3 TARANTINI
"Eravamo all’Heysel"
Il 29 maggio 1985 il calcio
perse definitivamente la propria innocenza. E perse anche 39
juventini, nella strage dell’Heysel. Nel 2010 incontrai tre
tarantini tifosi della Juve che quella notte erano lì. Raccolsi
i loro drammatici ricordi.
Erano
nello stadio maledetto. Per fortuna lo possono raccontare. Erano
all’Heysel: basta pronunciarlo per provare, venticinque anni
dopo, lo stesso orrore. Tre racconti diversi, di tarantini che
fecero quel viaggio e riuscirono pure a tornare. Trentanove, da
quello stadio, non fecero mai ritorno. Trentanove tifosi morti
prima di una partita, per una partita. E il ricordo straziante
di tre testimoni, come fossero uno solo. Basterebbe aprire le
virgolette adesso e non chiuderle più, per ascoltare le loro
paure, le storie di una notte che sporcò di sangue il calcio e
imbrattò indelebilmente i ricordi intimi di ognuno. Giuseppe
Spera adesso ha 66 anni. Fa l’imprenditore ortofrutticolo e in
azienda, a Massafra, ci sono ancora pile di giornali sportivi,
che dimostrano la passione: "Partimmo con un volo charter:
650mila lire a testa. Eravamo in centocinquanta a partire da
Brindisi, tornammo e mancavano alcuni. Due li avevo memorizzati.
Erano di Mesagne, se non ricordo male: erano morti". Era il 29
maggio 1985: "Arrivammo con largo anticipo: la nostra Curva era
ancora semivuota, ci sistemammo al centro per non stare troppo
vicini al settore degli inglesi. Avvertivamo un po’ il pericolo,
ma pensavamo alle bottiglie che avevano tra le mani, che pure
arrivarono. In un attimo tutto cambiò, non ci rendevamo più
conto di quello che stava accadendo, c’era gente che sveniva,
gente che cadeva e gente che scappava. Noi restammo in piedi
perché aggrappati a una balaustra che pure si ruppe. Quando
cadde la divisione dal terreno di gioco, finii in campo e, da
lì, mi fecero uscire attraverso gli spogliatoi. Fuori era uno
scenario di guerra, tra sangue e sirene. Io ero senza scarpe:
avevo i mocassini e si sfilarono nella ressa. Sono rimasto
scalzo fino al rientro a casa". Qualche ferita, il passaggio
dall’ospedale: "Vidi parte della gara da lì, telefonai a casa.
Anche perché il rientro, che era previsto per la notte, fu
spostato alla mattina dopo: aspettavamo che tornassero tutti.
Quando vidi che qualcuno mancava capii di essere stato
fortunato: non avevo avuto nemmeno il tempo di avere paura". Ora
Giuseppe è nonno: "E quando cresceranno i nipotini non avrò
timore a raccontare. Ho cercato di dimenticare, ma è
impossibile: allora meglio raccontare, perché non accada più.
Nell’immediato pensai che non sarei più andato allo stadio. Ma
alla prima partita della Juve a Torino ero di nuovo lì. Forse è
stato il modo per ripartire". Gennaro Morelli, invece, non era
all’Heysel per una passione sua: "Il tifoso non sono io: era per
accompagnare mio figlio, di quindici anni, che andai a
Bruxelles". Morelli, tarantino di 69 anni, ora è primario alla
Santa Rita, dopo esserlo stato al S.S. Annunziata: "E furono mio
figlio e il gran caldo, forse, la vera fortuna di quel giorno.
Perché mentre eravamo in gruppo e andavamo verso lo stadio, il
bambino mi chiese una Coca Cola e ci fermammo per acquistarla.
Così perdemmo gli altri e arrivammo allo stadio un po’ più
tardi. Così loro erano vicino alla rete che divideva gli spalti
dal campo, noi più in alto, vicino a un’uscita. Quando
scoppiarono gli incidenti la gente cominciò a spingere verso il
basso, quindi verso la recinzione, la polizia impediva l’accesso
al campo e si creò pressione: io fui spinto verso un muro e mi
preoccupai, subito, di difendere il bambino.
Quando ebbi la possibilità, lasciai lo stadio avendo vicina la
via di fuga". Fuori lo scenario era diverso dalle immagini in
tv, all’inizio:
"Non capii la situazione: all’interno dello stadio volavano le
bottiglie lanciate dagli hooligans, vidi qualche ferito dai
lanci, ma uscendo presto trovai calma fuori. Calma apparente e
breve: dopo un po’ iniziarono ad arrivare feriti più gravi, probabilmente
anche i primi cadaveri. Solo dalla tv riuscii ad avere l’esatta
dimensione del dramma". In Italia guardavano la televisione,
scoprendo che c’erano morti. E molti erano in ansia: "Un
ingegnere di Caserta, che trovai per caso, mi aiutò a mettermi
in contatto con i familiari. Andai in un albergo e passai la
notte lì: ripartii con un volo di linea, non con il charter. E
per poterlo pagare chiesi i soldi a una parente di mia moglie di
Bruxelles. Ma l’agenzia, non vedendomi sul charter, chiamò casa
dandomi per disperso. Per fortuna mia moglie sapeva. Io, invece,
seppi che il figlio di un amico, informatore scientifico, e che
all’andata era con me, era morto". Con un figlio al seguito ogni
momento diventò più pesante: "Ma lui rimase tranquillo e io,
avendo lui, mi sforzai di mantenere la calma. La passione per la
Juve però lui l’ha lentamente persa: entrambi continuiamo ad
andare allo stadio solo per il Taranto". Pasquale Nuzzo, invece,
ha appeso nel suo studio da commercialista, il gagliardetto
celebrativo di quella partita e il biglietto della Tribuna Z,
strappato all’ingresso. Sono fissi lì per un motivo: "Perché
quella, mi creda, è stata l’ultima partita di calcio che ho
visto. Da lì io sono uscito vivo, ma la mia passione è morta:
ero stato anche giocatore di Promozione nel Massafra, ero stato
anche alla finale della Juve ad Atene, due anni prima, ma poi
nemmeno in televisione ho più visto una partita". Si rideva,
prima che arrivassero le bottiglie: "Eravamo nello stadio in
anticipo, scherzavamo un po’ tra noi anche per mascherare la
delusione di uno stadio inappropriato. Iniziarono a volare
bottiglie di birra, pietre facilmente ricavabili con un calcio
ai gradoni. Ma noi eravamo lì da sportivi, nessuno reagì: ci
allontanammo per non essere colpiti e iniziò la calca. Poi gli
inglesi invasero il settore e iniziò la fuga generale, la paura.
Ricordo che nella ressa avevo un altro tifoso che si aggrappava
al mio viso, mi sentivo asfissiato dalla pressione. Quando
crollarono le strutture molti caddero quasi nel vuoto, altri
trovarono il varco per andare sul campo. Io ero tra questi
ultimi: non potevi fermarti perché saresti stato calpestato. E,
infatti, ti trovavi quasi a camminare su gente che era caduta".
Pasquale, rispetto agli altri due, non lasciò lo stadio: "Perché
mi portarono negli spogliatoi per curarmi le escoriazioni. Ero
scalzo, ormai. E vedevo i giocatori della Juve nello
spogliatoio. In quel momento, e lì dentro, nessuno sapeva
esattamente cosa stesse accadendo all’interno. Nessuno sapeva
che c’erano morti. Nemmeno io, che fui accompagnato in tribuna
poi e trovai alcuni dei miei amici. Seguimmo la partita,
tornammo in campo per uscire alla fine e festeggiammo pure con
la squadra, non sapendo la gravità della situazione. Alle 2 del
mattino, in aeroporto, guardammo la tv e ci rendemmo conto. E
capimmo anche perché gli amici che avevano lasciato lo stadio,
vedendoci, si misero a piangere: temevano fossimo morti". Nuzzo
sente di non esserci andato lontano: "Un amico, giorni dopo, mi
disse: "Sei arrivato vicino alla porta del cimitero e non sei
entrato". Aveva ragione: ho avuto paura davvero, adesso provo
disgusto. E ho abbandonato il calcio. Mi spiace solo per mio
figlio, che non ha avuto la possibilità di appassionarsi. Ma
quello che ho visto non lo dimentico più". Sembra un unico
racconto, sono tre storie diverse. Di tifosi o papà premurosi
che hanno vissuto la paura, che hanno visto morire. Per una
partita di calcio che in trentanove non hanno mai potuto
raccontare.
29 maggio 2013
Fonte: Fulviopaglialunga.it
A-Z |
MASSIMO TADOLINI
Tragedia Heysel, Massimo
Tadolini:
"Fu una notte orribile. La
Juventus non ha fatto nulla…"
di Giuseppe Martorana
A 36 anni dalla tragedia
dell’Heysel Massimo Tadolini, uno dei tifosi superstiti della
Juventus ha raccontato in esclusiva ai nostri microfoni i
tragici avvenimenti di quella "maledetta" finale di Champions
League contro il Liverpool.
In
occasione del 36° anniversario della tragedia dell’Heysel (29
maggio 1985), dove nella finale di Champions League tra Juventus
e Liverpool, nel medesimo stadio, morirono ben 39 tifosi
juventini oltre a 600 feriti, abbiamo intercettato in esclusiva
ai nostri microfoni Massimo Tadolini, uno dei supporters che si
trovavano lì in quella che passò alla storia come una delle
notti più tristi e dolorose per il mondo del calcio.
Massimo, che ricordi hai della
tragedia dell’Heysel ?
"Posso raccontare ovviamente la mia
esperienza. Lo scenario all’inizio era di festa, la Juventus la
mia squadra del cuore si giocava la famosa Coppa dalle Grandi
Orecchie, una coppa stregata per la Vecchia Signora. Tutti i
tifosi juventini sognavano e sognano ancora tutt’ora di
vincerla. Partimmo da Bassano del Grappa in stile alpini con il
camper ed il mio gruppo arrivò il giorno prima della partita a
Bruxelles, avevamo avuto i biglietti dalla Juventus. Altri
gruppi di Bassano, invece avevano preso i biglietti dall’agenzia
di viaggi che proponeva pacchetti stadio-albergo. Biglietti
dello stadio che poi risultarono nel settore Z, il luogo del
misfatto. Dopo la prima serata dove si andò insieme al
ristorante, la mattina ci si ritrovò per un saluto, poi andammo
allo stadio. Entrai dentro il settore Juve e già lì fu una cosa
indescrivibile: pensa ad un imbuto, dove il beccuccio va dentro
la porta dove c’era l’ingresso dello stadio ed il grosso di
quell’imbuto è la folla con tutti tifosi della Juventus, fai
conto 10.000 persone che dovevano entrare da una porta. Come se
non bastasse, ai lati della folla c’era la polizia a cavallo che
iniziò a menarci con i manganelli per gestire la folla. Ho visto
tanta gente svenire, tanti bambini che piangevano, una cosa
davvero orribile. Poi, arrivato alla porta non venivi nemmeno
perquisito".
Fammi capire, i controlli
c’erano prima e non dopo ?
"Si, ti facevano impazzire per entrare
nello stadio e poi dopo non ti perquisivano. Non ha senso una
gestione così. Io mi sono posizionato con quelli che erano
considerati gli ultras al centro del tifo bianconero. Ad un
certo punto alle 7 circa, entrarono due squadre di calcio di
bambini: una aveva la maglia rossa, un’altra quella bianca. Gli
scontri tra le due tifoserie incominciarono durante quella
partitella tra bambini, che doveva essere una partita
cuscinetto, una partita che doveva rilassare gli spettatori in
attesa della finale. Ovviamente i tifosi del Liverpool, quando i
bambini con la maglia rossa facevano goal esultavano, lanciavano
cori, mentre noi tifavamo per i bambini con la maglia bianca. Lo
stadio era in maggioranza della Juve e questi tifosi inglesi
hanno fatto in modo di travolgere i nostri connazionali,
rompendo la rete che separava le due tifoserie, facendosi beffe
della polizia che contava pochi uomini e male organizzati. Non
avevano nemmeno i walkie talkie, quindi non si potevano nemmeno
chiamare, pensa te. Non avevano nemmeno i respiratori per
rianimare le persone che potevano stare male con questi problemi
di schiacciamento. Cose davvero incredibili".
Secondo te se le condizioni
dello stadio non erano adeguate, perché si scelse di ospitare un
evento così importante come la finale di Champions in un
impianto del genere ?
"Mi trovi impreparato su
quest’argomento. Ero un ragazzino di 22 anni, riuscire a trovare
un biglietto per una finale di Champions era difficile, anche se
io di Juve poi ne ho masticata davvero tanta nella mia vita dato
che è la mia più grande passione. Io non posso risponderti su
cose che erano e che sono anche oggi più grandi di me. Si sono
dette tantissime cose su quest’argomento, quello che posso dirti
è che la polizia non era preparata a tutto quello che poi è
successo. Ti dico la verità, già il giorno prima c’era stato un
clima incredibile: gli inglesi erano pieni di cassette di birre
ed avevano già aggredito i tifosi della Juve. Era un segnale da
non sottovalutare per nulla quello".
Quindi già avevano dato un
assaggio di cosa avrebbero fatto ?
"Si, quando noi arrivammo allo stadio,
avendo dei camper noleggiati, eravamo in paranoia perché oltre
al fatto che ti prendevi delle botte da loro quasi sicuramente,
ti potevano anche distruggere il veicolo, quindi siamo andati a
dormire in centro perché avevamo paura di stare vicino a loro.
Il giorno dopo quando arrivammo in zona stadio, io del gruppo
degli ultras ero l’unico che parlava il francese per cui chiesi
alla polizia dove parcheggiare i camper e loro mi dissero di
metterci vicino ai tifosi inglesi. Era come mandare una persona
sanguinante di fronte ad uno squalo, era una roba fuori di
testa. Attraversai tutta la zona degli inglesi e dissi tra di me
"Qua ci distruggono". Erano talmente fatti ed ubriachi, che
erano tutti mezzi nudi in questo enorme giardino dietro la loro
curva. Alla fine quindi me ne sono fregato di quello che mi ha
detto la polizia e me ne sono andato. Il giorno prima era già
sulla bocca di tutti. Gli inglesi si erano già fatti conoscere
dato che stavano creando tantissimi disordini, era chiaro che
sarebbe successo qualcosa di brutto. Noi italiani venivamo
osservati a vista, cosa anche confermata dall’entrata allo
stadio, dove anche il segretario del nostro club disse "Basta,
io vado via". Ho visto gente svenuta che veniva portata via
dalla calca in quella circostanza".
|
É vero che i giocatori della
Juve non sapevano nulla di quello che era accaduto ?
"No, i feriti entravano negli
spogliatoi ed il dottore delle società bianconera fu uno dei
primi a prestare i soccorsi, anche il fotografo fece degli
scatti memorabili che poi entrarono nella storia delle foto più
cruenti di quella vicenda. Sicuramente non sapevano il numero
dei morti, così come non lo sapevamo nemmeno noi perché nel
mentre c’era questa partitella tra bambini come ti raccontavo,
noi vedevamo questi tifosi del Liverpool che si ammassavano
tutti per rompere le gradinate, abbiamo cominciato a gridare
"Police, Police, Police" per attirare l’attenzione. Ti posso
garantire che la polizia con i cani antisommossa si schierò
sotto la nostra curva perché noi cercavamo di entrare in campo,
cosa che poi avvenne. Tu vedevi quindi da noi delle cariche
pazzesche, di là invece nessuno. Comunque la rete fu sfondata ed
una parte dei tifosi della Juventus entrarono in campo, tra cui
anche io ed un gruppo iniziò a correre sulla pista di atletica
verso il settore opposto. Questi tifosi juventini arrivarono
sotto la curva degli inglesi che loro avevano già sfondato e
videro gente morta e che questi hooligans si erano allargati
anche nel famigerato settore Z che secondo loro era diventato un
territorio di conquista. Là sotto sono arrivate forse 200
persone ed ho visto proprio gli inglesi che erano entrati nella
curva Z che sono rientrati subito nel loro settore. Se ci
fossero stati i poliziotti con i caschi ed i manganelli, questi
col cavolo che continuavano a sfondare ed accanirsi sugli
italiani, ma non c’era nessuno. Quando questi sono rientrati la
polizia a cavallo con i manganelli ha menato gli italiani,
mentre gli inglesi non hanno subito nulla. A quel punto si era
creata la caccia all’italiano ed uno di questi prese il megafono
ed iniziò a dire che c’erano dei morti e che non si doveva
giocare, chiedendo anche alla curva di togliere gli striscioni.
Ho anche sentito degli italiani dire "A me non interessa, io ho
pagato il biglietto e voglio vedere la partita". La cosa che non
mi piacque per nulla comunque fu un’altra. Quella che lessi nei
giornali i giorni dopo, cioè il fatto che alcuni tifosi della
Juventus in Italia festeggiarono quella coppa, anche se sapevano
quello che era successo. Questo ti dà il senso di come è la
gente. Noi tifosi juventini che eravamo lì, quella coppa non la
sentiamo nostra, l’avremmo restituita persino alla Uefa e tu sai
quanto ci teniamo a vincerla ?".
La Juventus ha fatto qualcosa
per le vittime dell’Heysel ?
"Sono amico di tanti figli di persone
decedute in quell’occasione, ci sentiamo spesso e posso dire che
la Juventus per loro non ha fatto nulla. Non so, dico io, non
fare la colletta, ma dare l’incasso di qualche partita in
beneficienza si poteva fare. Ti voglio svelare un aneddoto. Tra
i tanti morti, mi colpì una ragazzina di 17 anni che era stata
promossa a scuola e suo padre gli aveva fatto questo regalo,
dato che era tifosissima della Juventus, purtroppo lei morì in
quella tragedia. Un giorno mi chiama un ragazzo che faceva parte
del nostro club e che era molto vicino alla famiglia di questa
bambina morta e mi disse che in un giornale era uscito un
articolo sui fratelli di questa che erano anche loro juventini e
volevano andare a Berlino sperando di vincere la Coppa per
dedicarla alla sorella defunta 30 anni prima. Questa cosa mi
colpì talmente tanto che io, che non sono niente, regalai loro
due biglietti per vedere quella partita. Roba da 500 euro l’uno
! Dico io, una cosa del genere dovrebbe farla la Juventus, è la
Juventus che deve mettere in lista i familiari delle vittime,
non deve farla Massimo questa roba qui. Io l’ho fatto col cuore
e lo rifarei 1.000 volte, però la Juve ha sbagliato secondo me.
La gestione del rapporto con i tifosi è fondamentale, essi vanno
trattati con amore. La Juve non è un prodotto, la Juve è
passione, se la società dicesse facciamo la colletta per
comprare quel giocatore noi la facciamo. Io in tanti anni da
tifoso ho trovato tante sbavature nella gestione dei rapporti.
Puoi farci qualche esempio ?
"Mah, ultimamente la questione
Superlega, anche la vicenda dell’allenatore dopo l’esonero di
Allegri. Magari non tutte le cose si sanno, non sono lì con loro
io. Se uno mi dovesse chiedere un giudizio però ti direi che
sono perplesso. Per carità, hanno vinto 9 scudetti consecutivi,
hanno vinto Coppe Italia e Supercoppe Italiane però la gestione
dei rapporti non è dei migliori. Io penso che la Juve abbia
fatto molto poco per ricordare le vittime della tragedia
dell’Heysel. Pur di avere ragione con la Uefa una persona, a
causa della morte del proprio figlio, le ha provate tutte:
pagandosi gli avvocati, coinvolgendo i familiari delle vittime.
Queste erano cose che doveva fare la Juventus dichiarandosi
parte civile. Io la vedo così e come me la vedono in tanti.
Ormai comunque è una storia passata, rimangono sicuramente tante
cose che non si riescono a spiegare".
Qual è la cosa che più ti
spinge a ricordare questa vicenda tragica ?
"Una delle cose che mi ha spinto a
mettermi in prima fila per portare avanti questa memoria sono i
cori fastidiosi che ci perseguitano per anni, questi striscioni
contro quelle vittime, è una roba inconcepibile. La rivalità tra
le tifoserie ci può stare, però arrivare a questo punto è
davvero vigliacco e triste. Ti dico che ne ho sentite e viste di
tutti i colori e mi disgusta veramente questa cosa anche a
distanza di anni, è proprio da ignoranti. Io non mi permetterei
mai di fare una cosa del genere. Una roba così può essere fatta
solo da deficienti. Questa è una cosa tragica, è una ferita
ancora troppo grave ed il fatto che le persone infanghino la
memoria di quelle morti mi fa diventare una bestia".
31 maggio 2021
Fonte: Footballnews24.it
A-Z |
La memoria di un sopravvissuto
all’Heysel:
"Non si può morire in uno
stadio"
di Vincenzo Pastore
Il
29 maggio 1985 è la fine dell’innocenza sportiva. Trentanove
morti allo stadio Heysel di Bruxelles prima della finale di
Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una partita finita
prim’ancora di iniziare. Non erano solo juventini, non erano
solo italiani. C’erano anche belgi, francesi, irlandesi tra le
vittime. Andrea Casula, il più piccolo, 11 anni. La memoria si
fa viva ogni anno, non solo a maggio. Perché solo ricordando si
possono onorare quelli che oggi non ci sono più, solo non
dimenticando si può fare in modo che tragedie del genere non si
ripetano. Lo sa bene Massimo Tadolini, oggi 57enne di Bassano
del Grappa, ma originario di Bologna. Quel 29 maggio aveva 23
anni ed era, come oggi, un grande tifoso della Juventus. "In
quegli anni frequentavo la curva della Juventus, provenivo da un
club bianconero di Bologna. A Bruxelles eravamo in 10, con
biglietti della curva juventina mentre c’era un altro gruppo di
Bassano che aveva acquistato pacchetto completo (viaggio +
biglietto partita) con un tour operator. Ricordo che nella
capitale belga non si respirava un bel clima già dalla sera
prima della finale. A Bruxelles, infatti, fummo aggrediti dagli
inglesi, la città era in stato d’assedio, i tifosi del Liverpool
erano ubriachi. Bevevano fiumi di birra, lasciavano a terra
cataste di casse accumulate mentre loro facevano attorno
capannello di inglesi con bicchieri in mano. Erano molesti con
gli italiani e molto aggressivi anche nei confronti, ad esempio,
dei clienti dei ristoranti. Non ho mai visto una cosa del
genere. Eravamo arrivati in Belgio con alcuni camper e decidemmo
di andare a dormire fuori città".
Il giorno dopo si gioca la
finale. Che cosa ricordi ?
"L’indomani, nel pomeriggio, ci
rechiamo verso lo stadio. Un gruppo si dirige verso la curva Z,
inizialmente riservato ai belgi ma poi destinato ai biglietti
comprati con i tour operator italiani, l’altro prosegue verso il
settore juventino. Con me c’era anche Domenico Lazzarotto,
storico caporedattore del Gazzettino. Arrivati all’Heysel ci
accorgiamo subito di un trattamento indecoroso delle forze
dell’ordine, a cui addebito ciò che poi sarebbe successo, oltre
alla responsabilità dei tifosi inglesi. Gli hooligans, infatti,
entravano armati completamente indisturbati, con bottiglie,
sassi, spranghe. Mentre noi, invece, dovevamo entrare in una
porticina di 80 cm: pensate solo a una curva intera che passa da
uno spazio così stretto. Si era creata una sorta di imbuto, una
cosa mai vista in tanti anni che frequento gli stadi".
Quando degenera la situazione ?
"I primi scontri si verificano
all’interno dello stadio verso le 19. Mentre in campo si svolge
una partita tra ragazzini, cominciano le prime schermaglie
quando segnava la squadra con la maglia rossa o quella con la
maglia bianca. Gli hooligans iniziano a sparare razzi e lanciare
pietre contro la curva Z. Noi ci troviamo dall’altra parte dello
stadio, ma capiamo subito che stava succedendo qualcosa di
grave. Gli inglesi sfondano le protezioni tra i due settori e
iniziano a pressare contro il muretto i tifosi italiani. Alcuni
ragazzi entrano in campo, arrivano sotto la curva degli inglesi
e anche da noi, ci accorgiamo che ci sono le prime vittime".
Nella curva della Juve che
atmosfera c’è ? Volevate che si giocasse o no ?
"La curva era spaccata, alcuni di noi
non volevano giocare perché era impossibile continuare dopo
quella tragedia. Altri, invece, spingevano per giocare perché
avevano pagato un biglietto e non volevano tornare a casa. A un
certo punto sono arrivati i giocatori per cercare di riportare
la calma, mentre Scirea faceva un appello dall’altoparlante.
Forse la risposta più giusta era andar via dallo stadio,
schifati da quello che avevamo visto, dovendo tener vivo il
ricordo di questa tragedia. Ripensandoci oggi è stato giusto
giocare perché altrimenti le vittime sarebbero state ancora di
più. All’Heysel non c’erano ambulanze, i poliziotti erano
pochissimi, mancavano i defibrillatori e i telefoni. Uno stadio
inadeguato e un apparato organizzativo imbarazzante. È stato
terribile, qui il tifo non c’entra. Sono morte persone inermi
per una partita di calcio".
I festeggiamenti dei giocatori
dopo la vittoria sono sembrati fuori luogo.
"Sì, è vero, ma credo che bisogna
vivere direttamente le situazioni. I giocatori della Juve furono
catapultati in una situazione ingestibile, erano pressati dalle
attenzioni mediatiche, l’Uefa aveva imposto di giocare. È vero
che si sapeva ci fossero dei morti, ma non che la tragedia fosse
di quelle proporzioni. Gli stessi calciatori hanno poi
dichiarato negli anni che non avrebbero voluto giocare, ma
furono obbligati a farlo. Non festeggiarono solo loro, ma anche
i tifosi in tutta Italia e fu abbastanza oltraggioso".
Tornato a Bassano hai deciso di
portare avanti la memoria di quel giorno.
"Sì, la città ha pagato un prezzo
altissimo quel giorno con le morti di Mario Ronchi e Amedeo
Giuseppe Spolaore. Abbiamo subito fondato un gruppo, Nucleo
1985, che dalla stagione 85-1986 non ha mai perso una partita
della Juve in tutto il mondo. Il nostro striscione è sempre
presente allo Stadium. Poi, nel 2015, in occasione del 30mo
anniversario, abbiamo realizzato un docufilm e organizzato un
torneo di calcio per le squadre giovanili. Vi hanno partecipato
anche i pulcini della Juve e sono state coinvolte le scuole
bassanesi. Abbiamo organizzato una mostra che ha esposto anche i
trentanove disegni più significativi sulla tragedia, ne sono
arrivati oltre 1200".
Sono trascorsi 34 anni, cosa ti
resta di quel giorno ?
"Le immagini terribili e la convinzione
che la Juve avrebbe dovuto restituire quella Coppa all’Uefa. C’è
stato una sorta di tabù per anni anche all’interno del club
bianconero, per troppo tempo si è fatta poca memoria. Va
ringraziato Otello Lorentini (fondatore dell’"Associazione
familiari vittime Heysel", padre di Roberto, una delle vittime,
da medico tornò indietro per salvare il piccolo Andrea Casula,
morirono entrambi) per la battaglia che ha fatto contro l’Uefa,
ottenendone la condanna".
30 maggio 2019
Fonte: Mondiali.it
A-Z |
Heysel una storia ancora da
raccontare
di Massimo Tadolini
Il
viaggio in camper fu un’idea di Skipper il segretario dello
Juventus club Bassano del Grappa 1949. Io allora ero da poco
arrivato da Bologna ed accettai di buon grado la modalità
organizzativa. I veneti sono gente allegra con simili emigrati
in ogni parte del mondo, per questo l'appuntamento ai bassanesi
fu dato presso un Ristorante Veneto aperto da anni nel centro di
Bruxelles. Eravamo fondamentalmente due gruppi, il mio fatto di
10 persone con i biglietti dati dalla Juventus ed il più
consistente, di almeno 30 persone, aveva trovato il biglietto
con un'agenzia di viaggio. Loro pensavano di essere nei
distinti, ma che importava oramai... Mancavano poche ore
all'incontro l'emozione era alta, e poi... Che problema mai
avrebbe dovuto esserci in CURVA Z ? Già quella sera però la
preoccupazione tra di noi esplose perché gli inglesi stavano
sfasciando il centro della città. Poco prima Il nostro
ristorante fu assalito da un grosso gruppo di inglesi
visibilmente ubriachi perché avevamo una bandiera della Juve
esposta. Tra gli italiani che nulla avevano a che fare con il
mondo ultras e le sue eventuali regole , la paura era tangibile.
Cosi decidemmo si dividerci. Il gruppo legato all'Agenzia aveva
la notte in Hotel prenotata, mentre noi avevamo l'ansia di
ritornare ai camper perché se ce li avessero sfasciati sarebbe
stato un bel problema essendo stati noleggiati per l'occasione.
Salutati gli altri amici, ci incamminammo verso i nostri mezzi
trovando sulla nostra strada un altro gruppo di questi animali
ubriachi che ci aggredirono picchiando uno di noi ed iniziandoci
a lanciare bottigliate di vetro. Presero Skipper e lo buttarono
dentro una fontana dopo averlo massacrato. Fui l'unico a
ribellarmi uscendo solo dal gruppo in fuga. Andai verso di loro
perché non era più possibile per me sopportare altro. Ammetto
che fui fortunato perché quel gruppo di trenta hooligans stette
fermo limitandosi ad offese, ma subito dopo dal loro gruppo uscì
un ragazzo che si mise di fronte a me come in un film Western
invece di fare cantare il "grilletto" ci saltammo addosso in un
testa a testa alla pari. Ero fuori di me dalla rabbia e lo
buttai giù a terra in un attimo e, come se fossi in preda ad un
raptus, iniziai a prenderlo a calci senza smettere... "Massimo
scappa" mi urlarono. Mi girai iniziando a correre subito dopo
perché stava arrivando la Police... Mai avrei immaginato di
trasformarmi anche io in un'altra persona. Ero andato lì per
vivere una giornata di festa. La notte del 28/5/1985 la passammo
con la preoccupazione del giorno dopo... Anche perché sapevamo
che stava arrivando una massa di tifosi enorme. Sinceramente la
mattina del 29/5/1985 tutte le brutte cose del giorno prima
sembravano sparite, la giornata era bella e si iniziò a
respirare l'aria delle festa.
All'atomium facemmo le
classiche foto da tifosotti con lo striscione ed iniziammo a
pensare dove parcheggiare i 3 camper.
Io feci il capo colonna dei
tre perché ero l'unico a sapere il francese discretamente.
Parlando con la Police imparai che aveva destinato un'area per i
camper dietro la curva inglese. Inizialmente ascoltai questi
incompetenti trovandomi dentro un parco dove c'erano migliaia di
loro bivaccati come animali in riposo e per fortuna non affamati
diversamente i nostri 3 camper goliardici con tanto di
striscioncino appeso fuori e con bandiere bianconere legate alle
antenne sarebbero stati certamente distrutti... Dopo questo giro
di roulette russa decisi di parcheggiare i mezzi dietro la
nostra curva settore M N O mi pare... Nel frattempo i nostri
pensieri andavano ai nostri amici di Bassano che sarebbero
andati a vedere la partita nella Zeta, ma chi poteva immaginare
quella mattanza ? L'ingresso allo stadio fu indimenticabile e da
raccontare. Ancora non posso credere che qualcuno di importante
avesse avvallato di gestire l'ingresso dei nostri tifosi in tale
modo. Immaginatevi migliaia di persone che entravano in curva
passando tutte da un’unica porta di ingresso come quella di casa
vostra. Per questa ulteriore negligenza si formò un enorme
imbuto umano con gente che non ce la faceva svenendo sotto il
sole anche per mancanza di respiro. Una bella
idea fu quella di mettere la polizia a cavallo ai lati della
folla inferocita. Risultato: cavalli imbizzarriti, donne e
bambini che svenivano e per stringere al centro la gente, ecco
che partivano le manganellate ai lati della folla. Come una
clessidra... Uno ad uno, ignari granelli di sabbia, entravamo in
curva senza poi essere assolutamente perquisiti all'ingresso… Mi
ricorderò sempre il segretario del JCB che trovai in un lato
della curva in piena crisi isterica... Se fossi stato ad un
evento del genere con un mio figlio mi sarei rifiutato di
entrare per salvaguardarlo. Se tutto questo fosse la trama di un
film ancora da girare, un buon regista avrebbe capito che era
tutto già da rifare. In realtà purtroppo questi sono i
presupposti di una storia vera in cui credo che pochi abbiano
pagato per evidenti incapacità logistiche ed organizzative.
Entrati allo stadio però l'atmosfera era quella di una finale ed
iniziammo a percepire che comunque eravamo finalmente lì...
Insomma si giocava l'ultimo atto della Coppa dei Campioni tra la
Juve ed il Liverpool squadra che io avevo già visto giocare in
Supercoppa a Torino la notte del pallone rosso... Feci 18 ore di
pullman per tornare a casa perché era tutto bloccato dalla
neve... Considerando la precedente partita vista mi consolai
pensando che forse le partite con i Red dovevano essere per
forza sfigate e con qualche problemino. Ma subito capii che la
situazione stava prendendo una brutta piega... Avevano iniziato
a giocare 2 squadre di bambini. Ecco quelli con la maglia BIANCA
e quelli con la ROSSA. I primi erano sostenuti da tutto lo
stadio Juventino, mentre i secondi da quel 3/4 di curva rossa di
fronte a noi… Dai cori delle reciproche tifoserie con i goal dei
ragazzini con maglietta bianca iniziarono a partire i primi
razzi dal settore del Liverpool a quello adiacente Z... La loro
curva di fronte a noi era così composta: 3/4 agli inglesi con
settore stracolmo 1/4 ad italiani che avevano esposto le loro
bandiere. Tra loro un reticolato da giardino e non più di 5
poliziotti distribuiti in verticale, tipo 1 ad ogni 10 gradini
se andava bene.
Ma quelli stanno lanciando
razzi, stanno caricando !! "POLICE POLICE POLICE" Gridava la
nostra curva come per fare rendere conto alla sicurezza che di
là stava succedendo qualcosa. Ma nulla successe per aiutare
tutti quei fratelli che rimasero abbandonati al loro destino.
Gli ultras di allora fecero qualcosa per impedire la tragedia ed
io mi unì a loro da quel giorno per sempre.
17 giugno 2013
Fonte:
Pagina
Facebook di Massimo Tadolini (Fondatore Area Bianconera e Nucleo
1985)
A-Z |
GIUSEPPE TASSI
HEYSEL nello stadio della morte
Il nostro inviato rievoca la
folle notte di Juve-Liverpool che costò 39 vite
di Giuseppe Tassi
Bruxelles
bruciava al sole in quel pomeriggio del 29 maggio. La Juve era
arrivata dai profondi silenzi del ritiro di Ginevra, salutata da
un tifoso speciale, il giovanissimo Emanuele Filiberto di
Savoia, allora tredicenne. Lungo le vecchie strade del centro
storico e sotto la statua del Manneken Pis sfilavano senza
conflitti apparenti i branchi del Liverpool e i tifosi
bianconeri. Odori forti di birra e sudore, un clima di attesa
crescente per la finalissima dell’Heysel distante poche ore e
una colonna sonora ossessiva, martellante: "Liverpool,
Liverpool, Liverpool, you’ll never walk alone", l’inno della
squadra inglese, la religione musicale del Kop, il cuore del
tifo di Anfield Road. Il piccolo stadio belga si popolò con
largo anticipo, come sempre succede nelle grandi manifestazioni,
dilatando quella lunga vigilia. I tifosi juventini che avevano
prenotato attraverso tour operator si sistemarono nei settori M
ed N, lontani dai supporter del Liverpool. Quelli che invece si
erano organizzati in proprio furono convogliati nella curva Z,
divisa a metà da una sottile rete di protezione: da una parte i
Reds, dall’altra il popolo bianconero. Il maledetto Heysel era
uno stadio palesemente inadeguato alla finale di Coppa dei
campioni non solo per le piccole dimensioni, ma perché era un
impianto fatiscente. Dalla curva Z si staccavano calcinacci che
divennero armi primordiali nelle mani degli "animals" del
Liverpool. Dopo qualche coro minaccioso contro gli juventini
presero a piovere proiettili di argilla seccata. Nella semicurva
italiana cominciò il fuggi fuggi, interpretato dai Reds come un
segnale di resa. Falangi di tifosi del Liverpool si scagliarono
a ondate verso la ridicola rete divisoria fino a farla crollare.
Il loro obiettivo era l’invasione, volevano cacciare gli
italiani e tenersi la curva Z tutta per loro. Dalla tribuna
stampa la scena parve subito agghiacciante. Premuti da quella
massa di folli guerriglieri da stadio, i tifosi italiani
cercarono una via di fuga da una scala laterale, mentre i pochi
agenti di polizia distribuivano manganellate proprio ai nostri
per riportare la calma. Stretti in quell’imbuto di paura, molti
cominciarono a correre all’impazzata verso l’uscita e un muretto
di supporto crollò all’improvviso. Quella calca infame cominciò
a rapire una vita dopo l’altra. Fra i corpi laceri e calpestati
la morte arrivò per colpa della paura: molti finirono col torace
sfondato travolti dalla massa dei tifosi in fuga, altri
cercarono invano l’ultimo refolo d’aria prima di morire per
asfissia. Ricordo che mi catapultai dalla tribuna stampa per
raggiungere il ventre dello stadio. Avevamo la percezione della
tragedia in atto, anche se lo speaker ufficiale continuava a
rassicurare il pubblico, invitando i tifosi alla calma,
chiedendo loro di non abbandonare il posto. Quando raggiunsi
l’ampio corridoio ad anello che circondava lo stadio, vidi
quello che temevo: una decina di corpi senza vita accatastati
uno sopra l’altro, maschere di sangue, volti tumefatti con i
segni neri delle suole sui volti calpestati. Custodi di quella
tragedia due poliziotti a cavallo, simboli viventi
dell’impotenza degli organizzatori, dell’imprevidenza dell’Uefa
e del governo belga. Mentre correvo verso la postazione
telefonica per raccontare la scena al mio giornale e ai colleghi
Italo Cucci e Sandro Picchi, vidi torme di tifosi juventini
chiedere ansiosamente di entrare in tribuna stampa per
rassicurare parenti e amici o per raccontare i dettagli di
quella tragedia che si consumava. Intanto i giocatori erano
chiusi negli spogliatoi con notizie vaghissime su quanto stava
accadendo. Sarebbero entrati in campo un’ora e mezzo dopo, su
espressa richiesta dell’Uefa e della prefettura di Bruxelles,
per evitare che le due fazioni del tifo scatenassero una
guerriglia fuori dallo stadio. Mentre la polizia convocava
reparti militari, allestendo un tardivo servizio di sicurezza, i
giocatori scesero in campo per giocare quell’assurda finale. La
Juventus vinse con un gol di Platini, mentre la famigerata curva
Z era ormai un tragico moncone, con i soli tifosi del Liverpool
su un lato e un vuoto agghiacciante dall’altro. La morte aveva
preso il posto della gioia e dell’euforia dei tifosi juventini.
Ignari della tragedia, alcuni giocatori bianconeri si concessero
un assurdo giro di campo con la Coppa insanguinata. Ma il giorno
dopo, sul volo di ritorno verso Torino, quando il bilancio della
tragica notte dell’Heysel fu chiaro a tutti, la grande Coppa con
le orecchie rimase desolatamente abbandonata su un sedile.
29 maggio 2015
Fonte: La Nazione
A-Z |
DAVIDE TERRUZZI
29 maggio 1985
di Davide Terruzzi
La
tua squadra del cuore è in finale. Tu con lei. Sogni di alzare
al cielo la Coppa dei Campioni, tu accanto al tuo capitano. Vuoi
esserci, ti organizzi, chiami a raccolta gli amici e i
familiari, gli stessi con cui condividi la passione, in qualche
modo riesci ad avere in mano i biglietti. Sarai in finale, anche
tu. Non vedi l’ora che arrivi quel giorno, la data sul
calendario è cerchiata in rosso: 29 maggio. E’ il 1985, il Boss
canta Glory Days e tu ti auguri che quella sera sia davvero
gloriosa, di goduria allo stato puro. Il countdown è finito, il
grande giorno è arrivato. Sei a Bruxelles, hai girato per le vie
della città, hai conosciuto altri animati come te dalla stessa
passione, ma ora si entra allo stadio. Un impianto vecchio,
fatiscente, criticato: come fa una Finale a essere disputata in
un posto del genere ? Però, chissenefrega, sarà una bella e
vincente serata, almeno si spera. Hai il biglietto nel settore
Z, prendi posto e ti accorgi che qualcosa non va: sei accanto ai
tifosi del Liverpool, separato da loro da due bassi reti
metalliche. Lo sai che non godono di buona fama, ti ricordi
quanto avvenuto a Roma l’anno prima, ma pensi che saranno anche
loro qui solo per godersi la partita. No, invece no. Un’ora
prima del calcio d’inizio, gli hooligan caricano, vogliono
invadere il tuo settore. Non ci vuole molto, speri e credi
nell’intervento della polizia. Hai paura, una fottuta paura,
stanno arrivando. Scappi, come tutti, il più lontano dagli
inglesi. E però c’è un muro. Ci ammassiamo tutti lì ? No, dai, è
impossibile. Cerchiamo di andare in campo, è l’unica. Andiamo
via da lì. Cosa fanno i poliziotti ? Ci manganellano ?? Ma
questi sono pazzi ! Non hai molto tempo per ragionare, l’istinto
ti suggerisce la mossa da fare: ritornare verso quel muro,
scavalcare e rifugiarsi nell’altro settore. Chiuso in un angolo.
Da un lato la furia pazza degli hooligan, dall’altro la totale
impreparazione e scarsa intelligenza di chi dovrebbe aiutarti.
Ormai è ressa, si è tutti lì. Non hai nemmeno il tempo di
accorgerti che da qualche parte perdi sangue. Vedi alcuni che
saltano nel vuoto. Poi un tonfo, un rumore sordo. Il muro è
crollato. Cazzo, è la fine del mondo. Non sai nemmeno come hai
fatto, ma sei sul campo. Lì dove i tuoi campioni avrebbero
giocato. Perché è per quello che sei andato a Bruxelles quel 29
maggio del 1985. Ora vedi morte, disperazione, rabbia,
smarrimento attorno a te. Tu ce l’hai fatta, ringrazi Dio, ma
tanti altri no. In 39 muoiono, 39 uomini che condividevano la
tua stessa passione, 39 famiglie che da ora saranno in lutto per
sempre. Sono passati 28 anni, allo stadio ci vai ancora, la tua
squadra ha appena vinto il secondo campionato consecutivo. Sei
contento, ovviamente, ma una parte di te è morta all’Heysel, è
rimasta lì. Non avevi mai conosciuto il Male. Ci pensi spesso,
ci pensi sempre quando sul calendario è di nuovo il 29 maggio. E
non riesci a sopportare quei maledetti ignoranti che pensano di
insultare la tua squadra con scritte sull’Heysel, con cori e
striscioni vergognosi. Calpestano la memoria, offendono le
famiglie, gli amici. La vostra passione dovrebbe essere la
stessa, è una tragedia che dovrebbe accomunare tutti, invece
qualcuno la usa per offendere. Ti fa male, ma non dimentichi
l’Heysel, i 39 morti. Non lo farai mai.
29 maggio 2013
Fonte: Senzaudio.altervista.org
A-Z |
ANTONIO TINESSA
E’ del nostro sangue
Mi
chiamo Tinessa Antonio e sono di Montesarchio (BN). Il 29 maggio
del 1985 ero a Bruxelles con gli amici Paolo Eritero, Pietro
Capuano, sgrizza, magnasale ed altri. Avevamo fatto un pullman
di 40 persone noi dello Juve Club Scirea e facemmo due giorni di
viaggio ininterrotti. Arrivati allo stadio già vedemmo sui prati
intorno all'Heysel folti gruppi di inglesi a torso nudo che
ubriachi continuavano a bere birra ed a riempire di epiteti ogni
gruppo di italiani che transitava nei loro pressi. A Tommaso
magnasale strapparono di mano dei biglietti e fuggirono andando
ad intrupparsi in un gruppo minaccioso di hooligans e noi che li
inseguivamo dovemmo desistere per non scatenare la rissa.
Entrando allo stadio gli addetti mi tolsero l'asta di plastica
che reggeva la bandiera della Juve mentre gli inglesi facevano
arrivare casse e casse di birra e quant'altro, tipo spranghe,
catene, etc, all'interno dello stadio con la benevolenza degli
organizzatori. Ci sedemmo nella tribuna opposta a quella d'onore
ad una ventina di metri dall'inizio della curva zeta occupata
per metà da inglesi e per l'altra metà da tifosi della Juve. Le
2 tifoserie erano separate, nella stessa curva Zeta, solo da una
rete metallica e con tre poliziotti a mantenere l'ordine. Il
primo errore dell'organizzazione fu quello di far disputare una
partitella a dei boys con le maglie della Juve e del Liverpool.
Già allora gli animi si riscaldarono perché si faceva il tifo
come se in campo ci fossero le finaliste della coppa. E gli
animi si riscaldarono a tal punto che lungo la rete metallica
incominciarono a tirarsi le bandiere. I tifosi della Juve erano
sparsi lungo la rete perché il grosso era all'estremità della
curva, quella a contatto con la tribuna d'onore, forse per
vedere qualche beniamino o qualche volto noto. Fatto sta che il
grosso degli inglesi diede, compatto, man forte a quelli che
litigavano per le bandiere e buttarono giù la rete correndo
appresso ai nostri che fuggendo insieme agli inseguitori
travolsero quelli che stavano a ridosso del muro, che crollò.
Anche dopo il crollo la furia rossa continuò ad avanzare e a
calpestare quelli che cadevano o che presi alla sprovvista non
si accorsero di niente. Noi da lontano non ci rendemmo conto che
il muro era crollato e che c'erano state delle vittime. Vedemmo
successivamente la gente invadere il terreno di gioco e molti
erano riversi per terra con gente accalcata per recare loro
aiuto. Eravamo troppo lontano per renderci conto della tragedia.
Successivamente ci furono minuti e minuti di confusione totale;
I nostri della curva opposta anche loro scesero in campo e si
diressero minacciosi verso la curva Z; solo allora comparve un
numero di poliziotti idoneo a controllare la situazione. Dopo
questa fase era scesa la notte e parlarono i due capitani che
dissero, Scirea in italiano, e l'altro in inglese che loro
giocavano, anche se non volevano, perché le autorità avevano
deciso in tal senso per evitare nuove e tragiche
contrapposizioni. Ho visto la trasmissione in tv di Minoli ove
si è detto che durante la fase antecedente la partita i
calciatori scesero in campo per rendersi conto di quanto
successo. Penso che ne seppero quanto noi in quanto gli
spogliatoi erano alla curva opposta dalla nostra, cioè distanti
un 150 metri dalla zona del muro crollato. Anche i poliziotti a
cavallo, che intervennero dopo per ripristinare l'ordine, a
domanda risposero che forse c'era un morto e dei feriti. Nessuno
degli spettatori che stavano distanti dal muro seppe in tempo
reale l'entità della tragedia; anche noi ne sapemmo di più solo
dopo la partita tramite la tv. Comunque
anche il sapere che c'era stato soltanto un morto scatenò in noi
una rabbia indicibile verso gli hooligans e pregavamo il signore
che ci facesse vincere la partita per punire coloro i quali
avevano commesso quell'atrocità. Incitavamo e spingevamo i
nostri campioni a battersi all'ultima goccia di sudore per
vendicare il sangue delle nostre vittime e dare così una lezione
di vita ai prepotenti e ai violenti. Le ingiurie, la violenza,
la furia assassina degli hooligans meritavano una risposta da
uomini veri, che si battono lealmente col pallone e non
con
spranghe e catene. Pertanto noi vedemmo quella partita con gli
occhi e con il cuore di chi si sta battendo contro le bestialità
umane e i nostri calciatori erano gli eroi e gli angeli
vendicatori, coloro che si battevano per il bene contro il male.
Di conseguenza l'esultanza finale, dovuta alla vittoria, fu
l'esultanza della gente semplice che aveva visto trionfare gli
eroi buoni contro gli assassini e non l'esultanza del tifoso di
una squadra. Pensavamo che il giorno dopo il tenore degli
articoli dei giornali sarebbe stato in sintonia con il nostro
sentire; invece appena passata la frontiera e comprati i
giornali avemmo la allucinante sorpresa di leggere di tutto
contro la Juve. "Che la partita non si doveva giocare", che "i
giocatori e i tifosi non dovevano esultare", che la Juve doveva
rifiutare quella coppa gronda di sangue e cose di questo genere,
quasi dovevamo vergognarci di aver vinto la coppa. E ancora oggi
i soliti pennivendoli continuano a dire ciò, sostenuti anche da
dichiarazioni infelici di qualche juventino che conta. Ebbene io
vorrei dire, anzi dico a loro, ma che ne sapete voi di tutte le
offese, le violenze subite da parte degli hooligans ? Che ne
sapete delle ansie, delle paure, dei tristi presentimenti che
avevamo quando andavamo alla ricerca dei nostri compagni e dei
nostri congiunti ? Che ne sapete voi delle telefonate fatte dai
nostri familiari al ministero degli interni per sapere i nome
delle vittime? Che ne sapete voi, che anche alla fine della
partita, hooligans inferociti ci assalirono per colpirci con
quello che avevano ? Che ne sapete del pianto di una madre che
fuori dallo stadio, dopo un'ora dalla fine, cercava i suoi figli
ed il padre ? Del macabro ululare delle sirene delle
autombulanze ? Dei miei amici di viaggio che alla spicciolata,
con gli occhi pieni di dolore e di terrore, arrivavano trafelati
al pullman che ci doveva portare indietro ? E della privazione
di poter gioire per un sogno cullato per anni, della privazione
di poter finalmente cancellare i pianti di Belgrado e di Atene
(sì ero stato anche lì sempre con gli stessi amici) ? E' come se
per un attimo il cieco avesse visto la luce che subito dopo gli
hanno tolto. Quella coppa, più dell'altra di Roma, ci
appartiene, perché essa rappresenta per noi il simbolo
dell'olocausto, il simbolo del sacrificio dei nostri morti, il
simbolo della vittoria della lealtà contro la violenza e le
barbarie. Mi arrabbio da pazzo quando leggo da pennivendoli
prezzolati che non la dovevamo accettare. Perché ? Io dico: bene
non si doveva giocare ma poiché si è giocato per volontà non
certo della Juve, che dovevano fare i nostri calciatori, perdere
? Suvvia, avrebbero scritto che non avevamo il sangue nelle
vene, che non avevamo saputo onorare i nostri morti. Abbiamo
vinto e nemmeno questo gli va giù. Poi parlano del rigore su
Boniek fuori area; e allora perché non parlano del gol di Miahitovic in fuori gioco o di come l'Inter è arrivata a vincere
a Madrid. La conclusione è questa e vale dal primo all'ultimo
juventino: non date retta a chi, dall'alto della sua
presunzione, della sua supponenza, della sua invidia, del suo
livore vuole dividerci, perché sono pagati lautamente per
questo. Noi dobbiamo essere uniti per rendere onore ai morti di
Bruxelles caduti per credere in una maglia, in una fede. E la
coppa è il legame che ci fa sentire più uniti e più stretti
perché rappresenta il sogno dei nostri caduti, rappresenta la
sintesi della nostra storia fatta di lotta contro i poteri
forti, di lotta contro la violenza e la barbarie, di lotta
contro l'ipocrisia di una casta di media che vogliono
strumentalizzare il nostro sangue per buttarci ancora una volta
il fango addosso coll'ormai scoperto fine nascondere il vero
lerciume che avvolge loro e quelli che li pagano (vedi
morattopoli). La coppa è nostra e guai a chi ce la tocca anche a
parole; perché non sono degni di nominare neppure i nostri
morti.
1 giugno 2010
Fonte: Giulemanidallajuve.com
A-Z |
MAURIZIO TORRIOLI
La strage dell’Heysel ? Una
vendetta premeditata, attuata
contro gli italiani per gli
accoltellamenti di Roma-Liverpool
di Max Cannalire
Intervista a Maurizio Torrioli,
nostro collega che fu testimone oculare della Strage dello
Stadio Heysel di Bruxelles.
L’argomento
non è dei più semplici. Maurizio Torrioli, padre del nostro
collega Matteo, ha vissuto una bruttissima avventura, in
occasione della finale della Coppa dei Campioni, in quel brutto
1985. Nessuno avrebbe ipotizzato quanto accaduto.
Eri partito come tanti
appassionati per cercare di vivere una serata sportiva,
indipendentemente dal risultato: quando abbiamo visto le
immagini abbiamo capito la gravità dell’accaduto e di ciò che
stava accadendo. Tu sei genitore di un nostro collega, ma eri
partito come semplice sportivo. Una gravità inaudita.
"Hai parlato di Matteo, che aveva 3
anni, quando sono stato a Bruxelles, e questa è una cosa che mi
ha colpito molto, nel corso di questi 33 anni che sono passati.
Sono molto restio, a parlare di quella serata, di quella
esperienza perché ancora oggi mi rifiuto di vedere le immagini
in quanto mi sono trovato coinvolto e ho riportato delle ferite.
Mi sono trovato schiacciato non fortunatamente nella parte bassa
della Curva Z, dove c’erano le reti, ma dalla parte del muro,
che siccome era fatiscente, e crollò fu quella, la nostra
salvezza perché quando il muro crollò fui catapultato dalla
spinta degli altri sulla pista di atletica, e ho sbattuto la
testa, ho avuto qualche escoriazione ma, tutto sommato, me la
sono cavata bene. I ricordi sono questi, allucinanti, di una
serata che doveva essere una festa e invece è stata una
tragedia".
Quante volte ci hai ripensato,
tutti questi anni ?
"Non sono quasi più andato allo stadio,
in tutti questi anni. Non me la sono sentita, di andare a vedere
le partite. Ho paura anche dei posti affollati, sono diventato
claustrofobico. Ho anche risentito, da questo punto di vista. Di
quella sera ho dei ricordi non molto nitidi nel senso che quando
caddi vagavo per il campo come un fantasma, e mi sono ritrovato
addirittura sotto, negli spogliatoi, dove stavano i calciatori,
perché la partita stava per cominciare. E da solo vagavo per
Bruxelles per cercare di chiamare casa. All’epoca non c’erano i
telefonini e io cercavo un posto per avvisare i miei familiari.
Sono riuscito a salire su un’ambulanza, poi dal posto di pronto
soccorso chiamai, e tutti erano in apprensione, tranquillizzando
mia moglie, papà, mamma. Anche se devo dire che Pizzul non
drammatizzò molto la questione, fu molto bravo. La notizia dei
39 morti non fu data nell’immediato, il conteggio delle
vittime".
Che arrivò durante la partita,
effettivamente.
"Riuscii a chiamare, mi feci curare le
ferite che avevo poi firmai e andai via. Ero scalzo, avevo perso
le scarpe, la borsa con tutti i documenti. Andavo in giro per
Bruxelles con tutti i vestiti strappati, e con i gendarmi che ci
cacciavano via perché pensavano fossimo stati noi Italiani, a
causare tutta quella tragedia".
Come hai fatto, a rientrare ?
Non so come ho ritrovato i miei
compagni, sul pullman che ci aveva portato allo stadio. Mi sono
messo dentro all’automezzo e non ho visto nemmeno la partita: ho
aspettato che finisse la partita, che rientrassero i miei
compagni. In quattro eravamo rimasti feriti e gli altri cinque
non avevano subìto danni. E da lì ci hanno riportato in
aeroporto e siamo tornati a casa".
Tu, sempre senza scarpe ?
"Sì, senza scarpe, privo di documenti.
Quando sono arrivato all’aeroporto davo l’immagine di un
disperso, a Ciampino, fu una mattinata particolare. Con i
familiari che arrivarono a prendermi: tutti, mia moglie, i miei
genitori, quando mi videro rimasero impressionati dallo stato in
cui versavo. Anche se avevo riportato a casa la pelle, che era
già una grande cosa".
Quale spiegazione ti sei dato,
negli anni, cioè come è possibile che Polizia belga e UEFA
abbiano sottovalutato il pericolo che si conosceva bene, degli
hooligans ?
(Maurizio Torrioli precisa) ..."Poi ti dirò
perché è successa quella carneficina. Partiamo dall’inizio.
Quando siamo arrivati ci fecero scendere a Ostenda perché a
Bruxelles arrivavano aerei da tutte le parti, perché arrivano
tifosi da ogni dove, soprattutto gli Juventini, perché per gli
Inglesi era più semplice, attraversando la Manica. Ed erano più
controllabili, da questo punto di vista. Noi avevamo prenotato
con un’agenzia di viaggi, i nostri biglietti erano delle
tribune. Poi ci comunicarono che avessero, all’arrivo, solo la
disponibilità della Curva Z, che sono quelli dove andranno i
tifosi neutrali, ci dissero. I Belgi, sarebbero andati lì.
Abbiamo detto "Va bene, visto che siamo qui cosa facciamo ?
Andiamo a vedere la partita poi riparleremo con le agenzie che
hanno organizzato il viaggio". Quando arrivammo lì ci accorgemmo
che fosse una trappola, perché la curva Z perdeva pezzi, le
strutture erano ammaccate, era inadatto. Noi Italiani siamo
stati perquisiti. Verso le 7 meno un quarto arrivarono gli
hooligans, entrarono travolgendo tutto, senza controlli, ricordo
nitidamente che parecchi di loro avevano i sacchi neri, quelli
della spazzatura, erano pieni di birra. Una cosa vergognosa.
Abbiamo cominciato a temere, perché da quella parte c’eravamo
noi, con le famiglie, persone tranquille, che non avevano
nessuna intenzione di fare la guerra agli hooligans. Verso le 7
e mezza, erano colmi di birra, ubriachi; hanno cominciato con le
fionde a tirare biglie di ferro. Corpi contundenti che hanno
causato le ferite ad alcuni. Poi hanno caricato perché erano
abituati a fare la guerra negli stadi. Noi, da quella parte,
anziché rispondere, non eravamo abituati allo scontro,
indietreggiavamo, per scappare, verso la rete che delimitava il
campo, alcuni, chi, lateralmente, come me, spinto verso il muro.
Che sotto la spinta di tutti i tifosi venne giù, e dico pure
fortunatamente, è crollato. Era talmente vecchio che non ha
resistito alla spinta della gente. Sono caduto di sotto, da 3-4
metri sono caduto giù e mi sono salvato da quell’eccidio, in cui
la gente è morta soffocata lì sotto, incastrata, perché quelli
che spingevano avevano paura degli hooligans".
|
Maurizio, a distanza di anni,
credi, come tuo pensiero, che la partita dovesse essere per
forza giocata, in quelle condizioni ?
"Poi dirò una cosa. Quella partita, per
me, non è mai esistita. Credo che la Juventus, per quanto mi
riguarda, non ha mai vinto, quella coppa. Perché non si può
vincere una cosa sportiva con quasi 40 morti. Io non me la
sento. Non so se la società, se Boniperti, abbiano fatto bene o
male. Non mi interessa. Io, da sportivo, da tifoso, per me,
quella coppa non mi appartiene. Perché non si vince una coppa in
quella maniera. La cosa che mi ha fatto male è che dovesse
essere una giornata di festa, per tutti quanti!".
Posso dirti che è stato il
punto di non ritorno della decenza, nel mondo del calcio e che
da lì c’è stato un lentissimo regredire dell’etica, dei
comportamenti, dell’importanza della salute, dell’essere umano ?
"Sì perché siamo andati sempre
peggiorando. Il risultato sportivo, sinceramente, non aveva
nessuna importanza. L’unica cosa che contava, e che purtroppo è
rimasta nel tempo, è il dolore di quei familiari, di quei 39
angeli, che io chiamo così, che hanno dovuto patire la perdita
di un caro, che era andato a vedere una partita. E che invece si
è ritrovato a tornare in Italia dentro a una bara, in
circostanze drammatiche".
Il pensiero va inevitabilmente
a un amico, un giovane radiocronista, che eri tu, Maurizio
Torrioli, e al tuo delfino, al tuo successore, al collega
Matteo, che è qui, di fianco a noi, in redazione, Radio Cusano
Campus, e che lavora in altri settori…
"Fortunatamente", dice, sorridendo.
In base a ciò che è successo
all’Heysel, ti è mai venuta la tentazione, che sarebbe stata
umana, di sconsigliarlo, di fare il radiocronista sportivo ?
"Guarda, io non l’ho indirizzato,
Matteo: ha fatto tutto da solo. È rimasto tifoso del
Monterotondo poi fortunatamente negli ultimi anni fa cose
diverse, che non riguardano il mondo del Calcio. Ne sono molto
contento anche se a livello di Calcio dilettantistico, scrive di
Calcio; ma non è che quella esperienza mi potesse suggerire di
dirgli di non farle. Non me la sono sentita perché era pure
bravo, e appassionato, già da quando era sedicenne".
(Maurizio Torrioli conclude con una decisa precisazione)
..."Voglio dire una cosa, che è passata sempre
inosservata. La Strage di Bruxelles, che io chiamo così, era
premeditata. Gli hooligans sono venuti lì per uccidere gli
Italiani. E lo dico con grande serenità, sono certo, di questo.
Perché non attaccavano gli Juventini ma la caccia era agli
Italiani. Dopo ho scoperto, in un video su YouTube, perché
vollero vendicare gli accoltellamenti della finale
Roma-Liverpool. Questa è la verità che io so, che nessuno dice,
e contro la quale nessuno mi convincerà del contrario.
Altrimenti non si spiega tutta quella ferocia nei confronti di
gente che era andata lì non per fare la guerra. Avrei capito uno
scontro tra ultrà, che sono abituati. Hanno attaccato le
famiglie, in modo vigliacco. È stata una vendetta premeditata".
4 giugno 2018
Fonte: Tag24.it
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GIANNI TRUFFA
Gianni Truffa: "Io c’ero anche
in quella
maledetta serata allo stadio
Heysel di Bruxelles"
In
quel drammatico 29 maggio del 1985 nella curva Z dello stadio
Heysel a Bruxelles c’era anche Gianni Truffa. Il giornalista de
"La Nuova Provincia", ora sessantacinquenne, si salvò per
miracolo. A 30 anni di distanza può così raccontare quella
terribile esperienza che causò la morte di 39 tifosi juventini,
travolti dalla furia e dalla follia degli "hoolingans" del
Liverpool. Truffa è un simpatizzante juventino che ha girato il
mondo ad assistere alle finali di Mondiali, Europei e Coppe
Campioni. "Mi trovavo nella metà riservata ai belgi, nella curva
Z, che vendettero i loro biglietti agli italiani - racconta - io
allora lavoravo in ferrovia. Un mio collega, che aveva dei
parenti in Belgio, riuscì a procurarmi un ingresso allo stadio".
Doveva essere un pomeriggio di sport, invece alle 19.20 si
trasformò in tragedia: "Vedo una persona sulla pista di atletica
intorno dello stadio che perde sangue dalla bocca. Questo
provoca la reazione degli inglesi che cominciano a rompere le
transenne. Preso dalla paura, scappo e in poco tempo raggiungo
il campo di gioco. Per istinto vado in tribuna stampa dove
incontro Enrico Ameri che mi intervista alla radio: riesco così
a far sapere a casa che sono salvo". Truffa descrive la vicenda
come se la stesse rivivendo in presa diretta. In quei momenti
non sapeva ancora che c’erano stati dei morti: "La percezione
non l’avevo, ma che fosse successo qualcosa di gravissimo sì.
Ripensandosi, devo ringraziare il mio fisico corpulento se sono
riuscito a farmi largo tra la gente". Il cronista si è poi
fermato in tribuna dove ha assistito alla partita, vinta per 1-0
dalla Juventus con un rigore di Platini: "L’ho vista in tribuna
stampa insieme agli altri giornalisti. Grazie alla Bbc inglese
ho potuto telefonare a casa tranquillizzando così i miei. E
mentre le squadre giocavano, ho cominciato a prendere appunti
per dare uno sfogo alla tensione". All’ Heysel Truffa è tornato
nel 2000: "Era il 28 giugno, in occasione della sfida tra
Portogallo e Francia agli Europei. Quella curva Z però non c’era
più: ora è diventato un parcheggio" [e. a.]
6 giugno 2015
Fonte: La Stampa (Asti)
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