Un ricordo dell’Heysel
di Francesco Savio
I
pomeriggi ospedalieri erano nettamente diversi da quelli
a cui ero abituato, a causa dell’assenza della
bicicletta e del calcio, del gelato e della salamina,
dei documentari e delle fotografie. La cosa che li
accomunava era invece la biligornia, uguale nella stanza
dell’ospedale come a casa. Per ingannare il tempo
aprivo, sopra il tavolino per mangiare a letto, un
quadernone a quadretti che conteneva le principali
manifestazioni calcistiche d’Europa, tutte svolte da me.
I vari campionati venivano disputati con il tiro dei
dadi che io stesso eseguivo, forte di una quasi totale
imparzialità. Solo un paio di volte, quando la squadra
per cui tifavo nella realtà così in prossimità del
successo da non poter lasciarselo sfuggire, avevo
barato. Prendendo come scusa un improbabile bilico di
dado, avevo rilanciato. Prima di farlo avevo osservato
il mio vicino di letto, un povero bambino al quale
dovevano allungare una gamba. Non capivo. Come si poteva
nascere con una gamba più corta dell’altra ? Eppure fin
da quando era venuto al mondo il bambino vicino era nato
con una gamba più corta dell’altra e periodicamente
doveva ricoverarsi in ospedale per fare operazioni,
fisioterapia, tutto per arrivare un giorno, forse, ad
avere due gambe lunghe uguali. Ora dormiva. Nessuno
avrebbe testimoniato, nessuno avrebbe saputo come erano
andate le cose, di questa piccola correzione in
semifinale. Alla fine la Juventus aveva vinto la Coppa
dei Campioni, ma avevo in lieve senso di colpa. Era
giusta questa vittoria ? Ogni tanto le infermiere
passavano e controllavano cosa stavo facendo, poi mi
chiedevano di illuminarle sulla possibilità di recupero
in campionato della Juventus, del Milan e dell’Inter.
Non gli rispondevo, ma le speranze erano poche. La
Juventus sembrava avere la testa altrove, le due
milanesi facevano fatica quell’anno e anche il Napoli di
Maradona non brillava. Lo scudetto pareva essere una
faccenda tra Verona e Torino. Comunque, si sarebbe visto
alla fine. Una sera da ingessato all’ospedale era la
sera della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e
Liverpool, 29 maggio 1985. La partita si giocava allo
stadio "Heysel" di Bruxelles. Non avevo la televisione
ma, grazie a Dio, il bambino "allungabile" vicino di
letto, abituato a lunghi soggiorni ospedalieri, sì.
Però, la teneva girata quasi totalmente dalla sua parte.
Sosteneva che io ero fortunato perché il mio braccio
sarebbe tornato normale mentre lui con le sue gambe
avrebbe sofferto per tutta la vita. Questa sua
affermazione mi aveva fatto venire immediatamente la
biligornia. Era l’undicesima operazione di allungamento
che faceva. Mi ero addormentato per non pensarci. Poi mi
ero risvegliato di soprassalto. Il bambino allungabile
mi aveva chiamato per dirmi che era successo qualcosa di
veramente brutto. La partita non cominciava più. Sullo
schermo scorrevano immagini orribili. Uomini schiacciati
da altri uomini tendevano le braccia disperatamente da
una delle curve di pietra dello stadio, verso qualcuno
che potesse aiutarli. Sembravano intrappolati con le
gambe. Io non capivo cosa stava succedendo e con il
bambino allungabile osservavamo il capitano del
Liverpool, Phil Neal, dire qualcosa in inglese dalla
cabina dello speaker. Non avevamo capito. Poi era
toccato al capitano della Juventus, Gaetano Scirea,
annunciare: "Giocheremo questa partita solo per
permettere alle Forze dell’ordine di riorganizzarsi. Non
rispondete alle provocazioni. State calmi, giocheremo".
Il telecronista Bruno Pizzul alternava lunghi silenzi a
frasi sconcertanti: "L’evento agonistico non ha più
importanza…". "Sono morte trentanove persone…".
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Giunta per la terza volta in
finale, ancora una volta la Juventus sembrava non
riuscire a vincere la Coppa dei Campioni, l’unica che le
mancava per diventare la prima squadra in Europa a
trionfare nelle tre manifestazioni calcistiche più
importanti del continente. I miei compagni di gioco,
pensavo, avrebbero tirato fuori la stessa storia
all’oratorio, che l’avvocato Agnelli pagava gli arbitri
ma riusciva a farlo solo in Italia, e per questo la Juve
non vinceva mai la Coppa più prestigiosa. Poi la partita
era iniziata, ma era così brutta che mi ero di nuovo
addormentato. Perfino Platini giocava male. "Ehi
sveglia! Sveglia! Rigore per la Juve ! Il bambino vicino
di letto mi aveva chiamato apposta e appena in tempo per
il rigore di Platini. Michel si era asciugato la fronte
dal sudore, passandosi una mano tra i capelli. Aveva
posizionato il pallone sul dischetto curvandosi con la
schiena, era indietreggiato di un paio di passi
fermandosi ancora dentro l’area di rigore. Aveva
appoggiato le mani sui fianchi. Si era piegato con il
corpo in avanti per iniziare una breve rincorsa. Aveva
spiazzato il portiere con il solito colpo di piatto.
Gol. Platini aveva cominciato a correre per esultare,
schivando l’arbitro e anche un compagno che voleva
abbracciarlo. Ridendo aveva alzato il braccio destro
verso una delle tribune dello stadio. Poi aveva
rilanciato di nuovo lo stesso braccio verso il cielo
dopo averlo apparentemente "ricaricato" preparandone lo
slancio con l’altro. Aveva ripetuto il gesto una terza
volta, senza più sorridere, con un’espressione più
rabbiosa, prima che i compagni lo sommergessero. "Ma non
è una partita vera…" aveva sentenziato il bambino con
una gamba più corta. Platini aveva esultato in un modo
che la consapevolezza di ciò che era accaduto, nei
giorni seguenti, avrebbe reso agghiacciante e tetro. Il
sorriso di gioia atletica, il suo braccio lanciato verso
l’alto. La Juventus era campione d’Europa. La tragedia
in cui persero la vita trentanove persone, provocata dal
crollo del muretto sotto la spinta animalesca dei tifosi
inglesi, passò alla storia come la "strage dell’Heysel".
La maggior parte delle vittime perse la vita per
fenomeni legati alla compressione degli organi vitali.
La partita ebbe inizio con qualche ritardo. Nei giorni
successivi i giornali mischiarono notizie sportive e
cronaca nera, e io all’ospedale leggevo commenti e
articoli che facevano prevalere l’orrore a danno della
gioia. La Juventus era così la prima società a iscrivere
il proprio nome nell’albo d’oro di tutte le competizioni
organizzate dall’UEFA, ma il rigore sembrò quasi una
riparazione per quello che gli italiani presenti allo
stadio avevano subito. Era punizione. La cavalcata
dell’attaccante polacco Zbigniew Boniek, raggiunto da un
lungo lancio millimetrico di Michel Platini, era stata
sì interrotta con un fallo da parte di un difensore del
Liverpool, ma prima che il rapido numero undici dai
capelli rossi e con il bottone della maglietta
allacciato entrasse nell’area di rigore. L’arbitro aveva
ugualmente concesso il penalty e la Juventus aveva vinto
per uno a zero. Era il caso di restituire la coppa ? Le
autorità belghe chiesero l’estradizione di ventisei
teppisti inglesi ritenuti responsabili della strage.
Capocannonieri del torneo furono Michel Platini della
Juventus e Nilsson del Goteborg con sette reti.
Fonte:
Mio
padre era bellissimo
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2009
Fotografie:
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