianconera non è mai andata giù: "Apprezzerei, ancora oggi sarebbe un bel gesto". L’Heysel rappresenta una macchia che la Juventus, con qualsiasi dirigenza, non potrà mai cancellare, a maggior ragione dopo quello che fu detto all’indomani della conquista della Coppa Intercontinentale: "Bruxelles è stata cancellata", grazie del pensiero, ma questo non è il nostro, tanto meno quello dei familiari delle vittime. Nel dicembre dell’85 Otello Lorentini gridava: "Noi continuiamo a chiedere, smuovere, informarci, ma sembra che tutto cada nel vuoto. Nei prossimi giorni sottoscriveremo lo statuto dell’associazione: ma guai a dimenticare, sarebbe un errore imperdonabile per tutti, non solo per noi famiglie colpite direttamente dalla tragedia". E il timore che questo accadesse era più che fondato, come scriveva Riccardo Scottoni su Reporter: "Non sbagliavamo: come le vittime di tante vicende non sportive esistono 39 famiglie che giustizia e risarcimento hanno avuti promessi e fino ad oggi si sono ritrovate con un pugno di mosche. Se si esclude qualche tifoso inglese e alcuni funzionari della polizia belga nessun responsabile è stato individuato, né cercato (dopo quasi 7 mesi, N.d.A.).

 

Inoltre abbiamo appreso che quei 10-20 miliardi di risarcimento che furono promessi, allo stato dei fatti, si sono ridotti a poche centinaia di milioni. C’è chi storce il naso quando si parla di soldi per "pagare" una morte. Sbaglia. E dimentica che ci sono dei bambini che hanno il diritto di vivere, almeno economicamente come gli altri. Nei giorni susseguenti la tragedia scrivemmo che lo sport avrebbe fatto di tutto per dimenticare e far dimenticare, il più presto possibile. Ma non credevamo che avrebbe fatto mancare anche la solidarietà alle vittime. Invece è successo anche questo e i complici, in quest’opera, sono molti". Per questo il libro ha un senso, perché solo la memoria restituisce dignità al dolore, l’oblio lo scolpisce e la rabbia l’inaridisce con tutto quello che vi sta intorno. Capisco anche che per molti l’Heysel è ormai una tragedia lontana dai cuori e dalle menti, ma ci sono drammi che non dovrebbero essere mai dimenticati, perché dietro a ogni dramma c’è una persona e il rispetto per la sua vita, per il suo essere stato in vita. Mi scuso, invece, con chi ha cercato di fare i conti con quel dolore e leggendo queste pagine sentirà riaprire delle ferite che pensava cicatrizzate. Il dolore è personale e non può essere condiviso, ma quando la tragedia è pubblica si trasforma, agli occhi degli altri, in qualcosa di più complesso che spero d’aver reso nel migliore dei modi. In questo libro ho voluto raccontare l’Heysel e, in particolare, la battaglia legale che l’"Associazione fra le famiglie delle vittime di Bruxelles" ha portato avanti, tra silenzi e meschinità d’ogni genere, tra gli altri, dei notabili del calcio italiano e internazionale. Una battaglia legale che ha fatto giurisprudenza, condannando in Cassazione l’Uefa alla corresponsabilità per tutti gli eventi sportivi che portano il suo marchio. Per certi aspetti, questa vicenda, ricorda le tante altre della storia d’Italia fatte di pressioni e omissioni, con una differenza: le responsabilità sono state individuate e i responsabili, una parte di essi, condannati, rendendo, per quanto possibile, giustizia a chi ha perso la vita per una partita di calcio. Una giustizia senza gioia pensando a come i belgi si sono comportati con gli italiani e i loro morti, pensando a come si sono comportati alcuni giornalisti italiani, difesi poi a spada tratta dall’azienda e dal sindacato. Perché nessuno può sentirsi giustificato per quello che ha fatto quella sera e nei giorni seguenti, solo chi ha avuto rispetto per il dolore può alzare il volto e guardare l’orizzonte con gli occhi interrogativi, chiedendosi ancora oggi perché. La mia vuole essere una fotografia, come quelle in bianco e nero, quelle che raccontano la storia delle persone comuni, proprio quando il calcio, l’ambiente calcio, ha cercato di cancellare ogni ricordo di quella notte, di quella sera di maggio in cui, probabilmente, lo sport è morto per sempre. Questo è il libro che non avrei mai voluto scrivere… Se adesso molte persone lo sfogliano, se grazie a queste pagine ricordano, se stanno riflettendo su quello che è accaduto all’Heysel e su tutto quello che nel calcio è accaduto dopo, lo devo solamente a Otello Lorentini. Grazie alla sua forza, grazie alla sua disponibilità, grazie al materiale che ha conservato e che ancora oggi conserva ho potuto scriverlo. Ringrazio tutta la famiglia Lorentini, la moglie di Roberto, Arianna, e i suoi due figli, Andrea e Stefano, per la comprensione e la pazienza. Quando Otello Lorentini mi ha consegnato tutto quello che aveva raccolto, mi ha detto: "Questa è la mia vita". Questo libro glielo dovevo e lo dovevo soprattutto a Roberto, al suo ricordo e al ricordo di quelli che come lui sono morti allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio del 1985. Fonte: Heysel e dintorni (Blog di Francesco Caremani) © 29 maggio 2010 Fotografie: GETTY IMAGES © (Not for commercial use) © Cristiano Martini © Francesco Caremani © Il Foglio Icona: Itcleanpng.com ©

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