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Reduci Heysel T
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Testimonianze Reduci Heysel (T)
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3 TARANTINI

"Eravamo all’Heysel"

Il 29 maggio 1985 il calcio perse definitivamente la propria innocenza. E perse anche 39 juventini, nella strage dell’Heysel. Nel 2010 incontrai tre tarantini tifosi della Juve che quella notte erano lì. Raccolsi i loro drammatici ricordi.

Erano nello stadio maledetto. Per fortuna lo possono raccontare. Erano all’Heysel: basta pronunciarlo per provare, venticinque anni dopo, lo stesso orrore. Tre racconti diversi, di tarantini che fecero quel viaggio e riuscirono pure a tornare. Trentanove, da quello stadio, non fecero mai ritorno. Trentanove tifosi morti prima di una partita, per una partita. E il ricordo straziante di tre testimoni, come fossero uno solo. Basterebbe aprire le virgolette adesso e non chiuderle più, per ascoltare le loro paure, le storie di una notte che sporcò di sangue il calcio e imbrattò indelebilmente i ricordi intimi di ognuno. Giuseppe Spera adesso ha 66 anni. Fa l’imprenditore ortofrutticolo e in azienda, a Massafra, ci sono ancora pile di giornali sportivi, che dimostrano la passione: "Partimmo con un volo charter: 650mila lire a testa. Eravamo in centocinquanta a partire da Brindisi, tornammo e mancavano alcuni. Due li avevo memorizzati. Erano di Mesagne, se non ricordo male: erano morti". Era il 29 maggio 1985: "Arrivammo con largo anticipo: la nostra Curva era ancora semivuota, ci sistemammo al centro per non stare troppo vicini al settore degli inglesi. Avvertivamo un po’ il pericolo, ma pensavamo alle bottiglie che avevano tra le mani, che pure arrivarono. In un attimo tutto cambiò, non ci rendevamo più conto di quello che stava accadendo, c’era gente che sveniva, gente che cadeva e gente che scappava. Noi restammo in piedi perché aggrappati a una balaustra che pure si ruppe. Quando cadde la divisione dal terreno di gioco, finii in campo e, da lì, mi fecero uscire attraverso gli spogliatoi. Fuori era uno scenario di guerra, tra sangue e sirene. Io ero senza scarpe: avevo i mocassini e si sfilarono nella ressa. Sono rimasto scalzo fino al rientro a casa". Qualche ferita, il passaggio dall’ospedale: "Vidi parte della gara da lì, telefonai a casa. Anche perché il rientro, che era previsto per la notte, fu spostato alla mattina dopo: aspettavamo che tornassero tutti. Quando vidi che qualcuno mancava capii di essere stato fortunato: non avevo avuto nemmeno il tempo di avere paura". Ora Giuseppe è nonno: "E quando cresceranno i nipotini non avrò timore a raccontare. Ho cercato di dimenticare, ma è impossibile: allora meglio raccontare, perché non accada più. Nell’immediato pensai che non sarei più andato allo stadio. Ma alla prima partita della Juve a Torino ero di nuovo lì. Forse è stato il modo per ripartire". Gennaro Morelli, invece, non era all’Heysel per una passione sua: "Il tifoso non sono io: era per accompagnare mio figlio, di quindici anni, che andai a Bruxelles". Morelli, tarantino di 69 anni, ora è primario alla Santa Rita, dopo esserlo stato al S.S. Annunziata: "E furono mio figlio e il gran caldo, forse, la vera fortuna di quel giorno. Perché mentre eravamo in gruppo e andavamo verso lo stadio, il bambino mi chiese una Coca Cola e ci fermammo per acquistarla. Così perdemmo gli altri e arrivammo allo stadio un po’ più tardi. Così loro erano vicino alla rete che divideva gli spalti dal campo, noi più in alto, vicino a un’uscita. Quando scoppiarono gli incidenti la gente cominciò a spingere verso il basso, quindi verso la recinzione, la polizia impediva l’accesso al campo e si creò pressione: io fui spinto verso un muro e mi preoccupai, subito, di difendere il bambino.

Quando ebbi la possibilità, lasciai lo stadio avendo vicina la via di fuga". Fuori lo scenario era diverso dalle immagini in tv, all’inizio: "Non capii la situazione: all’interno dello stadio volavano le bottiglie lanciate dagli hooligans, vidi qualche ferito dai lanci, ma uscendo presto trovai calma fuori. Calma apparente e breve: dopo un po’ iniziarono ad arrivare feriti più gravi, probabilmente anche i primi cadaveri. Solo dalla tv riuscii ad avere l’esatta dimensione del dramma". In Italia guardavano la televisione, scoprendo che c’erano morti. E molti erano in ansia: "Un ingegnere di Caserta, che trovai per caso, mi aiutò a mettermi in contatto con i familiari. Andai in un albergo e passai la notte lì: ripartii con un volo di linea, non con il charter. E per poterlo pagare chiesi i soldi a una parente di mia moglie di Bruxelles. Ma l’agenzia, non vedendomi sul charter, chiamò casa dandomi per disperso. Per fortuna mia moglie sapeva. Io, invece, seppi che il figlio di un amico, informatore scientifico, e che all’andata era con me, era morto". Con un figlio al seguito ogni momento diventò più pesante: "Ma lui rimase tranquillo e io, avendo lui, mi sforzai di mantenere la calma. La passione per la Juve però lui l’ha lentamente persa: entrambi continuiamo ad andare allo stadio solo per il Taranto". Pasquale Nuzzo, invece, ha appeso nel suo studio da commercialista, il gagliardetto celebrativo di quella partita e il biglietto della Tribuna Z, strappato all’ingresso. Sono fissi lì per un motivo: "Perché quella, mi creda, è stata l’ultima partita di calcio che ho visto. Da lì io sono uscito vivo, ma la mia passione è morta: ero stato anche giocatore di Promozione nel Massafra, ero stato anche alla finale della Juve ad Atene, due anni prima, ma poi nemmeno in televisione ho più visto una partita". Si rideva, prima che arrivassero le bottiglie: "Eravamo nello stadio in anticipo, scherzavamo un po’ tra noi anche per mascherare la delusione di uno stadio inappropriato. Iniziarono a volare bottiglie di birra, pietre facilmente ricavabili con un calcio ai gradoni. Ma noi eravamo lì da sportivi, nessuno reagì: ci allontanammo per non essere colpiti e iniziò la calca. Poi gli inglesi invasero il settore e iniziò la fuga generale, la paura. Ricordo che nella ressa avevo un altro tifoso che si aggrappava al mio viso, mi sentivo asfissiato dalla pressione. Quando crollarono le strutture molti caddero quasi nel vuoto, altri trovarono il varco per andare sul campo. Io ero tra questi ultimi: non potevi fermarti perché saresti stato calpestato. E, infatti, ti trovavi quasi a camminare su gente che era caduta". Pasquale, rispetto agli altri due, non lasciò lo stadio: "Perché mi portarono negli spogliatoi per curarmi le escoriazioni. Ero scalzo, ormai. E vedevo i giocatori della Juve nello spogliatoio. In quel momento, e lì dentro, nessuno sapeva esattamente cosa stesse accadendo all’interno. Nessuno sapeva che c’erano morti. Nemmeno io, che fui accompagnato in tribuna poi e trovai alcuni dei miei amici. Seguimmo la partita, tornammo in campo per uscire alla fine e festeggiammo pure con la squadra, non sapendo la gravità della situazione. Alle 2 del mattino, in aeroporto, guardammo la tv e ci rendemmo conto. E capimmo anche perché gli amici che avevano lasciato lo stadio, vedendoci, si misero a piangere: temevano fossimo morti". Nuzzo sente di non esserci andato lontano: "Un amico, giorni dopo, mi disse: "Sei arrivato vicino alla porta del cimitero e non sei entrato". Aveva ragione: ho avuto paura davvero, adesso provo disgusto. E ho abbandonato il calcio. Mi spiace solo per mio figlio, che non ha avuto la possibilità di appassionarsi. Ma quello che ho visto non lo dimentico più". Sembra un unico racconto, sono tre storie diverse. Di tifosi o papà premurosi che hanno vissuto la paura, che hanno visto morire. Per una partita di calcio che in trentanove non hanno mai potuto raccontare.

29 maggio 2013

Fonte: Fulviopaglialunga.it

A-Z

MASSIMO TADOLINI

Tragedia Heysel, Massimo Tadolini:

"Fu una notte orribile. La Juventus non ha fatto nulla…"

di Giuseppe Martorana

A 36 anni dalla tragedia dell’Heysel Massimo Tadolini, uno dei tifosi superstiti della Juventus ha raccontato in esclusiva ai nostri microfoni i tragici avvenimenti di quella "maledetta" finale di Champions League contro il Liverpool.

In occasione del 36° anniversario della tragedia dell’Heysel (29 maggio 1985), dove nella finale di Champions League tra Juventus e Liverpool, nel medesimo stadio, morirono ben 39 tifosi juventini oltre a 600 feriti, abbiamo intercettato in esclusiva ai nostri microfoni Massimo Tadolini, uno dei supporters che si trovavano lì in quella che passò alla storia come una delle notti più tristi e dolorose per il mondo del calcio.

Massimo, che ricordi hai della tragedia dell’Heysel ?

"Posso raccontare ovviamente la mia esperienza. Lo scenario all’inizio era di festa, la Juventus la mia squadra del cuore si giocava la famosa Coppa dalle Grandi Orecchie, una coppa stregata per la Vecchia Signora. Tutti i tifosi juventini sognavano e sognano ancora tutt’ora di vincerla. Partimmo da Bassano del Grappa in stile alpini con il camper ed il mio gruppo arrivò il giorno prima della partita a Bruxelles, avevamo avuto i biglietti dalla Juventus. Altri gruppi di Bassano, invece avevano preso i biglietti dall’agenzia di viaggi che proponeva pacchetti stadio-albergo. Biglietti dello stadio che poi risultarono nel settore Z, il luogo del misfatto. Dopo la prima serata dove si andò insieme al ristorante, la mattina ci si ritrovò per un saluto, poi andammo allo stadio. Entrai dentro il settore Juve e già lì fu una cosa indescrivibile: pensa ad un imbuto, dove il beccuccio va dentro la porta dove c’era l’ingresso dello stadio ed il grosso di quell’imbuto è la folla con tutti tifosi della Juventus, fai conto 10.000 persone che dovevano entrare da una porta. Come se non bastasse, ai lati della folla c’era la polizia a cavallo che iniziò a menarci con i manganelli per gestire la folla. Ho visto tanta gente svenire, tanti bambini che piangevano, una cosa davvero orribile. Poi, arrivato alla porta non venivi nemmeno perquisito".

Fammi capire, i controlli c’erano prima e non dopo ?

"Si, ti facevano impazzire per entrare nello stadio e poi dopo non ti perquisivano. Non ha senso una gestione così. Io mi sono posizionato con quelli che erano considerati gli ultras al centro del tifo bianconero. Ad un certo punto alle 7 circa, entrarono due squadre di calcio di bambini: una aveva la maglia rossa, un’altra quella bianca. Gli scontri tra le due tifoserie incominciarono durante quella partitella tra bambini, che doveva essere una partita cuscinetto, una partita che doveva rilassare gli spettatori in attesa della finale. Ovviamente i tifosi del Liverpool, quando i bambini con la maglia rossa facevano goal esultavano, lanciavano cori, mentre noi tifavamo per i bambini con la maglia bianca. Lo stadio era in maggioranza della Juve e questi tifosi inglesi hanno fatto in modo di travolgere i nostri connazionali, rompendo la rete che separava le due tifoserie, facendosi beffe della polizia che contava pochi uomini e male organizzati. Non avevano nemmeno i walkie talkie, quindi non si potevano nemmeno chiamare, pensa te. Non avevano nemmeno i respiratori per rianimare le persone che potevano stare male con questi problemi di schiacciamento. Cose davvero incredibili".

Secondo te se le condizioni dello stadio non erano adeguate, perché si scelse di ospitare un evento così importante come la finale di Champions in un impianto del genere ?

"Mi trovi impreparato su quest’argomento. Ero un ragazzino di 22 anni, riuscire a trovare un biglietto per una finale di Champions era difficile, anche se io di Juve poi ne ho masticata davvero tanta nella mia vita dato che è la mia più grande passione. Io non posso risponderti su cose che erano e che sono anche oggi più grandi di me. Si sono dette tantissime cose su quest’argomento, quello che posso dirti è che la polizia non era preparata a tutto quello che poi è successo. Ti dico la verità, già il giorno prima c’era stato un clima incredibile: gli inglesi erano pieni di cassette di birre ed avevano già aggredito i tifosi della Juve. Era un segnale da non sottovalutare per nulla quello".

Quindi già avevano dato un assaggio di cosa avrebbero fatto ?

"Si, quando noi arrivammo allo stadio, avendo dei camper noleggiati, eravamo in paranoia perché oltre al fatto che ti prendevi delle botte da loro quasi sicuramente, ti potevano anche distruggere il veicolo, quindi siamo andati a dormire in centro perché avevamo paura di stare vicino a loro. Il giorno dopo quando arrivammo in zona stadio, io del gruppo degli ultras ero l’unico che parlava il francese per cui chiesi alla polizia dove parcheggiare i camper e loro mi dissero di metterci vicino ai tifosi inglesi. Era come mandare una persona sanguinante di fronte ad uno squalo, era una roba fuori di testa. Attraversai tutta la zona degli inglesi e dissi tra di me "Qua ci distruggono". Erano talmente fatti ed ubriachi, che erano tutti mezzi nudi in questo enorme giardino dietro la loro curva. Alla fine quindi me ne sono fregato di quello che mi ha detto la polizia e me ne sono andato. Il giorno prima era già sulla bocca di tutti. Gli inglesi si erano già fatti conoscere dato che stavano creando tantissimi disordini, era chiaro che sarebbe successo qualcosa di brutto. Noi italiani venivamo osservati a vista, cosa anche confermata dall’entrata allo stadio, dove anche il segretario del nostro club disse "Basta, io vado via". Ho visto gente svenuta che veniva portata via dalla calca in quella circostanza".

É vero che i giocatori della Juve non sapevano nulla di quello che era accaduto ?

"No, i feriti entravano negli spogliatoi ed il dottore delle società bianconera fu uno dei primi a prestare i soccorsi, anche il fotografo fece degli scatti memorabili che poi entrarono nella storia delle foto più cruenti di quella vicenda. Sicuramente non sapevano il numero dei morti, così come non lo sapevamo nemmeno noi perché nel mentre c’era questa partitella tra bambini come ti raccontavo, noi vedevamo questi tifosi del Liverpool che si ammassavano tutti per rompere le gradinate, abbiamo cominciato a gridare "Police, Police, Police" per attirare l’attenzione. Ti posso garantire che la polizia con i cani antisommossa si schierò sotto la nostra curva perché noi cercavamo di entrare in campo, cosa che poi avvenne. Tu vedevi quindi da noi delle cariche pazzesche, di là invece nessuno. Comunque la rete fu sfondata ed una parte dei tifosi della Juventus entrarono in campo, tra cui anche io ed un gruppo iniziò a correre sulla pista di atletica verso il settore opposto. Questi tifosi juventini arrivarono sotto la curva degli inglesi che loro avevano già sfondato e videro gente morta e che questi hooligans si erano allargati anche nel famigerato settore Z che secondo loro era diventato un territorio di conquista. Là sotto sono arrivate forse 200 persone ed ho visto proprio gli inglesi che erano entrati nella curva Z che sono rientrati subito nel loro settore. Se ci fossero stati i poliziotti con i caschi ed i manganelli, questi col cavolo che continuavano a sfondare ed accanirsi sugli italiani, ma non c’era nessuno. Quando questi sono rientrati la polizia a cavallo con i manganelli ha menato gli italiani, mentre gli inglesi non hanno subito nulla. A quel punto si era creata la caccia all’italiano ed uno di questi prese il megafono ed iniziò a dire che c’erano dei morti e che non si doveva giocare, chiedendo anche alla curva di togliere gli striscioni. Ho anche sentito degli italiani dire "A me non interessa, io ho pagato il biglietto e voglio vedere la partita". La cosa che non mi piacque per nulla comunque fu un’altra. Quella che lessi nei giornali i giorni dopo, cioè il fatto che alcuni tifosi della Juventus in Italia festeggiarono quella coppa, anche se sapevano quello che era successo. Questo ti dà il senso di come è la gente. Noi tifosi juventini che eravamo lì, quella coppa non la sentiamo nostra, l’avremmo restituita persino alla Uefa e tu sai quanto ci teniamo a vincerla ?".

La Juventus ha fatto qualcosa per le vittime dell’Heysel ?

"Sono amico di tanti figli di persone decedute in quell’occasione, ci sentiamo spesso e posso dire che la Juventus per loro non ha fatto nulla. Non so, dico io, non fare la colletta, ma dare l’incasso di qualche partita in beneficienza si poteva fare. Ti voglio svelare un aneddoto. Tra i tanti morti, mi colpì una ragazzina di 17 anni che era stata promossa a scuola e suo padre gli aveva fatto questo regalo, dato che era tifosissima della Juventus, purtroppo lei morì in quella tragedia. Un giorno mi chiama un ragazzo che faceva parte del nostro club e che era molto vicino alla famiglia di questa bambina morta e mi disse che in un giornale era uscito un articolo sui fratelli di questa che erano anche loro juventini e volevano andare a Berlino sperando di vincere la Coppa per dedicarla alla sorella defunta 30 anni prima. Questa cosa mi colpì talmente tanto che io, che non sono niente, regalai loro due biglietti per vedere quella partita. Roba da 500 euro l’uno ! Dico io, una cosa del genere dovrebbe farla la Juventus, è la Juventus che deve mettere in lista i familiari delle vittime, non deve farla Massimo questa roba qui. Io l’ho fatto col cuore e lo rifarei 1.000 volte, però la Juve ha sbagliato secondo me. La gestione del rapporto con i tifosi è fondamentale, essi vanno trattati con amore. La Juve non è un prodotto, la Juve è passione, se la società dicesse facciamo la colletta per comprare quel giocatore noi la facciamo. Io in tanti anni da tifoso ho trovato tante sbavature nella gestione dei rapporti.

Puoi farci qualche esempio ?

"Mah, ultimamente la questione Superlega, anche la vicenda dell’allenatore dopo l’esonero di Allegri. Magari non tutte le cose si sanno, non sono lì con loro io. Se uno mi dovesse chiedere un giudizio però ti direi che sono perplesso. Per carità, hanno vinto 9 scudetti consecutivi, hanno vinto Coppe Italia e Supercoppe Italiane però la gestione dei rapporti non è dei migliori. Io penso che la Juve abbia fatto molto poco per ricordare le vittime della tragedia dell’Heysel. Pur di avere ragione con la Uefa una persona, a causa della morte del proprio figlio, le ha provate tutte: pagandosi gli avvocati, coinvolgendo i familiari delle vittime. Queste erano cose che doveva fare la Juventus dichiarandosi parte civile. Io la vedo così e come me la vedono in tanti. Ormai comunque è una storia passata, rimangono sicuramente tante cose che non si riescono a spiegare".

Qual è la cosa che più ti spinge a ricordare questa vicenda tragica ?

"Una delle cose che mi ha spinto a mettermi in prima fila per portare avanti questa memoria sono i cori fastidiosi che ci perseguitano per anni, questi striscioni contro quelle vittime, è una roba inconcepibile. La rivalità tra le tifoserie ci può stare, però arrivare a questo punto è davvero vigliacco e triste. Ti dico che ne ho sentite e viste di tutti i colori e mi disgusta veramente questa cosa anche a distanza di anni, è proprio da ignoranti. Io non mi permetterei mai di fare una cosa del genere. Una roba così può essere fatta solo da deficienti. Questa è una cosa tragica, è una ferita ancora troppo grave ed il fatto che le persone infanghino la memoria di quelle morti mi fa diventare una bestia".

31 maggio 2021

Fonte: Footballnews24.it

A-Z
... MASSIMO TADOLINI ...

La memoria di un sopravvissuto all’Heysel:

"Non si può morire in uno stadio"

di Vincenzo Pastore

Il 29 maggio 1985 è la fine dell’innocenza sportiva. Trentanove morti allo stadio Heysel di Bruxelles prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una partita finita prim’ancora di iniziare. Non erano solo juventini, non erano solo italiani. C’erano anche belgi, francesi, irlandesi tra le vittime. Andrea Casula, il più piccolo, 11 anni. La memoria si fa viva ogni anno, non solo a maggio. Perché solo ricordando si possono onorare quelli che oggi non ci sono più, solo non dimenticando si può fare in modo che tragedie del genere non si ripetano. Lo sa bene Massimo Tadolini, oggi 57enne di Bassano del Grappa, ma originario di Bologna. Quel 29 maggio aveva 23 anni ed era, come oggi, un grande tifoso della Juventus. "In quegli anni frequentavo la curva della Juventus, provenivo da un club bianconero di Bologna. A Bruxelles eravamo in 10, con biglietti della curva juventina mentre c’era un altro gruppo di Bassano che aveva acquistato pacchetto completo (viaggio + biglietto partita) con un tour operator. Ricordo che nella capitale belga non si respirava un bel clima già dalla sera prima della finale. A Bruxelles, infatti, fummo aggrediti dagli inglesi, la città era in stato d’assedio, i tifosi del Liverpool erano ubriachi. Bevevano fiumi di birra, lasciavano a terra cataste di casse accumulate mentre loro facevano attorno capannello di inglesi con bicchieri in mano. Erano molesti con gli italiani e molto aggressivi anche nei confronti, ad esempio, dei clienti dei ristoranti. Non ho mai visto una cosa del genere. Eravamo arrivati in Belgio con alcuni camper e decidemmo di andare a dormire fuori città".

Il giorno dopo si gioca la finale. Che cosa ricordi ?

"L’indomani, nel pomeriggio, ci rechiamo verso lo stadio. Un gruppo si dirige verso la curva Z, inizialmente riservato ai belgi ma poi destinato ai biglietti comprati con i tour operator italiani, l’altro prosegue verso il settore juventino. Con me c’era anche Domenico Lazzarotto, storico caporedattore del Gazzettino. Arrivati all’Heysel ci accorgiamo subito di un trattamento indecoroso delle forze dell’ordine, a cui addebito ciò che poi sarebbe successo, oltre alla responsabilità dei tifosi inglesi. Gli hooligans, infatti, entravano armati completamente indisturbati, con bottiglie, sassi, spranghe. Mentre noi, invece, dovevamo entrare in una porticina di 80 cm: pensate solo a una curva intera che passa da uno spazio così stretto. Si era creata una sorta di imbuto, una cosa mai vista in tanti anni che frequento gli stadi".

Quando degenera la situazione ?

"I primi scontri si verificano all’interno dello stadio verso le 19. Mentre in campo si svolge una partita tra ragazzini, cominciano le prime schermaglie quando segnava la squadra con la maglia rossa o quella con la maglia bianca. Gli hooligans iniziano a sparare razzi e lanciare pietre contro la curva Z. Noi ci troviamo dall’altra parte dello stadio, ma capiamo subito che stava succedendo qualcosa di grave. Gli inglesi sfondano le protezioni tra i due settori e iniziano a pressare contro il muretto i tifosi italiani. Alcuni ragazzi entrano in campo, arrivano sotto la curva degli inglesi e anche da noi, ci accorgiamo che ci sono le prime vittime".

Nella curva della Juve che atmosfera c’è ? Volevate che si giocasse o no ?

"La curva era spaccata, alcuni di noi non volevano giocare perché era impossibile continuare dopo quella tragedia. Altri, invece, spingevano per giocare perché avevano pagato un biglietto e non volevano tornare a casa. A un certo punto sono arrivati i giocatori per cercare di riportare la calma, mentre Scirea faceva un appello dall’altoparlante. Forse la risposta più giusta era andar via dallo stadio, schifati da quello che avevamo visto, dovendo tener vivo il ricordo di questa tragedia. Ripensandoci oggi è stato giusto giocare perché altrimenti le vittime sarebbero state ancora di più. All’Heysel non c’erano ambulanze, i poliziotti erano pochissimi, mancavano i defibrillatori e i telefoni. Uno stadio inadeguato e un apparato organizzativo imbarazzante. È stato terribile, qui il tifo non c’entra. Sono morte persone inermi per una partita di calcio".

I festeggiamenti dei giocatori dopo la vittoria sono sembrati fuori luogo.

"Sì, è vero, ma credo che bisogna vivere direttamente le situazioni. I giocatori della Juve furono catapultati in una situazione ingestibile, erano pressati dalle attenzioni mediatiche, l’Uefa aveva imposto di giocare. È vero che si sapeva ci fossero dei morti, ma non che la tragedia fosse di quelle proporzioni. Gli stessi calciatori hanno poi dichiarato negli anni che non avrebbero voluto giocare, ma furono obbligati a farlo. Non festeggiarono solo loro, ma anche i tifosi in tutta Italia e fu abbastanza oltraggioso".

Tornato a Bassano hai deciso di portare avanti la memoria di quel giorno.

"Sì, la città ha pagato un prezzo altissimo quel giorno con le morti di Mario Ronchi e Amedeo Giuseppe Spolaore. Abbiamo subito fondato un gruppo, Nucleo 1985, che dalla stagione 85-1986 non ha mai perso una partita della Juve in tutto il mondo. Il nostro striscione è sempre presente allo Stadium. Poi, nel 2015, in occasione del 30mo anniversario, abbiamo realizzato un docufilm e organizzato un torneo di calcio per le squadre giovanili. Vi hanno partecipato anche i pulcini della Juve e sono state coinvolte le scuole bassanesi. Abbiamo organizzato una mostra che ha esposto anche i trentanove disegni più significativi sulla tragedia, ne sono arrivati oltre 1200".

Sono trascorsi 34 anni, cosa ti resta di quel giorno ?

"Le immagini terribili e la convinzione che la Juve avrebbe dovuto restituire quella Coppa all’Uefa. C’è stato una sorta di tabù per anni anche all’interno del club bianconero, per troppo tempo si è fatta poca memoria. Va ringraziato Otello Lorentini (fondatore dell’"Associazione familiari vittime Heysel", padre di Roberto, una delle vittime, da medico tornò indietro per salvare il piccolo Andrea Casula, morirono entrambi) per la battaglia che ha fatto contro l’Uefa, ottenendone la condanna".

30 maggio 2019

Fonte: Mondiali.it

A-Z
... MASSIMO TADOLINI ...

Heysel una storia ancora da raccontare

di Massimo Tadolini

Il viaggio in camper fu un’idea di Skipper il segretario dello Juventus club Bassano del Grappa 1949. Io allora ero da poco arrivato da Bologna ed accettai di buon grado la modalità organizzativa. I veneti sono gente allegra con simili emigrati in ogni parte del mondo, per questo l'appuntamento ai bassanesi fu dato presso un Ristorante Veneto aperto da anni nel centro di Bruxelles. Eravamo fondamentalmente due gruppi, il mio fatto di 10 persone con i biglietti dati dalla Juventus ed il più consistente, di almeno 30 persone, aveva trovato il biglietto con un'agenzia di viaggio. Loro pensavano di essere nei distinti, ma che importava oramai... Mancavano poche ore all'incontro l'emozione era alta, e poi... Che problema mai avrebbe dovuto esserci in CURVA Z ? Già quella sera però la preoccupazione tra di noi esplose perché gli inglesi stavano sfasciando il centro della città. Poco prima Il nostro ristorante fu assalito da un grosso gruppo di inglesi visibilmente ubriachi perché avevamo una bandiera della Juve esposta. Tra gli italiani che nulla avevano a che fare con il mondo ultras e le sue eventuali regole , la paura era tangibile. Cosi decidemmo si dividerci. Il gruppo legato all'Agenzia aveva la notte in Hotel prenotata, mentre noi avevamo l'ansia di ritornare ai camper perché se ce li avessero sfasciati sarebbe stato un bel problema essendo stati noleggiati per l'occasione. Salutati gli altri amici, ci incamminammo verso i nostri mezzi trovando sulla nostra strada un altro gruppo di questi animali ubriachi che ci aggredirono picchiando uno di noi ed iniziandoci a lanciare bottigliate di vetro. Presero Skipper e lo buttarono dentro una fontana dopo averlo massacrato. Fui l'unico a ribellarmi uscendo solo dal gruppo in fuga. Andai verso di loro perché non era più possibile per me sopportare altro. Ammetto che fui fortunato perché quel gruppo di trenta hooligans stette fermo limitandosi ad offese, ma subito dopo dal loro gruppo uscì un ragazzo che si mise di fronte a me come in un film Western invece di fare cantare il "grilletto" ci saltammo addosso in un testa a testa alla pari. Ero fuori di me dalla rabbia e lo buttai giù a terra in un attimo e, come se fossi in preda ad un raptus, iniziai a prenderlo a calci senza smettere... "Massimo scappa" mi urlarono. Mi girai iniziando a correre subito dopo perché stava arrivando la Police... Mai avrei immaginato di trasformarmi anche io in un'altra persona. Ero andato lì per vivere una giornata di festa. La notte del 28/5/1985 la passammo con la preoccupazione del giorno dopo... Anche perché sapevamo che stava arrivando una massa di tifosi enorme. Sinceramente la mattina del 29/5/1985 tutte le brutte cose del giorno prima sembravano sparite, la giornata era bella e si iniziò a respirare l'aria delle festa.  All'atomium facemmo le classiche foto da tifosotti con lo striscione ed iniziammo a pensare dove parcheggiare i 3 camper.  Io feci il capo colonna dei tre perché ero l'unico a sapere il francese discretamente. Parlando con la Police imparai che aveva destinato un'area per i camper dietro la curva inglese. Inizialmente ascoltai questi incompetenti trovandomi dentro un parco dove c'erano migliaia di loro bivaccati come animali in riposo e per fortuna non affamati diversamente i nostri 3 camper goliardici con tanto di striscioncino appeso fuori e con bandiere bianconere legate alle antenne sarebbero stati certamente distrutti... Dopo questo giro di roulette russa decisi di parcheggiare i mezzi dietro la nostra curva settore M N O mi pare... Nel frattempo i nostri pensieri andavano ai nostri amici di Bassano che sarebbero andati a vedere la partita nella Zeta, ma chi poteva immaginare quella mattanza ? L'ingresso allo stadio fu indimenticabile e da raccontare. Ancora non posso credere che qualcuno di importante avesse avvallato di gestire l'ingresso dei nostri tifosi in tale modo. Immaginatevi migliaia di persone che entravano in curva passando tutte da un’unica porta di ingresso come quella di casa vostra. Per questa ulteriore negligenza si formò un enorme imbuto umano con gente che non ce la faceva svenendo sotto il sole anche per mancanza di respiro. Una bella idea fu quella di mettere la polizia a cavallo ai lati della folla inferocita. Risultato: cavalli imbizzarriti, donne e bambini che svenivano e per stringere al centro la gente, ecco che partivano le manganellate ai lati della folla. Come una clessidra... Uno ad uno, ignari granelli di sabbia, entravamo in curva senza poi essere assolutamente perquisiti all'ingresso… Mi ricorderò sempre il segretario del JCB che trovai in un lato della curva in piena crisi isterica... Se fossi stato ad un evento del genere con un mio figlio mi sarei rifiutato di entrare per salvaguardarlo. Se tutto questo fosse la trama di un film ancora da girare, un buon regista avrebbe capito che era tutto già da rifare. In realtà purtroppo questi sono i presupposti di una storia vera in cui credo che pochi abbiano pagato per evidenti incapacità logistiche ed organizzative. Entrati allo stadio però l'atmosfera era quella di una finale ed iniziammo a percepire che comunque eravamo finalmente lì... Insomma si giocava l'ultimo atto della Coppa dei Campioni tra la Juve ed il Liverpool squadra che io avevo già visto giocare in Supercoppa a Torino la notte del pallone rosso... Feci 18 ore di pullman per tornare a casa perché era tutto bloccato dalla neve... Considerando la precedente partita vista mi consolai pensando che forse le partite con i Red dovevano essere per forza sfigate e con qualche problemino. Ma subito capii che la situazione stava prendendo una brutta piega... Avevano iniziato a giocare 2 squadre di bambini. Ecco quelli con la maglia BIANCA e quelli con la ROSSA. I primi erano sostenuti da tutto lo stadio Juventino, mentre i secondi da quel 3/4 di curva rossa di fronte a noi… Dai cori delle reciproche tifoserie con i goal dei ragazzini con maglietta bianca iniziarono a partire i primi razzi dal settore del Liverpool a quello adiacente Z... La loro curva di fronte a noi era così composta: 3/4 agli inglesi con settore stracolmo 1/4 ad italiani che avevano esposto le loro bandiere. Tra loro un reticolato da giardino e non più di 5 poliziotti distribuiti in verticale, tipo 1 ad ogni 10 gradini se andava bene.  Ma quelli stanno lanciando razzi, stanno caricando !! "POLICE POLICE POLICE" Gridava la nostra curva come per fare rendere conto alla sicurezza che di là stava succedendo qualcosa. Ma nulla successe per aiutare tutti quei fratelli che rimasero abbandonati al loro destino. Gli ultras di allora fecero qualcosa per impedire la tragedia ed io mi unì a loro da quel giorno per sempre.

17 giugno 2013

Fonte:  Pagina Facebook di Massimo Tadolini (Fondatore Area Bianconera e Nucleo 1985)

A-Z

GIUSEPPE TASSI

HEYSEL nello stadio della morte

Il nostro inviato rievoca la folle notte di Juve-Liverpool che costò 39 vite

di Giuseppe Tassi

Bruxelles bruciava al sole in quel pomeriggio del 29 maggio. La Juve era arrivata dai profondi silenzi del ritiro di Ginevra, salutata da un tifoso speciale, il giovanissimo Emanuele Filiberto di Savoia, allora tredicenne. Lungo le vecchie strade del centro storico e sotto la statua del Manneken Pis sfilavano senza conflitti apparenti i branchi del Liverpool e i tifosi bianconeri. Odori forti di birra e sudore, un clima di attesa crescente per la finalissima dell’Heysel distante poche ore e una colonna sonora ossessiva, martellante: "Liverpool, Liverpool, Liverpool, you’ll never walk alone", l’inno della squadra inglese, la religione musicale del Kop, il cuore del tifo di Anfield Road. Il piccolo stadio belga si popolò con largo anticipo, come sempre succede nelle grandi manifestazioni, dilatando quella lunga vigilia. I tifosi juventini che avevano prenotato attraverso tour operator si sistemarono nei settori M ed N, lontani dai supporter del Liverpool. Quelli che invece si erano organizzati in proprio furono convogliati nella curva Z, divisa a metà da una sottile rete di protezione: da una parte i Reds, dall’altra il popolo bianconero. Il maledetto Heysel era uno stadio palesemente inadeguato alla finale di Coppa dei campioni non solo per le piccole dimensioni, ma perché era un impianto fatiscente. Dalla curva Z si staccavano calcinacci che divennero armi primordiali nelle mani degli "animals" del Liverpool. Dopo qualche coro minaccioso contro gli juventini presero a piovere proiettili di argilla seccata. Nella semicurva italiana cominciò il fuggi fuggi, interpretato dai Reds come un segnale di resa. Falangi di tifosi del Liverpool si scagliarono a ondate verso la ridicola rete divisoria fino a farla crollare. Il loro obiettivo era l’invasione, volevano cacciare gli italiani e tenersi la curva Z tutta per loro. Dalla tribuna stampa la scena parve subito agghiacciante. Premuti da quella massa di folli guerriglieri da stadio, i tifosi italiani cercarono una via di fuga da una scala laterale, mentre i pochi agenti di polizia distribuivano manganellate proprio ai nostri per riportare la calma. Stretti in quell’imbuto di paura, molti cominciarono a correre all’impazzata verso l’uscita e un muretto di supporto crollò all’improvviso. Quella calca infame cominciò a rapire una vita dopo l’altra. Fra i corpi laceri e calpestati la morte arrivò per colpa della paura: molti finirono col torace sfondato travolti dalla massa dei tifosi in fuga, altri cercarono invano l’ultimo refolo d’aria prima di morire per asfissia. Ricordo che mi catapultai dalla tribuna stampa per raggiungere il ventre dello stadio. Avevamo la percezione della tragedia in atto, anche se lo speaker ufficiale continuava a rassicurare il pubblico, invitando i tifosi alla calma, chiedendo loro di non abbandonare il posto. Quando raggiunsi l’ampio corridoio ad anello che circondava lo stadio, vidi quello che temevo: una decina di corpi senza vita accatastati uno sopra l’altro, maschere di sangue, volti tumefatti con i segni neri delle suole sui volti calpestati. Custodi di quella tragedia due poliziotti a cavallo, simboli viventi dell’impotenza degli organizzatori, dell’imprevidenza dell’Uefa e del governo belga. Mentre correvo verso la postazione telefonica per raccontare la scena al mio giornale e ai colleghi Italo Cucci e Sandro Picchi, vidi torme di tifosi juventini chiedere ansiosamente di entrare in tribuna stampa per rassicurare parenti e amici o per raccontare i dettagli di quella tragedia che si consumava. Intanto i giocatori erano chiusi negli spogliatoi con notizie vaghissime su quanto stava accadendo. Sarebbero entrati in campo un’ora e mezzo dopo, su espressa richiesta dell’Uefa e della prefettura di Bruxelles, per evitare che le due fazioni del tifo scatenassero una guerriglia fuori dallo stadio. Mentre la polizia convocava reparti militari, allestendo un tardivo servizio di sicurezza, i giocatori scesero in campo per giocare quell’assurda finale. La Juventus vinse con un gol di Platini, mentre la famigerata curva Z era ormai un tragico moncone, con i soli tifosi del Liverpool su un lato e un vuoto agghiacciante dall’altro. La morte aveva preso il posto della gioia e dell’euforia dei tifosi juventini. Ignari della tragedia, alcuni giocatori bianconeri si concessero un assurdo giro di campo con la Coppa insanguinata. Ma il giorno dopo, sul volo di ritorno verso Torino, quando il bilancio della tragica notte dell’Heysel fu chiaro a tutti, la grande Coppa con le orecchie rimase desolatamente abbandonata su un sedile.

29 maggio 2015

Fonte: La Nazione

A-Z

  

DAVIDE TERRUZZI

29 maggio 1985

di Davide Terruzzi

La tua squadra del cuore è in finale. Tu con lei. Sogni di alzare al cielo la Coppa dei Campioni, tu accanto al tuo capitano. Vuoi esserci, ti organizzi, chiami a raccolta gli amici e i familiari, gli stessi con cui condividi la passione, in qualche modo riesci ad avere in mano i biglietti. Sarai in finale, anche tu. Non vedi l’ora che arrivi quel giorno, la data sul calendario è cerchiata in rosso: 29 maggio. E’ il 1985, il Boss canta Glory Days e tu ti auguri che quella sera sia davvero gloriosa, di goduria allo stato puro. Il countdown è finito, il grande giorno è arrivato. Sei a Bruxelles, hai girato per le vie della città, hai conosciuto altri animati come te dalla stessa passione, ma ora si entra allo stadio. Un impianto vecchio, fatiscente, criticato: come fa una Finale a essere disputata in un posto del genere ? Però, chissenefrega, sarà una bella e vincente serata, almeno si spera. Hai il biglietto nel settore Z, prendi posto e ti accorgi che qualcosa non va: sei accanto ai tifosi del Liverpool, separato da loro da due bassi reti metalliche. Lo sai che non godono di buona fama, ti ricordi quanto avvenuto a Roma l’anno prima, ma pensi che saranno anche loro qui solo per godersi la partita. No, invece no. Un’ora prima del calcio d’inizio, gli hooligan caricano, vogliono invadere il tuo settore. Non ci vuole molto, speri e credi nell’intervento della polizia. Hai paura, una fottuta paura, stanno arrivando. Scappi, come tutti, il più lontano dagli inglesi. E però c’è un muro. Ci ammassiamo tutti lì ? No, dai, è impossibile. Cerchiamo di andare in campo, è l’unica. Andiamo via da lì. Cosa fanno i poliziotti ? Ci manganellano ?? Ma questi sono pazzi ! Non hai molto tempo per ragionare, l’istinto ti suggerisce la mossa da fare: ritornare verso quel muro, scavalcare e rifugiarsi nell’altro settore. Chiuso in un angolo. Da un lato la furia pazza degli hooligan, dall’altro la totale impreparazione e scarsa intelligenza di chi dovrebbe aiutarti. Ormai è ressa, si è tutti lì. Non hai nemmeno il tempo di accorgerti che da qualche parte perdi sangue. Vedi alcuni che saltano nel vuoto. Poi un tonfo, un rumore sordo. Il muro è crollato. Cazzo, è la fine del mondo. Non sai nemmeno come hai fatto, ma sei sul campo. Lì dove i tuoi campioni avrebbero giocato. Perché è per quello che sei andato a Bruxelles quel 29 maggio del 1985. Ora vedi morte, disperazione, rabbia, smarrimento attorno a te. Tu ce l’hai fatta, ringrazi Dio, ma tanti altri no. In 39 muoiono, 39 uomini che condividevano la tua stessa passione, 39 famiglie che da ora saranno in lutto per sempre. Sono passati 28 anni, allo stadio ci vai ancora, la tua squadra ha appena vinto il secondo campionato consecutivo. Sei contento, ovviamente, ma una parte di te è morta all’Heysel, è rimasta lì. Non avevi mai conosciuto il Male. Ci pensi spesso, ci pensi sempre quando sul calendario è di nuovo il 29 maggio. E non riesci a sopportare quei maledetti ignoranti che pensano di insultare la tua squadra con scritte sull’Heysel, con cori e striscioni vergognosi. Calpestano la memoria, offendono le famiglie, gli amici. La vostra passione dovrebbe essere la stessa, è una tragedia che dovrebbe accomunare tutti, invece qualcuno la usa per offendere. Ti fa male, ma non dimentichi l’Heysel, i 39 morti. Non lo farai mai.

29 maggio 2013

Fonte: Senzaudio.altervista.org

A-Z

 

ANTONIO TINESSA

E’ del nostro sangue

Mi chiamo Tinessa Antonio e sono di Montesarchio (BN). Il 29 maggio del 1985 ero a Bruxelles con gli amici Paolo Eritero, Pietro Capuano, sgrizza, magnasale ed altri. Avevamo fatto un pullman di 40 persone noi dello Juve Club Scirea e facemmo due giorni di viaggio ininterrotti. Arrivati allo stadio già vedemmo sui prati intorno all'Heysel folti gruppi di inglesi a torso nudo che ubriachi continuavano a bere birra ed a riempire di epiteti ogni gruppo di italiani che transitava nei loro pressi. A Tommaso magnasale strapparono di mano dei biglietti e fuggirono andando ad intrupparsi in un gruppo minaccioso di hooligans e noi che li inseguivamo dovemmo desistere per non scatenare la rissa. Entrando allo stadio gli addetti mi tolsero l'asta di plastica che reggeva la bandiera della Juve mentre gli inglesi facevano arrivare casse e casse di birra e quant'altro, tipo spranghe, catene, etc, all'interno dello stadio con la benevolenza degli organizzatori. Ci sedemmo nella tribuna opposta a quella d'onore ad una ventina di metri dall'inizio della curva zeta occupata per metà da inglesi e per l'altra metà da tifosi della Juve. Le 2 tifoserie erano separate, nella stessa curva Zeta, solo da una rete metallica e con tre poliziotti a mantenere l'ordine. Il primo errore dell'organizzazione fu quello di far disputare una partitella a dei boys con le maglie della Juve e del Liverpool. Già allora gli animi si riscaldarono perché si faceva il tifo come se in campo ci fossero le finaliste della coppa. E gli animi si riscaldarono a tal punto che lungo la rete metallica incominciarono a tirarsi le bandiere. I tifosi della Juve erano sparsi lungo la rete perché il grosso era all'estremità della curva, quella a contatto con la tribuna d'onore, forse per vedere qualche beniamino o qualche volto noto. Fatto sta che il grosso degli inglesi diede, compatto, man forte a quelli che litigavano per le bandiere e buttarono giù la rete correndo appresso ai nostri che fuggendo insieme agli inseguitori travolsero quelli che stavano a ridosso del muro, che crollò. Anche dopo il crollo la furia rossa continuò ad avanzare e a calpestare quelli che cadevano o che presi alla sprovvista non si accorsero di niente. Noi da lontano non ci rendemmo conto che il muro era crollato e che c'erano state delle vittime. Vedemmo successivamente la gente invadere il terreno di gioco e molti erano riversi per terra con gente accalcata per recare loro aiuto. Eravamo troppo lontano per renderci conto della tragedia. Successivamente ci furono minuti e minuti di confusione totale; I nostri della curva opposta anche loro scesero in campo e si diressero minacciosi verso la curva Z; solo allora comparve un numero di poliziotti idoneo a controllare la situazione. Dopo questa fase era scesa la notte e parlarono i due capitani che dissero, Scirea in italiano, e l'altro in inglese che loro giocavano, anche se non volevano, perché le autorità avevano deciso in tal senso per evitare nuove e tragiche contrapposizioni. Ho visto la trasmissione in tv di Minoli ove si è detto che durante la fase antecedente la partita i calciatori scesero in campo per rendersi conto di quanto successo. Penso che ne seppero quanto noi in quanto gli spogliatoi erano alla curva opposta dalla nostra, cioè distanti un 150 metri dalla zona del muro crollato. Anche i poliziotti a cavallo, che intervennero dopo per ripristinare l'ordine, a domanda risposero che forse c'era un morto e dei feriti. Nessuno degli spettatori che stavano distanti dal muro seppe in tempo reale l'entità della tragedia; anche noi ne sapemmo di più solo dopo la partita tramite la tv. Comunque anche il sapere che c'era stato soltanto un morto scatenò in noi una rabbia indicibile verso gli hooligans e pregavamo il signore che ci facesse vincere la partita per punire coloro i quali avevano commesso quell'atrocità. Incitavamo e spingevamo i nostri campioni a battersi all'ultima goccia di sudore per vendicare il sangue delle nostre vittime e dare così una lezione di vita ai prepotenti e ai violenti. Le ingiurie, la violenza, la furia assassina degli hooligans meritavano una risposta da uomini veri, che si battono lealmente col pallone e non con spranghe e catene. Pertanto noi vedemmo quella partita con gli occhi e con il cuore di chi si sta battendo contro le bestialità umane e i nostri calciatori erano gli eroi e gli angeli vendicatori, coloro che si battevano per il bene contro il male. Di conseguenza l'esultanza finale, dovuta alla vittoria, fu l'esultanza della gente semplice che aveva visto trionfare gli eroi buoni contro gli assassini e non l'esultanza del tifoso di una squadra. Pensavamo che il giorno dopo il tenore degli articoli dei giornali sarebbe stato in sintonia con il nostro sentire; invece appena passata la frontiera e comprati i giornali avemmo la allucinante sorpresa di leggere di tutto contro la Juve. "Che la partita non si doveva giocare", che "i giocatori e i tifosi non dovevano esultare", che la Juve doveva rifiutare quella coppa gronda di sangue e cose di questo genere, quasi dovevamo vergognarci di aver vinto la coppa. E ancora oggi i soliti pennivendoli continuano a dire ciò, sostenuti anche da dichiarazioni infelici di qualche juventino che conta. Ebbene io vorrei dire, anzi dico a loro, ma che ne sapete voi di tutte le offese, le violenze subite da parte degli hooligans ? Che ne sapete delle ansie, delle paure, dei tristi presentimenti che avevamo quando andavamo alla ricerca dei nostri compagni e dei nostri congiunti ? Che ne sapete voi delle telefonate fatte dai nostri familiari al ministero degli interni per sapere i nome delle vittime? Che ne sapete voi, che anche alla fine della partita, hooligans inferociti ci assalirono per colpirci con quello che avevano ? Che ne sapete del pianto di una madre che fuori dallo stadio, dopo un'ora dalla fine, cercava i suoi figli ed il padre ? Del macabro ululare delle sirene delle autombulanze ? Dei miei amici di viaggio che alla spicciolata, con gli occhi pieni di dolore e di terrore, arrivavano trafelati al pullman che ci doveva portare indietro ? E della privazione di poter gioire per un sogno cullato per anni, della privazione di poter finalmente cancellare i pianti di Belgrado e di Atene (sì ero stato anche lì sempre con gli stessi amici) ? E' come se per un attimo il cieco avesse visto la luce che subito dopo gli hanno tolto. Quella coppa, più dell'altra di Roma, ci appartiene, perché essa rappresenta per noi il simbolo dell'olocausto, il simbolo del sacrificio dei nostri morti, il simbolo della vittoria della lealtà contro la violenza e le barbarie. Mi arrabbio da pazzo quando leggo da pennivendoli prezzolati che non la dovevamo accettare. Perché ? Io dico: bene non si doveva giocare ma poiché si è giocato per volontà non certo della Juve, che dovevano fare i nostri calciatori, perdere ? Suvvia, avrebbero scritto che non avevamo il sangue nelle vene, che non avevamo saputo onorare i nostri morti. Abbiamo vinto e nemmeno questo gli va giù. Poi parlano del rigore su Boniek fuori area; e allora perché non parlano del gol di Miahitovic in fuori gioco o di come l'Inter è arrivata a vincere a Madrid. La conclusione è questa e vale dal primo all'ultimo juventino: non date retta a chi, dall'alto della sua presunzione, della sua supponenza, della sua invidia, del suo livore vuole dividerci, perché sono pagati lautamente per questo. Noi dobbiamo essere uniti per rendere onore ai morti di Bruxelles caduti per credere in una maglia, in una fede. E la coppa è il legame che ci fa sentire più uniti e più stretti perché rappresenta il sogno dei nostri caduti, rappresenta la sintesi della nostra storia fatta di lotta contro i poteri forti, di lotta contro la violenza e la barbarie, di lotta contro l'ipocrisia di una casta di media che vogliono strumentalizzare il nostro sangue per buttarci ancora una volta il fango addosso coll'ormai scoperto fine nascondere il vero lerciume che avvolge loro e quelli che li pagano (vedi morattopoli). La coppa è nostra e guai a chi ce la tocca anche a parole; perché non sono degni di nominare neppure i nostri morti.

1 giugno 2010

Fonte: Giulemanidallajuve.com

A-Z

MAURIZIO TORRIOLI

La strage dell’Heysel ? Una vendetta premeditata, attuata

contro gli italiani per gli accoltellamenti di Roma-Liverpool

di Max Cannalire

Intervista a Maurizio Torrioli, nostro collega che fu testimone oculare della Strage dello Stadio Heysel di Bruxelles.

L’argomento non è dei più semplici. Maurizio Torrioli, padre del nostro collega Matteo, ha vissuto una bruttissima avventura, in occasione della finale della Coppa dei Campioni, in quel brutto 1985. Nessuno avrebbe ipotizzato quanto accaduto.

Eri partito come tanti appassionati per cercare di vivere una serata sportiva, indipendentemente dal risultato: quando abbiamo visto le immagini abbiamo capito la gravità dell’accaduto e di ciò che stava accadendo. Tu sei genitore di un nostro collega, ma eri partito come semplice sportivo. Una gravità inaudita.

"Hai parlato di Matteo, che aveva 3 anni, quando sono stato a Bruxelles, e questa è una cosa che mi ha colpito molto, nel corso di questi 33 anni che sono passati. Sono molto restio, a parlare di quella serata, di quella esperienza perché ancora oggi mi rifiuto di vedere le immagini in quanto mi sono trovato coinvolto e ho riportato delle ferite. Mi sono trovato schiacciato non fortunatamente nella parte bassa della Curva Z, dove c’erano le reti, ma dalla parte del muro, che siccome era fatiscente, e crollò fu quella, la nostra salvezza perché quando il muro crollò fui catapultato dalla spinta degli altri sulla pista di atletica, e ho sbattuto la testa, ho avuto qualche escoriazione ma, tutto sommato, me la sono cavata bene. I ricordi sono questi, allucinanti, di una serata che doveva essere una festa e invece è stata una tragedia".

Quante volte ci hai ripensato, tutti questi anni ?

"Non sono quasi più andato allo stadio, in tutti questi anni. Non me la sono sentita, di andare a vedere le partite. Ho paura anche dei posti affollati, sono diventato claustrofobico. Ho anche risentito, da questo punto di vista. Di quella sera ho dei ricordi non molto nitidi nel senso che quando caddi vagavo per il campo come un fantasma, e mi sono ritrovato addirittura sotto, negli spogliatoi, dove stavano i calciatori, perché la partita stava per cominciare. E da solo vagavo per Bruxelles per cercare di chiamare casa. All’epoca non c’erano i telefonini e io cercavo un posto per avvisare i miei familiari. Sono riuscito a salire su un’ambulanza, poi dal posto di pronto soccorso chiamai, e tutti erano in apprensione, tranquillizzando mia moglie, papà, mamma. Anche se devo dire che Pizzul non drammatizzò molto la questione, fu molto bravo. La notizia dei 39 morti non fu data nell’immediato, il conteggio delle vittime".

Che arrivò durante la partita, effettivamente.

"Riuscii a chiamare, mi feci curare le ferite che avevo poi firmai e andai via. Ero scalzo, avevo perso le scarpe, la borsa con tutti i documenti. Andavo in giro per Bruxelles con tutti i vestiti strappati, e con i gendarmi che ci cacciavano via perché pensavano fossimo stati noi Italiani, a causare tutta quella tragedia".

Come hai fatto, a rientrare ?

Non so come ho ritrovato i miei compagni, sul pullman che ci aveva portato allo stadio. Mi sono messo dentro all’automezzo e non ho visto nemmeno la partita: ho aspettato che finisse la partita, che rientrassero i miei compagni. In quattro eravamo rimasti feriti e gli altri cinque non avevano subìto danni. E da lì ci hanno riportato in aeroporto e siamo tornati a casa".

Tu, sempre senza scarpe ?

"Sì, senza scarpe, privo di documenti. Quando sono arrivato all’aeroporto davo l’immagine di un disperso, a Ciampino, fu una mattinata particolare. Con i familiari che arrivarono a prendermi: tutti, mia moglie, i miei genitori, quando mi videro rimasero impressionati dallo stato in cui versavo. Anche se avevo riportato a casa la pelle, che era già una grande cosa".

Quale spiegazione ti sei dato, negli anni, cioè come è possibile che Polizia belga e UEFA abbiano sottovalutato il pericolo che si conosceva bene, degli hooligans ?

(Maurizio Torrioli precisa) ..."Poi ti dirò perché è successa quella carneficina. Partiamo dall’inizio. Quando siamo arrivati ci fecero scendere a Ostenda perché a Bruxelles arrivavano aerei da tutte le parti, perché arrivano tifosi da ogni dove, soprattutto gli Juventini, perché per gli Inglesi era più semplice, attraversando la Manica. Ed erano più controllabili, da questo punto di vista. Noi avevamo prenotato con un’agenzia di viaggi, i nostri biglietti erano delle tribune. Poi ci comunicarono che avessero, all’arrivo, solo la disponibilità della Curva Z, che sono quelli dove andranno i tifosi neutrali, ci dissero. I Belgi, sarebbero andati lì. Abbiamo detto "Va bene, visto che siamo qui cosa facciamo ? Andiamo a vedere la partita poi riparleremo con le agenzie che hanno organizzato il viaggio". Quando arrivammo lì ci accorgemmo che fosse una trappola, perché la curva Z perdeva pezzi, le strutture erano ammaccate, era inadatto. Noi Italiani siamo stati perquisiti. Verso le 7 meno un quarto arrivarono gli hooligans, entrarono travolgendo tutto, senza controlli, ricordo nitidamente che parecchi di loro avevano i sacchi neri, quelli della spazzatura, erano pieni di birra. Una cosa vergognosa. Abbiamo cominciato a temere, perché da quella parte c’eravamo noi, con le famiglie, persone tranquille, che non avevano nessuna intenzione di fare la guerra agli hooligans. Verso le 7 e mezza, erano colmi di birra, ubriachi; hanno cominciato con le fionde a tirare biglie di ferro. Corpi contundenti che hanno causato le ferite ad alcuni. Poi hanno caricato perché erano abituati a fare la guerra negli stadi. Noi, da quella parte, anziché rispondere, non eravamo abituati allo scontro, indietreggiavamo, per scappare, verso la rete che delimitava il campo, alcuni, chi, lateralmente, come me, spinto verso il muro. Che sotto la spinta di tutti i tifosi venne giù, e dico pure fortunatamente, è crollato. Era talmente vecchio che non ha resistito alla spinta della gente. Sono caduto di sotto, da 3-4 metri sono caduto giù e mi sono salvato da quell’eccidio, in cui la gente è morta soffocata lì sotto, incastrata, perché quelli che spingevano avevano paura degli hooligans".

Maurizio, a distanza di anni, credi, come tuo pensiero, che la partita dovesse essere per forza giocata, in quelle condizioni ?

"Poi dirò una cosa. Quella partita, per me, non è mai esistita. Credo che la Juventus, per quanto mi riguarda, non ha mai vinto, quella coppa. Perché non si può vincere una cosa sportiva con quasi 40 morti. Io non me la sento. Non so se la società, se Boniperti, abbiano fatto bene o male. Non mi interessa. Io, da sportivo, da tifoso, per me, quella coppa non mi appartiene. Perché non si vince una coppa in quella maniera. La cosa che mi ha fatto male è che dovesse essere una giornata di festa, per tutti quanti!".

Posso dirti che è stato il punto di non ritorno della decenza, nel mondo del calcio e che da lì c’è stato un lentissimo regredire dell’etica, dei comportamenti, dell’importanza della salute, dell’essere umano ?

 "Sì perché siamo andati sempre peggiorando. Il risultato sportivo, sinceramente, non aveva nessuna importanza. L’unica cosa che contava, e che purtroppo è rimasta nel tempo, è il dolore di quei familiari, di quei 39 angeli, che io chiamo così, che hanno dovuto patire la perdita di un caro, che era andato a vedere una partita. E che invece si è ritrovato a tornare in Italia dentro a una bara, in circostanze drammatiche".

Il pensiero va inevitabilmente a un amico, un giovane radiocronista, che eri tu, Maurizio Torrioli, e al tuo delfino, al tuo successore, al collega Matteo, che è qui, di fianco a noi, in redazione, Radio Cusano Campus, e che lavora in altri settori…

"Fortunatamente", dice, sorridendo.

In base a ciò che è successo all’Heysel, ti è mai venuta la tentazione, che sarebbe stata umana, di sconsigliarlo, di fare il radiocronista sportivo ?

"Guarda, io non l’ho indirizzato, Matteo: ha fatto tutto da solo. È rimasto tifoso del Monterotondo poi fortunatamente negli ultimi anni fa cose diverse, che non riguardano il mondo del Calcio. Ne sono molto contento anche se a livello di Calcio dilettantistico, scrive di Calcio; ma non è che quella esperienza mi potesse suggerire di dirgli di non farle. Non me la sono sentita perché era pure bravo, e appassionato, già da quando era sedicenne".

(Maurizio Torrioli conclude con una decisa precisazione) ..."Voglio dire una cosa, che è passata sempre inosservata. La Strage di Bruxelles, che io chiamo così, era premeditata. Gli hooligans sono venuti lì per uccidere gli Italiani. E lo dico con grande serenità, sono certo, di questo. Perché non attaccavano gli Juventini ma la caccia era agli Italiani. Dopo ho scoperto, in un video su YouTube, perché vollero vendicare gli accoltellamenti della finale Roma-Liverpool. Questa è la verità che io so, che nessuno dice, e contro la quale nessuno mi convincerà del contrario. Altrimenti non si spiega tutta quella ferocia nei confronti di gente che era andata lì non per fare la guerra. Avrei capito uno scontro tra ultrà, che sono abituati. Hanno attaccato le famiglie, in modo vigliacco. È stata una vendetta premeditata".

4 giugno 2018

Fonte: Tag24.it

A-Z

GIANNI TRUFFA 

Gianni Truffa: "Io c’ero anche in quella

maledetta serata allo stadio Heysel di Bruxelles"

In quel drammatico 29 maggio del 1985 nella curva Z dello stadio Heysel a Bruxelles c’era anche Gianni Truffa. Il giornalista de "La Nuova Provincia", ora sessantacinquenne, si salvò per miracolo. A 30 anni di distanza può così raccontare quella terribile esperienza che causò la morte di 39 tifosi juventini, travolti dalla furia e dalla follia degli "hoolingans" del Liverpool. Truffa è un simpatizzante juventino che ha girato il mondo ad assistere alle finali di Mondiali, Europei e Coppe Campioni. "Mi trovavo nella metà riservata ai belgi, nella curva Z, che vendettero i loro biglietti agli italiani - racconta - io allora lavoravo in ferrovia. Un mio collega, che aveva dei parenti in Belgio, riuscì a procurarmi un ingresso allo stadio". Doveva essere un pomeriggio di sport, invece alle 19.20 si trasformò in tragedia: "Vedo una persona sulla pista di atletica intorno dello stadio che perde sangue dalla bocca. Questo provoca la reazione degli inglesi che cominciano a rompere le transenne. Preso dalla paura, scappo e in poco tempo raggiungo il campo di gioco. Per istinto vado in tribuna stampa dove incontro Enrico Ameri che mi intervista alla radio: riesco così a far sapere a casa che sono salvo". Truffa descrive la vicenda come se la stesse rivivendo in presa diretta. In quei momenti non sapeva ancora che c’erano stati dei morti: "La percezione non l’avevo, ma che fosse successo qualcosa di gravissimo sì. Ripensandosi, devo ringraziare il mio fisico corpulento se sono riuscito a farmi largo tra la gente". Il cronista si è poi fermato in tribuna dove ha assistito alla partita, vinta per 1-0 dalla Juventus con un rigore di Platini: "L’ho vista in tribuna stampa insieme agli altri giornalisti. Grazie alla Bbc inglese ho potuto telefonare a casa tranquillizzando così i miei. E mentre le squadre giocavano, ho cominciato a prendere appunti per dare uno sfogo alla tensione". All’ Heysel Truffa è tornato nel 2000: "Era il 28 giugno, in occasione della sfida tra Portogallo e Francia agli Europei. Quella curva Z però non c’era più: ora è diventato un parcheggio" [e. a.]

6 giugno 2015

Fonte: La Stampa (Asti)

A-Z
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