Racconto liberamente ispirato
alla storia di Lorenzo Rotelli, nella foto, alla ricerca
da anni di un tifoso juventino di Foggia conosciuto ad
Anversa in occasione della finale allo stadio Heysel.
Lorenzo, ventitré anni nello
zaino ed un pugno di sabbia di quella spiaggia
celeberrima di Anzio dove crollarono esanimi uomini
sbarcati al macello e dove oggi sono in guerra soltanto
le onde, accarezzava la sua sciarpa bianconera immerso
nel piacevole frastuono del rullaggio roboante
dell'aeroplano sulla pista di Ciampino. Bruxelles, tanto
agognata, così vicina e così lontana. 28 maggio 1985,
Lorenzo, finalmente con le nuvole sotto la pancia che
brontola un panino ed anche il cuore mette le ali al
pensiero di quello scontro epico fra titani. Platini, il
sovrano senza eguali, dominerà certamente la contesa
contro i rossi albionici ed i loro noti campioni e duri
scarponi. Ad Atene, gli dei furono gelosi
persino del
suo incedere e lo disarmarono, beffardi, passando il suo
scettro ad un ignoto marrano dal tiro felice e mancino.
Poi Lorenzo ha ceduto al sonno, cullato dall'auspicio
farcito dal trionfo, prima di riaprire gli occhi sul
Belgio. Chissà perché gli viene alla mente Superga,
sciogliendo mezza preghiera e le ultime paure quando i
carrelli atterrano il sogno ragazzo nel cuore
dell'Europa. Non poteva esserci altro cerimoniere più
impettito del sole ad accogliere sulla scaletta
dell'aereo i figli della Vecchia Signora giunti dalla
parte più bassa dell'italico calzare. Avellino, Foggia,
Matera, ed oggi più che mai anche Anzio è meridionale.
Lorenzo si unisce subito al coro a squarciagola: "E'
ora, è ora, la coppa alla Signora...". Poi, le anime
sbarcate sul suolo delle Fiandre si confondono presto in
promessi appuntamenti e negli affollati itinerari in
mezzo alle carezze delle loro bandiere. Un fischietto
assale i timpani, impossibile spegnere il fiato a quel
ragazzino scatenato dal trucco zebrato. Il primo grande
pullman grigio sul piazzale raccoglie gli attimi ed i
bagagli indimenticabili di esaltati e smarriti in questo
carnevale posticipato. Anversa è l'anticamera del sogno.
Un letto d'albergo, lenzuola bianche e stirate, intanto
la mente spia al di là dell'armadio cabinato il vasto
lido di Anzio. La nostalgia di sera, è nota canaglia...
Meglio scendere subito al bar e stenderla al tappeto,
appena risorta dalla bianca spuma del mare in quella di
una grande birra chiara. "Di dove sei ?": sente
chiedersi al di là del vetro spesso del boccale mentre
il suo naso è intinto di bianco. "Di Anzio !": risponde
perentorio con orgoglio al ragazzo accanto, col braccio
posato sul bancone. "Io vengo da Foggia": aggiunse
quello, sorridendo. "Una bella passeggiata !": ghignò
Lorenzo, causticamente. "Per la Juve questo e altro !":
commentò di botto, entusiasta, il giovane dauno. "Vuoi
una birra ?": gli chiese Lorenzo. "Grazie !": accettando
con un mezzo inchino, compiaciuto. "E di che, fra
gobbi..." E così, chiacchierarono allegramente per tutta
la serata, di sconfitte e vittorie, donne e motori, alla
sacra vigilia della madre di tutte le partite. Poi,
dirigendosi ognuno nella sua camera, sfiancati
dall'alcool e dalla baldoria, augurandosi la
"buonanotte" si arresero al sogno della grande Coppa.
E' molto bella Bruxelles, così
diversa da Roma, sembra una bomboniera di porcellana la
"Grand Place". Fa un gran caldo, ma questi belgi hanno
sguardi freddi, sembrano automi. "Chissà in Italia i
miei cosa staranno facendo": prima di telefonare a casa
da una cabina, si domandava Lorenzo, distaccandosi dal
suo gruppo, in vena di foto ricordo ed in cerca di
souvenir. Poi, da lontano, improvviso un urlo di guerra
travestito da canzone: "Liverpool, Liverpool..."
"Arrivano gli inglesi !!": intimorito, strillava uno dei
ragazzi più piccoli. Avranno anche la fama che hanno, ma
non sembravano tanto minacciosi. Inveivano, ma senza
cattiveria, verso il gruppo molto più numeroso dei
bianconeri che si compattarono subito coraggiosamente
rispondendo ritmicamente forsennati: "Juve ! Juve ! Juve
! Juve ! ". Finì lì... Almeno per il momento... Anzi
qualcuno di loro scambiò persino la sciarpa con alcuni
italiani. Sembrava quasi un miracolo, nonostante i cocci
di bottiglia rotti e le vetrine infrante. "Madonna che
caldo questa Bruxelles": esclamò Lorenzo all'amico che
rideva di gusto al balletto di un vecchio inglese
sbronzo e sdentato, di verde tatuato su tutto il corpo.
Un biondo avanzo di galera, di certo non proprio
l'orgoglio della Thatcher e della Regina Madre. Gli
battevano le mani freneticamente tutti assieme, inglesi
e italiani, come ad una scimmia ammaestrata. "E' proprio
un circo l'umanità", pensò Lorenzo ad alta voce.
Qualcuno annuì, altri risero, eccitati. Lo schizzo
improvviso del vomito dell'ubriacone calò bruscamente il
sipario allo squallido teatrino albionico. Si scansarono
tutti, schifati, lasciandolo in terra da solo a tossire
ed a sputare sulle pietre come una lucertola con la coda
tagliata. "Andiamo, è meglio incamminarsi verso lo
stadio": sentì dire fermamente Lorenzo da un capo
comitiva alle sue spalle. "E' ora, è ora, la Coppa alla
Signora": tuonò di riflesso eccitato l'intero gruppo dei
tifosi meridionali, incamminandosi fra gli applausi
spontanei degli altri juventini isolatamente sparsi
nella "Grand Place". La fermata della metro aveva lo
stesso nome evocato da più di un mese, quasi fosse
quello di un santo, "Heysel", proprio come lo stadio.
"Scendere ! Siamo arrivati..." Lorenzo, in un brivido
realizzò "finalmente": dopo tutta quella strada e due
pedalini arroventati era a poche centinaia di metri dal
sogno. Il piazzale dell'antistadio si tinse in pochi
attimi di bianco e di nero. Qualche residua sciarpa
rossa sembrava stonare nell'orgia non immorale di quei
colori. Tacquero d'un colpo, al suono rauco delle trombe
tutti gli altri pensieri. Un popolo in cammino come un
esercito che si preparava alla battaglia ed alla gloria,
in nome del football, si disponeva in fila ordinato,
davanti alle porte di entrata nel campo. Le voci
sommesse di laidi bagarini insidiavano i dialetti di
tutte le regioni, quei sorrisi di anziani e giovani
mescolati e più felici dei loro stessi bambini. Tutti
quanti figli della stessa madre, fratelli e amanti della
stessa compagna.
Era la Juve, principio e
termine dei loro affanni, spasmo dei loro orgasmi,
l'onore da difendere, una bandiera a due colori da
sventolare in barba alle stagioni ed agli umori, ai
rovesci delle sorti individuali, imbianchini o principi
ereditari. Un delirio la coda davanti all'unico
ingresso, ancora più stretto della porta del paradiso.
Faceva troppo caldo anche per i cani poliziotto dei
gendarmi belgi sempre più nervosi che abbaiavano a
comando di tanto in tanto. Alla perquisizione li
setacciarono quanto noti lestofanti, con quelle facce
inespressive da merluzzi, un po' ebeti. Gli mancavano
persino i baffoni e certe facce sornione dei nostri
celerini la domenica, il ruminare delle loro gomme da
masticare fra gli accenti aperti del verbo di quel
medesimo sud che sforna le pizze, i carabinieri e la
mafia, che coltiva i pomodori e raccomanda i figli ai
concorsi e per un posto fisso in banca. "Sembra la coda
per timbrare all'ufficio di collocamento": pensa fra sé,
Lorenzo. E fra uno spintone e l'altro, con il suo nuovo
amico, storditi dall'emozione, sono finalmente
all'interno del settore Z: "Juve ! Juve ! Juve ! Juve !
Juve !". Bruxelles, 29 maggio 1985, il vetusto stadio
Heysel è come la valle di Giosafat. Non suonano le
trombe del giudizio universale, ma quelle dei tifosi
della Goeba. Bandiere bianconere sbattono sulle loro
facce mentre cercano un posto "buono" sulla gradinata
spinti da quel vento mite di Primavera che le agita.
"Juve ! Juve ! Juve ! Juve ! Juve !". Un mantra di una
religione politeista. Un dogma di fede che nessun' altro
all'infuori degli adepti potrà comprendere, né sarebbe
mai possibile spiegare con parole. Subliminale
l'istinto, anche in Lorenzo, di spiegare alto nel cielo
il suo canto di fedele bianconero abbandonandosi
all'apoteosi sugli spalti invasati. Bruxelles, 29 maggio
1985, il vetusto stadio Heysel è come la valle di
Giosafat. Non suonano le trombe del giudizio universale,
ma quelle dei tifosi della Goeba. Bandiere bianconere
sbattono sulle loro facce mentre cercano un posto
"buono" sulla gradinata spinti da quel vento mite di
Primavera che le agita. "Juve ! Juve ! Juve ! Juve !
Juve !". Un mantra di una religione politeista. Un dogma
di fede che nessun' altro all'infuori degli adepti potrà
comprendere, né sarebbe mai possibile spiegare con
parole. Subliminale l'istinto, anche in Lorenzo, di
spiegare alto nel cielo il suo canto di fedele
bianconero abbandonandosi all'apoteosi sugli spalti
invasati. Caldo opprimente, la curva oramai è gremita
all'inverosimile. Sono le sette passate di sera. "Ma
cosa avranno tanto da fischiare quegli ubriaconi di
merda, perché ce l'hanno con noi, non gli abbiamo fatto
niente !?". Impressionato dalle parole di Lorenzo,
l'amico rabbuiandosi gli fa da eco, subito: "Ma che
cazzo fanno quei pochi poliziotti là in mezzo, se ne
vanno ?" Una infame pioggia di ferro e di pietre è solo
il preludio all'assalto. "Attaccano !!", piangente una
ragazza con le mani a guardia del seno, ci viene addosso
correndo terrorizzata, prima di una fiumana di persone.
"Scappiamo !" ..."Via di qua !"... "Allontanatevi !"...
"Madonna, dio"..."Bastardi !!"..."Aiuto !". Il tonfo
sordo d'una lattina piena di birra annuncia il crollo
pesante di un uomo in terra con la fronte insanguinata.
Alcuni tifosi inciampano sul suo corpo, a catena. Gli
inglesi sono più vicini e sferrano calci e sprangate a
destra, a manca, su tutto quello che si muove colorato
di bianco e nero. Lorenzo pressato da ogni parte si
accorge che ha smarrito il gruppo e sente mancargli il
respiro.
"È la causa e non
semplicemente la morte che crea un martire" (Napoleone
Bonaparte)
29/05/1985 Finale di Coppa dei
Campioni Juventus-Liverpool Stadio "Heysel" di
Bruxelles, Belgio. "Il Liverpool è forte, ma noi
sappiamo di poterlo battere" - disse Platini. "Ci
eravamo già riusciti a Gennaio, al Comunale di Torino,
quando si giocò col pallone rosso dopo un’incredibile
nevicata. Boniek fu magnifico, quella sera. Due a zero
per noi e doppietta di Zibì, così vincemmo la Supercoppa".
GRAND PLACE
Alle dieci di mattina del 29
maggio 1985, la Grande Place di Bruxelles era già una
moquette di vetri spezzati. Gli inglesi bivaccavano
ovunque. Molti dormivano per terra sfiniti usando come
cuscini i cartoni di birra, scatoloni ormai mezzi vuoti
dopo una lunga notte di bevute e pisciate, e le
bottiglie svuotate venivano lanciate in terra come bombe
a mano, oppure in aria, per gioco. La struttura
dell’Atomo, che campeggiava dietro la collinetta che si
affacciava sulla curva Z, era un’enorme installazione di
acciaio, piena di scale mobili e vetrate, che si
stagliavano in un cielo di un azzurro vivido e irreale.
Tale costruzione futuristica avrebbe dovuto celebrare la
maestosità dell’ingegno e dello scibile umano. Un
azzardo quasi blasfemo col senno di poi. Era una
bellissima giornata, il sole splendeva sereno e la
temperatura era discretamente alta. Nelle numerose
piazze di Bruxelles tutto era uno sventolio di bandiere
e sciarpe, ora bianconere juventine, ora rosso fuoco del
Liverpool. I roboanti canti dei tifosi inglesi
riecheggiavano nelle strade di Bruxelles e si
confondevano con i canti più disordinati e occasionali
dei tifosi italiani. inglesi e italiani erano
promiscuamente liberi di frequentarsi: l’atmosfera era
amichevole, con risate, scherzi, scambi di sciarpe e
reciproco rispetto a tener banco.
PROLOGO DI UN MASSACRO
Verso le 16 migliaia di tifosi
juventini sono accalcati in paziente attesa
dell’apertura dei cancelli della curva riservata agli
ultras e ai club organizzati provenienti dall’Italia
(diametralmente opposta al settore Z). Il primo sintomo
di irritazione avviene proprio in quei momenti. Sono ore
che aspettano sotto il sole che quei cancelli vengano
aperti. Ma questo non pare essere un eccessivo problema,
se non fosse stato per la polizia belga. Polizia che
pensò bene di non rinunciare al suo pittoresco aspetto,
presentandosi - in mezzo a migliaia di persone - a
cavallo… E questi cavalli che pattugliavano in mezzo ai
tifosi, ovviamente irritati da tanto chiasso e tante
persone, sbuffavano e scalciavano, provocando ondate di
movimento da parte dei tifosi, senza contare gli
escrementi lasciati a pochi centimetri dagli stessi. I
pochi gendarmi a piedi si aggiravano spaesati e
disorientati brandendo improbabili bastoni di legno. Lo
stadio di Bruxelles si distingue per la sua fatiscenza:
decrepita, anacronistica, colpevole come e quanto la
Uefa di averla prescelta come sede di una finale tanto
sentita. The Match of the Century !, "La Sfida del
Secolo !" come tuonavano a nove colonne i tabloid e i
mags inglesi sparsi, stracciati e appallottolati di
escrementi, sul selciato del piazzale dell’antistadio.
Alcuni tifosi inglesi, battendo fortemente il tacco
della scarpa sui gradoni, staccavano facilmente pezzi di
pietre e mattoni, imbottendosi le tasche di proiettili.
Inoltre lo stadio era fortemente affossato rispetto al
livello latitudinale della strada, in quanto il terreno
di gioco si estendeva all’interno di una conca sotto una
collina, ragion per cui il muretto di cinta che separava
la curva dai cancelli d’ingresso veniva scavalcato con
irrisoria tranquillità, sotto l’occhio ebetico e
impotente delle poche decine di gendarmi belgi. C’erano
inglesi che venivano fatti entrare tranquillamente senza
perquisizioni. Alcuni entravano in massa con spranghe e
pezzi di cemento divelti nel piazzale dell’ingresso al
settore Z. Altri trasportando casse intere di birra e
bottiglie di alcolici. Molti sprovvisti di biglietto o
con tagliandi di altri settori scavalcarono o sfondarono
i portoni di legno delle curve. Un servizio d’ordine
ideale per una finale di così grande importanza !
SETTORE "Z"
Il cielo dietro il settore Z
era arancione, pareva il riverbero del rosso delle
bandiere inglesi, delle suggestive sciarpate, delle
maglie, delle canotte, delle pitture sui volti
stralunati dei famigerati "Reds", i tifosi del
Liverpool, conosciuti, temuti e rispettati in tutta
Europa per la loro fama di Firm passionale, violento e
aggressivo. La curva Z è un’immensa marea rossa. I canti
tornano ad echeggiare dentro lo stadio, questa volta più
forti di prima e la festa continua, bellissima più che
mai: "You’ll Never Walk Alone!". È un ruggito. È il
bello del tifo inglese. I Reds erano stati ammirati solo
un anno prima, all’Olimpico di Roma, in occasione della
finale di Coppa dei Campioni contro la Roma di Falcao,
Conti e Di Bartolomei. Persa da quest’ultimi a seguito
di una drammatica lotteria di rigori. Anche lì gli
hooligan si erano fatti ammirare per il colore, la
compattezza nei cori, l’imponenza del proprio essere.
Uno spettacolo nello spettacolo di un Olimpico
giallorosso gremito e catartico come non mai. Anche lì
gli inglesi si erano dimostrati violenti e pericolosi
nelle giornate di scontri che avevano incendiato la
capitale d’Italia. Ma lì gli scontri erano stati fra
fazioni consenzienti. Fra hooligan e ultras romanisti. E
pare che le cronache raccontassero che i famigerati
hools d’oltremanica non sempre avessero la meglio. Anzi.
Ma all’Heysel la situazione non era la stessa. Non
sarebbe potuta essere la stessa cosa. Non c’erano i
presupposti affinché si verificassero scontri fra
"pari". C’erano solo i presupposti per un cieco e
colpevole massacro di innocenti. Venne proposta una
partitella fra ragazzini. Casualmente indossavano tenute
bianche e nere da una parte e rosse dall’altra.
Ovviamente gli juventini parteggiavano per quelli in
maglia bianca, viceversa i tifosi del Liverpool per i
ragazzi in maglia rossa. Nel bel mezzo della partitella
un razzo partì dal settore riservato agli inglesi per
giungere in quello riservato ai tifosi italiani. Gli
juventini erano in numero nettamente superiore. Per
questo motivo, che si rivelerà fatale, venne deciso che
la curva Z fosse divisa in due e separata da una
semplice doppia rete metallica, in maniera da accogliere
gli spettatori italiani in eccesso. In quella zona (in
particolare il cosiddetto settore Z che non sarebbe mai
dovuto esistere) prese posto il maggior numero di
famiglie italiane e belga, centinaia di emigrati, gente
proveniente con agenzie sub-relegate da tutta Italia,
specie dal sud e dal centro, qualche torinese che non
era riuscito a trovare posto coi suoi amici e fu mandato
in quel settore già dalle agenzie di viaggio
dall’Italia. Qualche altro infine, più sfortunato, che
fu dirottato lì sul posto. Alcuni sopravvissuti
narreranno poi che, dalla foga e dall’emozione, avevano
letto sul biglietto d’ingresso settore "Z" anziché "N" e
solo all’ultimo, accortisi della svista, avessero
cambiato destinazione. Intuizione quanto mai
provvidenziale. Il tifo organizzato, i Fighters e tutti
gli altri gruppi più decisi e violenti della tifoseria
bianconera erano sistemati nella parte opposta: nei
settori O, N ed M.
TAKE THE END
Alle 7 di sera si stava
benissimo dentro lo stadio Heysel, c’era un fresco
primaverile e le bandiere garrivano nel cielo azzurro.
Un’orgia di colori e cori. Ma l’arrivo di quel razzo nel
settore juventino aveva provocato uno spostamento di
massa per allontanarsi dai tifosi inglesi. Ma lì sembrò
finire. Gli italiani invece pensarono bene di
riavvicinarsi per inveire contro gli inglesi,
scagliandosi contro le reti che li dividevano. La
provocazione verbale partì dai supporter inglesi
ubriachi. Una risposta ci fu da parte di 2/3 ragazzetti
di 10/11 anni l’uno che tirarono qualche carta di
giornale e qualche sassolino al di là della fragile
recinzione: una rete da pollaio a dividere le due
tifoserie con 4/5 poliziotti a fare da pseudo-cordone.
Il resto della gente guardava seduta e divertita. Gli
hooligan si scagliarono a loro volta contro le reti,
reti che ben presto caddero. Partirono tre cariche a
onda al grido di "take the end, take the end !" con un
intervallo di 1/2 minuti tra avanzata e ritirata. Alla
seconda carica la gente era già ammassata contro il
muretto. La terza fu solo per schiacciarli
definitivamente. Durante la prima qualcuno trovò scampo
nei canaloni affianco ai gradini. Altri schiacciati e
altri ancora caddero dal muretto. Le due tifoserie, o
meglio, gli hooligan e le famiglie italiane, vennero a
contatto. Queste non poterono far altro che fuggire di
fronte alla furia degli inglesi, accalcandosi verso il
muretto inferiore dello stadio, schiacciando e
soffocando quelle che già si trovavano verso il basso.
Forse se ci fossero stati gli ultras bianconeri,
paradossalmente, la tragedia non si sarebbe verificata,
perlomeno in siffatte proporzioni. Tutto, forse, si
sarebbe esaurito in un cruento scontro fra pari, con
feriti e forse qualcosa di più, ma nulla avrebbe causato
l’effetto rinculo e il crollo del muretto.
BLOODBATH, BAGNO DI SANGUE
La prima onda sembrò quasi
un’illusione ottica, come se l’Heysel fosse un setaccio
e qualcuno lo stesse agitando dall’alto con due immense
mani imbrattate di sangue. I rossi si spostavano verso i
bianconeri, ritmicamente, a orda, dal punto più lontano
a quello più vicino alla tribuna centrale. E nell’aria
volavano clave, aste, bottiglie di vetro e persino
qualche mattone che la polizia belga non aveva pensato
di rimuovere. Molti italiani vennero colpiti in uno
contro dieci dai Reds e gettati contro le balaustre
divelte. Due o tre persone rimasero squartate… Mentre
tutti si accalcavano verso il muretto, sugli spalti
c’era campo libero e alcuni, tra i Reds, continuavano a
inveire sulle persone a terra. Bandiere e striscioni
bianconeri furono stracciati e dati alle fiamme. Le
sciarpe della Juve celebrate come cimeli di guerra. I
tifosi italiani cercavano scampo ovunque, alcuni si
salvarono salendo sulle impalcature in cima alla curva,
altri camminando sui corpi di chi era stato già
sopraffatto dalla prima ondata omicida. I gendarmi,
anziché soccorrere e proteggere gli italiani che
cercavano scampo sulla pista di atletica e sul terreno
di gioco, iniziarono a manganellare alla cieca
contribuendo a innalzare il panico e la confusione. La
seconda e la terza ondata fecero crollare il muretto
alla base del settore Z (gli inglesi attaccavano dai
settori Y e X), e le persone si rotolarono addosso.
Tutti morirono per schiacciamento, soffocando,
calpestati. "Ci sono dei morti" fu la terrificante frase
che cominciò a circolare impazzita in tribuna stampa. Le
transenne, ormai travolte dalla folla, iniziarono ad
essere disposte sul campo come improvvisate e macabre
barelle. I corpi esanimi di tifosi senza scarpe e con il
ventre gonfio o squarciato vennero disposti in fila
dietro il muretto crollato e coperti pietosamente con
bandiere e striscioni bianconeri. Il bagno di sangue era
avvenuto. Una delle più immani tragedie mai verificatesi
in uno stadio di calcio europeo. Dal settore opposto non
si capì un granché. Sembravano solo tre cariche e
neanche pericolose, visto che gli inglesi non caricavano
all’italiana. Ma avanzavano e indietreggiavano a ondate:
più che altro a scopo che da lì, dall’altra curva,
appariva "dimostrativo", esercitando la pratica rituale
del "take the end", ovvero, della conquista della curva
avversaria. Dalla curva dei Fighters quelle cariche
"strane" sembravano solo "piccoli contatti" che si
risolvevano con gente "normale", non ultras, che cercava
scampo sul prato. Ma ad un tratto, piano piano, si
diffuse qualche notizia (non c’erano telefonini, né
radioline italiane) che parlava di scontri gravi e di
alcuni morti fra i tifosi italiani. La curva dei
Fighters, degli Indians e della GBN (Gioventù
Bianconera) perse la testa. Si videro decine di giovani
che si coprivano il viso con sciarpe, magliette, foulard
e passamontagna. Il clima di festa e partecipazione
all’attesa dell’evento si tramutò in tensione violenta,
palpabile, vendicativa. Si armarono sciami di ragazzi
con i sassi divelti dalle gradinate fatiscenti a botta
di calci e sprangate. La rete di recinzione fu
scardinata e dal grosso buco decine di juventini
penetrarono sulla pista di atletica travolgendo i militi
belgi che vanamente cercavano di opporsi all’invasione.
Chi brandendo aste delle bandiere e dei bandieroni che
venivano mulinate nel cielo, altri con cinte e bottiglie
di vetro, iniziarono a scaramucciare con i gendarmi e
con gli avamposti di inglesi che stazionavano nei
settori adiacenti del rettilineo centrale di fronte alla
tribuna stampa. Intervenne più volte la gendarmeria
cercando di dissuadere le due fazioni in lotta e
disperdere i facinorosi. Andò avanti così per minuti che
sembravano interminabili, con le immagini degli scontri
trasmesse in diretta in Eurovisione. Mentre sul secondo
canale italiano, la nazionale azzurra, priva dei
titolari bianconeri, disputava un’inutile e inerte
amichevole a Puebla contro gli Stati Uniti per
acclimatarsi alle alture messicane in vista del Mundial
di Mexico ‘86. Ad un tratto sulla pista di atletica,
sotto la curva bianconera in tumulto, si fece largo un
giovane che indossava un giubbino verde e dei jeans.
Tirò fuori una pistola e la puntò minacciosamente contro
i gendarmi e la curva inglese. Si saprà poi che era una
scacciacani. Divenne una delle immagini emblematiche di
quella notte di follia collettiva. Un fotografo inglese,
un biondino con la maglia della nazionale dei bianchi,
fu colpito da una sassata sulla testa che iniziò
copiosamente ad eruttare sangue zampillante. Per giunta
fu anche numerosamente manganellato dalla polizia. Sono
solo alcuni fotogrammi dalla tragedia. Miliardi di altri
rimarranno per sempre impressi nella memoria di chi
c’era e di chi vide da casa. Di nuovo si cercò una
carica verso gli inglesi organizzata da una cinquantina
di persone che però furono fermate subito. Fu allora che
uscì fuori anche lo striscione "Reds animals", dietro il
quale i Fighters improvvisarono un corteo, fitto di
braccia tese e volti coperti, anch’esso stoppato
all’inizio del rettilineo centrale sulla pista di
atletica.
SURREALE REALTÀ
Gianni Agnelli, giunto poco
dopo la strage in auto sotto la tribuna Vip, fu invitato
dai dirigenti della Juve, della UEFA e del governo belga
a tornare in fretta in albergo. Suo figlio Edoardo, in
smoking e sciarpa bianconera, dapprima stravolto e
incredulo sul prato ad osservare i cadaveri, si accasciò
stremato sulle scale degli spogliatoi. I giornalisti
italiani furono assediati dai compatrioti scampati alla
strage che, con ancora l’orrore negli occhi, li
pregavano di comunicare alle loro famiglie in Italia che
stavano bene. Quelli inglesi si chiusero in un
rispettoso silenzio. La partita non si doveva giocare,
dissero in molti. Per rispetto di tutti quei morti e
feriti che giacevano a pochi metri dalle loro scrivanie,
dalle loro macchine da scrivere. Ma come si poteva fare
per evacuare un impianto che ormai di sportivo non aveva
nulla ? Era un immenso campo di battaglia, gravido di
violenza pronta a detonare. Gli inglesi, come placati,
si erano sistemati sulle gradinate della morte,
bivaccando fra le macerie e le bottiglie rotte. Come se
nulla fosse, ricominciarono a cantare e a chiedere,
impazienti, l’inizio del match. Poi, ad un tratto,
dall’altoparlante, si udì una specie di sospiro. La voce
di Gaetano Scirea, capitano della Juventus, sussurrò nel
microfono dell’altoparlante: "la partita verrà giocata
per consentire alle forze dell’ordine di organizzare
l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete
alle provocazioni. Giochiamo per voi". Parlò poi anche
Neal, il capitano del Liverpool, da quello stesso
microfono. Entrambi asserragliati dentro il gabbiotto
dello speaker dello stadio Heysel. Lesse lo stesso
annuncio di Scirea, ma con una gravità nell’intonazione
tutta britannica, inesorabilmente devoto ad un aplomb
macchiato dal senso di colpa nauseabondo per ciò che i
"suoi" tifosi avevano fatto. E che in seguito lo
costringerà ad abbandonare il calcio giocato.
LA PARTITA DEL SECOLO
Vinse la Juve, grazie a un
rigore inesistente. Minuto 58° di una gara che ristagna
a centrocampo. Disputata da atleti molli, stravolti e
bloccati dalla paura. Fallo di Gillespie su Boniek,
abbondantemente fuori area. Il titubante arbitro
svizzero Daina, risoluto per l’unica volta durante tutto
il match, indica il dischetto fra le fragili proteste
dei giocatori del Liverpool. A battere il rigore si
presenta il numero dieci transalpino. È il minuto 60 di
una finale iniziata con un ritardo pesante come il
piombo. Grobbelar, il pirotecnico e folcloristico
portiere sudafricano dei Reds, che l’anno prima fra
manfrine e sceneggiate era riuscito ad ipnotizzare prima
Conti e poi Graziani, fu superato dal gol di Platini.
Esultanza surreale. In uno stadio a forma di bara. Dopo
qualche minuto Bonini atterrerà Whelan in piena area
bianconera. Daina, risoluto come prima e più di prima,
farà correre. Qualche secondo prima del 90°, il
direttore di gara elvetico bloccherà la palla con le
mani nel cerchio di centrocampo e sancirà la fine di una
gara senza storia. Era appena terminata la partita del
secolo. Una delle più buie, tristi e brutte partite
della storia del calcio. Davanti alla tribuna stavano i
morti in fila, i morenti, i feriti. Le transenne vennero
usate come barelle da medici che tentavano tracheotomie.
C’era tanto sangue, e gole aperte. Assurdi gendarmi a
cavallo andavano su e giù roteando i manganelli come in
una comica di Ridolini. La tv non diede l’esatta misura
della mostruosità. La voce stentorea di Bruno Pizzul era
entrata in tutte le case italiane con un tatto profondo
al limite dell’omissione della verità, fino a quando non
dovette ammettere che: "purtroppo una terribile notizia
è giunta qui in tribuna stampa. Ci sono dei morti, pare
cinque o sei… forse otto…".