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3 Tifosi Tarantini
Curva Settore Z
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Massimo Tadolini
Curva Settore M-N-O
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Giuseppe Tassi
Tribuna Stampa
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Davide Terruzzi
Curva Settore Z
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Antonio Tinessa
Curva Settore
M-N-O
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Severino Traina
Curva Settore Z
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Gianni Truffa
Curva Settore Z
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"Eravamo all’Heysel"
Il 29 maggio 1985 il calcio perse
definitivamente la propria innocenza. E perse anche 39
juventini, nella strage dell’Heysel. Nel 2010 incontrai
tre tarantini tifosi della Juve che quella notte erano
lì. Raccolsi i loro drammatici ricordi.
Erano
nello stadio maledetto. Per fortuna lo possono
raccontare. Erano all’Heysel: basta pronunciarlo per
provare, venticinque anni dopo, lo stesso orrore. Tre
racconti diversi, di tarantini che fecero quel viaggio e
riuscirono pure a tornare. Trentanove, da quello stadio,
non fecero mai ritorno. Trentanove tifosi morti prima di
una partita, per una partita. E il ricordo straziante di
tre testimoni, come fossero uno solo. Basterebbe aprire
le virgolette adesso e non chiuderle più, per ascoltare
le loro paure, le storie di una notte che sporcò di
sangue il calcio e imbrattò indelebilmente i ricordi
intimi di ognuno. Giuseppe Spera adesso ha 66 anni. Fa
l’imprenditore ortofrutticolo e in azienda, a Massafra,
ci sono ancora pile di giornali sportivi, che dimostrano
la passione: "Partimmo con un volo charter: 650mila lire
a testa. Eravamo in centocinquanta a partire da
Brindisi, tornammo e mancavano alcuni. Due li avevo
memorizzati. Erano di Mesagne, se non ricordo male:
erano morti". Era il 29 maggio 1985: "Arrivammo con
largo anticipo: la nostra Curva era ancora semivuota, ci
sistemammo al centro per non stare troppo vicini al
settore degli inglesi. Avvertivamo un po’ il pericolo,
ma pensavamo alle bottiglie che avevano tra le mani, che
pure arrivarono. In un attimo tutto cambiò, non ci
rendevamo più conto di quello che stava accadendo, c’era
gente che sveniva, gente che cadeva e gente che
scappava. Noi restammo in piedi perché aggrappati a una
balaustra che pure si ruppe. Quando cadde la divisione
dal terreno di gioco, finii in campo e, da lì, mi fecero
uscire attraverso gli spogliatoi. Fuori era uno scenario
di guerra, tra sangue e sirene. Io ero senza scarpe:
avevo i mocassini e si sfilarono nella ressa. Sono
rimasto scalzo fino al rientro a casa". Qualche ferita,
il passaggio dall’ospedale: "Vidi parte della gara da
lì, telefonai a casa. Anche perché il rientro, che era
previsto per la notte, fu spostato alla mattina dopo:
aspettavamo che tornassero tutti. Quando vidi che
qualcuno mancava capii di essere stato fortunato: non
avevo avuto nemmeno il tempo di avere paura". Ora
Giuseppe è nonno: "E quando cresceranno i nipotini non
avrò timore a raccontare. Ho cercato di dimenticare, ma
è impossibile: allora meglio raccontare, perché non
accada più. Nell’immediato pensai che non sarei più
andato allo stadio. Ma alla prima partita della Juve a
Torino ero di nuovo lì. Forse è stato il modo per
ripartire". Gennaro Morelli, invece, non era all’Heysel
per una passione sua: "Il tifoso non sono io: era per
accompagnare mio figlio, di quindici anni, che andai a
Bruxelles". Morelli, tarantino di 69 anni, ora è
primario alla Santa Rita, dopo esserlo stato al S.S.
Annunziata: "E furono mio figlio e il gran caldo, forse,
la vera fortuna di quel giorno. Perché mentre eravamo in
gruppo e andavamo verso lo stadio, il bambino mi chiese
una Coca Cola e ci fermammo per acquistarla. Così
perdemmo gli altri e arrivammo allo stadio un po’ più
tardi. Così loro erano vicino alla rete che divideva gli
spalti dal campo, noi più in alto, vicino a un’uscita.
Quando scoppiarono gli incidenti la gente cominciò a
spingere verso il basso, quindi verso la recinzione, la
polizia impediva l’accesso al campo e si creò pressione:
io fui spinto verso un muro e mi preoccupai, subito, di
difendere il bambino.
Quando
ebbi la possibilità, lasciai lo stadio avendo vicina la
via di fuga". Fuori lo scenario era diverso dalle
immagini in tv, all’inizio: "Non capii la situazione:
all’interno dello stadio volavano le bottiglie lanciate
dagli hooligans, vidi qualche ferito dai lanci, ma
uscendo presto trovai calma fuori. Calma apparente e
breve: dopo un po’ iniziarono ad arrivare feriti più
gravi, probabilmente anche i primi cadaveri. Solo dalla
tv riuscii ad avere l’esatta dimensione del dramma". In
Italia guardavano la televisione, scoprendo che c’erano
morti. E molti erano in ansia: "Un ingegnere di Caserta,
che trovai per caso, mi aiutò a mettermi in contatto con
i familiari. Andai in un albergo e passai la notte lì:
ripartii con un volo di linea, non con il charter. E per
poterlo pagare chiesi i soldi a una parente di mia
moglie di Bruxelles. Ma l’agenzia, non vedendomi sul
charter, chiamò casa dandomi per disperso. Per fortuna
mia moglie sapeva. Io, invece, seppi che il figlio di un
amico, informatore scientifico, e che all’andata era con
me, era morto". Con un figlio al seguito ogni momento
diventò più pesante: "Ma lui rimase tranquillo e io,
avendo lui, mi sforzai di mantenere la calma. La
passione per la Juve però lui l’ha lentamente persa:
entrambi continuiamo ad andare allo stadio solo per il
Taranto". Pasquale Nuzzo, invece, ha appeso nel suo
studio da commercialista, il gagliardetto celebrativo di
quella partita e il biglietto della Tribuna Z, strappato
all’ingresso. Sono fissi lì per un motivo: "Perché
quella, mi creda, è stata l’ultima partita di calcio che
ho visto. Da lì io sono uscito vivo, ma la mia passione
è morta: ero stato anche giocatore di Promozione nel
Massafra, ero stato anche alla finale della Juve ad
Atene, due anni prima, ma poi nemmeno in televisione ho
più visto una partita". Si rideva, prima che arrivassero
le bottiglie: "Eravamo nello stadio in anticipo,
scherzavamo un po’ tra noi anche per mascherare la
delusione di uno stadio inappropriato. Iniziarono a
volare bottiglie di birra, pietre facilmente ricavabili
con un calcio ai gradoni. Ma noi eravamo lì da sportivi,
nessuno reagì: ci allontanammo per non essere colpiti e
iniziò la calca. Poi gli inglesi invasero il settore e
iniziò la fuga generale, la paura. Ricordo che nella
ressa avevo un altro tifoso che si aggrappava al mio
viso, mi sentivo asfissiato dalla pressione. Quando
crollarono le strutture molti caddero quasi nel vuoto,
altri trovarono il varco per andare sul campo. Io ero
tra questi ultimi: non potevi fermarti perché saresti
stato calpestato. E, infatti, ti trovavi quasi a
camminare su gente che era caduta". Pasquale, rispetto
agli altri due, non lasciò lo stadio: "Perché mi
portarono negli spogliatoi per curarmi le escoriazioni.
Ero scalzo, ormai. E vedevo i giocatori della Juve nello
spogliatoio. In quel momento, e lì dentro, nessuno
sapeva esattamente cosa stesse accadendo all’interno.
Nessuno sapeva che c’erano morti. Nemmeno io, che fui
accompagnato in tribuna poi e trovai alcuni dei miei
amici. Seguimmo la partita, tornammo in campo per uscire
alla fine e festeggiammo pure con la squadra, non
sapendo la gravità della situazione. Alle 2 del mattino,
in aeroporto, guardammo la tv e ci rendemmo conto. E
capimmo anche perché gli amici che avevano lasciato lo
stadio, vedendoci, si misero a piangere: temevano
fossimo morti". Nuzzo sente di non esserci andato
lontano: "Un amico, giorni dopo, mi disse: "Sei arrivato
vicino alla porta del cimitero e non sei entrato". Aveva
ragione: ho avuto paura davvero, adesso provo disgusto.
E ho abbandonato il calcio. Mi spiace solo per mio
figlio, che non ha avuto la possibilità di
appassionarsi. Ma quello che ho visto non lo dimentico
più". Sembra un unico racconto, sono tre storie diverse.
Di tifosi o papà premurosi che hanno vissuto la paura,
che hanno visto morire. Per una partita di calcio che in
trentanove non hanno mai potuto raccontare.
Fonte:
Fulviopaglialunga.it
© 29 maggio 2013
Fotografia:
Nicola Di Fazio ©
Massimo Tadolini © Giuseppe
Tassi
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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Heysel una storia
ancora da raccontare
di Massimo Tadolini
Il
viaggio in camper fu un’idea di Skipper il segretario
dello Juventus club Bassano del Grappa 1949. Io allora
ero da poco arrivato da Bologna ed accettai di buon
grado la modalità organizzativa. I veneti sono gente
allegra con simili emigrati in ogni parte del mondo, per
questo l'appuntamento ai bassanesi fu dato presso un
Ristorante Veneto aperto da anni nel centro di
Bruxelles. Eravamo fondamentalmente due gruppi, il mio
fatto di 10 persone con i biglietti dati dalla Juventus
ed il più consistente, di almeno 30 persone, aveva
trovato il biglietto con un'agenzia di viaggio. Loro
pensavano di essere nei distinti, ma che importava
oramai... Mancavano poche ore all'incontro l'emozione
era alta, e poi... Che problema mai avrebbe dovuto
esserci in CURVA Z ? Già quella sera però la
preoccupazione tra di noi esplose perché gli inglesi
stavano sfasciando il centro della città. Poco prima Il
nostro ristorante fu assalito da un grosso gruppo di
inglesi visibilmente ubriachi perché avevamo una
bandiera della Juve esposta. Tra gli italiani che nulla
avevano a che fare con il mondo ultras e le sue
eventuali regole , la paura era tangibile. Cosi
decidemmo si dividerci. Il gruppo legato all'Agenzia
aveva la notte in Hotel prenotata, mentre noi avevamo
l'ansia di ritornare ai camper perché se ce li avessero
sfasciati sarebbe stato un bel problema essendo stati
noleggiati per l'occasione. Salutati gli altri amici, ci
incamminammo verso i nostri mezzi trovando sulla nostra
strada un altro gruppo di questi animali ubriachi che ci
aggredirono picchiando uno di noi ed iniziandoci a
lanciare bottigliate di vetro. Presero Skipper e lo
buttarono dentro una fontana dopo averlo massacrato. Fui
l'unico a ribellarmi uscendo solo dal gruppo in fuga.
Andai verso di loro perché non era più possibile per me
sopportare altro. Ammetto che fui fortunato perché quel
gruppo di trenta hooligans stette fermo limitandosi ad
offese, ma subito dopo dal loro gruppo uscì un ragazzo
che si mise di fronte a me come in un film Western
invece di fare cantare il "grilletto" ci saltammo
addosso in un testa a testa alla pari. Ero fuori di me
dalla rabbia e lo buttai giù a terra in un attimo e,
come se fossi in preda ad un raptus, iniziai a prenderlo
a calci senza smettere... "Massimo scappa" mi urlarono.
Mi girai iniziando a correre subito dopo perché stava
arrivando la Police... Mai avrei immaginato di
trasformarmi anche io in un'altra persona. Ero andato lì
per vivere una giornata di festa. La notte del 28/5/1985
la passammo con la preoccupazione del giorno dopo...
Anche perché sapevamo che stava arrivando una massa di
tifosi enorme. Sinceramente la mattina del 29/5/1985
tutte le brutte cose del giorno prima sembravano
sparite, la giornata era bella e si iniziò a respirare
l'aria delle festa. All’Atomium facemmo le classiche
foto da tifosotti con lo striscione ed iniziammo a
pensare dove parcheggiare i 3 camper. Io feci il capo
colonna dei tre perché ero l'unico a sapere il francese
discretamente.
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HEYSEL nello stadio
della morte
Il nostro inviato rievoca la folle notte di
Juve-Liverpool che costò 39 vite
di Giuseppe Tassi
Bruxelles
bruciava al sole in quel pomeriggio del 29 maggio. La
Juve era arrivata dai profondi silenzi del ritiro di
Ginevra, salutata da un tifoso speciale, il giovanissimo
Emanuele Filiberto di Savoia, allora tredicenne. Lungo
le vecchie strade del centro storico e sotto la statua
del Manneken Pis sfilavano senza conflitti apparenti i
branchi del Liverpool e i tifosi bianconeri. Odori forti
di birra e sudore, un clima di attesa crescente per la
finalissima dell’Heysel distante poche ore e una colonna
sonora ossessiva, martellante: "Liverpool, Liverpool,
Liverpool, you’ll never walk alone", l’inno della
squadra inglese, la religione musicale del Kop, il cuore
del tifo di Anfield Road. Il piccolo stadio belga si
popolò con largo anticipo, come sempre succede nelle
grandi manifestazioni, dilatando quella lunga vigilia. I
tifosi juventini che avevano prenotato attraverso tour
operator si sistemarono nei settori M ed N, lontani dai
supporter del Liverpool. Quelli che invece si erano
organizzati in proprio furono convogliati nella curva Z,
divisa a metà da una sottile rete di protezione: da una
parte i Reds, dall’altra il popolo bianconero. Il
maledetto Heysel era uno stadio palesemente inadeguato
alla finale di Coppa dei campioni non solo per le
piccole dimensioni, ma perché era un impianto
fatiscente. Dalla curva Z si staccavano calcinacci che
divennero armi primordiali nelle mani degli "animals"
del Liverpool. Dopo qualche coro minaccioso contro gli
juventini presero a piovere proiettili di argilla
seccata. Nella semicurva italiana cominciò il fuggi
fuggi, interpretato dai Reds come un segnale di resa.
Falangi di tifosi del Liverpool si scagliarono a ondate
verso la ridicola rete divisoria fino a farla crollare.
Il loro obiettivo era l’invasione, volevano cacciare gli
italiani e tenersi la curva Z tutta per loro. Dalla
tribuna stampa la scena parve subito agghiacciante.
Premuti da quella massa di folli guerriglieri da stadio,
i tifosi italiani cercarono una via di fuga da una scala
laterale, mentre i pochi agenti di polizia distribuivano
manganellate proprio ai nostri per riportare la calma.
Stretti in quell’imbuto di paura, molti cominciarono a
correre all’impazzata verso l’uscita e un muretto di
supporto crollò all’improvviso.
Quella
calca infame cominciò a rapire una vita dopo l’altra.
Fra i corpi laceri e calpestati la morte arrivò per
colpa della paura: molti finirono col torace sfondato
travolti dalla massa dei tifosi in fuga, altri cercarono
invano l’ultimo refolo d’aria prima di morire per
asfissia. Ricordo che mi catapultai dalla tribuna stampa
per raggiungere il ventre dello stadio. Avevamo la
percezione della tragedia in atto, anche se lo speaker
ufficiale continuava a rassicurare il pubblico,
invitando i tifosi alla calma, chiedendo loro di non
abbandonare il posto. Quando raggiunsi l’ampio corridoio
ad anello che circondava lo stadio, vidi quello che
temevo: una decina di corpi senza vita accatastati uno
sopra l’altro, maschere di sangue, volti tumefatti con i
segni neri delle suole sui volti calpestati. Custodi di
quella tragedia due poliziotti a cavallo, simboli
viventi dell’impotenza degli organizzatori,
dell’imprevidenza dell’Uefa e del governo belga. Mentre
correvo verso la postazione telefonica per raccontare la
scena al mio giornale e ai colleghi Italo Cucci e Sandro
Picchi, vidi torme di tifosi juventini chiedere
ansiosamente di entrare in tribuna stampa per
rassicurare parenti e amici o per raccontare i dettagli
di quella tragedia che si consumava. Intanto i giocatori
erano chiusi negli spogliatoi con notizie vaghissime su
quanto stava accadendo. Sarebbero entrati in campo
un’ora e mezzo dopo, su espressa richiesta dell’Uefa e
della prefettura di Bruxelles, per evitare che le due
fazioni del tifo scatenassero una guerriglia fuori dallo
stadio. Mentre la polizia convocava reparti militari,
allestendo un tardivo servizio di sicurezza, i giocatori
scesero in campo per giocare quell’assurda finale. La
Juventus vinse con un gol di Platini, mentre la
famigerata curva Z era ormai un tragico moncone, con i
soli tifosi del Liverpool su un lato e un vuoto
agghiacciante dall’altro. La morte aveva preso il posto
della gioia e dell’euforia dei tifosi juventini. Ignari
della tragedia, alcuni giocatori bianconeri si
concessero un assurdo giro di campo con la Coppa
insanguinata. Ma il giorno dopo, sul volo di ritorno
verso Torino, quando il bilancio della tragica notte
dell’Heysel fu chiaro a tutti, la grande Coppa con le
orecchie rimase desolatamente abbandonata su un sedile.
Fonte: La
Nazione
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29 maggio 1985
di Davide Terruzzi
La
tua squadra del cuore è in finale. Tu con lei. Sogni di
alzare al cielo la Coppa dei Campioni, tu accanto al tuo
capitano. Vuoi esserci, ti organizzi, chiami a raccolta
gli amici e i familiari, gli stessi con cui condividi la
passione, in qualche modo riesci ad avere in mano i
biglietti. Sarai in finale, anche tu. Non vedi l’ora che
arrivi quel giorno, la data sul calendario è cerchiata
in rosso: 29 maggio. E’ il 1985, il Boss canta Glory
Days e tu ti auguri che quella sera sia davvero
gloriosa, di goduria allo stato puro. Il countdown è
finito, il grande giorno è arrivato. Sei a Bruxelles,
hai girato per le vie della città, hai conosciuto altri
animati come te dalla stessa passione, ma ora si entra
allo stadio. Un impianto vecchio, fatiscente, criticato:
come fa una Finale a essere disputata in un posto del
genere ? Però, chissenefrega, sarà una bella e vincente
serata, almeno si spera. Hai il biglietto nel settore Z,
prendi posto e ti accorgi che qualcosa non va: sei
accanto ai tifosi del Liverpool, separato da loro da due
bassi reti metalliche. Lo sai che non godono di buona
fama, ti ricordi quanto avvenuto a Roma l’anno prima, ma
pensi che saranno anche loro qui solo per godersi la
partita. No, invece no. Un’ora prima del calcio
d’inizio, gli hooligan caricano, vogliono invadere il
tuo settore. Non ci vuole molto, speri e credi
nell’intervento della polizia. Hai paura, una fottuta
paura, stanno arrivando. Scappi, come tutti, il più
lontano dagli inglesi. E però c’è un muro. Ci ammassiamo
tutti lì ? No, dai, è impossibile. Cerchiamo di andare
in campo, è l’unica. Andiamo via da lì. Cosa fanno i
poliziotti ? Ci manganellano ?? Ma questi sono pazzi !
Non hai molto tempo per ragionare, l’istinto ti
suggerisce la mossa da fare: ritornare verso quel muro,
scavalcare e rifugiarsi nell’altro settore. Chiuso in un
angolo. Da un lato la furia pazza degli hooligan,
dall’altro la totale impreparazione e scarsa
intelligenza di chi dovrebbe aiutarti. Ormai è ressa, si
è tutti lì. Non hai nemmeno il tempo di accorgerti che
da qualche parte perdi sangue. Vedi alcuni che saltano
nel vuoto. Poi un tonfo, un rumore sordo. Il muro è
crollato. Cazzo, è la fine del mondo. Non sai nemmeno
come hai fatto, ma sei sul campo. Lì dove i tuoi
campioni avrebbero giocato. Perché è per quello che sei
andato a Bruxelles quel 29 maggio del 1985. Ora vedi
morte, disperazione, rabbia, smarrimento attorno a te.
Tu ce l’hai fatta, ringrazi Dio, ma tanti altri no. In
39 muoiono, 39 uomini che condividevano la tua stessa
passione, 39 famiglie che da ora saranno in lutto per
sempre. Sono passati 28 anni, allo stadio ci vai ancora,
la tua squadra ha appena vinto il secondo campionato
consecutivo. Sei contento, ovviamente, ma una parte di
te è morta all’Heysel, è rimasta lì. Non avevi mai
conosciuto il Male. Ci pensi spesso, ci pensi sempre
quando sul calendario è di nuovo il 29 maggio. E non
riesci a sopportare quei maledetti ignoranti che pensano
di insultare la tua squadra con scritte sull’Heysel, con
cori e striscioni vergognosi. Calpestano la memoria,
offendono le famiglie, gli amici. La vostra passione
dovrebbe essere la stessa, è una tragedia che dovrebbe
accomunare tutti, invece qualcuno la usa per offendere.
Ti fa male, ma non dimentichi l’Heysel, i 39 morti. Non
lo farai mai.
Fonte:
Senzaudio.altervista.org
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E’ del nostro sangue
di Antonio Tinessa
Mi
chiamo Tinessa Antonio e sono di Montesarchio (BN). Il
29 maggio del 1985 ero a Bruxelles con gli amici Paolo
Eritero, Pietro Capuano, sgrizza, magnasale ed altri.
Avevamo fatto un pullman di 40 persone noi dello Juve
Club Scirea e facemmo due giorni di viaggio
ininterrotti. Arrivati allo stadio già vedemmo sui prati
intorno all'Heysel folti gruppi di inglesi a torso nudo
che ubriachi continuavano a bere birra ed a riempire di
epiteti ogni gruppo di italiani che transitava nei loro
pressi. A Tommaso magnasale strapparono di mano dei
biglietti e fuggirono andando ad intrupparsi in un
gruppo minaccioso di hooligans e noi che li inseguivamo
dovemmo desistere per non scatenare la rissa. Entrando
allo stadio gli addetti mi tolsero l'asta di plastica
che reggeva la bandiera della Juve mentre gli inglesi
facevano arrivare casse e casse di birra e quant'altro,
tipo spranghe, catene, etc, all'interno dello stadio con
la benevolenza degli organizzatori. Ci sedemmo nella
tribuna opposta a quella d'onore ad una ventina di metri
dall'inizio della curva zeta occupata per metà da
inglesi e per l'altra metà da tifosi della Juve. Le 2
tifoserie erano separate, nella stessa curva Zeta, solo
da una rete metallica e con tre poliziotti a mantenere
l'ordine. Il primo errore dell'organizzazione fu quello
di far disputare una partitella a dei boys con le maglie
della Juve e del Liverpool. Già allora gli animi si
riscaldarono perché si faceva il tifo come se in campo
ci fossero le finaliste della coppa. E gli animi si
riscaldarono a tal punto che lungo la rete metallica
incominciarono a tirarsi le bandiere. I tifosi della
Juve erano sparsi lungo la rete perché il grosso era
all'estremità della curva, quella a contatto con la
tribuna d'onore, forse per vedere qualche beniamino o
qualche volto noto. Fatto sta che il grosso degli
inglesi diede, compatto, man forte a quelli che
litigavano per le bandiere e buttarono giù la rete
correndo appresso ai nostri che fuggendo insieme agli
inseguitori travolsero quelli che stavano a ridosso del
muro, che crollò. Anche dopo il crollo la furia rossa
continuò ad avanzare e a calpestare quelli che cadevano
o che presi alla sprovvista non si accorsero di niente.
Noi da lontano non ci rendemmo conto che il muro era
crollato e che c'erano state delle vittime. Vedemmo
successivamente la gente invadere il terreno di gioco e
molti erano riversi per terra con gente accalcata per
recare loro aiuto. Eravamo troppo lontano per renderci
conto della tragedia. Successivamente ci furono minuti e
minuti di confusione totale; I nostri della curva
opposta anche loro scesero in campo e si diressero
minacciosi verso la curva Z; solo allora comparve un
numero di poliziotti idoneo a controllare la situazione.
Dopo questa fase era scesa la notte e parlarono i due
capitani che dissero, Scirea in italiano, e l'altro in
inglese che loro giocavano, anche se non volevano,
perché le autorità avevano deciso in tal senso per
evitare nuove e tragiche contrapposizioni.
Ho
visto la trasmissione in tv di Minoli ove si è detto che
durante la fase antecedente la partita i calciatori
scesero in campo per rendersi conto di quanto successo.
Penso che ne seppero quanto noi in quanto gli spogliatoi
erano alla curva opposta dalla nostra, cioè distanti un
150 metri dalla zona del muro crollato. Anche i
poliziotti a cavallo, che intervennero dopo per
ripristinare l'ordine, a domanda risposero che forse
c'era un morto e dei feriti. Nessuno degli spettatori
che stavano distanti dal muro seppe in tempo reale
l'entità della tragedia; anche noi ne sapemmo di più
solo dopo la partita tramite la tv. Comunque anche il
sapere che c'era stato soltanto un morto scatenò in noi
una rabbia indicibile verso gli hooligans e pregavamo il
signore che ci facesse vincere la partita per punire
coloro i quali avevano commesso quell'atrocità.
Incitavamo e spingevamo i nostri campioni a battersi
all'ultima goccia di sudore per vendicare il sangue
delle nostre vittime e dare così una lezione di vita ai
prepotenti e ai violenti. Le ingiurie, la violenza, la
furia assassina degli hooligans meritavano una risposta
da uomini veri, che si battono lealmente col pallone e
non con spranghe e catene. Pertanto noi vedemmo quella
partita con gli occhi e con il cuore di chi si sta
battendo contro le bestialità umane e i nostri
calciatori erano gli eroi e gli angeli vendicatori,
coloro che si battevano per il bene contro il male. Di
conseguenza l'esultanza finale, dovuta alla vittoria, fu
l'esultanza della gente semplice che aveva visto
trionfare gli eroi buoni contro gli assassini e non
l'esultanza del tifoso di una squadra. Pensavamo che il
giorno dopo il tenore degli articoli dei giornali
sarebbe stato in sintonia con il nostro sentire; invece
appena passata la frontiera e comprati i giornali avemmo
la allucinante sorpresa di leggere di tutto contro la
Juve. "Che la partita non si doveva giocare", che "i
giocatori e i tifosi non dovevano esultare", che la Juve
doveva rifiutare quella coppa gronda di sangue e cose di
questo genere, quasi dovevamo vergognarci di aver vinto
la coppa. E ancora oggi i soliti pennivendoli continuano
a dire ciò, sostenuti anche da dichiarazioni infelici di
qualche juventino che conta. Ebbene io vorrei dire, anzi
dico a loro, ma che ne sapete voi di tutte le offese, le
violenze subite da parte degli hooligans ?
Che
ne sapete delle ansie, delle paure, dei tristi
presentimenti che avevamo quando andavamo alla ricerca
dei nostri compagni e dei nostri congiunti ? Che ne
sapete voi delle telefonate fatte dai nostri familiari
al ministero degli interni per sapere i nome delle
vittime? Che ne sapete voi, che anche alla fine della
partita, hooligans inferociti ci assalirono per colpirci
con quello che avevano ? Che ne sapete del pianto di una
madre che fuori dallo stadio, dopo un'ora dalla fine,
cercava i suoi figli ed il padre ? Del macabro ululare
delle sirene delle autombulanze ? Dei miei amici di
viaggio che alla spicciolata, con gli occhi pieni di
dolore e di terrore, arrivavano trafelati al pullman che
ci doveva portare indietro ? E della privazione di poter
gioire per un sogno cullato per anni, della privazione
di poter finalmente cancellare i pianti di Belgrado e di
Atene (sì ero stato anche lì sempre con gli stessi
amici) ? E' come se per un attimo il cieco avesse visto
la luce che subito dopo gli hanno tolto. Quella coppa,
più dell'altra di Roma, ci appartiene, perché essa
rappresenta per noi il simbolo dell'olocausto, il
simbolo del sacrificio dei nostri morti, il simbolo
della vittoria della lealtà contro la violenza e le
barbarie. Mi arrabbio da pazzo quando leggo da
pennivendoli prezzolati che non la dovevamo accettare.
Perché ? Io dico: bene non si doveva giocare ma poiché
si è giocato per volontà non certo della Juve, che
dovevano fare i nostri calciatori, perdere ? Suvvia,
avrebbero scritto che non avevamo il sangue nelle vene,
che non avevamo saputo onorare i nostri morti. Abbiamo
vinto e nemmeno questo gli va giù. Poi parlano del
rigore su Boniek fuori area; e allora perché non parlano
del gol di Miahitovic in fuori gioco o di come l'Inter è
arrivata a vincere a Madrid. La conclusione è questa e
vale dal primo all'ultimo juventino: non date retta a
chi, dall'alto della sua presunzione, della sua
supponenza, della sua invidia, del suo livore vuole
dividerci, perché sono pagati lautamente per questo. Noi
dobbiamo essere uniti per rendere onore ai morti di
Bruxelles caduti per credere in una maglia, in una fede.
E la coppa è il legame che ci fa sentire più uniti e più
stretti perché rappresenta il sogno dei nostri caduti,
rappresenta la sintesi della nostra storia fatta di
lotta contro i poteri forti, di lotta contro la violenza
e la barbarie, di lotta contro l'ipocrisia di una casta
di media che vogliono strumentalizzare il nostro sangue
per buttarci ancora una volta il fango addosso
coll'ormai scoperto fine nascondere il vero lerciume che
avvolge loro e quelli che li pagano (vedi morattopoli).
La coppa è nostra e guai a chi ce la tocca anche a
parole; perché non sono degni di nominare neppure i
nostri morti.
Fonte:
Giulemanidallajuve.com
© 1 giugno 2010
Fotografia: GETTY IMAGES
© (Not
for Commercial Use)
Icone: It.vecteezy.com
© Pngegg.com
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La foto che ha fatto
la storia !
di Severino Traina
Un
abbraccio fra due persone sugli spalti di una curva, la
gente che defluisce e a terra il caos ! Poteva essere
un'immagine come tante, realizzata il giorno della
finale di Coppa Campioni fra Juventus e Liverpool allo
Stadio Heysel di Bruxelles, teatro del massacro più
grave nella storia del calcio giocato a livello
internazionale e di cui oggi ricorre il 38° anniversario
dal 29 maggio 1985. In realtà i protagonisti di quel
gesto, nei giorni seguenti ai tragici fatti, divennero
conosciuti da tutti. Al momento dello scatto il madonese
Severino Traina (a sinistra) senza saperlo si era
stretto a John Welsh (di spalle con i pantaloni blu
scuro e la maglietta color crema), il quale piangendo
gli si era letteralmente gettato addosso: Il nostro
concittadino era appena stato a contatto con un eroe !
Dopo quell'immagine, i due abbandonarono la zona e si
misero in sicurezza invadendo insieme il campo da gioco.
Fra i parecchi articoli della stampa nazionale ed
internazionale apparsi successivamente sui vari
giornali, infatti, venne alla luce la verità. John
Welsh, tifoso dei Reds presente quel giorno nel settore
Z dello stadio, aveva salvato parecchie persone dalla
calca ! Severino che casualmente si era riconosciuto
nella fotografia dalla sua giacca di pelle, una volta
lette le notizie rimase stupito: "Come un inglese ?
Portava con se sia una sciarpa del Liverpool che della
Juventus !". Poi aggiunse: "Quel ragazzo con il gesto
che ha compiuto ha dimostrato che anche fra di loro non
tutti sono violenti !". Fondamentale per recuperare e
ricostruire i dettagli di una storia così importante, fu
un articolo di Remo Traina, apparso su "L'Eco di
Bergamo" il 14 giugno 1985, il quale prendeva spunto da
un altro della Gazzetta dello Sport, scritto il 13 con
la foto dei due protagonisti (pubblicata qualche giorno
prima sul settimanale Guerin Sportivo) e la celebrazione
dell'inglese: "È nostro concittadino, per la precisione
si tratta di Severino Traina di Madone, il giovane che,
come appare in una fotografia pubblicata su un
quotidiano sportivo, abbraccia il tifoso del Liverpool,
John Welsh, che quel tragico 29 maggio allo stadio
Heysel di Bruxelles, rischiando la propria vita, salvò
almeno una ventina di persone da quella incredibile
carneficina.
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Severino
Traina si è riconosciuto per caso guardando la
fotografia e gli sono venuti in mente quei terribili
momenti. "sì, c’ero anch’io - ci ha detto - ma non avrei
mai voluto esserci. In quella bolgia, in quell’inferno,
ho visto quell’inglese darsi da fare per soccorrere
quante più persone poteva e quando la polizia belga lo
mandava via e non lo lasciava portare aiuto, si
appoggiava a me che ero lì vicino e piangeva, piangeva
disperatamente. [...] “Non so se a causa di questa
terribile esperienza - ha concluso il sig. Traina -
tornerò ancora in uno stadio, forse sì perché amo lo
sport in generale e il calcio in particolare. Martedì
prossimo sarò anch’io a Torino, assisterò anch’io
all’incontro tra John e gli altri italiani, per salutare
un’altra persona che come me ama lo sport e disprezza la
violenza". L'eroe in Belgio fu invitato in Italia per
incontrare e ricevere il ringraziamento dai nostri
connazionali salvati. Severino purtroppo ci ripensò e a
dispetto di quanto dichiarato nell'articolo,
probabilmente ancora scioccato dagli eventi, non si recò
nel capoluogo piemontese per salutare John e non lo
rivide più. Il trafiletto fu di grande aiuto anche per
sviluppare il documentario "I madonesi nella strage
dell'Heysel" che abbiamo pubblicato sulla nostra
piattaforma esattamente un anno fa. All'interno del
filmato avevamo inserito una scansione della foto in
questione presa dalla Gazzetta, in bianco e nero e molto
sgranata, perché non avevamo a disposizione l'originale.
Con il tempo, però, abbiamo recuperato anche una copia
del Guerin Sportivo n° 23 del 1985, dove all'interno
della sezione fotografica situata a metà della rivista
(a pag. XIII) si trova l'immagine a colori del famoso
abbraccio che abbiamo riproposto in questo articolo. Un
altro piccolo successo delle nostre ricerche che dalla
data di creazione del cortometraggio non si sono mai
fermate. E' stato possibile divulgare quella foto poiché
i diritti d'autore risultano scaduti, ai sensi dell'Art.
92 della legge n°633 del 22 aprile 1941.
Fonte:
Madonechannel.it © 29 maggio 2023
(Testo
©
Video)
Fotografie: Gazzetta
dello Sport © Guerin
Sportivo
©
Icone: It.vecteezy.com
© Pngegg.com
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Gianni Truffa: "Io
c’ero anche in quella
maledetta serata allo
stadio Heysel di Bruxelles"
In
quel drammatico 29 maggio del 1985 nella curva Z dello
stadio Heysel a Bruxelles c’era anche Gianni Truffa. Il
giornalista de "La Nuova Provincia", ora
sessantacinquenne, si salvò per miracolo. A 30 anni di
distanza può così raccontare quella terribile esperienza
che causò la morte di 39 tifosi juventini, travolti
dalla furia e dalla follia degli "hoolingans" del
Liverpool. Truffa è un simpatizzante juventino che ha
girato il mondo ad assistere alle finali di Mondiali,
Europei e Coppe Campioni. "Mi trovavo nella metà
riservata ai belgi, nella curva Z, che vendettero i loro
biglietti agli italiani - racconta - io allora lavoravo
in ferrovia. Un mio collega, che aveva dei parenti in
Belgio, riuscì a procurarmi un ingresso allo stadio".
Doveva essere un pomeriggio di sport, invece alle 19.20
si trasformò in tragedia: "Vedo una persona sulla pista
di atletica intorno dello stadio che perde sangue dalla
bocca. Questo provoca la reazione degli inglesi che
cominciano a rompere le transenne. Preso dalla paura,
scappo e in poco tempo raggiungo il campo di gioco. Per
istinto vado in tribuna stampa dove incontro Enrico
Ameri che mi intervista alla radio: riesco così a far
sapere a casa che sono salvo". Truffa descrive la
vicenda come se la stesse rivivendo in presa diretta. In
quei momenti non sapeva ancora che c’erano stati dei
morti: "La percezione non l’avevo, ma che fosse successo
qualcosa di gravissimo sì. Ripensandosi, devo
ringraziare il mio fisico corpulento se sono riuscito a
farmi largo tra la gente". Il cronista si è poi fermato
in tribuna dove ha assistito alla partita, vinta per 1-0
dalla Juventus con un rigore di Platini: "L’ho vista in
tribuna stampa insieme agli altri giornalisti. Grazie
alla Bbc inglese ho potuto telefonare a casa
tranquillizzando così i miei. E mentre le squadre
giocavano, ho cominciato a prendere appunti per dare uno
sfogo alla tensione". All’ Heysel Truffa è tornato nel
2000: "Era il 28 giugno, in occasione della sfida tra
Portogallo e Francia agli Europei. Quella curva Z però
non c’era più: ora è diventato un parcheggio"
(E.A.)
Fonte: La Stampa
(Asti)
© 6 giugno 2015
Fotografie: Paris
Match
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for Commercial Use)
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