"Il mio Heysel, 25 anni dopo"
Tu
dici "Heysel"… Un nome, una storia, una tragedia. Esistono parole
che ne contengono mille, centomila. Tu dici "Vajont", "Hiroshima",
"Chernobyl" e non devi aggiungere altro. Heysel, appunto. Ho sentito
le più grandi stupidaggini su quella notte, sulla partita, sugli
hooligans. Ovviamente da parte di chi non c'era, perché è molto
facile parlare dalla poltrona di casa, quando in "prima linea" c'erano
gli altri. La più grande bischerata è quella di sostenere che la
partita non andasse giocata. Credo che in determinati momenti i
calciatori riescano ad isolarsi dal contesto, soprattutto non avendo
ancora interamente percepito le reali dimensioni della tragedia.
La Juventus non ostentò quel trofeo del quale parlano con onesto
e sincero pudore i dirigenti e i giocatori di allora. Ma non sopporto
chi si arroga il diritto di censurare una breve esultanza che era
un gesto di scarico - caldamente consigliato dai dirigenti UEFA,
come recentemente ricordato da Prandelli - e anche di ringraziamento
per quelli come me che avevano fatto 1500 km in pullman per seguire
la sua squadra. La Juventus ha pagato anche troppo per quella serata:
prima con il dolore per 39 CADUTI, poi con le condanne morali dei
soloni pronti a sciorinare il loro ipocrita repertorio da sacerdoti
del senno di poi. E assolutamente disgustoso fu il falso perbenismo
di quegli "sportivi" che si dissero indignati per le (rare) manifestazioni
di gioia dei fans bianconeri in Italia, ma erano pronti a battezzare
"Via Liverpool" le strade della penisola e a scendere in piazza
con clacson e bandiere se la Vecchia Signora avesse perduto. Bisogna
sottolineare, altresì, il comportamento irreprensibile nella forma
e doveroso nella sostanza dello staff juventino al ritorno a Caselle,
tutti scapparono in fretta dalle loro famiglie rifuggendo qualsiasi
celebrazione. Segnalo sull'argomento l'ottimo libro di Nereo Ferlat
"L'ultima curva - la tragedia dello stadio Heysel' , (mentre trovo
fazioso e pretestuoso Caremani) e riporto cosa scrisse Giglio Panza
sul "Tuttosport" del 5 giugno 1985: "Il giorno dopo che la squadra
aveva adempiuto stoicamente al dovere che le era stato imposto,
riuscendo anche a vincere, ecco scatenarsi la demagogia, l'orgia
della retorica, la voglia di colpevolizzare tutto e tutti, perfino
i giocatori juventini che erano andati a salutare i tifosi obbedendo
a un sentimento di gratitudine"... Io rammento bene il clima che
si stava creando nei settori M/N/O, cioè la curva opposta a quella
degli scontri, quando si sparse la voce - eravamo nel secondo tempo
del match - che "c'era qualche morto". Ricordo l'appello del povero
Gaetano Scirea (..."Stiamo giocando per voi") e di Phil Neal, che
poi scrisse al capitano bianconero queste parole:
"Caro Scirea, sono un calciatore professionista. Come te. Non
sono un politico, o un diplomatico, o un uomo di legge. Non so scrivere
quei discorsi pieni di delicate parole che esprimono il dolore ufficiale
e la tristezza di una nazione e in questo caso di una organizzazione
come il Liverpool Football Club. Sono soltanto un uomo comune. Posso
assicurarti che ho pianto spesso da quando sono tornato da Bruxelles.
Mia moglie e la mia famiglia possono dirti che persona triste e
sconsolata sia diventato nell'ultima settimana. Ho persino pensato
di ritirarmi dal calcio e di non avere più nulla a che fare con
questo sport. Molti di noi lo hanno fatto. Mi sono troppo divertito
in tanti anni di attività per poter stare a guardare il calcio inglese
che finisce nella spazzatura. Ho lottato e cacciato e spinto e avuto
da dire con Franco Causio nel nome della Coppa del Mondo. Gli ho
stretto la mano, ci siamo abbracciati e scambiati le maglie. La
sua l'ho portata ai miei amici italiani che vivono a Liverpool.
Non sono più così sicuro che lo spirito col quale abbiamo giocato
quella partita bellissima possa sopravvivere, resistere al comportamento
di una minoranza di spostati che hanno distrutto la nostra grande
notte allo stadio Heysel. Noi due eravamo nello stesso box, abbiamo
usato lo stesso microfono per invocare la calma, per pregare che
la nostra partita e il nostro calcio avessero un futuro. Oggi sono
solo e chiedo a te e agli italiani di perdonare, di avere pazienza,
mentre noi lavoriamo per salvare il nome del calcio, qui in Inghilterra".
Nelle frasi del capitano "red" tutto il senso di colpa, di vergogna
di una nazione, di un club, dei suoi tifosi. Prova a spiegare, oggi,
che le bandiere della Juve, gli stemmi bianconeri cuciti sui giubbotti
dei "koppities" non sono trofei di guerra, ma il segno di un particolarissimo
"gemellaggio etico", se così possiamo chiamarlo. Come se volessero
dirci: lo sappiamo, stiamo ancora espiando. Ricordo il pudore e
l'imbarazzo del mio vicino di posto, nel mio "debutto" ad Anfield
nel 2001, quando chiacchierando gli dissi che "I was there..." .
Pochi, in Italia, capiscono. Gli hooligans. I teppisti. La feccia.
I supporters britannici in generale, additati al pubblico ludibrio.
Una alluvione di luoghi comuni superficiali e tonnellate di demagogia.
La "giustizia" dell'UEFA. Una giustizia pusillanime, vigliacca.
Con una lunghissima coda di paglia dimostrata persino 15 anni dopo,
agli Europei del 2000, quando i parrucconi del Comitato
Organizzatore
osteggiarono qualsiasi commemorazione proposta dalla nazionale italiana
davanti alla lapide nel nuovo stadio "Re Baldovino". Poi Antonio
Conte e Paolo Maldini andarono ugualmente a deporre dei fiori. Juventus
a porte chiuse i primi due turni europei dell'anno successivo. Perché
? Me lo spieghino. E niente Supercoppa Europea con l'Everton per
il bando ai club di Sua Maestà. La Juve poteva almeno giocare contro
il Rapid Vienna, la finalista sconfitta. Niente. Mah. Prima fanno
disputare finali europee con larghissimo seguito di pubblico in
impianti ridicoli, fatiscenti, pericolosi, con otto poliziotti a
cavallo: poi cercano di lavarsi la coscienza col pugno di ferro...
E nessuno di loro ha pagato, né pagherà. Vorrei qui trascrivere
alcuni passaggi dell'editoriale di Italo Cucci, dal Guerin Sportivo
del 5 giugno 1985: "...Avere negato al calcio inglese il contatto
con l'altra Europa è come aver assegnato a quei fanatici una medaglia.
Semmai dovevano punire soltanto il Liverpool, oggettivamente responsabile
dei suoi "animals"; il ritiro del "passaporto" all'Everton e agli
altri club riporta indietro non solo tutta l'Europa calcistica ma
anche quel grande paese sognato che doveva sorgere sull'abbattimento
dei confini e dei nazionalismi (...) non per mero idealismo ma per
amore di una sicura fratellanza fra i popoli. Le lacrime dei ragazzi
di Fagan nella cattedrale di Liverpool sono vere come quelle che
noi abbiamo versato per le vittime dell'Heysel. Mi sento anche di
respingere il ruolo di giudice assegnatosi dall'UEFA. Se la mano
omicida è stata quella degli "animals" di Liverpool, la mente idiota
che ha favorito il massacro è senza dubbio quella dell'ente calcistico
europeo affidatosi alla federazione belga senza pretendere il controllo
della sua organizzazione, apparsa colpevole fin dalla lontana vigilia,
quando ha saputo interpretare soltanto un ruolo burocratico, mancando
d'intelligenza e di ogni forma di prudenza. Mentre il signor Millichip,
presidente della federazione inglese, comunicava la dura decisione
di ritirare le proprie squadre dalle competizioni europee, l'intero
gruppo dirigente dell'UEFA doveva dimettersi, imitato dalle autorità
calcistiche e dai responsabili dell'ordine pubblico del Belgio.
Tutti costoro - ripeto - sono più colpevoli della strage di Bruxelles
di quanto lo sia il calcio inglese. In Italia questo doveva essere
preteso, dai governanti del calcio come da quelli del Palazzo; si
è invece preferito moraleggiare sul piccolo e stupido trionfo improvvisato
allo stadio dei giocatori della Juve, sicuramente stravolti dalla
terribile vicenda di cui erano stati testimoni. (...) Piuttosto
che rivolgersi ai veri colpevoli della strage pretendendo giustizia,
si è preferito infierire su chi era andato a cogliere un trofeo
nell'Heysel. Resti pure, quella Coppa dei Campioni, tra i trofei
della Juventus: certo non le darà nuova gloria o felicità. Speriamo
invece che le dia l'energia, la determinazione sportiva di riconquistarla
fra un anno: solo una coppa così, più vera, potrà essere dedicata
al piccolo Andrea Casula e agli altri trentuno italiani che non
sono più tornati dallo stadio di Bruxelles e sono stati portati
sul freddo marmo di un obitorio coperti di bandiere e di sciarpe
bianconere". Eppure, mi sembra che il 29 maggio 1985 sia passato
invano. Nel 2005, quando giocammo ad Anfield, fummo accolti da una
bellissima coreografia, ma gli ultras esportati per l'occasione
si girarono di spalle col dito medio alzato. Non solo, ma all'aeroporto
disdegnarono il saluto del sindaco e del console italiano a Liverpool,
non capendo che un conto è il dolore, un conto è l'inciviltà. italiani
e inglesi non possono, non devono sentirsi nemici. Il popolo dei
Reds, scontato l'embargo e le più pesanti condanne morali, è sempre
lì, a sostenere i suoi undici campioni, a urlare "You'll never walk
alone" dalla Kop. Invece noi abbiamo dato una brutta immagine quest'anno
a Torino, e non abbiamo imparato dal passato come hanno fatto oltre
la Manica. Dobbiamo ammettere che Capello e Ancelotti su questo
aspetto hanno ragione.
28 maggio 2010
Fonte: Juventinovero.com
A-Z |
Il mio Heysel
La
mattina del 29 maggio 1985 ero nella Grand Place di Bruxelles. Moltissimi
inglesi si stavano riempiendo di birra, "carburante" ideale, ahimè,
per un’euforia che sfociò in tragedia. Ad un certo punto un bestione
vestito di rosso mi viene incontro: io ero un ragazzo magrolino
un po’ timido, lì per lì fui titubante, poi capii col mio inglese
scolastico che voleva scambiare il cappellino e fare una foto insieme.
I koppities erano tantissimi, mossi da una fede che vent’anni dopo
li ha riversati ad Istanbul, surclassando in quantità, colore e
potenza sonora del tifo gli altri supporters, in ogni stadio. A
Torino, lo scorso 14 aprile, erano 2000, noi 50.000: eppure, al
90°, io stavo uscendo dal Delle Alpi dal lato opposto, e sentivo
solo loro che cantavano lo struggente "You’ll never walk alone".
Non camminerete mai soli. "Quando attraversi una tempesta...", dice
la prima strofa. Nel dopo Bruxelles loro l’hanno davvero attraversata.
Le condanne morali perpetue, messi al bando dall’UEFA e dalla Thatcher,
additati tutti come hooligans. Credo che sia giusto riconoscere
i grandi progressi di maturità e civiltà, adesso, del pubblico britannico.
Già nel 1990, ai mondiali italiani, vinsero il premio fair-play
della FIFA. Io sono stato ad Anfield Road, a toccare con mano. Resto
convinto che in uno stadio diverso, invece che nel fatiscente e
pericoloso Heysel, e con un servizio d’ordine efficiente, non sarebbe
accaduto nulla. Immagino che il 90% di quei 15.000 e più "liverpudiani"
presenti a Bruxelles fossero anche a Roma l’anno precedente. Non
vi furono incidenti all’Olimpico. I belgi: il 29 maggio dell’85
hanno avuto la loro caporetto. La gente non lo sa, ma diverse autopsie
furono sbagliate. I corpi di molti tifosi non furono ricuciti subito.
Alcuni cadaveri tornarono in Italia in dei sacchi di plastica, con
un cartello legato all’alluce col nome del morto. E capitò pure
che dei cartelli siano stati invertiti. E, vergogna delle vergogne,
ad alcune famiglie arrivarono, mesi dopo, le fatture dagli ospedali
di Bruxelles. Così ci hanno trattato. Ostacolando il lavoro di chi
cercava di fare luce, di vederci chiaro. Un processo farsa, dove
i responsabili del disastro organizzativo non hanno pagato. Assolti.
L’UEFA, per lavarsi la coscienza, ha demolito l’impianto e ricostruito
sopra lo stadio Re Baldovino. Con affissa all’interno, in quella
zona dove crollò il muretto che determinò la strage, una penosa
targa ricordo. Io non sono più stato a Bruxelles. Quel nome, per
me, fa rima con morte. La Juventus e il Liverpool giocarono in trance,
e dal momento che furono obbligati ad andare in campo lo fecero
con professionalità encomiabile. Il popolo juventino aveva il diritto
di festeggiare, non poté farlo. Aveva 39 caduti. Caduti in una terra
per noi amara, per i belgi noi siamo sempre i minatori di Marcinelle.
29 Maggio 2005
Fonte: Tuttojuve.com
A-Z |
ATTILIO
DE COL
De Col (Corriere delle Alpi): "Dall'Heysel
a Berlino, 30 anni dopo"
Riceviamo e pubblichiamo il contributo
di Attilio De Col del Corriere delle Alpi di Belluno: Trent'anni
da quella maledetta finale. Sabato sarò in tribuna a Berlino, trent'anni
dopo quella maledetta finale.
Io
ero all'Heysel e quindi la mia presenza in Germania assume per me
un valore ancora maggiore. E' un ricordo che ogni anno affievolisce
sempre più, ma che è comunque sempre vivo nella memoria. Non ero
in curva Z per fortuna, ero nella curva opposta e i ricordi sono
ancora impressi nella mente... RICORDO che io e il mio amico Ivan
Da Col prenotammo il viaggio in ottobre da una agenzia viaggi di
Belluno, innamorati di Platini e convinti che in maggio quella super
Juve ci sarebbe stata. RICORDO un interminabile viaggio da Belluno
a Bruxelles, 25 ore in pullman. Per contenere i costi l'agenzia
non pagò nemmeno il pedaggio per il ponte di Innsbruck. Tre ore
in più per delle stradine assurde. RICORDO il clima di festa che
c'era a Bruxelles. In mattinata eravamo nella stessa piazza con
gli inglesi. E chi poteva immaginare cosa sarebbe successo quella
notte ? Abbiamo giocato a calcetto in piazza contro di loro, con
le porte fatte con le casse di birra, prendendoci anche in giro
e bevendo con gli inglesi. Purtroppo ho perso la foto di gruppo
fatta alla fine di quella partita. Noi tutti dipinti di bianco e
nero, loro di rosso. RICORDO, però, che già all'ingresso allo stadio
si capiva che qualcosa stava funzionando male. Tifosi stipati come
bestie ai cancelli e alla prima lamentela un paio di poliziotti
a cavallo a passare addirittura in mezzo a noi, rischiando di ferire
qualcuno, insultando gli italiani nella loro lingua. Come se poi
non si capissero quegli insulti. RICORDO quello stadio inadatto
anche per una gara di Terza categoria. Con la terra fra un gradone
e l'altro e le transenne che si potevano togliere con le mani. RICORDO
i commenti dei tifosi attorno a noi su come avevano messi gli inglesi.
Rinchiusi in un terzo di curva quando ne sarebbe servita almeno
mezza per contenerli tutti. Ma perché non avevano dato una curva
a testa ? Presagi maledetti. RICORDO le prime cariche degli inglesi.
E poi la gente in campo, ma nessuno di noi aveva capito realmente
cosa era successo. Avranno invaso il campo per scappare dagli inglesi
abbiamo pensato tutti. RICORDO quando i Fighters (erano loro il
gruppo ultras nel 1985) ci urlavano con i megafoni di entrare tutti
in campo e noi non capivamo il perché. Anzi, da sopra tutti li insultavano.
"Abbiamo fatto un giorno di pullman, ora vuoi rovinarci la festa
?". Ma quale festa ? Ma questo lo scoprimmo molto dopo. RICORDO
a malapena il messaggio di Gaetano Scirea, perché in quello stadio
maledetto non funzionavano nemmeno gli altoparlanti. RICORDO la
gioia incredibile al rigore di Platini. Quanta attesa dopo la delusione
terribile di Atene, che rivincita. E poi la festa a fine gara. Gli
juventini di quella curva sono gli unici che hanno festeggiato davvero
quella vittoria. RICORDO poi la brutta sensazione all'uscita dello
stadio. Una autentica caccia all'inglese. Scappiamo veloci verso
il nostro pullman. Nessuno ci disse nulla, nemmeno l'autista. Nessuno
sapeva nulla di quei 39 morti. Nel 1985 non c'erano telefonini o
social network. Ora sarebbe diverso. RICORDO... E questo è il peggiore...
Il brivido sulla schiena quando entrammo in un autogrill in Germania
e nei giornali tedeschi il titolo gigante era: 39 morti. Ma come
? A Bruxelles ? E allora via tutti a cercare un telefono per chiamare
a casa. RICORDO mia nonna in lacrime quando rispose al telefono.
A quel punto erano lacrime di gioia, ma la sera prima i miei avevano
chiamato tutti i numeri possibili per sapere se ero ancora vivo.
RICORDO anche la sgradevole sensazione dei giorni successivi, quando
alle immagini dei morti si contrapponevano quelli di Platini e gli
altri giocatori con la coppa in mano. Ma non sono mai riuscito a
colpevolizzarli per questo. In definitiva non era colpa loro di
quello che era successo. Le cose importanti nella vita sono altre.
Sono mia figlia, mia moglie, la mia famiglia, il mio lavoro, i miei
amici. Ma la Juventus ha una parte importante nel mio cuore. E'
una passione che incredibilmente cresce con il passare degli anni.
Soffro ad ogni partita, sia in tv, sia allo stadio. Forse è stata
anche colpa di quella maledetta notte che non sono andato alle altre
finali di Champions. O solo per la difficoltà ad avere i biglietti.
O solo per il costo troppo alto. Chissà. Avrei gioito a Roma e pianto
per le sconfitte contro Dortmund, Real Madrid e Milan. Ma ora ci
siamo. Comunque vada, quest'anno è una Juve meravigliosa. Ma se
dovesse vincere il mio pensiero, in mezzo alla festa, andrà sicuramente
a quella notte maledetta. In bocca al lupo ragazzi. E se dovesse
accadere qualcosa di magico, una dedica a quelle 39 persone sfortunate
sarebbe il regalo più bello per quei 30 mila tifosi presenti quella
notte a Bruxelles.
Attilio De Col
(Juventus Club Doc Pavel Nedved Belluno)
1 giugno 2015
Fonti: Tuttojuve.com - Corriere
delle Alpi di Belluno
A-Z |
ALESSIO
DEGRANDI
Il racconto di un superstite dell'Heysel
che nel 1985 aveva appena 14anni: Alessio Degrandi
"Quella tragedia non mi ha sconfitto,
amo ancora la Juve"
di Antonio Barillà
All'indomani
della tragedia dell'Heysel, l'Italia, impietrita dal dolore, prega
per un giovanissimo tifoso: Alessio Degrandi, quattordici anni,
era stato travolto dall'onda assassina degli hooligans e il più
diffuso dei quotidiani scelse la sua immagine per ritagliare, tra
morti e lacrime, un messaggio di speranza. La fotografia pubblicata
lo ritraeva esanime accanto a un cadavere, mentre un poliziotto
cercava disperatamente di rianimarlo, la scritta era commovente:
"Ragazzo, tu devi farcela". Alessio ce l'ha fatta: è tornato dal
buio. S'è laureato in economia e commercio, lavora nel campo assicurativo,
progetta il matrimonio con Stefania, ama il calcio e la Juventus,
ha un cattivo ricordo e nessuna fobia: "Ho avuto problemi soltanto
i primi mesi: mi viene in mente un improvviso attacco di panico
al Palasport di Montecatini Terme, la mia città, gremito per un
derby di pallacanestro con Pistoia. Fui assalito, da una sensazione
terribile, mi sentivo soffocare, vedevo scorrere i flash back di
Bruxelles". Problemi ormai superati... E' stato fondamentale tornare,
subito in uno stadio, furono i medici a consigliarlo ai miei genitori.
Mi portarono a Pisa, naturalmente, a vedere la Juventus, e da allora
ho ripreso regolarmente a frequentare curve e tribune. Pur vivendo
in Toscana, rinnovo ogni anno l'abbonamento e non mi perdo le più
importanti sfide europee dei bianconeri. C'ero con il Real Madrid
e ci sarò con il Liverpool: ho già prenotato il biglietto. Mi da
solo, tremendamente fastidio, ormai, assistere a incidenti, anche
banali scazzottate, tra tifosi. So, purtroppo, quanto basti poco
perché possano degenerare: io sono, arrivato a qualche secondo dalla
fine, trentanove persone non hanno avuto la mia fortuna. Il sorteggio
dei quarti riaccende i ricordi... Dimenticare, non sarebbe giusto.
Mi auguro che la sfida diventi una festa, che vinca lo sport per
onorare la memoria delle vittime. Penso che sia stato il destino
a tenere Juventus e Liverpool lontane per vent'anni. Se la sente
di raccontare quel giorno ? L'ho fatto tante volte, benché quasi
mai pubblicamente. Ero con mio cugino Gianfranco, più grande di
me, quello che mi ha trasmesso la passione bianconera. Mi aveva
già portato ad Atene, per l'amara finale contro l'Amburgo: a Bruxelles
volevamo esserci e in extremis riuscimmo a trovare i biglietti.
Incredibilmente, dopo tanta fatica, al momento di partire li dimenticammo
a casa: ce ne accorgemmo al casello quando stavamo andando in aeroporto,
forse era un presagio. A Bruxelles sciamavano già hooligans invasati...
Prima della partita non ho assistito a scene di violenza, ho solo
visto gruppi d'inglesi ubriachi nella Grande Place. Al ristorante
fraternizzammo con una famiglia di Liverpool. Ben diversa, è facile
immaginare, l'atmosfera dello stadio... Capimmo subito che era inadeguato.
L'ingresso del nostro settore era minuscolo, la rete che ci separava
dagli inglesi fragilissima e già forata, i gradoni fatiscenti: un
colpo sul cordolo e si sbriciolavano. Le munizioni degli hooligans...
I primi lanci cominciarono subito, sporadici, ci fu pure un cenno
di rissa perché provarono a
strappare
uno striscione. Ogni tanto i poliziotti belgi ne portavano via uno,
ma assurdamente lo vedevamo rientrare subito e portare pure le birre
ai compagni: erano ubriachi, loro, ma i veri responsabili del dramma
furono le forze dell'ordine. E chi scelse quel maledetto stadio.
L'inferno si aprì all'improvviso... Partì una sassaiola
violentissima,
ci fu un fuggi fuggi generale, gli hooligans cominciarono ad avanzare.
Mio cugino aveva intuito il pericolo e urlava di non scappare, però
arginare quell'onda era impossibile. Persi una scarpa, mi chinai
per raccoglierla, caddi e non riuscii più a muovermi. Ricordo le
persone che mi calpestavano, i gradoni che mi segavano la schiena.
E ricordo... Un avambraccio, qualcuno caduto accanto a me e al quale
mi aggrappai con forza. Ricordo una voce d'uomo che mi diceva di
resistere. Poi arrivarono gli hooligans, io ero tramortito, mi colpirono
con calci e pugni, mi rubarono il portafoglio e l'orologio. Poi
il buio... Aprii gli occhi qualche ora dopo nell'ospedale di Bruggman:
vedevo soltanto ombre, un taglio profondo al piede mi impediva di
camminare. Un'infermiera mi informò del rigore di Platini: chiesi
se c'era una tv, volli vedere gli ultimi minuti. Ero solo, senza
soldi, né documenti: uno dei feriti chiamò il consolato e subito
una funzionaria mi raggiunse. Suo cugino, nel frattempo ? S'era
salvato e mi cercava dappertutto. Anch'io, inconsciamente, lo cercavo:
quando mi chiesero le generalità pronunciai il suo nome, così non
risultai nell'elenco dei feriti. Era disperato, andò a vedere i
morti, poi riprese a setacciare gli ospedali: in uno gli dissero
che era appena morto un ragazzino italiano, credo fosse Andrea Casula,
di Cagliari. Intanto Simone, un nostro amico, era riuscito a contattare
casa. Non mi aveva più visto, ma disse che stavamo tutti bene: i
miei angosciati dalla tv, si tranquillizzarono e quando telefonarono
dal consolato, di notte, mia madre svenne. Quando la trovò Gianfranco
? "La mattina dopo. lo gli dissi: "Hai visto, abbiamo vinto", lui
piangeva e mi stringeva forte. Quell'abbraccio ha avuto un seguito
nella finale di Roma con l'Ajax: c'eravamo, e dopo il rigore decisivo
di Jugovic ci stringemmo forte, come allora, in silenzio. Tutti
e due in lacrime". Il ritorno a casa... "Ci imbarcarono, su un aereo
destinato ai feriti. Oltre al taglio al piede avevo ecchimosi ed
escoriazioni in tutto il corpo; mi avevano diagnosticato un trauma
cranico e toracico. Mi sono rimaste conseguenze alla vista, un'accentuazione
della miopia. Ricordo i miei abiti di fortuna, i pianti di gioia
dei parenti, una processione di gente a casa. Le mie foto divennero
uno dei simboli della tragedia, mi portarono anche una copia dell'Equipe:
io adagiato su una transenna trasformata in barella, io portato
via a braccia". Vent'anni dopo, di nuovo il Liverpool... Spero che
sia una festa, che la Juventus raggiunga la finale e vinca largo.
Spero che nessuno dimentichi e spero, ma è impossibile, in un calcio
senza più violenza. Ha mai incontrato altri superstiti o familiari
di vittime ? "Solo occasionalmente, ma più volte sono stato tentato
di andare a trovare il signor Lorentini. Ho letto che suo figlio,
medico è morto per salvare altre persone. Ha salvato anche un ragazzo,
forse quel ragazzo ero io"...
(Il figlio del signor Lorentini, medico, è morto quella sera,
schiacciato e calpestato dalla furia degli hooligans mentre provava
a rianimare un bambino rimasto esanime per terra sugli spalti dopo
i primi scontri. Quello stesso giorno a casa Lorentini era arrivato
il telegramma con cui l'ospedale di Arezzo comunicava l'avvenuta
assunzione del giovane medico... Il signor Lorentini, padre di questo
medico coraggioso, presiede tutt'oggi l'associazione vittime del
29 maggio 1985. N.d.R.)
23 marzo 2005
Fonte:
Tuttosport
A-Z |
FRANCESCO DEMARTINO
Un giorno di straordinaria follia
Sono
Francesco, figlio del maresciallo foggiano che il 29 Maggio 1985
ha corso il rischio di non veder più crescere i suoi due figli,
non veder più l'amata compagna di vita che ora non c'è più... Tutto
questo per colpa di chi... Naturalmente dell'uomo, se non di chi
altri... Solo che questa volta l'uomo nero aveva le sembianze di
una marea umana, uomini, come noi non extraterrestri... Gente venuta
da Liverpool trasformatasi in belve ubriache fino al midollo. Cercherò
di partire dall'inizio, il mio battesimo del fuoco allo stadio Comunale
di Torino l'ho avuto in semifinale con il Bordeaux. Papà dopo mille
insistenze mi portò con sé a vedere i miei eroi, vincemmo 3-0, segnarono
Boniek, Briaschi e Platini... Ero al settimo cielo, ero riuscito
a veder dal vivo i miei eroi. Peccato solo che non giocò il mio
vero mito di allora Capitan Fracassa Stefano Tacconi... Tornati
a casa cercai di strappare una promessa a papà... "Se vai a vedere
la finale con il Liverpool io vengo con te", mi disse di sì. Una
favola per me, immagina 9 anni io... All'inizio sembrava che i biglietti
si fossero dissolti nella nebbia, ma poi papà seppe che molti Tour
operator erano entrati in possesso di tanti tagliandi. Riuscì a
trovare due biglietti con annesso viaggio aereo e albergo per Bruxelles.
Mamma si impose perché non voleva che viaggiassi in aereo ed il
mio biglietto andò a finire nelle mani di un mio parente. Io mi
dovevo accontentare della Tv... Però papà mi avrebbe sicuramente
portato qualche souvenir della finale... Veniamo al viaggio, accompagniamo
papà in stazione, treno direzione Roma. Arrivato a Roma c'era un
suo collega di corso della scuola sottufficiali, che viveva lì da
tempo e lo accompagnò in aeroporto. Il Tour operator aspettava i
tifosi con un elenco in mano. Sbrigate le pratiche del viaggio,
arrivo a Bruxelles, un pullman sempre del Tour accompagnò papà e
tanti altri in albergo. Sistemati in camera papà chiamò per avvertirci
che tutto si era svolto al meglio e mi disse: "domani vinciamo,
segna Platini". Il mattino successivo papà voleva farsi un giro
nelle piazze principali di Bruxelles però qualcosa non lo convinceva,
il timore fondato che gli inglesi avrebbero fatto danni c'era. Anni
prima papà era stato per un periodo in Inghilterra per motivi legati
al servizio e conosceva benissimo le loro abitudini "alcoliche"...
La scena che lo colpì fu una piazza completamente invasa e ricoperta
di lattine, bottiglie vuote rotte di birra, fontane devastate e
alcune vetrate di negozi sfondate. Incontrò molti inglesi già completamente
ubriachi...
Alcuni
volevano scambiare le sciarpe e bandiere, lui da vecchio militare
lo fece... Pranzarono in albergo poi il Tour operator li portò allo
stadio, all'incirca le 17.30 del pomeriggio... Arrivati allo stadio
c'erano già migliaia di tifosi della Juve in festa pronti a entrare...
Papà si posizionò in corrispondenza del tabellone luminoso, aspettando
il suo turno per entrare. L'entrata era piccolissima, malmessa,
fatta anche di legno, ferro arrugginito, stretta... Lui notò pezzi
di cemento a terra... Ma a tanti tifosi era sfuggita una cosa che
a papà ha fatto drizzare le antenne... Vicino lo stadio un cantiere
senza sorveglianza, un potenziale deposito di armi improprie...
Poi un'altra cosa non gli quadrava, pochi gendarmi, pochi poliziotti...
Ma soprattutto lungo il tragitto che aveva fatto per arrivare allo
stadio aveva notato un reparto mobile
di gendarmeria... Dentro l'impianto
pochi agenti, alcuni a cavallo... Altra cosa, gli inglesi che entravano
di fianco lo facevano senza nessun controllo, pieni di cassette
da sei lattine o bottiglie di birra, bandiere che sembravano lance
appuntite. Una volta entrato si è ritrovato quasi al centro della
curva, leggermente in basso... La sua fortuna col senno di poi...
Poco dopo le 19 l'INFERNO. Viene sparato un razzo verso il suo settore
e comincia il tutto. Gli italiani mischiati a belgi vengono aggrediti
con pietre, pezzi di cemento, colli di bottiglie... Il cantiere
adiacente lo stadio era diventato già prima un armeria. Arrivava
di tutto, spranghe che volavano. Gli Juventini indietreggiavano
e gli hooligans la rete metallica la utilizzavano per schiacciare
gli italiani, continuavano nella loro follia gli inglesi. Papà ha
cercato di rimanere in piedi il più possibile, se fosse inciampato
o caduto non lo so se lo avrei più rivisto... In mezzo a quella
follia collettiva papà ha fatto il percorso contrario, molti juventini
cercavano scampo ammucchiandosi tutti insieme in alto, lui non so
com'è riuscito, ma purtroppo, ahimè, facendosi largo in tutte le
maniere possibili, ad arrivare sul terreno di gioco, mentre il muretto
cedeva, gli altri venivano calpestati, massacrati... Lui e tanti
altri si sono ritrovati in campo... Quei pochi gendarmi addirittura
volevano caricarli... Con uno di quelli papà ha utilizzato l'inglese
per farsi capire, chiedere rinforzi, aiuto... La risposta non è
stato educata... Papà neanche lui è stato educato con i gendarmi...
Ha fatto benissimo a mio avviso, del tutto impreparati... Ha visto
tanti tifosi juventini che cercavano di scavalcare e dirigersi verso
la tribuna stampa e si è ritrovato Marino Bartoletti di fianco...
Arrivato in tribuna stampa ha provato a dirigersi verso Bruno Pizzul,
nel frattempo in mezzo a molti juventini che gli chiedevano di chiamare
a casa... Chiamare al telefono familiari e parenti... Papà ha provato
dicendo ad altri giornalisti presenti che in curva Z era accaduta
una tragedia, lui era certo, qualcuno non ce l’ha fatta. Nel frattempo
i soccorsi improvvisati si muovevano dappertutto, papà ha notato
che i feriti venivano addirittura trasportati verso gli spogliatoi.
Gli appelli dei Capitani Neal e Scirea papà li ha ascoltati a pochi
metri da lui. In tutto quel caos nessuno si è avvicinato a mio padre.
Il famoso reparto di gendarmeria era entrato in campo, avevano addirittura
i cavalli disposti in schieramento da parata... La follia all'ennesima
potenza... Mio padre vide alcuni giocatori della Juve in campo parlare
con i tifosi, vide Bodini, Tacconi, Brio, Tardelli, Prandelli, Caricola
e poco dopo vide portare delle persone morte su barelle improvvisate...
Questo è ciò che è successo, la partita, la vittoria, il ritorno
verso il parcheggio del pullman, avere ritrovato tutti i componenti
del viaggio, qualcuno ferito... C'è tanto ancora da raccontare,
tanto, ma è solo dolore e rabbia.
12 ottobre 2014
Fonte: Facebook (Pagina Comitato Heysel)
A-Z |
FABRIZIO DE TOMMASO
"Heysel, partimmo da Cittaducale
in 13…"
Il ricordo di Fabrizio de Tommaso
Il reatino Fabrizio De Tommaso era
all’Heysel in quella maledetta finale di Coppa dei Campionai. Era
il 29 maggio di trenta anni fa e De Tommaso era a Bruxelles in un
giorno nerissimo per il calcio europeo ed italiano. Questo il suo
ricordo.
Un
martedì di 30 anni fa partimmo da Cittaducale in tredici. Dovevamo
essere sessanta ma la grande richiesta di biglietti per questa finale
tagliarono di fatto le esigenze di richieste dei club da parte della
società, e quel giorno al vecchio comunale, in quella gara Juventus
-Avellino, ultimo match del grande Furino, mi recai a Torino per
il ritiro dei biglietti (N.D.R. Furino si è ritirato in quella partita,
ma si è svolta l’anno precedente, stagione 1983-1984. Nel 1985 La
Juventus giocò in casa con l’Avellino il 10.02.1985. E’ più presumibile
si trattasse di Juventus Sampdoria giocata il 12.05.1985) Tornai
a Cittaducale ugualmente felice di avere in mano quei tredici tagliandi
che nel tempo avrebbero potuto rimanere nella storia sportiva. Radunai
i miei compagni di viaggio in una mitica cena e pieni di entusiasmo
organizzammo il viaggio. Io appena patentato e nel pieno dei miei
22 anni - tenendo nascosto le modalità di viaggio ai miei genitori
- non vedevo l’ora di inghiottire quei quasi 2000 chilometri che
mi dividevano da Bruxelles e, insieme ai miei compagni, non vedevo
l’ora di assistere al primo trionfo in una coppa Campioni dei miei
idoli: Platini, Boniek, Scirea, Cabrini, atleti che l’anno prima
avevo visto trionfare a Basilea nell’allora Coppa delle Coppe. Ma
si sa, la coppa dalle grande orecchie era il vero trionfo che mancava
alla Juventus ed io volevo essere lì. Il martedì 28 maggio alle
7 di mattino, alla guida della mia auto con a bordo Walter e Giustino,
insieme a Tonino, Loris e tutti gli altri, ci avviamo destinazione
Aosta, sede della prima sosta: risate tante, momenti di grande spensieratezza
come tutti i viaggi e grande attesa per il mitico avvenimento a
cui da lì a poco, avremmo assistito. Hotel "Il caminetto", grande
accoglienza come tutte le località montane, cena tipica… E l’attesa
continuava a salire. Il giorno dopo partiamo, transitiamo per il
traforo del Monte Bianco verso Le Fiandre, dal paesaggio bellissimo
e caratteristico che le grandi corse ciclistiche hanno esaltato
per spettacolarità. Intorno alle 14 arriviamo a Bruxelles, e ci
dirigiamo allo stadio, poco fuori la città. Ricoveriamo le macchine
dove meglio potevamo e già da lì la disorganizzazione era una cosa
certa. Vedere qualcuno delle forze dell’ordine era cosa rara: ormai
comunque eravamo allo stadio, felici e contenti. Nel muoverci però
cominciava a salire la preoccupazione. Non c’era un inglese che
non era ubriaco e che non recasse fastidio a chi stava vicino. Cerchiamo
di avvicinarci alla nostra zona di ingresso e lì venni assalito
da un gruppetto di tifosi e colpito con pugni nel tentativo di rubarmi
il biglietto. Riesco a scappare e raggiungere i miei compagni di
viaggio fuggiti visto il pericolo. Nel raggiungere la curva N incontriamo
ragazzi giovanissimi inglesi che venivano arrestati e portati via
a piedi in manette dalle forza dell’ordine che piano piano cominciavano
a comparire (qualcuno aveva pensato bene di chiamare rinforzi).
Nelle classiche postazioni di ristoro non potevi pensare di avvicinarti:
erano prese d’ assalto dagli inglesi alla ricerca di birre, che
venivano portate via e dentro allo stadio in cartoni interi.
Entriamo allo stadio senza nessun controllo
con il biglietto intatto: il vecchio Heysel era confrontabile con
il nostro Fassini, con la differenza che i vari settori erano divisi
da una semplice rete di plastica di color verde, di quella utilizzata
da noi per semplici recinti di cortile, completamente fatiscente
con pezzi di cemento che si staccavano completamente con le mani.
Prendiamo posizione alla ricerca della miglior visibilità e da subito
ci rendiamo conto che i tifosi bianconeri nell’ altra curva subivano
cariche in continuazione da parte degli inglesi. Nulla potevano
le semplici reti di divisione. Partiva una carica di 100 persone
circa, colpiva i tifosi, rientrava nel settore e subito ne partiva
un’altra. Spesso gli inglesi effettuavano queste cariche con bottiglie
di birra vuote rotte nella parte superiore. Assistevamo increduli
ad uno spettacolo incredibile: roba da guerre Puniche, centinaia
di persone che si spostavano da destra a sinistra e le guardie a
bordo campo che guardavano, impossibilitate ad intervenire per il
loro numero esiguo. La gente comincia ad arrivare nella nostra curva
scappando dalla famosa curva Z. Già cominciano a parlare di 28 morti.
Questo è stato il primo dato sentito da noi. Increduli ci rendiamo
conto di essere stati super fortunati: una semplice lettera N invece
di Z ci aveva salvato la vita. Vengono sotto la curva Platini e
Cabrini, arrivano gli altri bianconeri, i due capitani nella loro
lingua fanno appello alla calma altrimenti la partita sarebbe stata
rinviata. Il popolo bianconero che non si rendeva conto nei numeri
(28 morti) aspettava con ansia l’inizio della gara, ma piano piano
che diventava certezza questo dato, la paura, la rabbia la tristezza
ci invadeva il corpo e la mente. Nel tempo i morti sarebbero poi
diventati 30: il tutto per una partita di calcio seppur importante.
Che tristezza. Per motivi di ordine pubblico - diranno poi in seguito
- la gara ebbe inizio e finì come tutti sappiamo e come non voglio
raccontare. Il mio gruppo ormai decimato nei fuggi fuggi, uscì dallo
stadio alla metà del secondo tempo. Ormai il panico, il terrore,
ci aveva assaliti e tanta paura c’era nel dopo partita al rischio
di incontrare i tifosi inglesi. Il loro parcheggio era di fatto
alle nostre spalle. Corriamo in auto e tante ambulanze incontriamo
nella nostra fuga. Le radio locali in lingua francese parlavano
di una catastrofe allo stadio Heysel: ora era tutto chiaro. Abbiamo
evitato una strage. Abbiamo assistito ad una sterminio vero e proprio:
le immagini di persone che scappavano nel campo di calcio, ci avevano
pietrificati di dolore e disperazione. Pensavamo tutti ai nostri
cari a Cittaducale che avevano visto tutto in tv ma non avevano
notizie di noi. Dovevamo avvisarli. Al nostro arrivo gli autogrill
del posto ci abbassavano le serrande davanti. I gestori erano impauriti
che fossimo inglesi o italiani con voglia di distruggere o rubare.
Dopo circa 50 chilometri sulla strada di fuga ed ormai a notte fonda
troviamo un nostro connazionale calabrese che gestiva una pompa
di benzina e ci è venuto incontro dandoci la disponibilità a telefonare.
Il povero Loris Paris, ex sindaco per 20 anni di Cittaducale, morto
per cause naturali dopo 30 giorni esatti, telefonò a casa sua a
sua moglie e lei poi riuscì ad avvisare per tranquillizzare i nostri
cari. Erano circa le 3 di notte: immaginiamo che ore lunghissime
di attesa sono state per loro. Durante il viaggio di ritorno in
una sosta in terra di Lussemburgo incontriamo il pullman del club
2 stelle di Terni. Qui apprendiamo la tragica notizia della morte
di Gianni Mastroiaco. Un ragazzo che conoscevo. La notizia ci ha
distrutto il cuore. Ognuno di noi poteva essere stato al suo posto.
Tornammo a Cittaducale nella notte tra giovedì e venerdì. Tantissima
gente ci aspettò nella piazza principale dove facemmo l’alba nel
raccontare le vicissitudini della nostra trasferta. Raccogliemmo
il conforto dei nostri familiari che ci raccontarono che per ore
ci avevano cercato tramite conoscenze nei locali ospedali della
capitale belga. Sono passati 30 anni da quel fatidico 29 maggio,
ogni tanto sono tornato allo stadio, anche in Italia - con molta
paura a volte - io amo il calcio dei dilettanti e ironia della sorte
spesso sono stato in Inghilterra a vedere la Premier League. Devo
dire che almeno loro la lezione l’hanno davvero imparata, in Italia
decisamente ancora no. Troppa violenza intorno al nostro calcio,
che tiene inevitabilmente lontano le famiglie. Concludo questo travagliato
ricordo con una sola riflessione da Juventino vero: la Juve ha vinto
33 scudetti, ma dobbiamo togliere una coppa dei campioni. Quella
dell’Heysel non l’ha vinta, proprio no, non appartiene a nessuno
se non alla memoria di tutti quei morti uccisi barbaramente e stupidamente
in occasione di una partita di calcio. Assurdo, incredibilmente
assurdo.
28 maggio 2015
Fonte: Rietilife.com
A-Z |
MASSIMO DI COLA
A 35 anni dall'Heysel il
ricordo di un camerte che era
allo stadio: "Ho pensato che
non ci saremmo salvati"
di Angelo Ubaldi
Se
i ricordi di eventi sportivi per gli appassionati hanno comunque
aspetti belli e altri meno da ricordare, così lo è stato anche
per 4 tifosi camerti, gli unici della città ducale presenti a
Bruxelles 35 anni fa nella tragica notte dell’Heysel, dove in
seguito al crollo di parte di una tribuna sotto la pressione dei
tifosi del Liverpool, persero la vita 39 tifosi della Juventus
giunti da più parti d’Italia. Venerdì (29 maggio) cadeva
l’anniversario di quella notte di morte e di terrore, che ha
segnato la storia in un caldissimo ed insolito pomeriggio belga
e che ebbe forti ripercussioni sul calcio e sulle squadre
inglesi nella partecipazione alle coppe europee. Una Coppa dei
Campioni, quella del 1985, che è passata alla storia più per
questi tragici fatti che per la vittoria conseguita poi dalla
Juventus per 1-0 in un clima ed una situazione surreale. Eppure
le attese per tutti i tifosi bianconeri erano grandi, come alla
vigilia di ogni finale e c’è chi è riuscito a trovare un
biglietto in extremis, come i 4 camerti. "Riuscimmo a trovare i
tagliandi - racconta l’avvocato Massimo Di Cola (allora 27enne)
- tramite l’annuncio di una tv privata marchigiana, che
promuoveva il viaggio di un’agenzia di Ancona. Si trattava di
una combinazione, in quanto fino a Milano dovevamo andare in
macchina, e la presi io, poi proseguimmo con un pullman
organizzato fino a Bruxelles. Partimmo in quattro da Camerino e
l’entusiasmo era tanto. La Juve in finale, una trasferta nuova
per tutti. Trovammo i biglietti perché tanti inglesi
rinunciarono e ci furono circa 3-4000 biglietti in più per i
tifosi juventini, altrimenti quello doveva essere un settore
riservato a loro, vicino ad altri inglesi". Tutto fila liscio
fino all’arrivo in Belgio, poi nella capitale e quindi allo
stadio Heysel, forse non proprio la sede adatta per una finale
di quella portata, sia per la fatiscenza, che per le
caratteristiche, soprattutto se confrontato con altre sedi di
gioco europee. "Arrivammo a Bruxelles verso le 9.30 circa -
prosegue Di Cola - scendemmo in centro. Sapevamo che allo stadio
i cancelli sarebbero stati aperti verso le ore 16, quindi
avevamo tempo per veder un po’ la città e mangiare qualcosa, mi
ricordo panini e patatine fritte. Poi ci avviammo verso lo
stadio, che non è lontano dal centro. Una volta lì, verso le ore
13.30, trovammo i cancelli già aperti, avevano anticipato
l’ingresso alle ore 13, quindi ci siamo avviati per prendere
posto. Era molto caldo. Ci dissero che mai a Bruxelles aveva
fatto così caldo, c’erano 32-33 gradi. Non c’era moltissima
polizia, all’interno anche una ventina di agenti a cavallo, ma
pochi più per il resto. L’emozione per la partita era grande.
Verso le ore 16 lo stadio era già pieno. Già giravano voci di
tifosi inglesi ubriachi fin dal mattino in giro per Bruxelles".
Nemmeno il tempo di cominciare a realizzare il sogno, le
emozioni dello stadio, i colori del tifo, che iniziano le prime
schermaglie e la tragedia è dietro l’angolo. "Ad un certo punto
iniziano i primi contrasti fra tifosi e cominciano a volare
sassi e bottiglie nei due settori più ravvicinati - dice Massimo
- c’era un po’ di tensione, ma la speranza era che prima o poi
finisse tutto. Noi quattro non eravamo tutti vicinissimi tra noi
e un po’ staccati dal muro che è crollato sotto la pressione dei
tifosi inglesi. Quella distanza dal muro ci ha salvato. Io ero
più in basso e mi sono ritrovato con il volto ed il corpo
schiacciato sulla rete per diversi minuti tanto che i segni li
ho portati per diversi giorni, un altro di noi è riuscito a
saltare da un muretto e quando è caduto è rimbalzato e poi
ricaduto in piedi e gli sono scoppiate le vene di caviglie e
polpacci, un altro ha riportato la rottura di diverse costole
per la pressione della calca ed un altro è rimasto schiacciato
tra i paletti riportando le ferite più gravi. A quel punto ho
pensato che non ci saremmo salvati. Dopo alcuni minuti la rete
si è allentata per il crollo del muro. All’inizio la polizia
cercava di respingerci, poi quando è crollato il muro e ha visto
i feriti ha invece prestato subito aiuto". In quelle situazioni
dopo averla scampata il primo pensiero va agli amici, di cui si
è perso ogni contatto. Inoltre in quel trambusto non ci si perde
solo di vista, ma si smarriscono anche gli effetti personali al
seguito. Per i 4 camerti però il miracolo si materializza in
giornata. "Quando mi sono reso conto in campo che ero sano e
salvo sono svenuto - ricorda l’avvocato Di Cola - e mi sono
svegliato dentro gli spogliatoi, in una zona dove avevano
portato le persone ferite e quelle che non ce l’avevano fatta.
La sensazione è stata indescrivibile, ho avuto paura per i miei
amici, quando ad un certo punto ho sentito uno di loro che mi
chiama per nome. Non sapevamo niente degli altri due. Quando
eravamo in attesa di un taxi che ci avrebbe condotto
all’ospedale, ci siamo sentiti chiamare dagli altri due e tutti
e quattro abbiamo preso lo stesso mezzo che ci ha accompagnato
al nosocomio di Charleroi a circa 70 km da Bruxelles, in quanto
sono state migliaia le persone soccorse e ci hanno dislocato nei
vari ospedali della zona. È stato bello ritrovarci, ma eravamo
tutti acciaccati, chi più chi meno, ma averla scampata ed
essendo di nuovo insieme ci ha aiutato. Durante il viaggio verso
Charleroi abbiamo ascoltato la cronaca della partita e di quanto
era successo dalla radio del taxista ed anche se in francese
qualcosa si capiva. Siamo arrivati in ospedale alle 23,30". Nel
frattempo la paura cresceva anche a casa, davanti alla tv, per i
famigliari di tutti i presenti all’Heysel e nel caso dei 4
camerti tutti si erano ritrovati dai genitori di Massimo Di
Cola. "All’ospedale sono stati tutti molto premurosi e mi hanno
permesso di fare una telefonata per tranquillizzare i miei, a
casa mia c’era anche la mia fidanzata e alcuni dei genitori
degli altri amici e ricordo che è stato commovente per tutti
sentirci. Ho cercato di tranquillizzarli e di pazientare, in
quanto non potevamo rientrare subito, avevamo perso tutto,
contatti, il pullman, chi i documenti e soldi ed eravamo anche
leggermente contusi, per cui avevamo bisogno di cure. Uno di noi
ha riportato ferite all’inguine necessarie di 28 punti di
sutura, chi 10 costole rotte, chi per le vene scoppiate è stato
costretto ad altri giorni di ospedale a Camerino e io ho
riportato contusioni e ferite varie, lacerazioni al corpo e al
volto per la pressione contro la rete". La mobilitazione, la
generosità e la solidarietà di belgi e diplomatici italiani in
Belgio però è stata grande. "Il console Italiano a Bruxelles ci
ha raggiunto in ospedale - continua Di Cola - e ci ha
organizzato il viaggio di ritorno in pullman in Italia con altri
tifosi connazionali e ci ha consegnato anche del denaro sia in
lire che in marchi in quanto dovevamo attraversare la Germania.
Io dovevo recuperare la mia macchina a Milano, per cui ci siamo
fermati una notte lì, abbiamo dormito a casa di un mio amico che
ci ha rifocillato e fatti lavare. Quindi abbiamo fatto rientro a
Camerino". Finito il calvario, i postumi di quella esperienza
hanno però lasciato il segno, non solo ricordi brutti e pervasi
di paura. "Per i successivi 4-5 anni - conclude l’avvocato Di
Cola - ho avuto paura anche di andare al cinema e in chiesa.
All’epoca eravamo ragazzi, spensierati, e lo spavento è stato
grande. Nessuno ha pensato in quei frangenti di fare azioni
legali. Avevo dato lo scritto dell’esame per avvocato, volevo
solo godermi un evento, poi quello che è successo ci ha
sconvolto. Solo nei giorni successivi più tardi vedendo le foto
sui giornali belgi ho riconosciuto altri tifosi delle nostre
zone come il dottor Daniele Maria Angelini che sta a Civitanova
o Pediconi Fulvio della Pizzeria Elen di Castelraimondo".
30 maggio 2020
Fonte: Viverecamerino.it
A-Z |
NICK
DIDLICK
Un fotografo ricorda l'Heysel:
"Giocare fu la soluzione migliore"
Nick Didlick, candidato al premio
Pulitzer per le sue foto della tragedia dell'Heysel, prima della
finale di Coppa dei Campioni del 1985 tra Juventus e Liverpool,
è tornato a parlarne a Gazzetta.it. Queste le sue parole: "Quel
che è successo quel giorno non potrò mai dimenticarlo. Io ero in
un punto centrale dello stadio e ricordo una scena che non avevo
mai visto in vita mia: due settori pieni di gente allargati così
completamente aperti. Poco dopo capii che quel buco tra tifosi
inglesi e i tifosi della Juventus c'era perché stava accadendo
qualcosa nello stadio che li spingeva. Ed era qualcosa che
spingeva gli italiani in uno stretto, piccolo, angolo fino a
pressarli contro la recinzione. Quindi ho iniziato a guardare in
quella direzione perché era davvero insolito quando vedi una
separazione di quel tipo. E mi avvicinai, da dentro il campo da
gioco, fino a quando il muretto collassò. Era un muretto non
particolarmente alto: 3 o 4 metri di altezza, se ricordo bene.
Ma quel muretto cadde improvvisamente, schiacciando i tifosi uno
sopra l'altro. Ricordo di aver pensato: "Non possono credere che
facciano giocare la partita. La gente non sa quello che è
successo qui ?" Capisco adesso, col senno di poi, che lo fecero
perché non volevano che gli inglesi potessero mischiarsi col
resto del pubblico. E probabilmente fu la decisione migliore in
quel momento, perché ha consentito a più polizia di entrare
nello stadio ed essere preparata per la fine della partita. E
questo almeno ha permesso di concludere l'evento abbastanza bene
alla fine, proprio per merito di quella decisione di giocare la
partita".
8 gennaio 2019
Fonte: Calciomercato.com
A-Z |
CARMELO DI PILLA
I
70 anni di Carmelo Di Pilla, fotoreporter isernino
che
sfuggì alla morte nella strage dell’Heysel
di Maurizio Cavaliere
La sua foto, riverso esanime,
sui gradoni della morte dello stadio di Bruxelles, la sera di
Juventus-Liverpool, fece il giro del mondo. "Mi risvegliai in
ospedale diverse ore dopo". Dagli anni Novanta lavora come
fotografo che, nonostante tutto, predilige gli eventi sportivi.
Ecco il ricordo di quella drammatica notte.
Compie oggi 70 anni uno dei fotografi
più noti di Isernia e un po’ di tutto il Molise. Auguri e lunga
vita al nostro amico, sempre cortese e disponibile, Carmelo Di
Pilla, quella vita che strinse con tutte le forze fra le mani la
sera del 29 maggio del 1985, la sera in cui si riversarono nella
curva di uno stadio tutti i demoni più mostruosi del calcio, la
sera della strage dell’Heysel a Bruxelles. L’uomo che vedete qui
sopra, riverso esanime a terra, è proprio lui. Un’immagine
impietosa, agghiacciante, che venne utilizzata da vari giornali
italiani e stranieri a corredo del drammatico titolo che sancì
quella orrenda pagina di morte allo stadio.
Carmelo era andato a Bruxelles in compagnia di tre amici
di Isernia. "Avevamo mangiato, e male, alla Grand Place -ricorda
- Poi ci avviammo verso lo stadio per seguire trepidanti la
finalissima di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool.
Ricordo che scelsi io il posto dove sedermi, era libero". Era un
gradone di cemento deteriorato nel famigerato "Settore Z",
quello che, intorno alle 19.20, venne invaso con la violenza di
un uragano dal maledetto magma umano degli hooligans inglesi,
molti dei quali ubriachi e fuori di senno da diverse ore. Un
assalto premeditato, forse una vendetta, si dirà in seguito, dal
momento che tra quei delinquenti senza coscienza c’erano anche
tifosi di altre squadre britanniche, non solo i Reds del
Liverpool. Quello che successe subito dopo è rimasto negli occhi
di tutti noi che quella sera eravamo davanti alla tv, pronti ad
esultare per un gol, e che invece ci ritrovammo costretti a fare
i conti, all’improvviso, e troppo giovani, con la follia del
genere umano. "Ci fu una prima ondata fortissima che ci spinse
via lontano - racconta Carmelo Di Pilla - poi un’altra,
devastante. Mi ritrovai per terra, calpestato da decine di
persone e in balia dei movimenti di quell’onda di gente inerme,
schiantata dagli hooligans. Poi si spense la luce… Non ricordo
altro". Carmelo perse i sensi. Nella foto lo vediamo in polo
bianca, scomposto, buttato sui gradoni del fatiscente stadio
Heysel, come un cadavere, braccia aperte e gambe piegate
innaturalmente: un Cristo caduto dalla croce. La sua immagine,
in quello scorcio di caos, tamburi, morti, panico e sciarpe
bianconere, fece il giro del mondo. Ci "aprirono" la Gazzetta
dello Sport e il Tempo (la foto qui sopra) e anche alcuni
giornali francesi. Carmelo, per fortuna, non era morto. "Mi
risvegliai verso le 3 di notte in un letto di ospedale, sempre a
Bruxelles. Avevo ferite su tutto il corpo. Avevo perso tutto:
giacca, macchina fotografica e soldi. Ma ero ancora vivo". Altre
500 persone come lui vennero ricoverate in diversi ospedali
della capitale belga. Alcuni purtroppo morirono, sopraffatti
dall’ondata di morte generata dai pazzi inglesi, senza
dimenticare in questo contesto la vergognosa impreparazione
delle Forze dell’Ordine belghe. Furono 39 le vittime, 32 delle
quali italiane, tifosi della Juve, bambini compresi. "Restai due
giorni in ospedale - dice ancora - vennero a trovarmi il
Presidente della Figc di allora, Federico Sordillo, e Antonio
Matarrese, che sarebbe stato il suo successore dopo la parentesi
Carraro. In corsia incontrai pure Re Baldovino, con il quale
scambiai qualche parola in francese". Poi, Carmelo Di Pilla, il
sopravvissuto, poté tornare in Italia. "Era un volo militare,
sull’aereo c’era anche il Ministro (del Lavoro, ndr) De
Michelis. Quando in volo aprii un giornale francese, vidi la mia
foto, quell’immagine così drammatica e assurda". Già, una foto,
quello che poi avrebbe rappresentato il risultato tangibile
della sua professione. Carmelo Di Pilla, infatti, dopo aver
condotto per una dozzina d’anni un negozio di alimentari, a
Isernia, ha deciso di riprendere la macchina fotografica e,
dagli anni Novanta, è impegnato come fotografo che, nonostante
tutto, ama e predilige gli eventi sportivi. È sempre lo stesso,
cortese e "sempre juventino". La tragedia di quella notte gli è
rimasta dentro ma anche la voglia di essere vivo e testimone
delle sue grandi passioni. Buon compleanno Carmelo, auguri per
tutto.
11 Marzo 2019
Fonte: Primonumero.it
A-Z |
Juve, il tifoso dell'Heysel:
"Ero morto su
quelle tribune, ora
non mi perdo una finale"
di
Antonino Morici
Carmelo Di Pilla è uno degli oltre 600 feriti della maledetta
notte di Bruxelles. "Dalla foto sui giornali tutti mi credevano
morto. Dopo il coma mi sono ripreso, ma ci ho messo 10 anni per
entrare nuovamente in uno stadio. Ora non perdo una partita
della mia Juve".
Quel
giorno c'era il sole a Bruxelles. La città era più viva del
solito, c'erano migliaia di italiani arrivati da Torino, Milano,
Roma, Palermo, pronti ad accompagnare la Juventus nel viaggio
verso il Sogno. La Coppa dei Campioni - vecchia denominazione,
infinito fascino - sarebbe stata assegnata allo stadio del
quartiere "Heysel" quella sera, 29 maggio 1985. Avversario il
Liverpool, che tra quarti di finale e semifinale aveva eliminato
Austria Vienna e Panathinaikos e che un anno prima aveva
strappato il trofeo alla Roma, dopo i calci di rigore della
stregata notte dell'Olimpico. Nel settore Z dell'impianto che
oggi è conosciuto come "Re Baldovino" c'era anche Carmelo Di
Pilla, molisano, uno dei tanti sostenitori juventini presenti a
quell'appuntamento, funesto, con la storia. TERRORE - In quel
settore non c'era il tifo organizzato bianconero, al quale era
stata assegnata la curva opposta. C'erano famiglie, padri con i
loro figli, gruppi di amici. "Eravamo riusciti a trovare un
biglietto all'ultimo momento - racconta Di Pilla, che all'epoca
aveva 36 anni. Eravamo entusiasti, quindi arrivammo in largo
anticipo per prendere posto. Lo stadio era vecchio, piccolo, non
adatto a una finale. Accanto a noi vedevamo quella macchia rossa
sempre più grande, sempre più vicina, minacciosa. Ricordo
l'ingresso in campo per il riscaldamento di Grobbelaar. Lo stavo
fotografando, erano le 18.50, poi si è scatenato l'inferno".
SCHIACCIATI - Restano schiacciati migliaia di spettatori,
terrorizzati: da una parte gli hooligans inglesi che spingono,
inveiscono e lanciano bottiglie di vetro spezzate, dall'altra la
polizia belga che colpisce con i manganelli chi cerca una via di
fuga verso il terreno di gioco. "Una folla sovrumana mi
spingeva, non c'era scampo. Mi mancava l'aria, non riuscivo a
respirare. Da quel momento il buio, fino a quando mi sono
risvegliato in ospedale. E in quel momento mi è sembrato di
rinascere una seconda volta". SEMPRE IN FINALE - Carmelo si
sveglia dal coma quando la moglie, il figlio e i parenti lo
hanno già visto in prima pagina su tutti i giornali. Le braccia
larghe, il volto inespressivo. "Mi avevano dato per morto.
Fortunatamente oggi posso raccontare questa storia, a differenza
dei 39 che purtroppo hanno perso la vita quella maledetta sera
(32 gli italiani, ndr)". La passione per la Juventus è rimasta
intatta. Anche se per superare lo choc sono serviti 10 anni
senza stadio. Poi è stata una finale e una partita dopo l'altra:
Carmelo è sempre stato presente. "In tribuna o in campo, in
Champions League come in campionato o in Coppa Italia, a volte
da fotografo accreditato, riuscendo a unire le mie grandi
passioni: foto e calcio". Tifando bianconero. "E sperando che a
Cardiff arrivi finalmente il successo sfuggito a Berlino,
Manchester e in tutte le altre finali perse. Lo meriterebbe
Allegri con i suoi ragazzi e lo meriterebbero anche tutti quei
tifosi, che come me, fanno tanta strada per seguire la Juve da
tutte le parti d'Italia". Come quelli che 32 anni fa viaggiarono
alla volta di Bruxelles.
31 maggio 2017
Fonte: Gazzetta.it
NDR:
Carmelo Di Pilla è l'uomo con la camicia bianca
A-Z |
"Un’onda mi spinse, poi il buio"
Carmelo Di Pilla, uno dei sopravvissuti:
"Sono un miracolato"
Mi
chiamo Carmelo Di Pilla, ho sessantasei anni e sono morto trent’anni
fa. Quando mi trovarono avevo un biglietto nella tasca dei pantaloni.
Un biglietto di curva, settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles,
la data stampata era quella del 29 maggio 1985. Il giorno prima
di morire andai a ritirare il biglietto in un’agenzia di Isernia,
la città dove abitavo. Io e i miei quattro amici juventini seguivamo
la Juve ovunque, due anni prima eravamo stati ad Atene. Per la finale
dell’Heysel avevamo pagato per un posto in tribuna. "Questi sono
biglietti di curva", dissi al dipendente che ci consegnò i tagliandi.
"Ve li cambieranno quando arriverete là", rispose. Non era vero,
non ero così sciocco da crederci; ci tenemmo i biglietti, protestare
sarebbe stato inutile e poi troppa era la voglia di goderci la partita.
La mattina dopo partimmo da Roma, arrivammo a Bruxelles all’ora
di pranzo. Girammo la città, ci fermammo a mangiare. Nelle strade
e nelle piazze c’erano molti tifosi italiani. Ricordo che a tavola
mi riempii di tutto, ostriche, tagliatelle, cioccolato caldo con
la vaniglia, mangiai così tanto da stare male. Arrivammo all’Heysel
verso le cinque. Il cielo era di un blu bellissimo. Ricordo i cancelli
d’entrata stretti stretti, che dovevamo passare mettendoci di lato;
ricordo l’impianto vecchio, i tubi arrugginiti, le reti metalliche
rotte, i gradoni di marmo. Pensai che non era il posto degno per
una finale di Coppa dei Campioni. Ne parlai con i miei amici, eravamo
tutti d’accordo: non è uno stadio da finale. Poi vidi Grobbelaar,
il portiere del Liverpool, che passava a pochi metri da noi, oltre
la rete. Ci eravamo seduti in prima fila, a ridosso del campo. "Voglio
sgranchirmi le gambe e avere un po’ di spazio davanti" - dissi ai
miei amici - "Andiamo a sederci là". Ora posso dire che quel piccolo
lusso che volli concedermi forse mi salvò la vita. Presi la macchina
fotografica che portavo sempre con me e cominciai a scattare foto
ai giocatori del Liverpool e ai poliziotti a cavallo che giravano
per il
campo.
All’epoca lavoravo come commerciante di frutta, ma la fotografia
era la mia grande passione. Ovunque andassi, avevo la mia macchina
fotografica. Ad un certo punto mi girai, ricordo che guardai il
grande orologio che troneggiava sulla curva: erano le sette meno
dieci. Passò qualche minuto e mi accorsi che mi muovevo senza volerlo
fare, un’onda umana mi spingeva, premeva, mi schiacciava. Mi girai
ancora: in alto vidi un ammasso senza senso di persone. Urlavano,
spingevano, avevano visi stravolti, le bocche aperte alla disperata
ricerca d’aria. L’onda si fece sempre più impetuosa e cattiva. Successe
tutto in fretta: cercai di attaccarmi alla rete, ricordo le dita
impigliate che mi bruciavano. Gridai aiuto. Una, due tre volte.
"Aiuto ! Aiuto ! Aiuto !". Poi venne il buio. Non ricordo più nulla.
Mi risvegliai la mattina dopo, in ospedale, poco prima dell’alba.
Non ero lucido, non capivo perché mi trovavo lì. Mi dissero che
all’Heysel c’erano stati degli incidenti. Qualcuno mi aveva trovato
a terra, svenuto. E mi aveva portato fuori dallo stadio. Da lì,
in ospedale. Mi allontanai per cercare un telefono e avvisare mia
moglie che stavo bene. Lei piangeva, non smetteva di piangere, mi
disse che stava stringendo forte mio figlio; io ero confuso, non
capivo cosa mi stava dicendo. Girai tra i corridoi dell’ospedale.
Vidi un giornale francese. In prima pagina c’ero io: morto. Sono
quello con la maglia bianca, nella foto a fianco. A terra, come
Gesù, le braccia larghe, il viso da cadavere. Seppi più tardi che
quella foto aveva fatto il giro del mondo. L’aveva vista mia moglie,
che dalla sera prima non aveva avuto più notizie di me. I miei amici
mi avevano cercato, tra i bivacchi fuori dall’Heysel, dove sostavano
uomini e altri simili che erano diventati animali. Ma non mi avevano
trovato ed erano tornati in Italia. Un medico dell’ospedale mi disse
che il re Baldovino era venuto a farmi visita. Più tardi arrivarono
anche Sordillo e Matarrese, presidente e vicepresidente della Figc.
Avevo il volto tumefatto, varie ferite, gli occhi gonfi, il corpo
di un rosso acceso. Ero morto, mi ripetevo. Ero un uomo morto e
ora sono vivo. Sono un miracolato. Un sopravvissuto. Non lo so cosa
o chi ha deciso che io quel giorno mi salvassi, so che mi sedetti
vicino alla rete perché volevo sgranchirmi le gambe. Il 29 maggio
del 1985 ero allo stadio Heysel di Bruxelles, settore Z, lì dove
è arrivata la morte. Volevo solo vedere una partita, mi sono ritrovato
dentro l’apocalisse. Mi chiamo Carmelo Di Pilla, ho sessantasei
anni e trent’anni fa sono morto gridando aiuto. Ma poi la vita mi
ha ripreso. (Testo di raccolto da Furio Zara)
29 maggio 2015
Fonte: Corriere dello Sport
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