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GIUSEPPINA CONTI ♥
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Giuseppina Conti ❤ (Il Racconto)
   Giuseppina Conti   39 Angeli   Roberto Lorentini   Cerimonie di Arezzo   In Memoriam   
ITALIA   26-01-1968   Rigutino (AR)   Anni 17

29 MAGGIO 1985

di Pietro Verzì

Giuseppina ha sedici anni, è una ragazzina che ama sorridere, ha l’accento aretino, la passione per il giornalismo sportivo e quello per la sua squadra del cuore. A Bruxelles è una bella giornata, sole, caldo, il cielo è limpido, rosato, diverso da come Jacques Brel descrive il Belgio nelle sue canzoni. Sullo sfondo del duomo di Grand Place, Antonio, suo papà, le scatta una fotografia, lei veste una bandiera legata al collo, un cappellino in testa, un sorriso, le mani levate al cielo in segno di vittoria. Un giro in centro e poi tutti sull’ autobus, direzione stadio, c’è la partita dell’anno. L’Heysel vede la luce all’inizio degli anni ’30, prende il nome dall’omonima zona. Un’immensa pianura verde gli fa da cornice, ed è un’immagine che sa essere seducente. Il rosso dei "Reds" è il riverbero che esalta i colori del tramonto, quell’inconfondibile crepuscolo delle finali di maggio che illumina migliaia di vessilli fino a tarda sera, sono i colori della finale di coppa dei campioni. Papà Antonio ha 42 anni, indossa un maglioncino rosso con dentro una camicia bianca, fisico mingherlino, fede all’anulare, pochi capelli. Sul biglietto d’ingresso si legge Settore Z, che sembra più il nome di una zona off limits di un film di fantascienza. Una sottile rete metallica, separa gli inglesi dagli italiani, i tifosi del Liverpool sono tanti, e sembrano essere sempre di più. Cantano, urlano, bevono. Vicino alla Z, c’è la tribuna d’onore, c’è Charlton, Cruijff, Bruno Pizzul commenterà la diretta su Rai2. Non molto distante da Giuseppina, siede un signore che ha una barba fine, ben curata, è un uomo alto ed ha una pancia enorme, assomiglia un po’ a Pavarotti, più in là c’è un ragazzino di diciassette anni, sciarpa al collo, occhiali da vista, toscano, si chiama Matteo. Giuseppina legge sul tabellone: "Bienvenue au Stade du Heysel", manca un’ora al fischio d’inizio. All’improvviso, un sasso le sfiora una scarpa, si alzano dei fischi, volano bottiglie di vetro, spranghe di legno, qualche urlo, qualche parolaccia. Gli hooligans attaccano, caricano, ma Giuseppina non è un ultras, nel settore Z, non lo è nessuno. Ci sono postini, bidelli, medici, operai, meccanici, camerieri, muratori, elettricisti, barbieri, contadini, mamme. Qualcuno prova a trattare ma torna indietro oltraggiato, ferito. Si corre via, verso l’estremità. Antonio tiene per la mano quella che chiamerà sempre figliola, la ressa si appiglia ad un muretto, invoca un respiro poggiando una mano sullo sterno per trovare un po’ di spazio. La calce delle gradinate si sfalda con la fragilità della sabbia bagnata che però porta il peso del cemento ammarcito. Le persone si aggrappano alle persone. La gendarmeria guarda, le ringhiere si staccano, un tonfo. Antonio è sdraiato sull’asfalto, ha da poco ripreso coscienza, un plaid lo ripara dal freddo, qualcuno vicino a lui ha la testa poggiata su una valigia, qualcun altro è disteso sui sottili ferri di una transenna, lì non ci sono barelle o lettini di soccorso.

 

Guarda l’orologio, chiede in giro di Lei, nessuno dice di averla vista dopo quel fragore, la cerca tra la folla, riconosce una scarpetta bianca e blu che si intravede da sotto una coperta. Un giornalista filma la scena, Giuseppina conserva l’aria candida, serena, gli occhi chiusi, la bandiera al collo, i capelli castani ancora in ordine. Antonio, in quell’attimo, ha compreso, scorge l’abisso. Un tifoso inglese prova a fargli coraggio, si stringono in un abbraccio tra sconosciuti, ed è in quell’abbraccio che si ritrae il dolore più grande di un genitore. Matteo corre fuori dallo stadio, cerca un telefono, deve chiamare la sua famiglia. Niente internet, niente cellulari, ha il cuore che batte forte, perché qualche attimo prima quel cuore aveva quasi smesso di battere. Fuori da un elegante bistrot, incontra un signore dalla pelle nera, in braccio tiene una bimba con i capelli ricci, insieme, accompagnano Matteo al telefono pubblico della metropolitana, due monete, "mamma sono io. Sto bene, ci vediamo a casa". Il sole tramonta sull’Heysel. "Sign. Pizzul dica in tv che sto bene ! Mi chiamo Guido Ricci !". Si gioca. Trent’anni più tardi Matteo, rientrerà in quello stadio con la stessa sciarpa, rivedrà quel bistrot, camminerà sui suoi passi, non c’è più quella cabina telefonica, ma ha voluto accarezzare il muro che la conteneva. Oggi Giuseppina è una fotografia grande, bellissima, un po’ sbiadita, suo papà la tiene in bella mostra in salotto. È l’incontro tra un sorriso, qualche mezza lacrima, che in fondo è tutto quello che gli resta. Quel giorno, la coppa dei campioni, si denudò dello spettacolo, della gioia del gioco, del divertimento, per indossare le oscure vesti della violenza, della crudeltà, diventando pretesto di un olocausto, trasmesso in diretta tv. Quale mostro quella notte sparse il male tra gli incolpevoli, quale ladro rubò un sentimento come la pietà. Quel disgustoso senso di sconsideratezza che trasforma gli uomini in cani feroci dentro lo stadio… Cos’è una coppa dei campioni se paragonata al sangue innocente ? Trent’anni dopo, è come se una parte di me sia lì, sul colle dell’Heysel, ferma in preghiera, a piangere quel dolore che mi è stato raccontato, ed è a quel dolore che sarà legata per sempre una parte della mia passione per il calcio. Superga, Heysel, hanno cambiato il mio modo di considerare lo sport, proiettandolo in una dimensione più relativa, più giusta. Un giorno, se Dio vorrà, i miei figli correranno dietro ad un pallone. Quando saranno grandi mi chiederanno di andare allo stadio, prima però avranno un compito da svolgere, un valore importante da custodire. Dovranno imparare il rispetto, soprattutto nei confronti di chi se n’è andato a causa di una partita di calcio, da Superga, all’Heysel. Dovranno sapere di Matteo, di Giuseppina, di Antonio, del Grande Torino. Non bisogna aver paura di conoscere la verità, bisogna farsi coraggio, guardare negli occhi la sofferenza, farà male, deve far male. Quel giorno saremo più gentili, più umani, e sarà l’unica maniera affinché quel candore di Giuseppina dimori nei nostri cuori, perché quel sorriso non venga mai dimenticato. Fonte: Lattimoprimadelgol.wordpress.com © 29 maggio 2015 Fotografia: Famiglia Conti ©

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