Aveva 11 anni, Andrea. L’età in cui
il calcio è ancora la musica della propria vita. L’età
in cui il calcio è ancora la misura della propria gioia.
Andava in quinta elementare, Andrea. L’ultimo anno di
scuola dove ti senti bambino. Che poi con le medie si
diventa grandi. Ti cambiano i quaderni. Ti cambiano i
sogni. Era tecnologico, Andrea. Sicuro al timone del suo
computerino. Un Vic-20 che già gli andava stretto. Era
ingegnoso, Andrea. Pile e intreccio di fili per
costruire il suo campanello personale. Driiiin. Per
entrare in camera sua, si prega di suonare. Quante volte
Andrea avrà detto ai suoi "Scendo a giocare a pallone in
cortile". Che così si dice, da bambini, "pallone". Il
calcio è per i grandi. Quante volte avrà appoggiato il
suo maglione per terra Andrea, a mo’ di palo, inventando
una porta precaria, dentro a un pomeriggio di inizio
primavera, che di fare i compiti oggi non se ne parla,
oggi si gioca a pallone. Il garage va bene d’inverno,
c’è una tettoia sporgente che ripara dalla pioggia. Ma è
uno strazio, ogni volta che esce o entra una macchina
bisogna fermarsi. Come quando mandano gli spot durante
la partita in tv. Ma è solo una Smart. Poi cross dalla
rampa e gol di sinistro, all’incrocio dei tubi della
grondaia. Col primo sole si scappa a giocare sul prato
vicino casa, vuoi mettere. Puoi tuffarti buttarti
correre urlare. E provare la rovesciata. E entrare in
scivolata. Come i grandi. Via i jeans però, sotto Andrea
ha già i pantaloncini. I pantaloncini da calcio sono la
biancheria intima dei bambini. Così niente macchie. E
mamma non si arrabbia. Al massimo sbucciature
rosso-verdi sulle ginocchia. Le stimmate del giocatore
senza paura. Vorrai mica tornare a casa senza un graffio
? Poi c’è la scuola calcio. Intitolata a un signore che
in Sardegna è un mito più che altrove. Gigi Riva. Rombo
di tuono. Rivarombodituono. Tanto che fin da piccoli a
ogni temporale ti viene in mente lui, mica pensi alla
pioggia. La scuola calcio dove impari a misurare
l’istinto. Dove mettono ordine dentro al tuo entusiasmo.
Dove cominci a sentirti un po’ più grande. Col pallone
di cuoio e le scarpette da calcio vere. Che sul prato si
gioca con le Superga e il Supertele. "Papà, se la Juve
va in finale mi porti, mi porti ?".A casa Andrea aveva appena finito di aprire quei
nuovi 10 pacchetti di figurine arrivati in regalo come
una benedizione. Quest’anno è andata alla grande. Gli
mancano solo 2 figurine per finire l’album dei
"Calciatori" 1984/85. È la prima volta. Soltanto due !
L’odore di un pacchetto di figurine che si apre è un
soffio dolce sul viso. È una promessa. Ce l’ho, ce l’ho,
ce l’ho, ce l'ho... Per forza Andrea, ce le hai tutte, o
quasi, ormai. Al nono pacchetto la sorte è benevola.
"... mi manca !!!". Adesso ad Andrea ne manca solo una
di figurina, per finire l’album. Soltanto una. Manco a
farlo apposta proprio quella sera a Bordeaux la Juventus
si qualifica per la finale. Per la finale di Coppa dei
Campioni. La finale di calcio. Quello dei grandi. In
Sardegna il sole è già possente, lo stempera il vento,
che si infila dentro a una luce che profuma d’estate. Le
onde che sbattono sul porto di Cagliari infilano iodio
nell’aria e invogliano a correre. Correre dietro a un
pallone, magari. Di cuoio o di plastica. Driiin. Quando
il papà dice ad Andrea che è riuscito nel miracolo di
trovare due biglietti per la finale di Bruxelles, e che
ci andranno insieme, lui non sta più nella pelle. Gli
sale dentro un’emozione profonda e sconosciuta.
Juventus-Liverpool, una delle partite più importanti
della storia della Juventus, lui se la vedrà dal vivo,
col suo papà. Andrea è già stato allo stadio, al
Sant’Elia di Cagliari, ma stavolta sarà diverso. Sarà a
Bruxelles. Alla finale di Coppa dei Campioni. Dentro lo
stadio che tutto il mondo quella sera guarderà. Nemmeno
100 pacchetti di figurine, o 10 partite sul campo dei
grandi gli farebbero lo stesso effetto.
Nemmeno 10 goal all’incrocio
dei tubi, e 10 rovesciate perfette, sul prato vicino
casa. Andrea lo racconta ai suoi compagni di squadra,
che andrà a Bruxelles. Che andrà a vedere la Juve. La
finale. Lo racconta ai suoi compagni di quinta, che
andrà all’Heysel. Sorrisi, e pacche sulle spalle. E
"Beato te". E "Accidenti !". E "Posso venire con voi ?".
Andrea conta i giorni, come fosse dicembre aspettando
Natale. E quando finalmente Natale arriva, a Bruxelles è
quasi estate. Il cielo è di un azzurro intenso, e la
luce è fortissima. Mano nella mano con il suo papà,
Andrea si mangia con gli occhi la stazione, il taxi, le
strade. Conta le bandiere bianconere, legge le insegne
dei negozi, esamina attentamente le marche delle auto.
Chissà dove giocano a pallone, qui a Bruxelles, i
bambini come me. Chissà se anche loro fanno i cross
dalla rampa, o hanno dei campetti tutti per loro. Chissà
se sanno chi è Gigi Riva, qui a Bruxelles. Quando entra
dentro lo stadio Andrea ha un groppo alla gola. Si
riannoda il fazzoletto bianconero che ha al collo, nel
timore di perderlo, e comincia a fissare lo stadio. Come
fosse un giocattolo immenso. E i tifosi della Juventus,
che dall’altra curva intonano già il loro "Juve-Juve"
secco e deciso, gli regalano un primo sottile brivido.
Andrea si sente già un po’ più grande, dentro a quello
stadio, che gli sembra sterminato. E gli sale dentro
un’emozione dolce. L’emozione di un bambino. Con
l’emozione sale anche la fame. Il papà di Andrea sorride
e tira fuori un sacchetto giallo, di cioccolatini
bicolore. "Che qui sono buonissimi, sai Andrea ?
Facciamoceli bastare...". La merenda al cacao delle 6 si
scioglie in bocca. Quando sente le urla a pochi metri da
lui Andrea non capisce, pensa che sia qualche tifoso un
po’ più vivace degli altri. E poi quello fondente
ripieno è troppo buono.