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ARTICOLI HEYSEL
FRANCESCO CAREMANI |
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I morti di Valencia e
il calcio che va
avanti: ma l'Heysel è
un'altra storia
di Francesco Caremani
Roma-Real
Madrid, 11 settembre 2001. Per la mia generazione,
quelli di noi che amano il calcio, la prima giornata
della Champions League 2001-02 è passata alla storia per
essersi giocata nello stesso giorno dell’attentato alle
Torri Gemelle. Si giocò mentre New York bruciava, si
giocò mentre c’era chi lottava per estrarre i corpi da
sotto le macerie, si giocava mentre il mondo, al di qua
dell’Atlantico, era incollato, attonito, dal primo
pomeriggio davanti al televisore, confondendo il fumo
dell’attentato con quello dei fumogeni dentro uno
stadio.
Il dramma di Valencia -
All’epoca l’Uefa non fu in grado di rimandare la prima
giornata, rimandando solamente le partite del giorno
dopo. Un meccanismo, già allora, incapace di fermarsi,
incapace di portare rispetto a qualcosa che era molto
più grande di lui, dentro un calendario che più di venti
anni fa era difficile da gestire, figurarsi oggi. È
accaduto di nuovo. In questi giorni in cui la Comunità
Valenciana sta affrontando il disastro di un evento
climatico senza precedenti, mentre la conta dei morti
diventa insopportabile e la ripresa della vita
quotidiana un miraggio, e mentre la MotoGP ha rinunciato
a correre nel circuito cittadino, accettando anche di
finire il Mondiale allo stato delle cose per poi virare
su Barcellona, il calcio non si è fermato, non lo ha
fatto l’Uefa con la Champions League, non lo ha fatto la
Liga del grande “moralizzatore” Javier Tebas Medrano.
Che immensa vergogna. Il calcio non si è fermato nemmeno
durante la pandemia di Covid-19, ovvero lo ha fatto ma
dopo, lo ha fatto perché non poteva farne a meno
riprendendo la maggior parte dei campionati e le coppe
europee in estate per consegnare premi e trofei, mentre
c’è chi ha avuto più dignità e ha interrotto tutto, chi
non assegnando il titolo e chi riconoscendolo alla
squadra oggettivamente più forte, roba da Europa del
Nord ma non del Sud. In Italia, per esempio, si è
forzata la mano fino all’impossibile, facendo giocare le
squadre in stadi vuoti e in un clima surreale, poi
ripartendo e violando più volte i protocolli senza
subire sanzioni; parte di un capitolo ben peggiore di un
Paese che si è vergognosamente scoperto nemico della
scienza.
The show must go on - Restando
all’Italia, sono all’ordine del giorno le polemiche per
partite non giocate a causa delle alluvioni o di eventi
climatici disastrosi, che hanno causato danni ingenti
alla popolazione e morti. In questi anni è accaduto per
un Napoli-Juventus (c’era stato un morto), per
Fiorentina-Juventus (con la Toscana sott’acqua) e per
Bologna-Milan con l’Emilia Romagna in ginocchio da due
anni. Spesso si è polemizzato sul fatto che il giorno
della partita c’era il sole dimenticando tutto il resto.
E forse, allora, è il caso di dirselo fino in fondo. Se
il calcio fosse ancora un gioco lo si interromperebbe
sempre di fronte a cose più importanti, di fronte alla
Storia, di fronte alle calamità naturali, di fronte ai
morti. Evidentemente non lo è più e forse non lo è mai
stato. Il calcio, invece, è un’industria e come tale
deve andare avanti, non si può fermare altrimenti
collassa dal punto di vista economico, come ha rischiato
di fare durante la pandemia. Continuare a dirsi che è
altro è ipocrita e fuorviante, quindi anche i
protagonisti dovrebbero avere il coraggio di ammetterlo.
Un brutto risveglio per chi crede ancora alle favole.
Però c’è un concorso di colpa, perché parte dei tifosi
(?) sui social media ha sempre espresso il parere di
voler vedere le partite a tutti i costi: a Napoli, come
a Firenze e Bologna. Vogliono la partita, qualunque cosa
accada, perché se non sono colpiti personalmente dalle
tragedie non gliene frega niente e basta con questa
storia che il tifo organizzato “fa anche cose buone”,
certo, quando non è impegnato nelle partite o quando,
come a Valencia, non c’è spazio per altro che per gli
aiuti e dove ogni secondo è prezioso, ma potendo
scegliere… Dirò di più. Ricordo ancora il giorno della
morte di Davide Astori, quando la Serie A, udite Merano,
si è fermata. Ricordo tutto, i commenti sotto un mio
post, tifosi (?) che mi hanno bloccato, che
rivendicavano il diritto alla gradinata di uno stadio
sulla pelle di un ragazzo che era morto da poche ore,
rivendicando anche i soldi spesi (tutte le settimane di
tutte le stagioni, ma non ce l’hanno il mutuo da pagare
e i figli da mandare a scuola?!) e dimenticando che
l’industria ha solamente clienti e che quando qualcuno,
molti anni fa, lo scriveva e lo faceva notare in molti
hanno girato la testa dall’altra parte perché l’unica
cosa che contava era poter andare allo stadio, le
coreografie, battere i “nemici”, mica fermarsi a
riflettere. Perché, va detto, un calcio diverso
pretenderebbe una presa di posizione radicale e si
dovrebbe stoppare prima di ripartire in modo
completamente differente, e chi pensa che si possa fare
in corsa non ha alcun contatto con la realtà.
L’Heysel e le ricostruzioni posticce -
In questi giorni alcuni siti, sul fatto che il calcio
non si ferma mai, nemmeno davanti ai morti, hanno
ricordato l’Heysel. E come al solito lo hanno fatto
male. Era osceno giocare con i morti messi in fila sotto
la tribuna ? Sì lo era. E chi meglio di Otello Lorentini
che piangeva Roberto, il figlio unico, medaglia
d’argento al valore civile per essere morto tentando di
salvare un connazionale, poteva saperlo, lui che poi ha
fondato l’Associazione tra le famiglie delle vittime di
Bruxelles per affrontare il processo e ottenere
giustizia dopo quella strage, perché di strage si è
trattato. Eppure, durante il processo, ha capito che
quella scelta è stata oculata e che ha impedito altri
morti, nel momento in cui tutti erano a conoscenza di
quello che era accaduto nella curva Z. Il 29 maggio 2025
saranno passati 40 anni da quella maledetta notte di
Bruxelles e nell’avvicinarsi a quell’anniversario si
inizia già a sentire il rumore delle fake news e delle
ricostruzioni posticce per coprire la vergogna di chi
non ha mai fatto niente per ricordare le 39 vittime e di
chi, gli antijuventini, le hanno offese dalle gradinate
di uno stadio. Gli stessi che vogliono andarci a tutti i
costi, anche quando ci sono dei morti, anche quando la
Storia gli suggerisce che sarebbe meglio non farlo: ma
che ne sanno loro della storia e, soprattutto, della
pietas. Termino con un’autocitazione, poco simpatica me
ne rendo conto: chi volesse saperne di più sull’Heysel
in maniera corretta può leggere il mio libro “Heysel -
le verità di una strage annunciata”, il primo
sull’argomento, mentre gli altri sono arrivati tutti
dopo. Per chi, invece, vuole credere agli asini che
volano c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Fonte:
Today.it ©
6 novembre 2024
Fotografie:
Bradipolibri © Francesco Caremani © Lastampa.it ©
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Quarantennale della
Strage allo Stadio Heysel
di Francesco Caremani
"Nel 2025 saranno 40 anni
e già si sono mosse varie truppe cammellate alla ricerca
del nulla. Purtroppo è già tutto scritto, anche in una
sentenza del tribunale di Bruxelles: non c'è niente da
scoprire, niente da gossippare, niente da scooppare.
L'unica cosa rimasta opaca è come i biglietti della
curva Z siano arrivati agli italiani, ma questo,
purtroppo, non cambia niente: né della storia, né della
memoria della strage dell'Heysel ! Tra tutti i libri che
sono stati scritti, dopo il mio - tutti dopo il mio - il
più importante - anche del mio - è quello del vice
direttore de L'EQUIPE Jean-philippe Leclaire - amico e
collega di grande spessore umano e professionale - dal
quale è stata tratta una serie televisiva che ho già
definito "bellissima e definitiva"; una serie, è bene
ricordarlo, che dopo essere andata in onda in Belgio e
in Francia fatica a trovare un canale, una piattaforma,
che possa mandarla in onda in Italia e questo, più di
ogni altra cosa, dà il senso della grande fatica che è
stata portare avanti la memoria dell'Heysel in questo
Paese; con tanti motivi evidenti e alcuni assolutamente
oscuri. Il mio pensiero è sempre rivolto
all'Associazione fra i Familiari delle Vittime
dell'Heysel e ad Andrea Lorentini. E oggi più che mai
manca Otello Lorentini, al quale mi piacerebbe che
Arezzo dedicasse qualcosa di imperituro: la prossima
Lancia d'Oro del Saracino di giugno ? Da qui al 29 maggio la strada è lunga,
con la speranza che cialtroni, schiavi e lecchini stiano
alla larga dalla memoria: siamo sempre stati in pochi e
ci conosciamo e riconosciamo tutti !".
Fonte:
Facebook (Pagina Autore) © 30 agosto 2024
Fotografie:
Bradipolibri © Francesco Caremani ©
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Che cosa resta dell'Heysel,
trent'anni dopo
di Francesco Caremani
Trent'anni fa la tragedia sugli spalti dello stadio
belga prima della finale di Coppa Campioni tra Liverpool
e Juventus. I silenzi, gli imbarazzi e la lotta dei
sopravvissuti in questi anni.
Otello
è morto l’anno scorso, di maggio come Roberto, il suo
unico figlio deceduto nella strage dell’Heysel il 29
maggio 1985. Era un giovane e bravo medico di Arezzo,
Roberto, tifoso della Juventus, era stato ad Atene nel
1983 (quando a sorpresa l’Amburgo vinse la coppa dalle
grandi orecchie), a Basilea nel 1984 (quando contro il
Porto i bianconeri conquistarono la Coppa delle Coppe) e
a Bruxelles ci andò, come sempre, col padre e i due
cugini, Andrea e Giovanni. Un viaggio che doveva essere
una festa, la finale del secolo (come fu ribattezzata
allora) contro il Liverpool che si trasformò nella
tragedia del secolo e nella definitiva perdita
dell’innocenza del calcio mondiale. Roberto era salvo,
nonostante la calca e le cariche degli hooligan del
Liverpool, ma si lanciò in mezzo all’inferno per tentare
di salvare un connazionale (molto probabilmente Andrea
Casula, 11 anni, la vittima più piccola) con la
respirazione bocca a bocca, gesto che gli è stato fatale
e che oggi una medaglia d’argento al valor civile appesa
nel salotto di via Giordano Bruno 51 ricorda. A
Bruxelles, nel fatiscente stadio Heysel, il 29 maggio
1985 morirono 39 persone, 32 italiani, 4 belgi, 2
francesi e un nordirlandese. Uccisi dagli hooligan
inglesi, ubriachi all’inverosimile (tanto che avevano
messo a ferro e fuoco la Grand Place poche ore prima) e
armatisi in un cantiere adiacente l’impianto che era in
ristrutturazione, con la responsabilità dell’Uefa e
delle autorità sportive e politiche belghe, che non si
curarono di scegliere uno stadio sicuro e che
organizzarono cialtronescamente l’ordine pubblico. Senza
dimenticare che il settore Z sarebbe dovuto essere
completamente appannaggio del tifo neutrale accanto alla
marea inglese, invece molti di quei biglietti furono
venduti dai bagarini in Italia a prezzi maggiorati e per
39 angeli si rivelarono di sola andata. Angeli delle
famiglie e delle comitive che entrarono in quello
spicchio di stadio dopo una fila di quasi tre ore
passando da una porta larga 80 centimetri, l’unica via
di fuga che diventerà di fatto inaccessibile. Angeli
impreparati all’improvviso lancio di oggetti
contundenti, ai pochi (circa sei) poliziotti che
scappano, alla rete da giardino che li divideva e che
viene giù in un secondo, alle cariche continue,
impreparati a morire per una partita di calcio. Partita
che si gioca lo stesso, decide l’Uefa insieme al Belgio. Non
sanno più cosa fare e devono evitare altri morti. Si
gioca per chiamare l’esercito (arriveranno i carri
armati), si gioca per una questione di ordine pubblico e
si assegnerà la Coppa dei Campioni perché così hanno
voluto quelli del Liverpool. Non è un’amichevole, ma
diventa una farsa perché si gioca mentre i 39 corpi sono
ancora lì, in fila sotto la curva Z ridotta a un campo
di battaglia, in cui gli hooligan hanno irriso i morti
prima che li portassero via. Si gioca sapendo, come ha
sempre confermato Stefano Tacconi, portiere di quella
Juventus. Otello Lorentini non poteva accettare di avere
perso l’unico figlio (assunto dall’ospedale di Arezzo
con lettera datata 29 maggio 1985) per una partita di
calcio, così, su consiglio di un avvocato, fondò
l’Associazione tra le famiglie delle vittime di
Bruxelles per portare davanti a un giudice i
responsabili della strage che ha cambiato per sempre il
football. Un processo lungo, difficile, condotto in
solitudine, quella solitudine che è durata decenni e che
in parte dura ancora, perché ricordare l’Heysel dà
fastidio a tanti, ricordare quello che è accaduto, le
colpe, i comportamenti durante e dopo, soprattutto dopo,
non è cool, in particolare oggi dove imperversano il
gossip e il patinato, dove si scrive e si parla sempre
meno di calcio. L’Heysel fa parte della nostra storia,
anche sportiva, e ogni 29 maggio è lì a ricordarcelo,
nonostante le amnesie, che vengono a galla quando nei
nostri stadi o nelle adiacenze accade qualcosa di
violento (inaspettato ?), allora tutti a sciacquarsi la
bocca con la strage di Bruxelles, senza sapere, senza
essersi documentati, tutti a citare la Thatcher e fare
figure meschine, perché chi sa non confonde.
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Gli inglesi
non hanno messo mano al loro football dopo l’Heysel
bensì dopo Hillsborough e ancora oggi, sono passati 26
anni, non conoscono la verità e le cause che hanno
determinato la morte di 96 tifosi del Liverpool; non
sanno che la tragedia di Hillsborough è figlia
dell’Heysel, perché gli inglesi hanno preferito
polemizzare, inventare scuse, arrabbiarsi per la
squalifica dei club dalle coppe europee, mettendo la
testa sotto la sabbia. Mai risveglio è stato più
drammatico. Se avessero imparato la lezione, quella che
nessuno, soprattutto in Italia, pare aver imparato,
forse Hillsborough sarebbe rimasto solamente il nome di
uno stadio. E la Juventus ? Una messa nel 2010 e una
messa quest’anno, nel mezzo uno spazio dentro il Museum
bianconero con targa e nomi, di più nemmeno Andrea
Agnelli sembra capace di fare, il primo presidente che
ha intrapreso, con difficoltà, un percorso verso la
rinata Associazione fra i familiari delle vittime
dell’Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, figlio di
Roberto e nipote di Otello, vice presidente Emanuela
Casula che all’Heysel ha perso il padre e il fratello,
Giovanni e Andrea. Rinata anche per difendere la memoria
dei propri cari, vituperati e ignominiosamente offesi
negli stadi italiani da trent’anni, cori sanzionati per
la prima volta nel 2014, la perdita di memoria genera
mostri come il sonno della ragione. Non c’è, infatti,
una memoria condivisa e in troppi preferiscono cullare
il proprio Heysel dimenticandosi dei familiari delle
vittime e di quei 39 morti, quasi fossero un ostacolo
per ammirare una coppa. L’Heysel
sarebbe dovuta diventare la Superga bianconera, con
tutte le differenze che in troppi banalmente
sottolineano: un momento di comune condivisione di un
ricordo che non potrà mai essere cancellato, dalle
nostre memorie e dalle nostre coscienze. Senza
dimenticare che a Bruxelles sono morti tre interisti,
come Mario Ronchi che andò con gli amici, forse quando
l’amicizia era più importante del tifo. Per questo
l’Heysel dovrebbe essere, come Superga, una tragedia
italiana non solo juventina, ma Lega e Figc hanno
brillato meno della Juventus in questi trent’anni e mai
hanno tentato di ricordare e di commemorare i 39 angeli
di Bruxelles. Qualche settimana fa l’Associazione ha
chiesto il ritiro (simbolico) della maglia azzurra
numero 39, simbolico perché quel numero di maglia in
Nazionale non esiste, gesto accolto con scetticismo e
critiche dall’opinione pubblica, si sa i parenti delle
vittime si preferiscono silenziosi e discreti, quando
reclamano rispetto e memoria vengono attaccati e
stigmatizzati, perché, come ha detto Paul Valéry,
"quando non si può attaccare il ragionamento, si attacca
il ragionatore". E pare proprio una gara quella che in
questi ultimi mesi ha tentato di sminuire
l’autorevolezza dell’Associazione fra i familiari delle
vittime dell’Heysel e di chi li ha sostenuti e
accompagnati in tutti questi anni. Ma allora cosa resta
dell’Heysel ? C’è stata giustizia ? Come ha sempre detto
Daniel Vedovatto, l’avvocato italo belga dei familiari
italiani, in quelle condizioni e con il diritto che
all’epoca vigeva in Belgio è stato ottenuto il massimo:
condanna dell’Uefa, di un capitano di polizia, dei pochi
hooligan rintracciati e risarcimenti, che nessuno ha mai
chiesto. Forse qualcuno s’è perso, ma la condanna
dell’Uefa, resa corresponsabile delle manifestazioni che
organizzava e che organizza è storica, ha fatto
giurisprudenza e ha cambiato per sempre il football
europeo, soprattutto le coppe, esigendo severi requisiti
di sicurezza per gli stadi delle finali e non solo. Se
non ce ne siamo accorti è perché ce ne siamo
dimenticati. Trent’anni sono una vita, un vuoto
incolmabile e recuperare terreno è quasi impossibile.
Resta la forza di Otello Lorentini che ha guidato i
familiari delle vittime italiane contro i migliori
avvocati d’Europa, la forza che l’ha spinto a citare
direttamente l’Uefa nel processo, dopo che in primo
grado erano stati tutti assolti, restano i volti, le
immagini, i ricordi, i sogni, i sorrisi e il terrore di
39 persone che sono morte dentro uno stadio per vedere
una partita di calcio. Li sentite ? Stanno sussurrando
qualcosa: "La storia (dell’Heysel) siamo noi, nessuno si
senta offeso".
(NdR: articolo premiato agli Oscar
del Giornalismo Sportivo 2016)
Fonte: Il Foglio.it
©
26 Maggio 2015
Fotografie:
Bradipolibri © Francesco Caremani © GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
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Heysel, le verità di
una strage annunciata.
Trent’anni dopo
di Francesco Caremani
Ricordo
ancora quella sera e i giorni seguenti il 29 maggio
1985. Un ricordo violento, perché quello che accadde
cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha
cambiato anche il giornalista che sono diventato.
L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che
non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi
hanno cercato di cancellarla, ma non c’è cura. Anzi, una
ci sarebbe: la memoria, una memoria condivisa che
dovrebbe avere (ha) come assioma l’unica verità storica
e processuale riconosciuta (perché dimostrata e
dimostrabile) dall’"Associazione fra i familiari delle
vittime dell’Heysel", presieduta da Andrea Lorentini che
a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico
aretino medaglia d’argento al valor civile per essere
morto mentre tentava di salvare un connazionale.
"Abbiamo sconfitto l’Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza,
ma in troppi se la sono cavata", mi ha detto Otello
Lorentini prima di soccombere sotto gli acciacchi della
vecchiaia e morire lo scorso maggio. Lui che le udienze
del processo di Bruxelles se l’è fatte tutte, lui che
prendeva l’aereo da Roma, lui che cercava i giornalisti
per informarli di quanto stava accadendo. Un processo
per iniziare il quale i familiari delle vittime italiane
si sono autotassati. Otello Lorentini - nonno di Andrea
e padre di Roberto - fondò la prima Associazione per
avere giustizia di fronte a una strage in cui tutti
volevano farla franca: gli hooligans inglesi come l’Uefa,
come le istituzioni sportive e politiche belghe. Otello
ha fatto meno fatica a portare avanti il processo che
non il ricordo di quella sera. La paura era che le 39
vittime fossero uccise una seconda volta dall’ignavia,
spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere
le tragedie. Soprattutto per questo ha litigato spesso,
a distanza, con Giampiero Boniperti, ricambiato. Perché,
come mi ha detto Antonio Conti (che ha perso la figlia
diciassettenne Giuseppina), guardandomi negli occhi: "è
dura, sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore
non se ne va". In questi trent’anni non si è dimenticata
solo la strage, ma anche la solitudine, la dignità e la
forza con cui i familiari delle vittime sono andati
avanti: "Mi hanno detto che m’avevano pagato il marito
morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l’ero
comprata con quei soldi - ricorda Rosalina Vannini
vedova di Giancarlo Gonnelli. Nessuno sa cosa ha
significato andare avanti
senza Giancarlo e con tutti i
problemi che ha avuto Carla (la figlia, NdR)", che
dell’Heysel non vuole ancora parlare. E allora cosa ci
resta di quella vicenda, di quella battaglia condotta in
solitudine da 32 famiglie italiane che si sono fatte
forza nella figura di un uomo che aveva perso l’unico
figlio per una partita di calcio e che non si dava pace
? Sicuramente la condanna dell’Uefa, passata anch’essa
sotto i tacchi di una certa inconsistenza giornalistica,
che l’ha resa, per sempre, corresponsabile delle
manifestazioni che organizza. Se
gli stadi delle finali delle Coppe europee devono avere
determinati requisiti di sicurezza (con biglietti
nominali, dotati di microchip) non lo si deve certo
all’evoluzione del calcio, bensì alla testardaggine di
Otello Lorentini e allo choc di vedere tutti gli
imputati assolti in Primo grado.
Così decise,
insieme con gli altri familiari delle vittime italiane,
di citare direttamente l’Uefa, che è stata condannata in
Appello e in Cassazione. Non tutti sanno che in
Inghilterra, ancora oggi, è al lavoro una commissione
d’inchiesta per stabilire le vere cause di un’altra
strage, quella dell’Hillsborough Stadium di Sheffield,
dove il 15 aprile 1989 morirono 96 tifosi del Liverpool.
Quella che poi ha dato il via ai grandi cambiamenti che
fanno della Premier League il campionato televisivamente
più affascinante e il più sicuro dal punto di vista
degli impianti. Disorganizzazione e inadeguatezza delle
forze di polizia sono alcune delle cause, forse le più
importanti, ma questo lo stabilirà l’inchiesta. Sono
passati 26 anni. Ecco, se avessero imparato la lezione
del 29 maggio 1985, se avessero riflettuto invece di
respingere le accuse e cercare di nascondere la vergogna
di quello che, in concorso, avevano fatto all’Heysel,
forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno
stadio. In Italia, se possibile, è andata anche peggio.
Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini
promettono una puntata del Processo del Lunedì ad
Arezzo, ma poi non se ne farà niente. Nel 2010 la prima
messa della Juventus, che con la presidenza di Andrea
Agnelli ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso
i familiari delle vittime. Dietro 25 anni di vuoto. "Ho
ricevuto l’invito ma non andrò, ognuno ha la sua
coscienza" mi disse Maria Teresa Dissegna, che
all’Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre
interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio,
questo hanno continuato a subire i familiari delle
vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985,
insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi
mai sanzionate: "In tutti questi anni la Procura
federale non mi è sembrata così pronta e attenta", mi ha
confidato Andrea Lorentini. La memoria va allenata per
non dimenticare, perché non accada mai più. Grazie a
Otello Lorentini, Domenico Laudadio, Annamaria Licata,
Claudio Il Rosso, il Nucleo 1985, lo Juventus Club
Supporters Juve 1897, il Comitato "Per non dimenticare
Heysel" Reggio Emilia, Andrea Lorentini, che ha la
stessa stoffa del padre e la stessa tenacia del nonno, e
a tutti gli altri famigliari che meritano (glielo
dobbiamo, glielo dovete!) dopo 30 anni che si parli
dell’Heysel con cognizione di causa, senza
edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici.
Anche per questo vado fiero della scritta che posso
esibire sul mio libro "Heysel, le verità di una strage
annunciata": "L’unico libro ufficialmente riconosciuto
dall’Associazione familiari vittime Heysel". Sperando
che chi ha ancora voglia di raccontare quello che è
accaduto trent’anni fa faccia finalmente i conti con le
famiglie delle vittime, stranamente dimenticate in tanti
libri e documentari. Li sentite ? Stanno sussurrando
qualcosa: "La storia (dell’Heysel) siamo noi, nessuno si
senta offeso".
Fonte:
Francescocaremani.com
© 23 maggio 2015
Fotografie:
Francesco Caremani
Icona: Itcleanpng.com ©
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Le famiglie italiane
hanno combattuto nei tribunali. Un giornalista è stato
vicino a loro.
"Da soli per avere
giustizia"
di Francesco Caremani
Ricordo
ancora quella sera del 29 maggio 1985 e i giorni
seguenti. Un ricordo violento, perché quello che accadde
cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha
cambiato anche il giornalista che sono diventato.
L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che
non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi
hanno cercato di cancellarla, ma non c'è cura. Anzi, una
ci sarebbe: una memoria condivisa che dovrebbe avere
(ha) come assioma l'unica verità storica e processuale
riconosciuta dall'Associazione fra i familiari delle
vittime dell'Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, che
a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico
aretino medaglia d'argento al valore civile per essere
morto mentre salvava un connazionale. "Abbiamo sconfitto
l'Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la
sono cavata" mi ha detto Otello Lorentini prima di
soccombere sotto gli acciacchi della vecchiaia e morire
lo scorso maggio. Otello era il padre di Roberto e il
nonno di Andrea. Lui le udienze del processo di
Bruxelles se l'è fatte tutte. Prendeva l'aereo da Roma e
poi cercava i giornalisti per informarli di quanto stava
accadendo. Un processo per il quale i familiari delle
vittime italiane si sono autotassati. Otello Lorentini
fondò la prima Associazione per avere giustizia di
fronte a una strage in cui tutti volevano farla franca:
gli hooligans inglesi come l'Uefa, le istituzioni
sportive come la politica belga. La paura era che le 39
vittime fossero uccise una seconda volta dall'ignavia,
spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere
le tragedie. Soprattutto per questo Otello e gli altri
hanno litigato spesso, seppure a distanza, con Giampiero
Boniperti. Perché, come mi ha detto Antonio Conti (che
ha perso la figlia Giuseppina, 17 anni, guardandomi
negli occhi: "Sono contento che se ne parli ancora, ma
il dolore non se ne va". In questi trent'anni non si è
dimenticata solo la strage, ma anche la solitudine, la
dignità e la forza con cui i familiari delle vittime
sono andati avanti: "Mi hanno detto che m'avevano pagato
il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima)
me l'ero comprata con quei soldi" ricorda Rosalina
Vannini, vedova di Giancarlo Gonnelli. "Nessuno sa cosa
ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti
i problemi che ha avuto nostra figlia Carla". Lei
dell'Heysel non vuole ancora parlare. E allora, cosa ci
resta di una battaglia condotta in solitudine da 32
famiglie italiane, fattesi forza nella figura di un uomo
che aveva perso l'unico figlio per una partita di calcio
? Sicuramente c'è la condanna dell'Uefa, passata
anch'essa sotto i tacchi di una certa inconsistenza
giornalistica, che l'ha resa per sempre corresponsabile
delle manifestazioni che organizza. Se gli stadi delle
finali delle Coppe europee devono avere determinati
requisiti di sicurezza (con biglietti nominali, dotati
di microchip) non lo si deve certo all'evoluzione del
calcio, bensì alla testardaggine di Otello Lorentini e
allo choc di vedere tutti gli imputati assolti in Primo
grado. Così il presidente dell'Associazione decise,
insieme con gli altri familiari delle vittime italiane,
di citare direttamente la Uefa, che è stata poi
condannata in Appello e in Cassazione. A Hillsborough,
Sheffield, il 15 aprile 1989, morirono 96 tifosi del
Liverpool. E’ la strage che ha dato il via ai grandi
cambiamenti che fanno della Premier League il campionato
più sicuro dal punto di vista degli impianti.
Disorganizzazione e inadeguatezza delle forze di polizia
sono forse le cause più importanti, ma questo lo
stabilirà l'inchiesta ancora in corso dopo 26 anni.
Ecco, se avessero imparato la lezione del 29 maggio
1985, se avessero riflettuto invece di respingere le
accuse e cercare di nascondere la vergogna dell'Heysel,
forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno
stadio. In Italia, se possibile, è andata anche peggio.
Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini promisero
una puntata del Processo del Lunedì ad Arezzo, ma poi
non se ne fece niente. Nel 2010 ci fu la prima messa
della Juventus, che con la presidenza di Andrea Agnelli
ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso i
familiari delle vittime. Dietro, 25 anni di vuoto. "Ho
ricevuto l'invito ma non andrò, ognuno ha la sua
coscienza" mi disse Maria Teresa Dissegna, che
all'Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre
interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio:
questo hanno continuato a subire i familiari delle
vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985,
insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi
mai sanzionate: "In tutti questi anni la Procura
federale non mi è sembrata cosi pronta e attenta" dice
Andrea Lorentini. La memoria va allenata, perché non
accada mai più. Lo dobbiamo a Otello Lorentini, Domenico
Laudadio, Annamaria Licata, Claudio II Rosso, il Nucleo
1985, lo Juventus Club Supporters Juve 1897, il Comitato
"Per non dimenticare Heysel" di Reggio Emilia, Andrea
Lorentini e a tutti gli altri famigliari. Senza
edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici.
Anche per questo vado fiero della scritta che posso
esibire sul mio libro "Heysel, le verità di una strage
annunciata": "L'unico libro ufficialmente riconosciuto
dall'Associazione familiari vittime Heysel". Chi ha
ancora voglia di raccontare quello che è accaduto 30
anni fa, faccia i conti con le famiglie delle vittime.
La storia dell'Heysel sono loro, nessuno si senta
offeso.
Fonte:
Guerin Sportivo ©
11 maggio 2015
(Testo ©
Fotografia)
Icona: Itcleanpng.com ©
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Heysel e dintorni
Questo
è il libro che non avrei mai voluto scrivere. Conoscevo
Roberto Lorentini, era un amico di famiglia, un collega
di mio padre e, ripensandoci oggi, anche molto di più.
Al tempo stesso è il "mio" libro. Non solo perché
conoscevo bene Roberto, non solo perché ero tifoso della
Juventus, non solo perché a Bruxelles avrei dovuto
esserci anch’io, non solo… Ricordo quei giorni come
fosse oggi. La sera del 29 l’appuntamento era con tutti,
o quasi, i compagni di classe a casa di Simone. Una
specie di rito, dato che l’anno prima, sempre a casa
sua, di ritorno dalla gita scolastica avevamo visto
Juventus-Porto, finale di Coppa delle Coppe. Era andata
bene, la Juve aveva vinto, perché non replicare,
nonostante Simone fosse tifoso della Roma e un po’ gli
piaceva gufare. Ricordo il sole di quella giornata, un
po’ livido, ricordo che avevo preparato le bandiere. Ero
scaramantico e avevo il cuore in gola quando decisi di
utilizzare quella nuova, invece dell’altra vecchia e
lisa. Stupidi timori adolescenziali. Dopo sarei andato a
dormire da un mio amico, Francesco, juventino anche lui.
Prima, magari, avremmo fatto baldoria anche noi per le
strade di Arezzo. Il salotto era pieno di ragazzi, si
scherzava, si facevano pronostici, si mangiava qualcosa.
Il ricordo di Atene pesava come un macigno, quella notte
di due anni prima, tredicenne, avevo pianto. Non ricordo
bene quando iniziammo a fissarci sulle immagini
televisive, non si capiva cosa stesse accadendo e il
telecronista non ci aiutava. Ho imparato allora che le
cose brutte della vita ti arrivano addosso e ti
travolgono all’improvviso, quando meno te lo aspetti.
Qualcosa era successo. Avevo il magone, qualunque cosa
fosse successa, anche se nessuno poteva immaginare la
devastante verità, quella partita per me non era più la
stessa. Tutta l’attesa, tutta l’emozione era svanita, si
era come sciolta di fronte al calore delle immagini,
restava solo un disagio difficile da interpretare.
Quando fui chiamato al telefono ero come stordito:
"Francesco, sono la mamma… Roberto è ferito". Ricordo
solo queste parole, io biascicai qualcosa, poi abbassai
l’apparecchio. In realtà Roberto era già morto, le
notizie arrivavano sconnesse e la distanza faceva il
resto. Oggi penso a Otello ma non l’immagino. Non si
può
immaginare un uomo che deve avvisare la madre e la
moglie, dire loro che hanno perso la persona più cara al
mondo per colpa di una partita di calcio, non si può.
Non ricordo bene quello che accadde dopo. Iniziò la
partita, guardavo ma ero imbarazzato, non sapevo cosa
pensare, Roberto ferito, la Juventus che gioca. So per
certo che non ho esultato al gol di Platini su rigore,
so per certo d’aver provato disagio per quel penalty che
non c’era e vergogna per l’esultanza degli altri. Quando
siamo usciti Arezzo bianconera festeggiava, le strade
erano bloccate dai caroselli di auto, io camminavo a
testa bassa, accanto a Francesco, anche lui per niente
soddisfatto di quello che vedeva. L’angoscia aumentava.
La prima cosa che ho fatto quando mi sono svegliato,
l’indomani, è stata quella di telefonare a mia madre:
"Francesco, Roberto è morto, Roberto non c’è più", mi
disse con la voce rotta dall’emozione. Iniziai a
piangere mentre abbassavo il telefono. Comprai i
giornali, volevo capire e vedere. A scuola, però, fu
ancora peggio. Da una parte chi mi diceva che eravamo
dei ladri, i più cattivi esultavano all’idea che al
mondo ci fossero 39 "gobbi" di meno, dall’altra gli
juventini che esultavano, ancora, beffardamente. Oggi
il mio giudizio è severo e inappellabile, allora, però,
eravamo tutti adolescenti, sciocchi e ignoranti di
tante, troppe cose. Gli insegnanti dicevano stoltezze
senza senso, mentre io cercavo di nascondere il mio
dolore, in quell’ambiente non potevo condividerlo con
nessuno. Entrai in un’aula vuota e ricominciai a
piangere sussurrando il nome di Roberto. Ancora oggi non
so perché, ma non avevo voglia di tornare a casa,
pensavo a mio padre sconvolto per l’accaduto ed ero
consapevole che non avrei saputo consolarlo, non avevo
le parole e forse neanche il diritto. Uscimmo un’ora
prima e decisi di andare con gli altri in una pista di
pattinaggio, dietro Porta San Lorentino, a giocare a
pallone. Sentivo il bisogno fisico di fare qualcosa che
mi impedisse di pensare e il calcio era l’unica che
conoscevo e che sapevo fare. Mia madre quando lo seppe
s’infuriò, questo mio gesto le apparve brutale: "Meglio
che il babbo non lo sappia", sibilò. Io e il babbo non
ci parlammo quel giorno, non avevamo niente da dirci. Io
sarei dovuto andare a Bruxelles, io dovevo essere
insieme a Roberto. Frequentavo il secondo anno del Liceo
scientifico ed ero reduce da un esame di riparazione,
inglese e latino. Avevo recuperato la prima materia, ma
non la seconda, si prospettava un’altra estate di
studio. Il 5 nell’ultimo compito segnò il mio destino,
niente promozione, ma per me in quel momento voleva
significare, soprattutto, niente Bruxelles, niente Juve.
Ancora oggi non so come, ma la cosa fu pubblicata su un
giornale locale, cioè il mio 5 e tutto il resto. Parole
che metto insieme al peggio, tutto il peggio che s’è poi
scatenato intorno alla strage dell’Heysel. Perché di
strage dolosa si tratta, non di tragedia, parola che in
genere si accosta alla fatalità. Al funerale, in Duomo,
c’era tutta Arezzo, lo strazio rendeva i volti
sfigurati, le parole colpivano senza pesare. Di quei
giorni, oltre alla memoria di Roberto e a un’idea
diversa del calcio e della Juventus, mi è rimasto
addosso il disagio, per quanto nascosto negli anfratti
dell’anima, d’essere andato a giocare a pallone il
mattino dopo, all’uscita di scuola. Se oggi mi sono
liberato di questa sensazione lo devo a Otello Lorentini,
padre di Roberto e presidente dell’"Associazione fra le
famiglie delle vittime di Bruxelles", che ha cresciuto
Andrea e Stefano, i due nipoti, a cuore e calcio. Una
cosa normale per tanti, una cosa eccezionale per chi ha
perso l’unico figlio sulle gradinate di uno stadio. Per
tutte le cose scritte fino a qui e per mille altri
motivi questo è il "mio" libro. Innanzi tutto devo
confidare che come uomo non riesco a perdonare chi ha
esultato, chi è sceso in strada, chi ha virtualmente
calpestato i 39 morti dell’Heysel. A maggior ragione
nutro, ancora oggi, rancore per tutti coloro che hanno
gioito per quelle vite brutalmente stroncate, per quelle
scritte che sono comparse sui muri di tutta Italia, per
quelle frasi che da "juventino" ho dovuto subire e
subisco. Nessuno di loro sa che una piccola parte di me
è morta a Bruxelles insieme a Roberto, ma questo
pensiero non mi aiuta ad essere meno duro. Non so, forse
non voglio, perdonare. Chi si riconosce in queste parole
abbia la forza e il coraggio di chiedersi se è un uomo.
Il sentimento è amplificato all’ennesima potenza quando
penso all’esultanza dei giocatori bianconeri, alla
panchina della Juventus, che al gol schizza in campo
ubriaca di gioia e di rabbia, al giro di campo, al
resto. Non ci sono scuse o teorie sociologiche che
tengano, l’unica via d’uscita è la vergogna. Sapevano
dei morti, sapevano tutto. Chi ha il coraggio, ancora
oggi, di negare, vada a rivedersi nelle immagini
televisive e nelle fotografie.
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Scriveva,
nei giorni immediatamente successivi la strage,
l’Osservatore Romano: "L’uomo allo stadio di Bruxelles è
stato tremendamente offeso anche dopo che i tanti Caino,
sparsi sulle gradinate, lo avevano ammazzato. Per
calmare i Caino non si è rispettato il sangue degli
Abele: si è giocato mentre i morti erano ancora lì
scomposti nella violenza appena subita; si è tifato; si
è gioito. In una giornata in cui tutti e tutto sono
stati sconfitti, è assurdo pensare che alcuni si
ritengano vincitori ed è amaro vedere volti sorridenti
per una vittoria senza senso. Nella serata di mercoledì
29 maggio 1985 lo sport è stato sconfitto e
mortificato". Giocare, lo sappiamo tutti, era
necessario, esultare no. Maurizio Naldini, su La
Nazione, annotava: "… A Bruxelles, mercoledì notte, si è
giocata una partita di calcio e si è festeggiato un
successo, mentre il sangue colava dalle gradinate, i
cadaveri ancora non avevano un nome, i feriti non
cessavano di lamentarsi. Per quale centurione vittorioso
dovevamo celebrare questo rito ? Forse per Paolo Rossi,
per Trapattoni, per i colori bianconeri ? C’era chi
piangeva l’amico e chi urlava nello stesso istante per
il gol di Platini, c’erano donne che cercavano i loro
morti, migliaia di famiglie in angoscia, e giovani
tifosi che sventolavano le bandiere del successo. Tutti
insieme, accalcati nello stesso stadio. È questo che ci
dà nausea e disagio. Mentre la televisione proseguiva
implacabile con le sue immagini, potevamo accorgerci che
la soglia fra dolore ed entusiasmo, non era fra la curva
Sud e la Nord, fra le gradinate più basse e quelle più
alte. Era invece, purtroppo, labile e inconsistente, in
ognuno di noi. Certo la partita si doveva giocare, non
poteva essere altrimenti. Se si fosse chiesto alla folla
di lasciare lo stadio senza aver prima consumato i
giochi, il rito di tante pallonate intelligenti, la
tragedia sarebbe stata forse ancora più grande. Era
giusto far giocare l’incontro perché era l’unico modo
per tenere sotto controllo una situazione sfuggita
colpevolmente di mano. Era giusto anche, anzi era
ammirevole, che i giocatori della Juventus uscissero in
mezzo alla gente per spronare alla calma, per riportare
alla ragione gli scalmanati. E ancor più convincenti ci
sono apparse le frasi di Scirea quando ha detto
"Giochiamo per voi, giochiamo perché ci hanno chiesto di
farlo". A quel punto gli atleti ci sono apparsi dei
professionisti costretti comunque a far bene il loro
mestiere. Ma alla fine la loro esultanza, il loro
abbracciarsi e sbracciarsi, i loro sguardi sorridenti,
francamente non ci sono piaciuti. Né ci è piaciuta la
frase di Pizzul, certamente stremato da una lunghissima
radiocronaca che mai avrebbe pensato di fare, quando ci
ha detto che il significato sportivo della gara era
riuscito per qualche minuto a farci dimenticare la
tragedia. No, caro Pizzul, la tragedia non si poteva
dimenticare. Ed era talmente intensa, assillante,
provocatoria, da rendere stupido tutto il resto, e non
solo i poliziotti belgi che brillavano per la loro
insipienza, vuoti come lattine di birra. Ci appariva
stupido Paolo Rossi che alzava le mani al cielo, stupidi
quanti applaudivano, stupida la coppa e i significati
che si erano voluti attribuirle. Dopo quanto era
accaduto, non c’era più spazio se non per il dolore. E
non bastano novanta minuti, non bastano neppure a un
campione, per dimenticare una strage che si è svolta
sotto i suoi occhi…". Qualche
anno dopo Prandelli dichiarerà: "Ancora una volta furono
le autorità e il delegato Uefa a premere perché
andassimo sotto la curva dei nostri tifosi, per
"festeggiare" la vittoria. Lo facemmo a malincuore,
soltanto perché ci avevano spiegato che quello sarebbe
stato un modo per rasserenare gli animi. Ecco perché ci
infastidirono le polemiche divampate in Italia su quella
Coppa e su quelle scene di esultanza che non erano vere,
non potevano essere vere. Ho letto che Platini ha
dichiarato di essere morto a Bruxelles il 29 maggio
’85…", mai espressione fu più infelice nei confronti di
chi era morto veramente. Semmai, del numero 10 francese,
era più consona all’occasione questa dichiarazione: "Al
circo quando muore il trapezista entrano i clown in
pista. Noi non siamo dei clown, credo, ma il discorso è
lo stesso". Penso, infatti, a Giuseppina Conti,
all’epoca adolescente come me, di lei hanno scritto:
"Per Platini e compagni era disposta a qualsiasi
sacrificio. La Juventus era la sua passione, voleva
vederla vincere quella Coppa dei Campioni tanto
agognata…". Anch’io la pensavo come lei e mi piace
credere, con tutto il rispetto che ho per il dolore
altrui, che oggi lei la penserebbe come me. Da quella
sera, infatti, ho sempre desiderato che la Juventus
restituisse quella coppa e che negli almanacchi, che per
lavoro ho sfogliato sino allo sfinimento, comparisse la
scritta: non assegnata. Giampiero Mughini scrisse che
era troppo facile restituire le coppe altrui, ma quella
sarebbe stata anche "mia" e se qualcuno dubitasse
dell’onestà intellettuale basta che chieda in giro
quanto ero tifoso della Juventus. Ciò non toglie che
persone ridicole sono tutte quelle che in quei giorni e
negli anni seguenti si sono solamente preoccupate, per
mero interesse antisportivo, di cancellare dal palmares
della Juventus quel trofeo, che in effetti non c’è,
perché non ci può essere coppa, trofeo, vittoria, calcio
e sport quando ci sono 39 morti sugli spalti, uccisi
dagli hooligans inglesi e dalle mancate misure di
sicurezza di Gendarmeria, Governo e Federcalcio belga da
una parte, Uefa dall’altra. Sciacalli, sciacalli tutti
quanti. Penso, da giornalista e da amante del calcio,
che il gesto, e io credo nei gesti, di restituire quella
Coppa dei Campioni abbia senso anche oggi. Me l’ha
confermato Otello Lorentini, al quale l’esultanza
bianconera non è mai andata giù: "Apprezzerei, ancora
oggi sarebbe un bel gesto". L’Heysel rappresenta una
macchia che la Juventus, con qualsiasi dirigenza, non
potrà mai cancellare, a maggior ragione dopo quello che
fu detto all’indomani della conquista della Coppa
Intercontinentale: "Bruxelles è stata cancellata",
grazie del pensiero, ma questo non è il nostro, tanto
meno quello dei familiari delle vittime. Nel dicembre
dell’85 Otello Lorentini gridava: "Noi continuiamo a
chiedere, smuovere, informarci, ma sembra che tutto cada
nel vuoto. Nei prossimi giorni sottoscriveremo lo
statuto dell’associazione: ma guai a dimenticare,
sarebbe un errore imperdonabile per tutti, non solo per
noi famiglie colpite direttamente dalla tragedia". E il
timore che questo accadesse era più che fondato, come
scriveva Riccardo Scottoni su Reporter: "Non
sbagliavamo: come le vittime di tante vicende non
sportive esistono 39 famiglie che giustizia e
risarcimento hanno avuti promessi e fino ad oggi si sono
ritrovate con un pugno di mosche. Se si esclude qualche
tifoso inglese e alcuni funzionari della polizia belga
nessun responsabile è stato individuato, né cercato
(dopo quasi 7 mesi, N.d.A.).
|
Inoltre
abbiamo appreso che quei 10-20 miliardi di risarcimento
che furono promessi, allo stato dei fatti, si sono
ridotti a poche centinaia di milioni. C’è chi storce il
naso quando si parla di soldi per "pagare" una morte.
Sbaglia. E dimentica che ci sono dei bambini che hanno
il diritto di vivere, almeno economicamente come gli
altri. Nei giorni susseguenti la tragedia scrivemmo che
lo sport avrebbe fatto di tutto per dimenticare e far
dimenticare, il più presto possibile. Ma non credevamo
che avrebbe fatto mancare anche la solidarietà alle
vittime. Invece è successo anche questo e i complici, in
quest’opera, sono molti". Per questo il libro ha un
senso, perché solo la memoria restituisce dignità al
dolore, l’oblio lo scolpisce e la rabbia l’inaridisce
con tutto quello che vi sta intorno. Capisco anche che
per molti l’Heysel è ormai una tragedia lontana dai
cuori e dalle menti, ma ci sono drammi che non
dovrebbero essere mai dimenticati, perché dietro a ogni
dramma c’è una persona e il rispetto per la sua vita,
per il suo essere stato in vita. Mi scuso, invece, con
chi ha cercato di fare i conti con quel dolore e
leggendo queste pagine sentirà riaprire delle ferite che
pensava cicatrizzate. Il dolore è personale e non può
essere condiviso, ma quando la tragedia è pubblica si
trasforma, agli occhi degli altri, in qualcosa di più
complesso che spero d’aver reso nel migliore dei modi.
In questo libro ho voluto raccontare l’Heysel e, in
particolare, la battaglia legale che l’"Associazione fra
le famiglie delle vittime di Bruxelles" ha portato
avanti, tra silenzi e meschinità d’ogni genere, tra gli
altri, dei notabili del calcio italiano e
internazionale. Una battaglia legale che ha fatto
giurisprudenza, condannando in Cassazione l’Uefa alla
corresponsabilità per tutti gli eventi sportivi che
portano il suo marchio. Per certi aspetti, questa
vicenda, ricorda le tante altre della storia d’Italia
fatte di pressioni e omissioni, con una differenza: le
responsabilità sono state individuate e i responsabili,
una parte di essi, condannati, rendendo, per quanto
possibile, giustizia a chi ha perso la vita per una
partita di calcio. Una giustizia senza gioia pensando a
come i belgi si sono comportati con gli italiani e i
loro morti, pensando a come si sono comportati alcuni
giornalisti italiani, difesi poi a spada tratta
dall’azienda e dal sindacato. Perché nessuno può
sentirsi giustificato per quello che ha fatto quella
sera e nei giorni seguenti, solo chi ha avuto rispetto
per il dolore può alzare il volto e guardare l’orizzonte
con gli occhi interrogativi, chiedendosi ancora oggi
perché. La mia vuole essere una fotografia, come quelle
in bianco e nero, quelle che raccontano la storia delle
persone comuni, proprio quando il calcio, l’ambiente
calcio, ha cercato di cancellare ogni ricordo di quella
notte, di quella sera di maggio in cui, probabilmente,
lo sport è morto per sempre. Questo è il libro che non
avrei mai voluto scrivere… Se adesso molte persone lo
sfogliano, se grazie a queste pagine ricordano, se
stanno riflettendo su quello che è accaduto all’Heysel e
su tutto quello che nel calcio è accaduto dopo, lo devo
solamente a Otello Lorentini. Grazie alla sua forza,
grazie alla sua disponibilità, grazie al materiale che
ha conservato e che ancora oggi conserva ho potuto
scriverlo. Ringrazio tutta la famiglia Lorentini, la
moglie di Roberto, Arianna, e i suoi due figli, Andrea e
Stefano, per la comprensione e la pazienza. Quando
Otello Lorentini mi ha consegnato tutto quello che aveva
raccolto, mi ha detto: "Questa è la mia vita". Questo
libro glielo dovevo e lo dovevo soprattutto a Roberto,
al suo ricordo e al ricordo di quelli che come lui sono
morti allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio del
1985.
Fonte:
Heysel e dintorni (Blog di Francesco Caremani) © 29
maggio 2010
Fotografie: GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
© Cristiano Martini © Francesco Caremani
© Il Foglio
Icona: Itcleanpng.com ©
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