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3 Tifosi Tarantini Curva Settore Z  
Massimo Tadolini Curva Settore M-N-O  
Giuseppe Tassi Tribuna Stampa     
Davide Terruzzi Curva Settore Z     
Antonio Tinessa Curva Settore M-N-O     
   Severino Traina Curva Settore Z  
Gianni Truffa Curva Settore Z     
                 
         
                 
3 TIFOSI TARANTINI

"Eravamo all’Heysel"

Il 29 maggio 1985 il calcio perse definitivamente la propria innocenza. E perse anche 39 juventini, nella strage dell’Heysel. Nel 2010 incontrai tre tarantini tifosi della Juve che quella notte erano lì. Raccolsi i loro drammatici ricordi.

Erano nello stadio maledetto. Per fortuna lo possono raccontare. Erano all’Heysel: basta pronunciarlo per provare, venticinque anni dopo, lo stesso orrore. Tre racconti diversi, di tarantini che fecero quel viaggio e riuscirono pure a tornare. Trentanove, da quello stadio, non fecero mai ritorno. Trentanove tifosi morti prima di una partita, per una partita. E il ricordo straziante di tre testimoni, come fossero uno solo. Basterebbe aprire le virgolette adesso e non chiuderle più, per ascoltare le loro paure, le storie di una notte che sporcò di sangue il calcio e imbrattò indelebilmente i ricordi intimi di ognuno. Giuseppe Spera adesso ha 66 anni. Fa l’imprenditore ortofrutticolo e in azienda, a Massafra, ci sono ancora pile di giornali sportivi, che dimostrano la passione: "Partimmo con un volo charter: 650mila lire a testa. Eravamo in centocinquanta a partire da Brindisi, tornammo e mancavano alcuni. Due li avevo memorizzati. Erano di Mesagne, se non ricordo male: erano morti". Era il 29 maggio 1985: "Arrivammo con largo anticipo: la nostra Curva era ancora semivuota, ci sistemammo al centro per non stare troppo vicini al settore degli inglesi. Avvertivamo un po’ il pericolo, ma pensavamo alle bottiglie che avevano tra le mani, che pure arrivarono. In un attimo tutto cambiò, non ci rendevamo più conto di quello che stava accadendo, c’era gente che sveniva, gente che cadeva e gente che scappava. Noi restammo in piedi perché aggrappati a una balaustra che pure si ruppe. Quando cadde la divisione dal terreno di gioco, finii in campo e, da lì, mi fecero uscire attraverso gli spogliatoi. Fuori era uno scenario di guerra, tra sangue e sirene. Io ero senza scarpe: avevo i mocassini e si sfilarono nella ressa. Sono rimasto scalzo fino al rientro a casa". Qualche ferita, il passaggio dall’ospedale: "Vidi parte della gara da lì, telefonai a casa. Anche perché il rientro, che era previsto per la notte, fu spostato alla mattina dopo: aspettavamo che tornassero tutti. Quando vidi che qualcuno mancava capii di essere stato fortunato: non avevo avuto nemmeno il tempo di avere paura". Ora Giuseppe è nonno: "E quando cresceranno i nipotini non avrò timore a raccontare. Ho cercato di dimenticare, ma è impossibile: allora meglio raccontare, perché non accada più. Nell’immediato pensai che non sarei più andato allo stadio. Ma alla prima partita della Juve a Torino ero di nuovo lì. Forse è stato il modo per ripartire". Gennaro Morelli, invece, non era all’Heysel per una passione sua: "Il tifoso non sono io: era per accompagnare mio figlio, di quindici anni, che andai a Bruxelles". Morelli, tarantino di 69 anni, ora è primario alla Santa Rita, dopo esserlo stato al S.S. Annunziata: "E furono mio figlio e il gran caldo, forse, la vera fortuna di quel giorno. Perché mentre eravamo in gruppo e andavamo verso lo stadio, il bambino mi chiese una Coca Cola e ci fermammo per acquistarla. Così perdemmo gli altri e arrivammo allo stadio un po’ più tardi. Così loro erano vicino alla rete che divideva gli spalti dal campo, noi più in alto, vicino a un’uscita. Quando scoppiarono gli incidenti la gente cominciò a spingere verso il basso, quindi verso la recinzione, la polizia impediva l’accesso al campo e si creò pressione: io fui spinto verso un muro e mi preoccupai, subito, di difendere il bambino.

Quando ebbi la possibilità, lasciai lo stadio avendo vicina la via di fuga". Fuori lo scenario era diverso dalle immagini in tv, all’inizio: "Non capii la situazione: all’interno dello stadio volavano le bottiglie lanciate dagli hooligans, vidi qualche ferito dai lanci, ma uscendo presto trovai calma fuori. Calma apparente e breve: dopo un po’ iniziarono ad arrivare feriti più gravi, probabilmente anche i primi cadaveri. Solo dalla tv riuscii ad avere l’esatta dimensione del dramma". In Italia guardavano la televisione, scoprendo che c’erano morti. E molti erano in ansia: "Un ingegnere di Caserta, che trovai per caso, mi aiutò a mettermi in contatto con i familiari. Andai in un albergo e passai la notte lì: ripartii con un volo di linea, non con il charter. E per poterlo pagare chiesi i soldi a una parente di mia moglie di Bruxelles. Ma l’agenzia, non vedendomi sul charter, chiamò casa dandomi per disperso. Per fortuna mia moglie sapeva. Io, invece, seppi che il figlio di un amico, informatore scientifico, e che all’andata era con me, era morto". Con un figlio al seguito ogni momento diventò più pesante: "Ma lui rimase tranquillo e io, avendo lui, mi sforzai di mantenere la calma. La passione per la Juve però lui l’ha lentamente persa: entrambi continuiamo ad andare allo stadio solo per il Taranto". Pasquale Nuzzo, invece, ha appeso nel suo studio da commercialista, il gagliardetto celebrativo di quella partita e il biglietto della Tribuna Z, strappato all’ingresso. Sono fissi lì per un motivo: "Perché quella, mi creda, è stata l’ultima partita di calcio che ho visto. Da lì io sono uscito vivo, ma la mia passione è morta: ero stato anche giocatore di Promozione nel Massafra, ero stato anche alla finale della Juve ad Atene, due anni prima, ma poi nemmeno in televisione ho più visto una partita". Si rideva, prima che arrivassero le bottiglie: "Eravamo nello stadio in anticipo, scherzavamo un po’ tra noi anche per mascherare la delusione di uno stadio inappropriato. Iniziarono a volare bottiglie di birra, pietre facilmente ricavabili con un calcio ai gradoni. Ma noi eravamo lì da sportivi, nessuno reagì: ci allontanammo per non essere colpiti e iniziò la calca. Poi gli inglesi invasero il settore e iniziò la fuga generale, la paura. Ricordo che nella ressa avevo un altro tifoso che si aggrappava al mio viso, mi sentivo asfissiato dalla pressione. Quando crollarono le strutture molti caddero quasi nel vuoto, altri trovarono il varco per andare sul campo. Io ero tra questi ultimi: non potevi fermarti perché saresti stato calpestato. E, infatti, ti trovavi quasi a camminare su gente che era caduta". Pasquale, rispetto agli altri due, non lasciò lo stadio: "Perché mi portarono negli spogliatoi per curarmi le escoriazioni. Ero scalzo, ormai. E vedevo i giocatori della Juve nello spogliatoio. In quel momento, e lì dentro, nessuno sapeva esattamente cosa stesse accadendo all’interno. Nessuno sapeva che c’erano morti. Nemmeno io, che fui accompagnato in tribuna poi e trovai alcuni dei miei amici. Seguimmo la partita, tornammo in campo per uscire alla fine e festeggiammo pure con la squadra, non sapendo la gravità della situazione. Alle 2 del mattino, in aeroporto, guardammo la tv e ci rendemmo conto. E capimmo anche perché gli amici che avevano lasciato lo stadio, vedendoci, si misero a piangere: temevano fossimo morti". Nuzzo sente di non esserci andato lontano: "Un amico, giorni dopo, mi disse: "Sei arrivato vicino alla porta del cimitero e non sei entrato". Aveva ragione: ho avuto paura davvero, adesso provo disgusto. E ho abbandonato il calcio. Mi spiace solo per mio figlio, che non ha avuto la possibilità di appassionarsi. Ma quello che ho visto non lo dimentico più". Sembra un unico racconto, sono tre storie diverse. Di tifosi o papà premurosi che hanno vissuto la paura, che hanno visto morire. Per una partita di calcio che in trentanove non hanno mai potuto raccontare. Fonte: Fulviopaglialunga.it © 29 maggio 2013 Fotografia: Nicola Di Fazio © Massimo Tadolini © Giuseppe Tassi © Davide Terruzzi © Severino Traina © Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com © Audio: Rai (Bruno Pizzul) ©

 
MASSIMO TADOLINI
     

Heysel una storia ancora da raccontare

di Massimo Tadolini

Il viaggio in camper fu un’idea di Skipper il segretario dello Juventus club Bassano del Grappa 1949. Io allora ero da poco arrivato da Bologna ed accettai di buon grado la modalità organizzativa. I veneti sono gente allegra con simili emigrati in ogni parte del mondo, per questo l'appuntamento ai bassanesi fu dato presso un Ristorante Veneto aperto da anni nel centro di Bruxelles. Eravamo fondamentalmente due gruppi, il mio fatto di 10 persone con i biglietti dati dalla Juventus ed il più consistente, di almeno 30 persone, aveva trovato il biglietto con un'agenzia di viaggio. Loro pensavano di essere nei distinti, ma che importava oramai... Mancavano poche ore all'incontro l'emozione era alta, e poi... Che problema mai avrebbe dovuto esserci in CURVA Z ? Già quella sera però la preoccupazione tra di noi esplose perché gli inglesi stavano sfasciando il centro della città. Poco prima Il nostro ristorante fu assalito da un grosso gruppo di inglesi visibilmente ubriachi perché avevamo una bandiera della Juve esposta. Tra gli italiani che nulla avevano a che fare con il mondo ultras e le sue eventuali regole , la paura era tangibile. Cosi decidemmo si dividerci. Il gruppo legato all'Agenzia aveva la notte in Hotel prenotata, mentre noi avevamo l'ansia di ritornare ai camper perché se ce li avessero sfasciati sarebbe stato un bel problema essendo stati noleggiati per l'occasione. Salutati gli altri amici, ci incamminammo verso i nostri mezzi trovando sulla nostra strada un altro gruppo di questi animali ubriachi che ci aggredirono picchiando uno di noi ed iniziandoci a lanciare bottigliate di vetro. Presero Skipper e lo buttarono dentro una fontana dopo averlo massacrato. Fui l'unico a ribellarmi uscendo solo dal gruppo in fuga. Andai verso di loro perché non era più possibile per me sopportare altro. Ammetto che fui fortunato perché quel gruppo di trenta hooligans stette fermo limitandosi ad offese, ma subito dopo dal loro gruppo uscì un ragazzo che si mise di fronte a me come in un film Western invece di fare cantare il "grilletto" ci saltammo addosso in un testa a testa alla pari. Ero fuori di me dalla rabbia e lo buttai giù a terra in un attimo e, come se fossi in preda ad un raptus, iniziai a prenderlo a calci senza smettere... "Massimo scappa" mi urlarono. Mi girai iniziando a correre subito dopo perché stava arrivando la Police... Mai avrei immaginato di trasformarmi anche io in un'altra persona. Ero andato lì per vivere una giornata di festa. La notte del 28/5/1985 la passammo con la preoccupazione del giorno dopo... Anche perché sapevamo che stava arrivando una massa di tifosi enorme. Sinceramente la mattina del 29/5/1985 tutte le brutte cose del giorno prima sembravano sparite, la giornata era bella e si iniziò a respirare l'aria delle festa. All’Atomium facemmo le classiche foto da tifosotti con lo striscione ed iniziammo a pensare dove parcheggiare i 3 camper. Io feci il capo colonna dei tre perché ero l'unico a sapere il francese discretamente.

 

Parlando con la Police imparai che aveva destinato un'area per i camper dietro la curva inglese. Inizialmente ascoltai questi incompetenti trovandomi dentro un parco dove c'erano migliaia di loro bivaccati come animali in riposo e per fortuna non affamati diversamente i nostri 3 camper goliardici con tanto di striscioncino appeso fuori e con bandiere bianconere legate alle antenne sarebbero stati certamente distrutti... Dopo questo giro di roulette russa decisi di parcheggiare i mezzi dietro la nostra curva settore M N O mi pare... Nel frattempo i nostri pensieri andavano ai nostri amici di Bassano che sarebbero andati a vedere la partita nella Zeta, ma chi poteva immaginare quella mattanza ? L'ingresso allo stadio fu indimenticabile e da raccontare. Ancora non posso credere che qualcuno di importante avesse avvallato di gestire l'ingresso dei nostri tifosi in tale modo. Immaginatevi migliaia di persone che entravano in curva passando tutte da un’unica porta di ingresso come quella di casa vostra. Per questa ulteriore negligenza si formò un enorme imbuto umano con gente che non ce la faceva svenendo sotto il sole anche per mancanza di respiro. Una bella idea fu quella di mettere la polizia a cavallo ai lati della folla inferocita. Risultato: cavalli imbizzarriti, donne e bambini che svenivano e per stringere al centro la gente, ecco che partivano le manganellate ai lati della folla. Come una clessidra... Uno ad uno, ignari granelli di sabbia, entravamo in curva senza poi essere assolutamente perquisiti all'ingresso… Mi ricorderò sempre il segretario del JCB che trovai in un lato della curva in piena crisi isterica... Se fossi stato ad un evento del genere con un mio figlio mi sarei rifiutato di entrare per salvaguardarlo. Se tutto questo fosse la trama di un film ancora da girare, un buon regista avrebbe capito che era tutto già da rifare. In realtà purtroppo questi sono i presupposti di una storia vera in cui credo che pochi abbiano pagato per evidenti incapacità logistiche ed organizzative. Entrati allo stadio però l'atmosfera era quella di una finale ed iniziammo a percepire che comunque eravamo finalmente lì... Insomma si giocava l'ultimo atto della Coppa dei Campioni tra la Juve ed il Liverpool squadra che io avevo già visto giocare in Supercoppa a Torino la notte del pallone rosso... Feci 18 ore di pullman per tornare a casa perché era tutto bloccato dalla neve... Considerando la precedente partita vista mi consolai pensando che forse le partite con i Red dovevano essere per forza sfigate e con qualche problemino. Ma subito capii che la situazione stava prendendo una brutta piega... Avevano iniziato a giocare 2 squadre di bambini. Ecco quelli con la maglia BIANCA e quelli con la ROSSA. I primi erano sostenuti da tutto lo stadio Juventino, mentre i secondi da quel 3/4 di curva rossa di fronte a noi… Dai cori delle reciproche tifoserie con i goal dei ragazzini con maglietta bianca iniziarono a partire i primi razzi dal settore del Liverpool a quello adiacente Z... La loro curva di fronte a noi era così composta: 3/4 agli inglesi con settore stracolmo 1/4 ad italiani che avevano esposto le loro bandiere. Tra loro un reticolato da giardino e non più di 5 poliziotti distribuiti in verticale, tipo 1 ad ogni 10 gradini se andava bene. Ma quelli stanno lanciando razzi, stanno caricando !! "POLICE POLICE POLICE" Gridava la nostra curva come per fare rendere conto alla sicurezza che di là stava succedendo qualcosa. Ma nulla successe per aiutare tutti quei fratelli che rimasero abbandonati al loro destino. Gli ultras di allora fecero qualcosa per impedire la tragedia ed io mi unì a loro da quel giorno per sempre. (Ndr: Massimo Tadolini è stato il Fondatore di Area Bianconera e Nucleo 1985) Fonte: Facebook (Pagina Autore) © 17 giugno 2013 Fotografia: GETTY IMAGES © (Not for Commercial Use) Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com ©

 
GIUSEPPE TASSI

HEYSEL nello stadio della morte

Il nostro inviato rievoca la folle notte di Juve-Liverpool che costò 39 vite

di Giuseppe Tassi

Bruxelles bruciava al sole in quel pomeriggio del 29 maggio. La Juve era arrivata dai profondi silenzi del ritiro di Ginevra, salutata da un tifoso speciale, il giovanissimo Emanuele Filiberto di Savoia, allora tredicenne. Lungo le vecchie strade del centro storico e sotto la statua del Manneken Pis sfilavano senza conflitti apparenti i branchi del Liverpool e i tifosi bianconeri. Odori forti di birra e sudore, un clima di attesa crescente per la finalissima dell’Heysel distante poche ore e una colonna sonora ossessiva, martellante: "Liverpool, Liverpool, Liverpool, you’ll never walk alone", l’inno della squadra inglese, la religione musicale del Kop, il cuore del tifo di Anfield Road. Il piccolo stadio belga si popolò con largo anticipo, come sempre succede nelle grandi manifestazioni, dilatando quella lunga vigilia. I tifosi juventini che avevano prenotato attraverso tour operator si sistemarono nei settori M ed N, lontani dai supporter del Liverpool. Quelli che invece si erano organizzati in proprio furono convogliati nella curva Z, divisa a metà da una sottile rete di protezione: da una parte i Reds, dall’altra il popolo bianconero. Il maledetto Heysel era uno stadio palesemente inadeguato alla finale di Coppa dei campioni non solo per le piccole dimensioni, ma perché era un impianto fatiscente. Dalla curva Z si staccavano calcinacci che divennero armi primordiali nelle mani degli "animals" del Liverpool. Dopo qualche coro minaccioso contro gli juventini presero a piovere proiettili di argilla seccata. Nella semicurva italiana cominciò il fuggi fuggi, interpretato dai Reds come un segnale di resa. Falangi di tifosi del Liverpool si scagliarono a ondate verso la ridicola rete divisoria fino a farla crollare. Il loro obiettivo era l’invasione, volevano cacciare gli italiani e tenersi la curva Z tutta per loro. Dalla tribuna stampa la scena parve subito agghiacciante. Premuti da quella massa di folli guerriglieri da stadio, i tifosi italiani cercarono una via di fuga da una scala laterale, mentre i pochi agenti di polizia distribuivano manganellate proprio ai nostri per riportare la calma. Stretti in quell’imbuto di paura, molti cominciarono a correre all’impazzata verso l’uscita e un muretto di supporto crollò all’improvviso.

Quella calca infame cominciò a rapire una vita dopo l’altra. Fra i corpi laceri e calpestati la morte arrivò per colpa della paura: molti finirono col torace sfondato travolti dalla massa dei tifosi in fuga, altri cercarono invano l’ultimo refolo d’aria prima di morire per asfissia. Ricordo che mi catapultai dalla tribuna stampa per raggiungere il ventre dello stadio. Avevamo la percezione della tragedia in atto, anche se lo speaker ufficiale continuava a rassicurare il pubblico, invitando i tifosi alla calma, chiedendo loro di non abbandonare il posto. Quando raggiunsi l’ampio corridoio ad anello che circondava lo stadio, vidi quello che temevo: una decina di corpi senza vita accatastati uno sopra l’altro, maschere di sangue, volti tumefatti con i segni neri delle suole sui volti calpestati. Custodi di quella tragedia due poliziotti a cavallo, simboli viventi dell’impotenza degli organizzatori, dell’imprevidenza dell’Uefa e del governo belga. Mentre correvo verso la postazione telefonica per raccontare la scena al mio giornale e ai colleghi Italo Cucci e Sandro Picchi, vidi torme di tifosi juventini chiedere ansiosamente di entrare in tribuna stampa per rassicurare parenti e amici o per raccontare i dettagli di quella tragedia che si consumava. Intanto i giocatori erano chiusi negli spogliatoi con notizie vaghissime su quanto stava accadendo. Sarebbero entrati in campo un’ora e mezzo dopo, su espressa richiesta dell’Uefa e della prefettura di Bruxelles, per evitare che le due fazioni del tifo scatenassero una guerriglia fuori dallo stadio. Mentre la polizia convocava reparti militari, allestendo un tardivo servizio di sicurezza, i giocatori scesero in campo per giocare quell’assurda finale. La Juventus vinse con un gol di Platini, mentre la famigerata curva Z era ormai un tragico moncone, con i soli tifosi del Liverpool su un lato e un vuoto agghiacciante dall’altro. La morte aveva preso il posto della gioia e dell’euforia dei tifosi juventini. Ignari della tragedia, alcuni giocatori bianconeri si concessero un assurdo giro di campo con la Coppa insanguinata. Ma il giorno dopo, sul volo di ritorno verso Torino, quando il bilancio della tragica notte dell’Heysel fu chiaro a tutti, la grande Coppa con le orecchie rimase desolatamente abbandonata su un sedile. Fonte: La Nazione © 29 maggio 2015 Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com ©

 
DAVIDE TERRUZZI

29 maggio 1985

di Davide Terruzzi

La tua squadra del cuore è in finale. Tu con lei. Sogni di alzare al cielo la Coppa dei Campioni, tu accanto al tuo capitano. Vuoi esserci, ti organizzi, chiami a raccolta gli amici e i familiari, gli stessi con cui condividi la passione, in qualche modo riesci ad avere in mano i biglietti. Sarai in finale, anche tu. Non vedi l’ora che arrivi quel giorno, la data sul calendario è cerchiata in rosso: 29 maggio. E’ il 1985, il Boss canta Glory Days e tu ti auguri che quella sera sia davvero gloriosa, di goduria allo stato puro. Il countdown è finito, il grande giorno è arrivato. Sei a Bruxelles, hai girato per le vie della città, hai conosciuto altri animati come te dalla stessa passione, ma ora si entra allo stadio. Un impianto vecchio, fatiscente, criticato: come fa una Finale a essere disputata in un posto del genere ? Però, chissenefrega, sarà una bella e vincente serata, almeno si spera. Hai il biglietto nel settore Z, prendi posto e ti accorgi che qualcosa non va: sei accanto ai tifosi del Liverpool, separato da loro da due bassi reti metalliche. Lo sai che non godono di buona fama, ti ricordi quanto avvenuto a Roma l’anno prima, ma pensi che saranno anche loro qui solo per godersi la partita. No, invece no. Un’ora prima del calcio d’inizio, gli hooligan caricano, vogliono invadere il tuo settore. Non ci vuole molto, speri e credi nell’intervento della polizia. Hai paura, una fottuta paura, stanno arrivando. Scappi, come tutti, il più lontano dagli inglesi. E però c’è un muro. Ci ammassiamo tutti lì ? No, dai, è impossibile. Cerchiamo di andare in campo, è l’unica. Andiamo via da lì. Cosa fanno i poliziotti ? Ci manganellano ?? Ma questi sono pazzi ! Non hai molto tempo per ragionare, l’istinto ti suggerisce la mossa da fare: ritornare verso quel muro, scavalcare e rifugiarsi nell’altro settore. Chiuso in un angolo. Da un lato la furia pazza degli hooligan, dall’altro la totale impreparazione e scarsa intelligenza di chi dovrebbe aiutarti. Ormai è ressa, si è tutti lì. Non hai nemmeno il tempo di accorgerti che da qualche parte perdi sangue. Vedi alcuni che saltano nel vuoto. Poi un tonfo, un rumore sordo. Il muro è crollato. Cazzo, è la fine del mondo. Non sai nemmeno come hai fatto, ma sei sul campo. Lì dove i tuoi campioni avrebbero giocato. Perché è per quello che sei andato a Bruxelles quel 29 maggio del 1985. Ora vedi morte, disperazione, rabbia, smarrimento attorno a te. Tu ce l’hai fatta, ringrazi Dio, ma tanti altri no. In 39 muoiono, 39 uomini che condividevano la tua stessa passione, 39 famiglie che da ora saranno in lutto per sempre. Sono passati 28 anni, allo stadio ci vai ancora, la tua squadra ha appena vinto il secondo campionato consecutivo. Sei contento, ovviamente, ma una parte di te è morta all’Heysel, è rimasta lì. Non avevi mai conosciuto il Male. Ci pensi spesso, ci pensi sempre quando sul calendario è di nuovo il 29 maggio. E non riesci a sopportare quei maledetti ignoranti che pensano di insultare la tua squadra con scritte sull’Heysel, con cori e striscioni vergognosi. Calpestano la memoria, offendono le famiglie, gli amici. La vostra passione dovrebbe essere la stessa, è una tragedia che dovrebbe accomunare tutti, invece qualcuno la usa per offendere. Ti fa male, ma non dimentichi l’Heysel, i 39 morti. Non lo farai mai. Fonte: Senzaudio.altervista.org © 29 maggio 2013 Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com ©

 
ANTONIO TINESSA

E’ del nostro sangue

di Antonio Tinessa

Mi chiamo Tinessa Antonio e sono di Montesarchio (BN). Il 29 maggio del 1985 ero a Bruxelles con gli amici Paolo Eritero, Pietro Capuano, sgrizza, magnasale ed altri. Avevamo fatto un pullman di 40 persone noi dello Juve Club Scirea e facemmo due giorni di viaggio ininterrotti. Arrivati allo stadio già vedemmo sui prati intorno all'Heysel folti gruppi di inglesi a torso nudo che ubriachi continuavano a bere birra ed a riempire di epiteti ogni gruppo di italiani che transitava nei loro pressi. A Tommaso magnasale strapparono di mano dei biglietti e fuggirono andando ad intrupparsi in un gruppo minaccioso di hooligans e noi che li inseguivamo dovemmo desistere per non scatenare la rissa. Entrando allo stadio gli addetti mi tolsero l'asta di plastica che reggeva la bandiera della Juve mentre gli inglesi facevano arrivare casse e casse di birra e quant'altro, tipo spranghe, catene, etc, all'interno dello stadio con la benevolenza degli organizzatori. Ci sedemmo nella tribuna opposta a quella d'onore ad una ventina di metri dall'inizio della curva zeta occupata per metà da inglesi e per l'altra metà da tifosi della Juve. Le 2 tifoserie erano separate, nella stessa curva Zeta, solo da una rete metallica e con tre poliziotti a mantenere l'ordine. Il primo errore dell'organizzazione fu quello di far disputare una partitella a dei boys con le maglie della Juve e del Liverpool. Già allora gli animi si riscaldarono perché si faceva il tifo come se in campo ci fossero le finaliste della coppa. E gli animi si riscaldarono a tal punto che lungo la rete metallica incominciarono a tirarsi le bandiere. I tifosi della Juve erano sparsi lungo la rete perché il grosso era all'estremità della curva, quella a contatto con la tribuna d'onore, forse per vedere qualche beniamino o qualche volto noto. Fatto sta che il grosso degli inglesi diede, compatto, man forte a quelli che litigavano per le bandiere e buttarono giù la rete correndo appresso ai nostri che fuggendo insieme agli inseguitori travolsero quelli che stavano a ridosso del muro, che crollò. Anche dopo il crollo la furia rossa continuò ad avanzare e a calpestare quelli che cadevano o che presi alla sprovvista non si accorsero di niente. Noi da lontano non ci rendemmo conto che il muro era crollato e che c'erano state delle vittime. Vedemmo successivamente la gente invadere il terreno di gioco e molti erano riversi per terra con gente accalcata per recare loro aiuto. Eravamo troppo lontano per renderci conto della tragedia. Successivamente ci furono minuti e minuti di confusione totale; I nostri della curva opposta anche loro scesero in campo e si diressero minacciosi verso la curva Z; solo allora comparve un numero di poliziotti idoneo a controllare la situazione. Dopo questa fase era scesa la notte e parlarono i due capitani che dissero, Scirea in italiano, e l'altro in inglese che loro giocavano, anche se non volevano, perché le autorità avevano deciso in tal senso per evitare nuove e tragiche contrapposizioni.

Ho visto la trasmissione in tv di Minoli ove si è detto che durante la fase antecedente la partita i calciatori scesero in campo per rendersi conto di quanto successo. Penso che ne seppero quanto noi in quanto gli spogliatoi erano alla curva opposta dalla nostra, cioè distanti un 150 metri dalla zona del muro crollato. Anche i poliziotti a cavallo, che intervennero dopo per ripristinare l'ordine, a domanda risposero che forse c'era un morto e dei feriti. Nessuno degli spettatori che stavano distanti dal muro seppe in tempo reale l'entità della tragedia; anche noi ne sapemmo di più solo dopo la partita tramite la tv. Comunque anche il sapere che c'era stato soltanto un morto scatenò in noi una rabbia indicibile verso gli hooligans e pregavamo il signore che ci facesse vincere la partita per punire coloro i quali avevano commesso quell'atrocità. Incitavamo e spingevamo i nostri campioni a battersi all'ultima goccia di sudore per vendicare il sangue delle nostre vittime e dare così una lezione di vita ai prepotenti e ai violenti. Le ingiurie, la violenza, la furia assassina degli hooligans meritavano una risposta da uomini veri, che si battono lealmente col pallone e non con spranghe e catene. Pertanto noi vedemmo quella partita con gli occhi e con il cuore di chi si sta battendo contro le bestialità umane e i nostri calciatori erano gli eroi e gli angeli vendicatori, coloro che si battevano per il bene contro il male. Di conseguenza l'esultanza finale, dovuta alla vittoria, fu l'esultanza della gente semplice che aveva visto trionfare gli eroi buoni contro gli assassini e non l'esultanza del tifoso di una squadra. Pensavamo che il giorno dopo il tenore degli articoli dei giornali sarebbe stato in sintonia con il nostro sentire; invece appena passata la frontiera e comprati i giornali avemmo la allucinante sorpresa di leggere di tutto contro la Juve. "Che la partita non si doveva giocare", che "i giocatori e i tifosi non dovevano esultare", che la Juve doveva rifiutare quella coppa gronda di sangue e cose di questo genere, quasi dovevamo vergognarci di aver vinto la coppa. E ancora oggi i soliti pennivendoli continuano a dire ciò, sostenuti anche da dichiarazioni infelici di qualche juventino che conta. Ebbene io vorrei dire, anzi dico a loro, ma che ne sapete voi di tutte le offese, le violenze subite da parte degli hooligans ?

Che ne sapete delle ansie, delle paure, dei tristi presentimenti che avevamo quando andavamo alla ricerca dei nostri compagni e dei nostri congiunti ? Che ne sapete voi delle telefonate fatte dai nostri familiari al ministero degli interni per sapere i nome delle vittime? Che ne sapete voi, che anche alla fine della partita, hooligans inferociti ci assalirono per colpirci con quello che avevano ? Che ne sapete del pianto di una madre che fuori dallo stadio, dopo un'ora dalla fine, cercava i suoi figli ed il padre ? Del macabro ululare delle sirene delle autombulanze ? Dei miei amici di viaggio che alla spicciolata, con gli occhi pieni di dolore e di terrore, arrivavano trafelati al pullman che ci doveva portare indietro ? E della privazione di poter gioire per un sogno cullato per anni, della privazione di poter finalmente cancellare i pianti di Belgrado e di Atene (sì ero stato anche lì sempre con gli stessi amici) ? E' come se per un attimo il cieco avesse visto la luce che subito dopo gli hanno tolto. Quella coppa, più dell'altra di Roma, ci appartiene, perché essa rappresenta per noi il simbolo dell'olocausto, il simbolo del sacrificio dei nostri morti, il simbolo della vittoria della lealtà contro la violenza e le barbarie. Mi arrabbio da pazzo quando leggo da pennivendoli prezzolati che non la dovevamo accettare. Perché ? Io dico: bene non si doveva giocare ma poiché si è giocato per volontà non certo della Juve, che dovevano fare i nostri calciatori, perdere ? Suvvia, avrebbero scritto che non avevamo il sangue nelle vene, che non avevamo saputo onorare i nostri morti. Abbiamo vinto e nemmeno questo gli va giù. Poi parlano del rigore su Boniek fuori area; e allora perché non parlano del gol di Miahitovic in fuori gioco o di come l'Inter è arrivata a vincere a Madrid. La conclusione è questa e vale dal primo all'ultimo juventino: non date retta a chi, dall'alto della sua presunzione, della sua supponenza, della sua invidia, del suo livore vuole dividerci, perché sono pagati lautamente per questo. Noi dobbiamo essere uniti per rendere onore ai morti di Bruxelles caduti per credere in una maglia, in una fede. E la coppa è il legame che ci fa sentire più uniti e più stretti perché rappresenta il sogno dei nostri caduti, rappresenta la sintesi della nostra storia fatta di lotta contro i poteri forti, di lotta contro la violenza e la barbarie, di lotta contro l'ipocrisia di una casta di media che vogliono strumentalizzare il nostro sangue per buttarci ancora una volta il fango addosso coll'ormai scoperto fine nascondere il vero lerciume che avvolge loro e quelli che li pagano (vedi morattopoli). La coppa è nostra e guai a chi ce la tocca anche a parole; perché non sono degni di nominare neppure i nostri morti. Fonte: Giulemanidallajuve.com © 1 giugno 2010 Fotografia: GETTY IMAGES © (Not for Commercial Use) Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com ©

 
SEVERINO TRAINA
     

La foto che ha fatto la storia !

di Severino Traina

Un abbraccio fra due persone sugli spalti di una curva, la gente che defluisce e a terra il caos ! Poteva essere un'immagine come tante, realizzata il giorno della finale di Coppa Campioni fra Juventus e Liverpool allo Stadio Heysel di Bruxelles, teatro del massacro più grave nella storia del calcio giocato a livello internazionale e di cui oggi ricorre il 38° anniversario dal 29 maggio 1985. In realtà i protagonisti di quel gesto, nei giorni seguenti ai tragici fatti, divennero conosciuti da tutti. Al momento dello scatto il madonese Severino Traina (a sinistra) senza saperlo si era stretto a John Welsh (di spalle con i pantaloni blu scuro e la maglietta color crema), il quale piangendo gli si era letteralmente gettato addosso: Il nostro concittadino era appena stato a contatto con un eroe ! Dopo quell'immagine, i due abbandonarono la zona e si misero in sicurezza invadendo insieme il campo da gioco. Fra i parecchi articoli della stampa nazionale ed internazionale apparsi successivamente sui vari giornali, infatti, venne alla luce la verità. John Welsh, tifoso dei Reds presente quel giorno nel settore Z dello stadio, aveva salvato parecchie persone dalla calca ! Severino che casualmente si era riconosciuto nella fotografia dalla sua giacca di pelle, una volta lette le notizie rimase stupito: "Come un inglese ? Portava con se sia una sciarpa del Liverpool che della Juventus !". Poi aggiunse: "Quel ragazzo con il gesto che ha compiuto ha dimostrato che anche fra di loro non tutti sono violenti !". Fondamentale per recuperare e ricostruire i dettagli di una storia così importante, fu un articolo di Remo Traina, apparso su "L'Eco di Bergamo" il 14 giugno 1985, il quale prendeva spunto da un altro della Gazzetta dello Sport, scritto il 13 con la foto dei due protagonisti (pubblicata qualche giorno prima sul settimanale Guerin Sportivo) e la celebrazione dell'inglese: "È nostro concittadino, per la precisione si tratta di Severino Traina di Madone, il giovane che, come appare in una fotografia pubblicata su un quotidiano sportivo, abbraccia il tifoso del Liverpool, John Welsh, che quel tragico 29 maggio allo stadio Heysel di Bruxelles, rischiando la propria vita, salvò almeno una ventina di persone da quella incredibile carneficina.

 

Severino Traina si è riconosciuto per caso guardando la fotografia e gli sono venuti in mente quei terribili momenti. "sì, c’ero anch’io - ci ha detto - ma non avrei mai voluto esserci. In quella bolgia, in quell’inferno, ho visto quell’inglese darsi da fare per soccorrere quante più persone poteva e quando la polizia belga lo mandava via e non lo lasciava portare aiuto, si appoggiava a me che ero lì vicino e piangeva, piangeva disperatamente. [...] “Non so se a causa di questa terribile esperienza - ha concluso il sig. Traina - tornerò ancora in uno stadio, forse sì perché amo lo sport in generale e il calcio in particolare. Martedì prossimo sarò anch’io a Torino, assisterò anch’io all’incontro tra John e gli altri italiani, per salutare un’altra persona che come me ama lo sport e disprezza la violenza". L'eroe in Belgio fu invitato in Italia per incontrare e ricevere il ringraziamento dai nostri connazionali salvati. Severino purtroppo ci ripensò e a dispetto di quanto dichiarato nell'articolo, probabilmente ancora scioccato dagli eventi, non si recò nel capoluogo piemontese per salutare John e non lo rivide più. Il trafiletto fu di grande aiuto anche per sviluppare il documentario "I madonesi nella strage dell'Heysel" che abbiamo pubblicato sulla nostra piattaforma esattamente un anno fa. All'interno del filmato avevamo inserito una scansione della foto in questione presa dalla Gazzetta, in bianco e nero e molto sgranata, perché non avevamo a disposizione l'originale. Con il tempo, però, abbiamo recuperato anche una copia del Guerin Sportivo n° 23 del 1985, dove all'interno della sezione fotografica situata a metà della rivista (a pag. XIII) si trova l'immagine a colori del famoso abbraccio che abbiamo riproposto in questo articolo. Un altro piccolo successo delle nostre ricerche che dalla data di creazione del cortometraggio non si sono mai fermate. E' stato possibile divulgare quella foto poiché i diritti d'autore risultano scaduti, ai sensi dell'Art. 92 della legge n°633 del 22 aprile 1941. Fonte: Madonechannel.it © 29 maggio 2023 (Testo © Video) Fotografie: Gazzetta dello Sport ©  Guerin Sportivo © Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com ©

 
GIANNI TRUFFA

Gianni Truffa: "Io c’ero anche in quella

maledetta serata allo stadio Heysel di Bruxelles"

In quel drammatico 29 maggio del 1985 nella curva Z dello stadio Heysel a Bruxelles c’era anche Gianni Truffa. Il giornalista de "La Nuova Provincia", ora sessantacinquenne, si salvò per miracolo. A 30 anni di distanza può così raccontare quella terribile esperienza che causò la morte di 39 tifosi juventini, travolti dalla furia e dalla follia degli "hoolingans" del Liverpool. Truffa è un simpatizzante juventino che ha girato il mondo ad assistere alle finali di Mondiali, Europei e Coppe Campioni. "Mi trovavo nella metà riservata ai belgi, nella curva Z, che vendettero i loro biglietti agli italiani - racconta - io allora lavoravo in ferrovia. Un mio collega, che aveva dei parenti in Belgio, riuscì a procurarmi un ingresso allo stadio". Doveva essere un pomeriggio di sport, invece alle 19.20 si trasformò in tragedia: "Vedo una persona sulla pista di atletica intorno dello stadio che perde sangue dalla bocca. Questo provoca la reazione degli inglesi che cominciano a rompere le transenne. Preso dalla paura, scappo e in poco tempo raggiungo il campo di gioco. Per istinto vado in tribuna stampa dove incontro Enrico Ameri che mi intervista alla radio: riesco così a far sapere a casa che sono salvo". Truffa descrive la vicenda come se la stesse rivivendo in presa diretta. In quei momenti non sapeva ancora che c’erano stati dei morti: "La percezione non l’avevo, ma che fosse successo qualcosa di gravissimo sì. Ripensandosi, devo ringraziare il mio fisico corpulento se sono riuscito a farmi largo tra la gente". Il cronista si è poi fermato in tribuna dove ha assistito alla partita, vinta per 1-0 dalla Juventus con un rigore di Platini: "L’ho vista in tribuna stampa insieme agli altri giornalisti. Grazie alla Bbc inglese ho potuto telefonare a casa tranquillizzando così i miei. E mentre le squadre giocavano, ho cominciato a prendere appunti per dare uno sfogo alla tensione". All’ Heysel Truffa è tornato nel 2000: "Era il 28 giugno, in occasione della sfida tra Portogallo e Francia agli Europei. Quella curva Z però non c’era più: ora è diventato un parcheggio" (E.A.) Fonte: La Stampa (Asti) © 6 giugno 2015 Fotografie: Paris Match © GETTY IMAGES © (Not for Commercial Use) Icone: It.vecteezy.com © Pngegg.com ©

 
 

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