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Andrea Danubi
Curva Settore
M-N-O
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Attilio De Col
Curva Settore
M-N-O
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Alessio Degrandi
Curva Settore Z
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Francesco Demartino
Curva Settore Z
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Fabrizio De Tommaso
Curva Settore
M-N-O
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Massimo Di Cola
Curva Settore Z
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Nick Didlick
Fotografo
Sportivo
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Carmelo Di Pilla
Curva Settore Z
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"Il mio Heysel, 25
anni dopo"
Tu
dici "Heysel"… Un nome, una storia, una tragedia.
Esistono parole che ne contengono mille, centomila. Tu
dici "Vajont", "Hiroshima", "Chernobyl" e non devi
aggiungere altro. Heysel, appunto. Ho sentito le più
grandi stupidaggini su quella notte, sulla partita,
sugli hooligans. Ovviamente da parte di chi non c'era,
perché è molto facile parlare dalla poltrona di casa,
quando in "prima linea" c'erano gli altri. La più grande
bischerata è quella di sostenere che la partita non
andasse giocata. Credo che in determinati momenti i
calciatori riescano ad isolarsi dal contesto,
soprattutto non avendo ancora interamente percepito le
reali dimensioni della tragedia. La Juventus non ostentò
quel trofeo del quale parlano con onesto e sincero
pudore i dirigenti e i giocatori di allora. Ma non
sopporto chi si arroga il diritto di censurare una breve
esultanza che era un gesto di scarico - caldamente
consigliato dai dirigenti UEFA, come recentemente
ricordato da Prandelli - e anche di ringraziamento per
quelli come me che avevano fatto 1500 km in pullman per
seguire la sua squadra. La Juventus ha pagato anche
troppo per quella serata: prima con il dolore per 39
CADUTI, poi con le condanne morali dei soloni pronti a
sciorinare il loro ipocrita repertorio da sacerdoti del
senno di poi. E assolutamente disgustoso fu il falso
perbenismo di quegli "sportivi" che si dissero indignati
per le (rare) manifestazioni di gioia dei fans
bianconeri in Italia, ma erano pronti a battezzare "Via
Liverpool" le strade della penisola e a scendere in
piazza con clacson e bandiere se la Vecchia Signora
avesse perduto. Bisogna sottolineare, altresì, il
comportamento irreprensibile nella forma e doveroso
nella sostanza dello staff juventino al ritorno a
Caselle, tutti scapparono in fretta dalle loro famiglie
rifuggendo qualsiasi celebrazione. Segnalo
sull'argomento l'ottimo libro di Nereo Ferlat "L'ultima
curva - la tragedia dello stadio Heysel' , (mentre trovo
fazioso e pretestuoso Caremani) e riporto cosa scrisse
Giglio Panza sul "Tuttosport" del 5 giugno 1985: "Il
giorno dopo che la squadra aveva adempiuto stoicamente
al dovere che le era stato imposto, riuscendo anche a
vincere, ecco scatenarsi la demagogia, l'orgia della
retorica, la voglia di colpevolizzare tutto e tutti,
perfino i giocatori juventini che erano andati a
salutare i tifosi obbedendo a un sentimento di
gratitudine"... Io rammento bene il clima che si stava
creando nei settori M/N/O, cioè la curva opposta a
quella degli scontri, quando si sparse la voce - eravamo
nel secondo tempo del match - che "c'era qualche morto".
Ricordo l'appello del povero Gaetano Scirea (..."Stiamo
giocando per voi") e di Phil Neal, che poi scrisse al
capitano bianconero queste parole:
"Caro Scirea,
sono un calciatore professionista. Come te. Non sono un
politico, o un diplomatico, o un uomo di legge. Non so
scrivere quei discorsi pieni di delicate parole che
esprimono il dolore ufficiale e la tristezza di una
nazione e in questo caso di una organizzazione come il
Liverpool Football Club. Sono soltanto un uomo comune.
Posso assicurarti che ho pianto spesso da quando sono
tornato da Bruxelles. Mia moglie e la mia famiglia
possono dirti che persona triste e sconsolata sia
diventato nell'ultima settimana. Ho persino pensato di
ritirarmi dal calcio e di non avere più nulla a che fare
con questo sport. Molti di noi lo hanno fatto. Mi sono
troppo divertito in tanti anni di attività per poter
stare a guardare il calcio inglese che finisce nella
spazzatura. Ho lottato e cacciato e spinto e avuto da
dire con Franco Causio nel nome della Coppa del Mondo.
Gli ho stretto la mano, ci siamo abbracciati e scambiati
le maglie. La sua l'ho portata ai miei amici italiani
che vivono a Liverpool. Non sono più così sicuro che lo
spirito col quale abbiamo giocato quella partita
bellissima possa sopravvivere, resistere al
comportamento di una minoranza di spostati che hanno
distrutto la nostra grande notte allo stadio Heysel. Noi
due eravamo nello stesso box, abbiamo usato lo stesso
microfono per invocare la calma, per pregare che la
nostra partita e il nostro calcio avessero un futuro.
Oggi sono solo e chiedo a te e agli italiani di
perdonare, di avere pazienza, mentre noi lavoriamo per
salvare il nome del calcio, qui in Inghilterra".
Nelle
frasi del capitano "red" tutto il senso di colpa, di
vergogna di una nazione, di un club, dei suoi tifosi.
Prova a spiegare, oggi, che le bandiere della Juve, gli
stemmi bianconeri cuciti sui giubbotti dei "koppities"
non sono trofei di guerra, ma il segno di un
particolarissimo "gemellaggio etico", se così possiamo
chiamarlo. Come se volessero dirci: lo sappiamo, stiamo
ancora espiando. Ricordo il pudore e l'imbarazzo del mio
vicino di posto, nel mio "debutto" ad Anfield nel 2001,
quando chiacchierando gli dissi che "I was there..." .
Pochi, in Italia, capiscono. Gli hooligans. I teppisti.
La feccia. I supporters britannici in generale, additati
al pubblico ludibrio. Una alluvione di luoghi comuni
superficiali e tonnellate di demagogia. La "giustizia"
dell'UEFA. Una giustizia pusillanime, vigliacca. Con una
lunghissima coda di paglia dimostrata persino 15 anni
dopo, agli Europei del 2000, quando i parrucconi del
Comitato Organizzatore osteggiarono qualsiasi
commemorazione proposta dalla nazionale italiana davanti
alla lapide nel nuovo stadio "Re Baldovino". Poi Antonio
Conte e Paolo Maldini andarono ugualmente a deporre dei
fiori. Juventus a porte chiuse i primi due turni europei
dell'anno successivo. Perché ? Me lo spieghino. E niente
Supercoppa Europea con l'Everton per il bando ai club di
Sua Maestà. La Juve poteva almeno giocare contro il
Rapid Vienna, la finalista sconfitta. Niente. Mah. Prima
fanno disputare finali europee con larghissimo seguito
di pubblico in impianti ridicoli, fatiscenti,
pericolosi, con otto poliziotti a cavallo: poi cercano
di lavarsi la coscienza col pugno di ferro... E nessuno
di loro ha pagato, né pagherà. Vorrei qui trascrivere
alcuni passaggi dell'editoriale di Italo Cucci, dal
Guerin Sportivo del 5 giugno 1985: "...Avere negato al
calcio inglese il contatto con l'altra Europa è come
aver assegnato a quei fanatici una medaglia. Semmai
dovevano punire soltanto il Liverpool, oggettivamente
responsabile dei suoi "animals"; il ritiro del
"passaporto" all'Everton e agli altri club riporta
indietro non solo tutta l'Europa calcistica ma anche
quel grande paese sognato che doveva sorgere
sull'abbattimento dei confini e dei nazionalismi (...)
non per mero idealismo ma per amore di una sicura
fratellanza fra i popoli.
Le
lacrime dei ragazzi di Fagan nella cattedrale di
Liverpool sono vere come quelle che noi abbiamo versato
per le vittime dell'Heysel. Mi sento anche di respingere
il ruolo di giudice assegnatosi dall'UEFA. Se la mano
omicida è stata quella degli "animals" di Liverpool, la
mente idiota che ha favorito il massacro è senza dubbio
quella dell'ente calcistico europeo affidatosi alla
federazione belga senza pretendere il controllo della
sua organizzazione, apparsa colpevole fin dalla lontana
vigilia, quando ha saputo interpretare soltanto un ruolo
burocratico, mancando d'intelligenza e di ogni forma di
prudenza. Mentre il signor Millichip, presidente della
federazione inglese, comunicava la dura decisione di
ritirare le proprie squadre dalle competizioni europee,
l'intero gruppo dirigente dell'UEFA doveva dimettersi,
imitato dalle autorità calcistiche e dai responsabili
dell'ordine pubblico del Belgio. Tutti costoro - ripeto
- sono più colpevoli della strage di Bruxelles di quanto
lo sia il calcio inglese. In Italia questo doveva essere
preteso, dai governanti del calcio come da quelli del
Palazzo; si è invece preferito moraleggiare sul piccolo
e stupido trionfo improvvisato allo stadio dei giocatori
della Juve, sicuramente stravolti dalla terribile
vicenda di cui erano stati testimoni. (...) Piuttosto
che rivolgersi ai veri colpevoli della strage
pretendendo giustizia, si è preferito infierire su chi
era andato a cogliere un trofeo nell'Heysel. Resti pure,
quella Coppa dei Campioni, tra i trofei della Juventus:
certo non le darà nuova gloria o felicità. Speriamo
invece che le dia l'energia, la determinazione sportiva
di riconquistarla fra un anno: solo una coppa così, più
vera, potrà essere dedicata al piccolo Andrea Casula e
agli altri trentuno italiani che non sono più tornati
dallo stadio di Bruxelles e sono stati portati sul
freddo marmo di un obitorio coperti di bandiere e di
sciarpe bianconere". Eppure, mi sembra che il 29 maggio
1985 sia passato invano. Nel 2005, quando giocammo ad
Anfield, fummo accolti da una bellissima coreografia, ma
gli ultras esportati per l'occasione si girarono di
spalle col dito medio alzato. Non solo, ma all'aeroporto
disdegnarono il saluto del sindaco e del console
italiano a Liverpool, non capendo che un conto è il
dolore, un conto è l'inciviltà. italiani e inglesi non
possono, non devono sentirsi nemici. Il popolo dei Reds,
scontato l'embargo e le più pesanti condanne morali, è
sempre lì, a sostenere i suoi undici campioni, a urlare
"You'll never walk alone" dalla Kop. Invece noi abbiamo
dato una brutta immagine quest'anno a Torino, e non
abbiamo imparato dal passato come hanno fatto oltre la
Manica. Dobbiamo ammettere che Capello e Ancelotti su
questo aspetto hanno ragione.
Andrea
Danubi
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Juventinovero.com © 28 maggio 2018
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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Il mio Heysel
La
mattina del 29 maggio 1985 ero nella Grand Place di
Bruxelles. Moltissimi inglesi si stavano riempiendo di
birra, "carburante" ideale, ahimè, per un’euforia che
sfociò in tragedia. Ad un certo punto un bestione
vestito di rosso mi viene incontro: io ero un ragazzo
magrolino un po’ timido, lì per lì fui titubante, poi
capii col mio inglese scolastico che voleva scambiare il
cappellino e fare una foto insieme. I koppities erano
tantissimi, mossi da una fede che vent’anni dopo li ha
riversati ad Istanbul, surclassando in quantità, colore
e potenza sonora del tifo gli altri supporters, in ogni
stadio. A Torino, lo scorso 14 aprile, erano 2000, noi
50.000: eppure, al 90°, io stavo uscendo dal Delle Alpi
dal lato opposto, e sentivo solo loro che cantavano lo
struggente "You’ll never walk alone". Non camminerete
mai soli. "Quando attraversi una tempesta...", dice la
prima strofa. Nel dopo Bruxelles loro l’hanno davvero
attraversata. Le condanne morali perpetue, messi al
bando dall’UEFA e dalla Thatcher, additati tutti come
hooligans. Credo che sia giusto riconoscere i grandi
progressi di maturità e civiltà, adesso, del pubblico
britannico. Già nel 1990, ai mondiali italiani, vinsero
il premio fair-play della FIFA. Io sono stato ad Anfield
Road, a toccare con mano. Resto convinto che in uno
stadio diverso, invece che nel fatiscente e pericoloso
Heysel, e con un servizio d’ordine efficiente, non
sarebbe accaduto nulla. Immagino che il 90% di quei
15.000 e più "liverpudiani" presenti a Bruxelles fossero
anche a Roma l’anno precedente. Non vi furono incidenti
all’Olimpico. I belgi: il 29 maggio dell’85 hanno avuto
la loro caporetto. La gente non lo sa, ma diverse
autopsie furono sbagliate. I corpi di molti tifosi non
furono ricuciti subito. Alcuni cadaveri tornarono in
Italia in dei sacchi di plastica, con un cartello legato
all’alluce col nome del morto. E capitò pure che dei
cartelli siano stati invertiti. E, vergogna delle
vergogne, ad alcune famiglie arrivarono, mesi dopo, le
fatture dagli ospedali di Bruxelles. Così ci hanno
trattato. Ostacolando il lavoro di chi cercava di fare
luce, di vederci chiaro. Un processo farsa, dove i
responsabili del disastro organizzativo non hanno
pagato. Assolti. L’UEFA, per lavarsi la coscienza, ha
demolito l’impianto e ricostruito sopra lo stadio Re
Baldovino. Con affissa all’interno, in quella zona dove
crollò il muretto che determinò la strage, una penosa
targa ricordo. Io non sono più stato a Bruxelles. Quel
nome, per me, fa rima con morte. La Juventus e il
Liverpool giocarono in trance, e dal momento che furono
obbligati ad andare in campo lo fecero con
professionalità encomiabile. Il popolo juventino aveva
il diritto di festeggiare, non poté farlo. Aveva 39
caduti. Caduti in una terra per noi amara, per i belgi
noi siamo sempre i minatori di Marcinelle.
Andrea
Danubi
Fonte:
Tuttojuve.com
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De Col (Corriere delle
Alpi): "Dall'Heysel a Berlino, 30 anni dopo"
Riceviamo e pubblichiamo il contributo di
Attilio De Col del Corriere delle Alpi di Belluno:
Trent'anni da quella maledetta finale. Sabato sarò in
tribuna a Berlino, trent'anni dopo quella maledetta
finale.
Io
ero all'Heysel e quindi la mia presenza in Germania
assume per me un valore ancora maggiore. E' un ricordo
che ogni anno affievolisce sempre più, ma che è comunque
sempre vivo nella memoria. Non ero in curva Z per
fortuna, ero nella curva opposta e i ricordi sono ancora
impressi nella mente... RICORDO che io e il mio amico
Ivan Da Col prenotammo il viaggio in ottobre da una
agenzia viaggi di Belluno, innamorati di Platini e
convinti che in maggio quella super Juve ci sarebbe
stata. RICORDO un interminabile viaggio da Belluno a
Bruxelles, 25 ore in pullman. Per contenere i costi
l'agenzia non pagò nemmeno il pedaggio per il ponte di
Innsbruck. Tre ore in più per delle stradine assurde.
RICORDO il clima di festa che c'era a Bruxelles. In
mattinata eravamo nella stessa piazza con gli inglesi. E
chi poteva immaginare cosa sarebbe successo quella notte
? Abbiamo giocato a calcetto in piazza contro di loro,
con le porte fatte con le casse di birra, prendendoci
anche in giro e bevendo con gli inglesi. Purtroppo ho
perso la foto di gruppo fatta alla fine di quella
partita. Noi tutti dipinti di bianco e nero, loro di
rosso. RICORDO, però, che già all'ingresso allo stadio
si capiva che qualcosa stava funzionando male. Tifosi
stipati come bestie ai cancelli e alla prima lamentela
un paio di poliziotti a cavallo a passare addirittura in
mezzo a noi, rischiando di ferire qualcuno, insultando
gli italiani nella loro lingua. Come se poi non si
capissero quegli insulti. RICORDO quello stadio inadatto
anche per una gara di Terza categoria. Con la terra fra
un gradone e l'altro e le transenne che si potevano
togliere con le mani. RICORDO i commenti dei tifosi
attorno a noi su come avevano messi gli inglesi.
Rinchiusi in un terzo di curva quando ne sarebbe servita
almeno mezza per contenerli tutti. Ma perché non avevano
dato una curva a testa ? Presagi maledetti. RICORDO le
prime cariche degli inglesi. E poi la gente in campo, ma
nessuno di noi aveva capito realmente cosa era successo.
Avranno invaso il campo per scappare dagli inglesi
abbiamo pensato tutti. RICORDO quando i Fighters (erano
loro il gruppo ultras nel 1985) ci urlavano con i
megafoni di entrare tutti in campo e noi non capivamo il
perché. Anzi, da sopra tutti li insultavano. "Abbiamo
fatto un giorno di pullman, ora vuoi rovinarci la festa
?". Ma quale festa ? Ma questo lo scoprimmo molto dopo.
RICORDO a malapena il messaggio di Gaetano Scirea,
perché in quello stadio maledetto non funzionavano
nemmeno gli altoparlanti. RICORDO la gioia incredibile
al rigore di Platini. Quanta attesa dopo la delusione
terribile di Atene, che rivincita. E poi la festa a fine
gara. Gli juventini di quella curva sono gli unici che
hanno festeggiato davvero quella vittoria. RICORDO poi
la brutta sensazione all'uscita dello stadio.
Un’autentica caccia all'inglese. Scappiamo veloci verso
il nostro pullman. Nessuno ci disse nulla, nemmeno
l'autista. Nessuno sapeva nulla di quei 39 morti. Nel
1985 non c'erano telefonini o social network. Ora
sarebbe diverso. RICORDO... E questo è il peggiore... Il
brivido sulla schiena quando entrammo in un autogrill in
Germania e nei giornali tedeschi il titolo gigante era:
39 morti. Ma come ? A Bruxelles ? E allora via tutti a
cercare un telefono per chiamare a casa. RICORDO mia
nonna in lacrime quando rispose al telefono. A quel
punto erano lacrime di gioia, ma la sera prima i miei
avevano chiamato tutti i numeri possibili per sapere se
ero ancora vivo. RICORDO anche la sgradevole sensazione
dei giorni successivi, quando alle immagini dei morti si
contrapponevano quelli di Platini e gli altri giocatori
con la coppa in mano. Ma non sono mai riuscito a
colpevolizzarli per questo. In definitiva non era colpa
loro di quello che era successo. Le cose importanti
nella vita sono altre. Sono mia figlia, mia moglie, la
mia famiglia, il mio lavoro, i miei amici. Ma la
Juventus ha una parte importante nel mio cuore. E' una
passione che incredibilmente cresce con il passare degli
anni. Soffro ad ogni partita, sia in tv, sia allo
stadio. Forse è stata anche colpa di quella maledetta
notte che non sono andato alle altre finali di
Champions. O solo per la difficoltà ad avere i
biglietti. O solo per il costo troppo alto. Chissà.
Avrei gioito a Roma e pianto per le sconfitte contro
Dortmund, Real Madrid e Milan. Ma ora ci siamo. Comunque
vada, quest'anno è una Juve meravigliosa. Ma se dovesse
vincere il mio pensiero, in mezzo alla festa, andrà
sicuramente a quella notte maledetta. In bocca al lupo
ragazzi. E se dovesse accadere qualcosa di magico, una
dedica a quelle 39 persone sfortunate sarebbe il regalo
più bello per quei 30 mila tifosi presenti quella notte
a Bruxelles. Attilio De Col (Juventus Club Doc Pavel
Nedved Belluno)
Fonte:
Corriere delle Alpi di Belluno
© 1 giugno 2015
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Il racconto di un
superstite dell'Heysel che nel 1985 aveva appena 14 anni:
Alessio Degrandi
"Quella tragedia non
mi ha sconfitto, amo ancora la Juve"
di Antonio Barillà
All'indomani della tragedia dell'Heysel, l'Italia,
impietrita dal dolore, prega per un giovanissimo tifoso:
Alessio Degrandi, quattordici anni, era stato travolto
dall'onda assassina degli hooligans e il più diffuso dei
quotidiani scelse la sua immagine per ritagliare, tra
morti e lacrime, un messaggio di speranza. La fotografia
pubblicata lo ritraeva esanime accanto a un cadavere,
mentre un poliziotto cercava disperatamente di
rianimarlo, la scritta era commovente: "Ragazzo, tu devi
farcela". Alessio ce l'ha fatta: è tornato dal buio. S'è
laureato in economia e commercio, lavora nel campo
assicurativo, progetta il matrimonio con Stefania, ama
il calcio e la Juventus, ha un cattivo ricordo e nessuna
fobia: "Ho avuto problemi soltanto i primi mesi: mi
viene in mente un improvviso attacco di panico al
Palasport di Montecatini Terme, la mia città, gremito
per un derby di pallacanestro con Pistoia. Fui assalito,
da una sensazione terribile, mi sentivo soffocare,
vedevo scorrere i flash back di Bruxelles". Problemi
ormai superati... E' stato fondamentale tornare, subito
in uno stadio, furono i medici a consigliarlo ai miei
genitori. Mi portarono a Pisa, naturalmente, a vedere la
Juventus, e da allora ho ripreso regolarmente a
frequentare curve e tribune. Pur vivendo in Toscana,
rinnovo ogni anno l'abbonamento e non mi perdo le più
importanti sfide europee dei bianconeri. C'ero con il
Real Madrid e ci sarò con il Liverpool: ho già prenotato
il biglietto. Mi da solo, tremendamente fastidio, ormai,
assistere a incidenti, anche banali scazzottate, tra
tifosi. So, purtroppo, quanto basti poco perché possano
degenerare: io sono, arrivato a qualche secondo dalla
fine, trentanove persone non hanno avuto la mia fortuna.
Il sorteggio dei quarti riaccende i ricordi...
Dimenticare, non sarebbe giusto. Mi auguro che la sfida
diventi una festa, che vinca lo sport per onorare la
memoria delle vittime. Penso che sia stato il destino a
tenere Juventus e Liverpool lontane per vent'anni. Se la
sente di raccontare quel giorno ? L'ho fatto tante
volte, benché quasi mai pubblicamente. Ero con mio
cugino Gianfranco, più grande di me, quello che mi ha
trasmesso la passione bianconera. Mi aveva già portato
ad Atene, per l'amara finale contro l'Amburgo: a
Bruxelles volevamo esserci e in extremis riuscimmo a
trovare i biglietti. Incredibilmente, dopo tanta fatica,
al momento di partire li dimenticammo a casa: ce ne
accorgemmo al casello quando stavamo andando in
aeroporto, forse era un presagio. A Bruxelles sciamavano
già hooligans invasati... Prima della partita non ho
assistito a scene di violenza, ho solo visto gruppi
d'inglesi ubriachi nella Grande Place. Al ristorante
fraternizzammo con una famiglia di Liverpool. Ben
diversa, è facile immaginare, l'atmosfera dello
stadio... Capimmo subito che era inadeguato. L'ingresso
del nostro settore era minuscolo, la rete che ci
separava dagli inglesi fragilissima e già forata, i
gradoni fatiscenti: un colpo sul cordolo e si
sbriciolavano. Le munizioni degli hooligans... I primi
lanci cominciarono subito, sporadici, ci fu pure un
cenno di rissa perché provarono a strappare uno
striscione. Ogni tanto i poliziotti belgi ne portavano
via uno, ma assurdamente lo vedevamo rientrare subito e
portare pure le birre ai compagni: erano ubriachi, loro,
ma i veri responsabili del dramma furono le forze
dell'ordine. E chi scelse quel maledetto stadio.
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L'inferno si aprì
all'improvviso... Partì una sassaiola violentissima, ci
fu un fuggi fuggi generale, gli hooligans cominciarono
ad avanzare. Mio cugino aveva intuito il pericolo e
urlava di non scappare, però arginare quell'onda era
impossibile. Persi una scarpa, mi chinai per
raccoglierla, caddi e non riuscii più a muovermi.
Ricordo le persone che mi calpestavano, i gradoni che mi
segavano la schiena. E ricordo... Un avambraccio,
qualcuno caduto accanto a me e al quale mi aggrappai con
forza. Ricordo una voce d'uomo che mi diceva di
resistere. Poi arrivarono gli hooligans, io ero
tramortito, mi colpirono con calci e pugni, mi rubarono
il portafoglio e l'orologio. Poi il buio... Aprii gli
occhi qualche ora dopo nell'ospedale di Bruggman: vedevo
soltanto ombre, un taglio profondo al piede mi impediva
di camminare. Un'infermiera mi informò del rigore di
Platini: chiesi se c'era una tv, volli vedere gli ultimi
minuti. Ero solo, senza soldi, né documenti: uno dei
feriti chiamò il consolato e subito una funzionaria mi
raggiunse. Suo cugino, nel frattempo ? S'era salvato e
mi cercava dappertutto. Anch'io, inconsciamente, lo
cercavo: quando mi chiesero le generalità pronunciai il
suo nome, così non risultai nell'elenco dei feriti. Era
disperato, andò a vedere i morti, poi riprese a
setacciare gli ospedali: in uno gli dissero che era
appena morto un ragazzino italiano, credo fosse Andrea
Casula, di Cagliari. Intanto Simone, un nostro amico,
era riuscito a contattare casa. Non mi aveva più visto,
ma disse che stavamo tutti bene: i miei angosciati dalla
tv, si tranquillizzarono e quando telefonarono dal
consolato, di notte, mia madre svenne. Quando la trovò
Gianfranco ? "La mattina dopo. lo gli dissi: "Hai visto,
abbiamo vinto", lui piangeva e mi stringeva forte.
Quell'abbraccio ha avuto un seguito nella finale di Roma
con l'Ajax: c'eravamo, e dopo il rigore decisivo di
Jugovic ci stringemmo forte, come allora, in silenzio.
Tutti e due in lacrime". Il ritorno a casa... "Ci
imbarcarono, su un aereo destinato ai feriti. Oltre al
taglio al piede avevo ecchimosi ed escoriazioni in tutto
il corpo; mi avevano diagnosticato un trauma cranico e
toracico. Mi sono rimaste conseguenze alla vista,
un'accentuazione della miopia. Ricordo i miei abiti di
fortuna, i pianti di gioia dei parenti, una processione
di gente a casa. Le mie foto divennero uno dei simboli
della tragedia, mi portarono anche una copia
dell'Equipe: io adagiato su una transenna trasformata in
barella, io portato via a braccia". Vent'anni dopo, di
nuovo il Liverpool... Spero che sia una festa, che la
Juventus raggiunga la finale e vinca largo. Spero che
nessuno dimentichi e spero, ma è impossibile, in un
calcio senza più violenza. Ha mai incontrato altri
superstiti o familiari di vittime ? "Solo
occasionalmente, ma più volte sono stato tentato di
andare a trovare il signor Lorentini. Ho letto che suo
figlio, medico è morto per salvare altre persone. Ha
salvato anche un ragazzo, forse quel ragazzo ero io"...
(NdR: il figlio del signor
Lorentini, medico, è morto quella sera, schiacciato e
calpestato dalla furia degli hooligans mentre provava a
rianimare un bambino rimasto esanime per terra sugli
spalti dopo i primi scontri. Quello stesso giorno a casa
Lorentini era arrivato il telegramma con cui l'ospedale
di Arezzo comunicava l'avvenuta assunzione del giovane
medico... Il signor Lorentini, padre di questo medico
coraggioso, presiede tutt'oggi l'associazione vittime
del 29 maggio 1985)
Fonte:
Tuttosport
© 23 marzo 2005
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Un giorno di
straordinaria follia
Sono
Francesco, figlio del maresciallo foggiano che il 29
Maggio 1985 ha corso il rischio di non veder più
crescere i suoi due figli, non veder più l'amata
compagna di vita che ora non c'è più... Tutto questo per
colpa di chi... Naturalmente dell'uomo, se non di chi
altri... Solo che questa volta l'uomo nero aveva le
sembianze di una marea umana, uomini, come noi non
extraterrestri... Gente venuta da Liverpool
trasformatasi in belve ubriache fino al midollo.
Cercherò di partire dall'inizio, il mio battesimo del
fuoco allo stadio Comunale di Torino l'ho avuto in
semifinale con il Bordeaux. Papà dopo mille insistenze
mi portò con sé a vedere i miei eroi, vincemmo 3-0,
segnarono Boniek, Briaschi e Platini... Ero al settimo
cielo, ero riuscito a veder dal vivo i miei eroi.
Peccato solo che non giocò il mio vero mito di allora
Capitan Fracassa Stefano Tacconi... Tornati a casa
cercai di strappare una promessa a papà... "Se vai a
vedere la finale con il Liverpool io vengo con te", mi
disse di sì. Una favola per me, immagina 9 anni io...
All'inizio sembrava che i biglietti si fossero dissolti
nella nebbia, ma poi papà seppe che molti Tour operator
erano entrati in possesso di tanti tagliandi. Riuscì a
trovare due biglietti con annesso viaggio aereo e
albergo per Bruxelles. Mamma si impose perché non voleva
che viaggiassi in aereo ed il mio biglietto andò a
finire nelle mani di un mio parente. Io mi dovevo
accontentare della Tv... Però papà mi avrebbe
sicuramente portato qualche souvenir della finale...
Veniamo al viaggio, accompagniamo papà in stazione,
treno direzione Roma. Arrivato a Roma c'era un suo
collega di corso della scuola sottufficiali, che viveva
lì da tempo e lo accompagnò in aeroporto. Il Tour
operator aspettava i tifosi con un elenco in mano.
Sbrigate le pratiche del viaggio, arrivo a Bruxelles, un
pullman sempre del Tour accompagnò papà e tanti altri in
albergo. Sistemati in camera papà chiamò per avvertirci
che tutto si era svolto al meglio e mi disse: "domani
vinciamo, segna Platini". Il mattino successivo papà
voleva farsi un giro nelle piazze principali di
Bruxelles però qualcosa non lo convinceva, il timore
fondato che gli inglesi avrebbero fatto danni c'era.
Anni prima papà era stato per un periodo in Inghilterra
per motivi legati al servizio e conosceva benissimo le
loro abitudini "alcoliche"... La scena che lo colpì fu
una piazza completamente invasa e ricoperta di lattine,
bottiglie vuote rotte di birra, fontane devastate e
alcune vetrate di negozi sfondate. Incontrò molti
inglesi già completamente ubriachi... Alcuni volevano
scambiare le sciarpe e bandiere, lui da vecchio militare
lo fece... Pranzarono in albergo poi il Tour operator li
portò allo stadio, all'incirca le 17.30 del
pomeriggio... Arrivati allo stadio c'erano già migliaia
di tifosi della Juve in festa pronti a entrare... Papà
si posizionò in corrispondenza del tabellone luminoso,
aspettando il suo turno per entrare. L'entrata era
piccolissima, malmessa, fatta anche di legno, ferro
arrugginito, stretta...
Lui
notò pezzi di cemento a terra... Ma a tanti tifosi era
sfuggita una cosa che a papà ha fatto drizzare le
antenne... Vicino lo stadio un cantiere senza
sorveglianza, un potenziale deposito di armi
improprie... Poi un'altra cosa non gli quadrava, pochi
gendarmi, pochi poliziotti... Ma soprattutto lungo il
tragitto che aveva fatto per arrivare allo stadio aveva
notato un reparto mobile di gendarmeria... Dentro
l'impianto pochi agenti, alcuni a cavallo... Altra cosa,
gli inglesi che entravano di fianco lo facevano senza
nessun controllo, pieni di cassette da sei lattine o
bottiglie di birra, bandiere che sembravano lance
appuntite. Una volta entrato si è ritrovato quasi al
centro della curva, leggermente in basso... La sua
fortuna col senno di poi... Poco dopo le 19 l'INFERNO.
Viene sparato un razzo verso il suo settore e comincia
il tutto. Gli italiani mischiati a belgi vengono
aggrediti con pietre, pezzi di cemento, colli di
bottiglie... Il cantiere adiacente lo stadio era
diventato già prima un armeria. Arrivava di tutto,
spranghe che volavano. Gli Juventini indietreggiavano e
gli hooligans la rete metallica la utilizzavano per
schiacciare gli italiani, continuavano nella loro follia
gli inglesi. Papà ha cercato di rimanere in piedi il più
possibile, se fosse inciampato o caduto non lo so se lo
avrei più rivisto... In mezzo a quella follia collettiva
papà ha fatto il percorso contrario, molti juventini
cercavano scampo ammucchiandosi tutti insieme in alto,
lui non so com'è riuscito, ma purtroppo, ahimè,
facendosi largo in tutte le maniere possibili, ad
arrivare sul terreno di gioco, mentre il muretto cedeva,
gli altri venivano calpestati, massacrati... Lui e tanti
altri si sono ritrovati in campo... Quei pochi gendarmi
addirittura volevano caricarli... Con uno di quelli papà
ha utilizzato l'inglese per farsi capire, chiedere
rinforzi, aiuto... La risposta non è stato educata...
Papà neanche lui è stato educato con i gendarmi... Ha
fatto benissimo a mio avviso, del tutto impreparati...
Ha visto tanti tifosi juventini che cercavano di
scavalcare e dirigersi verso la tribuna stampa e si è
ritrovato Marino Bartoletti di fianco... Arrivato in
tribuna stampa ha provato a dirigersi verso Bruno
Pizzul, nel frattempo in mezzo a molti juventini che gli
chiedevano di chiamare a casa... Chiamare al telefono
familiari e parenti... Papà ha provato dicendo ad altri
giornalisti presenti che in curva Z era accaduta una
tragedia, lui era certo, qualcuno non ce l’ha fatta. Nel
frattempo i soccorsi improvvisati si muovevano
dappertutto, papà ha notato che i feriti venivano
addirittura trasportati verso gli spogliatoi. Gli
appelli dei Capitani Neal e Scirea papà li ha ascoltati
a pochi metri da lui. In tutto quel caos nessuno si è
avvicinato a mio padre. Il famoso reparto di gendarmeria
era entrato in campo, avevano addirittura i cavalli
disposti in schieramento da parata... La follia
all'ennesima potenza... Mio padre vide alcuni giocatori
della Juve in campo parlare con i tifosi, vide Bodini,
Tacconi, Brio, Tardelli, Prandelli, Caricola e poco dopo
vide portare delle persone morte su barelle
improvvisate... Questo è ciò che è successo, la partita,
la vittoria, il ritorno verso il parcheggio del pullman,
avere ritrovato tutti i componenti del viaggio, qualcuno
ferito... C'è tanto ancora da raccontare, tanto, ma è
solo dolore e rabbia.
Fonte:
Facebook (Pagina Comitato Heysel)
© 12 ottobre 2014
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"Heysel, partimmo da
Cittaducale in 13…"
Il ricordo di Fabrizio de Tommaso
Il reatino Fabrizio De
Tommaso era all’Heysel in quella maledetta finale di
Coppa dei Campionai. Era il 29 maggio di trenta anni fa
e De Tommaso era a Bruxelles in un giorno nerissimo per
il calcio europeo ed italiano. Questo il suo ricordo.
Un
martedì di 30 anni fa partimmo da Cittaducale in
tredici. Dovevamo essere sessanta ma la grande richiesta
di biglietti per questa finale tagliarono di fatto le
esigenze di richieste dei club da parte della società, e
quel giorno al vecchio comunale, in quella gara Juventus
-Avellino, ultimo match del grande Furino, mi recai a
Torino per il ritiro dei biglietti (N.D.R. Furino si è
ritirato in quella partita, ma si è svolta l’anno
precedente, stagione 1983-1984. Nel 1985 La Juventus
giocò in casa con l’Avellino il 10.02.1985. E’ più
presumibile si trattasse di Juventus Sampdoria giocata
il 12.05.1985) Tornai a Cittaducale ugualmente felice di
avere in mano quei tredici tagliandi che nel tempo
avrebbero potuto rimanere nella storia sportiva. Radunai
i miei compagni di viaggio in una mitica cena e pieni di
entusiasmo organizzammo il viaggio. Io appena patentato
e nel pieno dei miei 22 anni - tenendo nascosto le
modalità di viaggio ai miei genitori - non vedevo l’ora
di inghiottire quei quasi 2000 chilometri che mi
dividevano da Bruxelles e, insieme ai miei compagni, non
vedevo l’ora di assistere al primo trionfo in una coppa
Campioni dei miei idoli: Platini, Boniek, Scirea,
Cabrini, atleti che l’anno prima avevo visto trionfare a
Basilea nell’allora Coppa delle Coppe. Ma si sa, la
coppa dalle grande orecchie era il vero trionfo che
mancava alla Juventus ed io volevo essere lì. Il martedì
28 maggio alle 7 di mattino, alla guida della mia auto
con a bordo Walter e Giustino, insieme a Tonino, Loris e
tutti gli altri, ci avviamo destinazione Aosta, sede
della prima sosta: risate tante, momenti di grande
spensieratezza come tutti i viaggi e grande attesa per
il mitico avvenimento a cui da lì a poco, avremmo
assistito. Hotel "Il caminetto", grande accoglienza come
tutte le località montane, cena tipica… E l’attesa
continuava a salire. Il giorno dopo partiamo,
transitiamo per il traforo del Monte Bianco verso Le
Fiandre, dal paesaggio bellissimo e caratteristico che
le grandi corse ciclistiche hanno esaltato per
spettacolarità. Intorno alle 14 arriviamo a Bruxelles, e
ci dirigiamo allo stadio, poco fuori la città.
Ricoveriamo le macchine dove meglio potevamo e già da lì
la disorganizzazione era una cosa certa. Vedere qualcuno
delle forze dell’ordine era cosa rara: ormai comunque
eravamo allo stadio, felici e contenti. Nel muoverci
però cominciava a salire la preoccupazione. Non c’era un
inglese che non era ubriaco e che non recasse fastidio a
chi stava vicino. Cerchiamo di avvicinarci alla nostra
zona di ingresso e lì venni assalito da un gruppetto di
tifosi e colpito con pugni nel tentativo di rubarmi il
biglietto. Riesco a scappare e raggiungere i miei
compagni di viaggio fuggiti visto il pericolo.
Nel
raggiungere la curva N incontriamo ragazzi giovanissimi
inglesi che venivano arrestati e portati via a piedi in
manette dalle forza dell’ordine che piano piano
cominciavano a comparire (qualcuno aveva pensato bene di
chiamare rinforzi). Nelle classiche postazioni di
ristoro non potevi pensare di avvicinarti: erano prese
d’ assalto dagli inglesi alla ricerca di birre, che
venivano portate via e dentro allo stadio in cartoni
interi.
Entriamo allo stadio senza nessun controllo con il
biglietto intatto: il vecchio Heysel era confrontabile
con il nostro Fassini, con la differenza che i vari
settori erano divisi da una semplice rete di plastica di
color verde, di quella utilizzata da noi per semplici
recinti di cortile, completamente fatiscente con pezzi
di cemento che si staccavano completamente con le mani.
Prendiamo posizione alla ricerca della miglior
visibilità e da subito ci rendiamo conto che i tifosi
bianconeri nell’ altra curva subivano cariche in
continuazione da parte degli inglesi. Nulla potevano le
semplici reti di divisione. Partiva una carica di 100
persone circa, colpiva i tifosi, rientrava nel settore e
subito ne partiva un’altra. Spesso gli inglesi
effettuavano queste cariche con bottiglie di birra vuote
rotte nella parte superiore. Assistevamo increduli ad
uno spettacolo incredibile: roba da guerre Puniche,
centinaia di persone che si spostavano da destra a
sinistra e le guardie a bordo campo che guardavano,
impossibilitate ad intervenire per il loro numero
esiguo. La gente comincia ad arrivare nella nostra curva
scappando dalla famosa curva Z. Già cominciano a parlare
di 28 morti. Questo è stato il primo dato sentito da
noi. Increduli ci rendiamo conto di essere stati super
fortunati: una semplice lettera N invece di Z ci aveva
salvato la vita. Vengono sotto la curva Platini e
Cabrini, arrivano gli altri bianconeri, i due capitani
nella loro lingua fanno appello alla calma altrimenti la
partita sarebbe stata rinviata. Il popolo bianconero che
non si rendeva conto nei numeri (28 morti) aspettava con
ansia l’inizio della gara, ma piano piano che diventava
certezza questo dato, la paura, la rabbia la tristezza
ci invadeva il corpo e la mente. Nel tempo i morti
sarebbero poi diventati 30: il tutto per una partita di
calcio seppur importante. Che tristezza. Per motivi di
ordine pubblico - diranno poi in seguito - la gara ebbe
inizio e finì come tutti sappiamo e come non voglio
raccontare. Il mio gruppo ormai decimato nei fuggi
fuggi, uscì dallo stadio alla metà del secondo tempo.
Ormai il panico, il terrore, ci aveva assaliti e tanta
paura c’era nel dopo partita al rischio di incontrare i
tifosi inglesi. Il loro parcheggio era di fatto alle
nostre spalle. Corriamo in auto e tante ambulanze
incontriamo nella nostra fuga.
Le
radio locali in lingua francese parlavano di una
catastrofe allo stadio Heysel: ora era tutto chiaro.
Abbiamo evitato una strage. Abbiamo assistito ad una
sterminio vero e proprio: le immagini di persone che
scappavano nel campo di calcio, ci avevano pietrificati
di dolore e disperazione. Pensavamo tutti ai nostri cari
a Cittaducale che avevano visto tutto in tv ma non
avevano notizie di noi. Dovevamo avvisarli. Al nostro
arrivo gli autogrill del posto ci abbassavano le
serrande davanti. I gestori erano impauriti che fossimo
inglesi o italiani con voglia di distruggere o rubare.
Dopo circa 50 chilometri sulla strada di fuga ed ormai a
notte fonda troviamo un nostro connazionale calabrese
che gestiva una pompa di benzina e ci è venuto incontro
dandoci la disponibilità a telefonare. Il povero Loris
Paris, ex sindaco per 20 anni di Cittaducale, morto per
cause naturali dopo 30 giorni esatti, telefonò a casa
sua a sua moglie e lei poi riuscì ad avvisare per
tranquillizzare i nostri cari. Erano circa le 3 di
notte: immaginiamo che ore lunghissime di attesa sono
state per loro. Durante il viaggio di ritorno in una
sosta in terra di Lussemburgo incontriamo il pullman del
club 2 stelle di Terni. Qui apprendiamo la tragica
notizia della morte di Gianni Mastroiaco. Un ragazzo che
conoscevo. La notizia ci ha distrutto il cuore. Ognuno
di noi poteva essere stato al suo posto. Tornammo a
Cittaducale nella notte tra giovedì e venerdì.
Tantissima gente ci aspettò nella piazza principale dove
facemmo l’alba nel raccontare le vicissitudini della
nostra trasferta. Raccogliemmo il conforto dei nostri
familiari che ci raccontarono che per ore ci avevano
cercato tramite conoscenze nei locali ospedali della
capitale belga. Sono passati 30 anni da quel fatidico 29
maggio, ogni tanto sono tornato allo stadio, anche in
Italia - con molta paura a volte - io amo il calcio dei
dilettanti e ironia della sorte spesso sono stato in
Inghilterra a vedere la Premier League. Devo dire che
almeno loro la lezione l’hanno davvero imparata, in
Italia decisamente ancora no. Troppa violenza intorno al
nostro calcio, che tiene inevitabilmente lontano le
famiglie. Concludo questo travagliato ricordo con una
sola riflessione da Juventino vero: la Juve ha vinto 33
scudetti, ma dobbiamo togliere una coppa dei campioni.
Quella dell’Heysel non l’ha vinta, proprio no, non
appartiene a nessuno se non alla memoria di tutti quei
morti uccisi barbaramente e stupidamente in occasione di
una partita di calcio. Assurdo, incredibilmente assurdo.
Fonte:
Rietilife.com
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A 35 anni dall'Heysel
il ricordo di un camerte che era
allo stadio: "Ho pensato che non ci saremmo
salvati"
di Angelo Ubaldi
Se
i ricordi di eventi sportivi per gli appassionati hanno
comunque aspetti belli e altri meno da ricordare, così
lo è stato anche per 4 tifosi camerti, gli unici della
città ducale presenti a Bruxelles 35 anni fa nella
tragica notte dell’Heysel, dove in seguito al crollo di
parte di una tribuna sotto la pressione dei tifosi del
Liverpool, persero la vita 39 tifosi della Juventus
giunti da più parti d’Italia. Venerdì (29 maggio) cadeva
l’anniversario di quella notte di morte e di terrore,
che ha segnato la storia in un caldissimo ed insolito
pomeriggio belga e che ebbe forti ripercussioni sul
calcio e sulle squadre inglesi nella partecipazione alle
coppe europee. Una Coppa dei Campioni, quella del 1985,
che è passata alla storia più per questi tragici fatti
che per la vittoria conseguita poi dalla Juventus per
1-0 in un clima ed una situazione surreale. Eppure le
attese per tutti i tifosi bianconeri erano grandi, come
alla vigilia di ogni finale e c’è chi è riuscito a
trovare un biglietto in extremis, come i 4 camerti.
"Riuscimmo a trovare i tagliandi - racconta l’avvocato
Massimo Di Cola (allora 27enne) - tramite l’annuncio di
una tv privata marchigiana, che promuoveva il viaggio di
un’agenzia di Ancona. Si trattava di una combinazione,
in quanto fino a Milano dovevamo andare in macchina, e
la presi io, poi proseguimmo con un pullman organizzato
fino a Bruxelles. Partimmo in quattro da Camerino e
l’entusiasmo era tanto. La Juve in finale, una trasferta
nuova per tutti. Trovammo i biglietti perché tanti
inglesi rinunciarono e ci furono circa 3-4000 biglietti
in più per i tifosi juventini, altrimenti quello doveva
essere un settore riservato a loro, vicino ad altri
inglesi". Tutto fila liscio fino all’arrivo in Belgio,
poi nella capitale e quindi allo stadio Heysel, forse
non proprio la sede adatta per una finale di quella
portata, sia per la fatiscenza, che per le
caratteristiche, soprattutto se confrontato con altre
sedi di gioco europee. "Arrivammo a Bruxelles verso le
9.30 circa - prosegue Di Cola - scendemmo in centro.
Sapevamo che allo stadio i cancelli sarebbero stati
aperti verso le ore 16, quindi avevamo tempo per veder
un po’ la città e mangiare qualcosa, mi ricordo panini e
patatine fritte. Poi ci avviammo verso lo stadio, che
non è lontano dal centro. Una volta lì, verso le ore
13.30, trovammo i cancelli già aperti, avevano
anticipato l’ingresso alle ore 13, quindi ci siamo
avviati per prendere posto. Era molto caldo. Ci dissero
che mai a Bruxelles aveva fatto così caldo, c’erano
32-33 gradi. Non c’era moltissima polizia, all’interno
anche una ventina di agenti a cavallo, ma pochi più per
il resto. L’emozione per la partita era grande.
Verso
le ore 16 lo stadio era già pieno. Già giravano voci di
tifosi inglesi ubriachi fin dal mattino in giro per
Bruxelles". Nemmeno il tempo di cominciare a realizzare
il sogno, le emozioni dello stadio, i colori del tifo,
che iniziano le prime schermaglie e la tragedia è dietro
l’angolo. "Ad un certo punto iniziano i primi contrasti
fra tifosi e cominciano a volare sassi e bottiglie nei
due settori più ravvicinati - dice Massimo - c’era un
po’ di tensione, ma la speranza era che prima o poi
finisse tutto. Noi quattro non eravamo tutti vicinissimi
tra noi e un po’ staccati dal muro che è crollato sotto
la pressione dei tifosi inglesi. Quella distanza dal
muro ci ha salvato. Io ero più in basso e mi sono
ritrovato con il volto ed il corpo schiacciato sulla
rete per diversi minuti tanto che i segni li ho portati
per diversi giorni, un altro di noi è riuscito a saltare
da un muretto e quando è caduto è rimbalzato e poi
ricaduto in piedi e gli sono scoppiate le vene di
caviglie e polpacci, un altro ha riportato la rottura di
diverse costole per la pressione della calca ed un altro
è rimasto schiacciato tra i paletti riportando le ferite
più gravi. A quel punto ho pensato che non ci saremmo
salvati. Dopo alcuni minuti la rete si è allentata per
il crollo del muro. All’inizio la polizia cercava di
respingerci, poi quando è crollato il muro e ha visto i
feriti ha invece prestato subito aiuto". In quelle
situazioni dopo averla scampata il primo pensiero va
agli amici, di cui si è perso ogni contatto. Inoltre in
quel trambusto non ci si perde solo di vista, ma si
smarriscono anche gli effetti personali al seguito. Per
i 4 camerti però il miracolo si materializza in
giornata. "Quando mi sono reso conto in campo che ero
sano e salvo sono svenuto - ricorda l’avvocato Di Cola -
e mi sono svegliato dentro gli spogliatoi, in una zona
dove avevano portato le persone ferite e quelle che non
ce l’avevano fatta. La sensazione è stata
indescrivibile, ho avuto paura per i miei amici, quando
ad un certo punto ho sentito uno di loro che mi chiama
per nome. Non sapevamo niente degli altri due. Quando
eravamo in attesa di un taxi che ci avrebbe condotto
all’ospedale, ci siamo sentiti chiamare dagli altri due
e tutti e quattro abbiamo preso lo stesso mezzo che ci
ha accompagnato al nosocomio di Charleroi a circa 70 km
da Bruxelles, in quanto sono state migliaia le persone
soccorse e ci hanno dislocato nei vari ospedali della
zona. È stato bello ritrovarci, ma eravamo tutti
acciaccati, chi più chi meno, ma averla scampata ed
essendo di nuovo insieme ci ha aiutato.
Durante
il viaggio verso Charleroi abbiamo ascoltato la cronaca
della partita e di quanto era successo dalla radio del
taxista ed anche se in francese qualcosa si capiva.
Siamo arrivati in ospedale alle 23,30". Nel frattempo la
paura cresceva anche a casa, davanti alla tv, per i
famigliari di tutti i presenti all’Heysel e nel caso dei
4 camerti tutti si erano ritrovati dai genitori di
Massimo Di Cola. "All’ospedale sono stati tutti molto
premurosi e mi hanno permesso di fare una telefonata per
tranquillizzare i miei, a casa mia c’era anche la mia
fidanzata e alcuni dei genitori degli altri amici e
ricordo che è stato commovente per tutti sentirci. Ho
cercato di tranquillizzarli e di pazientare, in quanto
non potevamo rientrare subito, avevamo perso tutto,
contatti, il pullman, chi i documenti e soldi ed eravamo
anche leggermente contusi, per cui avevamo bisogno di
cure. Uno di noi ha riportato ferite all’inguine
necessarie di 28 punti di sutura, chi 10 costole rotte,
chi per le vene scoppiate è stato costretto ad altri
giorni di ospedale a Camerino e io ho riportato
contusioni e ferite varie, lacerazioni al corpo e al
volto per la pressione contro la rete". La
mobilitazione, la generosità e la solidarietà di belgi e
diplomatici italiani in Belgio però è stata grande. "Il
console Italiano a Bruxelles ci ha raggiunto in ospedale
- continua Di Cola - e ci ha organizzato il viaggio di
ritorno in pullman in Italia con altri tifosi
connazionali e ci ha consegnato anche del denaro sia in
lire che in marchi in quanto dovevamo attraversare la
Germania. Io dovevo recuperare la mia macchina a Milano,
per cui ci siamo fermati una notte lì, abbiamo dormito a
casa di un mio amico che ci ha rifocillato e fatti
lavare. Quindi abbiamo fatto rientro a Camerino". Finito
il calvario, i postumi di quella esperienza hanno però
lasciato il segno, non solo ricordi brutti e pervasi di
paura. "Per i successivi 4-5 anni - conclude l’avvocato
Di Cola - ho avuto paura anche di andare al cinema e in
chiesa. All’epoca eravamo ragazzi, spensierati, e lo
spavento è stato grande. Nessuno ha pensato in quei
frangenti di fare azioni legali. Avevo dato lo scritto
dell’esame per avvocato, volevo solo godermi un evento,
poi quello che è successo ci ha sconvolto. Solo nei
giorni successivi più tardi vedendo le foto sui giornali
belgi ho riconosciuto altri tifosi delle nostre zone
come il dottor Daniele Maria Angelini che sta a
Civitanova o Pediconi Fulvio della Pizzeria Elen di
Castelraimondo".
Fonte:
Viverecamerino.it
© 30 maggio 2020
Icone: It.vecteezy.com
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Un fotografo ricorda
l'Heysel: "Giocare fu la soluzione migliore"
Nick
Didlick, candidato al premio Pulitzer per le sue foto
della tragedia dell'Heysel, prima della finale di Coppa
dei Campioni del 1985 tra Juventus e Liverpool, è
tornato a parlarne a Gazzetta.it. Queste le sue parole:
"Quel che è successo quel giorno non potrò mai
dimenticarlo. Io ero in un punto centrale dello stadio e
ricordo una scena che non avevo mai visto in vita mia:
due settori pieni di gente allargati così completamente
aperti. Poco dopo capii che quel buco tra tifosi inglesi
e i tifosi della Juventus c'era perché stava accadendo
qualcosa nello stadio che li spingeva. Ed era qualcosa
che spingeva gli italiani in uno stretto, piccolo,
angolo fino a pressarli contro la recinzione. Quindi ho
iniziato a guardare in quella direzione perché era
davvero insolito quando vedi una separazione di quel
tipo. E mi avvicinai, da dentro il campo da gioco, fino
a quando il muretto collassò. Era un muretto non
particolarmente alto: 3 o 4 metri di altezza, se ricordo
bene. Ma quel muretto cadde improvvisamente,
schiacciando i tifosi uno sopra l'altro. Ricordo di aver
pensato: "Non possono credere che facciano giocare la
partita. La gente non sa quello che è successo qui ?"
Capisco adesso, col senno di poi, che lo fecero perché
non volevano che gli inglesi potessero mischiarsi col
resto del pubblico. E probabilmente fu la decisione
migliore in quel momento, perché ha consentito a più
polizia di entrare nello stadio ed essere preparata per
la fine della partita. E questo almeno ha permesso di
concludere l'evento abbastanza bene alla fine, proprio
per merito di quella decisione di giocare la partita".
Fonte:
Calciomercato.com
© 8 gennaio 2019
Video: Gazzetta dello Sport TV ©
Icone: It.vecteezy.com
© Pngegg.com
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I 70 anni di Carmelo
Di Pilla, fotoreporter isernino
che sfuggì alla morte nella strage dell’Heysel
di Maurizio Cavaliere
La sua foto, riverso esanime, sui gradoni della
morte dello stadio di Bruxelles, la sera di
Juventus-Liverpool, fece il giro del mondo. "Mi
risvegliai in ospedale diverse ore dopo". Dagli anni
Novanta lavora come fotografo che, nonostante tutto,
predilige gli eventi sportivi. Ecco il ricordo di quella
drammatica notte.
Compie
oggi 70 anni uno dei fotografi più noti di Isernia e un
po’ di tutto il Molise. Auguri e lunga vita al nostro
amico, sempre cortese e disponibile, Carmelo Di Pilla,
quella vita che strinse con tutte le forze fra le mani
la sera del 29 maggio del 1985, la sera in cui si
riversarono nella curva di uno stadio tutti i demoni più
mostruosi del calcio, la sera della strage dell’Heysel a
Bruxelles. L’uomo che vedete qui sopra, riverso esanime
a terra, è proprio lui. Un’immagine impietosa,
agghiacciante, che venne utilizzata da vari giornali
italiani e stranieri a corredo del drammatico titolo che
sancì quella orrenda pagina di morte allo stadio.
Carmelo era andato a Bruxelles in compagnia di tre amici
di Isernia. "Avevamo mangiato, e male, alla Grand Place
-ricorda - Poi ci avviammo verso lo stadio per seguire
trepidanti la finalissima di Coppa dei Campioni tra
Juventus e Liverpool. Ricordo che scelsi io il posto
dove sedermi, era libero". Era un gradone di cemento
deteriorato nel famigerato "Settore Z", quello che,
intorno alle 19.20, venne invaso con la violenza di un
uragano dal maledetto magma umano degli hooligans
inglesi, molti dei quali ubriachi e fuori di senno da
diverse ore. Un assalto premeditato, forse una vendetta,
si dirà in seguito, dal momento che tra quei delinquenti
senza coscienza c’erano anche tifosi di altre squadre
britanniche, non solo i Reds del Liverpool. Quello che
successe subito dopo è rimasto negli occhi di tutti noi
che quella sera eravamo davanti alla tv, pronti ad
esultare per un gol, e che invece ci ritrovammo
costretti a fare i conti, all’improvviso, e troppo
giovani, con la follia del genere umano. "Ci fu una
prima ondata fortissima che ci spinse via lontano -
racconta Carmelo Di Pilla - poi un’altra, devastante. Mi
ritrovai per terra, calpestato da decine di persone e in
balia dei movimenti di quell’onda di gente inerme,
schiantata dagli hooligans. Poi si spense la luce… Non
ricordo altro". Carmelo perse i sensi. Nella foto lo
vediamo in polo bianca, scomposto, buttato sui gradoni
del fatiscente stadio Heysel, come un cadavere, braccia
aperte e gambe piegate innaturalmente: un Cristo caduto
dalla croce. La sua immagine, in quello scorcio di caos,
tamburi, morti, panico e sciarpe bianconere, fece il
giro del mondo. Ci "aprirono" la Gazzetta dello Sport e
il Tempo (la foto qui sopra) e anche alcuni giornali
francesi. Carmelo, per fortuna, non era morto. "Mi
risvegliai verso le 3 di notte in un letto di ospedale,
sempre a Bruxelles. Avevo ferite su tutto il corpo.
Avevo perso tutto: giacca, macchina fotografica e soldi.
Ma ero ancora vivo". Altre 500 persone come lui vennero
ricoverate in diversi ospedali della capitale belga.
Alcuni purtroppo morirono, sopraffatti dall’ondata di
morte generata dai pazzi inglesi, senza dimenticare in
questo contesto la vergognosa impreparazione delle Forze
dell’Ordine belghe. Furono 39 le vittime, 32 delle quali
italiane, tifosi della Juve, bambini compresi. "Restai
due giorni in ospedale - dice ancora - vennero a
trovarmi il Presidente della Figc di allora, Federico
Sordillo, e Antonio Matarrese, che sarebbe stato il suo
successore dopo la parentesi Carraro. In corsia
incontrai pure Re Baldovino, con il quale scambiai
qualche parola in francese". Poi, Carmelo Di Pilla, il
sopravvissuto, poté tornare in Italia. "Era un volo
militare, sull’aereo c’era anche il Ministro (del
Lavoro, NdR) De Michelis. Quando in volo aprii un
giornale francese, vidi la mia foto, quell’immagine così
drammatica e assurda". Già, una foto, quello che poi
avrebbe rappresentato il risultato tangibile della sua
professione. Carmelo Di Pilla, infatti, dopo aver
condotto per una dozzina d’anni un negozio di
alimentari, a Isernia, ha deciso di riprendere la
macchina fotografica e, dagli anni Novanta, è impegnato
come fotografo che, nonostante tutto, ama e predilige
gli eventi sportivi. È sempre lo stesso, cortese e
"sempre juventino". La tragedia di quella notte gli è
rimasta dentro ma anche la voglia di essere vivo e
testimone delle sue grandi passioni. Buon compleanno
Carmelo, auguri per tutto.
Fonte:
Primonumero.it
© 11 Marzo 2019
Video: Teleregione Molise ©
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Juve, il tifoso
dell'Heysel: "Ero morto su
quelle tribune, ora non mi perdo una finale"
di Antonino Morici
Carmelo Di Pilla è uno
degli oltre 600 feriti della maledetta notte di
Bruxelles. "Dalla foto sui giornali tutti mi credevano
morto. Dopo il coma mi sono ripreso, ma ci ho messo 10
anni per entrare nuovamente in uno stadio. Ora non perdo
una partita della mia Juve".
Quel
giorno c'era il sole a Bruxelles. La città era più viva
del solito, c'erano migliaia di italiani arrivati da
Torino, Milano, Roma, Palermo, pronti ad accompagnare la
Juventus nel viaggio verso il Sogno. La Coppa dei
Campioni - vecchia denominazione, infinito fascino -
sarebbe stata assegnata allo stadio del quartiere
"Heysel" quella sera, 29 maggio 1985. Avversario il
Liverpool, che tra quarti di finale e semifinale aveva
eliminato Austria Vienna e Panathinaikos e che un anno
prima aveva strappato il trofeo alla Roma, dopo i calci
di rigore della stregata notte dell'Olimpico. Nel
settore Z dell'impianto che oggi è conosciuto come "Re
Baldovino" c'era anche Carmelo Di Pilla, molisano, uno
dei tanti sostenitori juventini presenti a
quell'appuntamento, funesto, con la storia. TERRORE - In
quel settore non c'era il tifo organizzato bianconero,
al quale era stata assegnata la curva opposta. C'erano
famiglie, padri con i loro figli, gruppi di amici.
"Eravamo riusciti a trovare un biglietto all'ultimo
momento - racconta Di Pilla, che all'epoca aveva 36
anni. Eravamo entusiasti, quindi arrivammo in largo
anticipo per prendere posto. Lo stadio era vecchio,
piccolo, non adatto a una finale. Accanto a noi vedevamo
quella macchia rossa sempre più grande, sempre più
vicina, minacciosa. Ricordo l'ingresso in campo per il
riscaldamento di Grobbelaar. Lo stavo fotografando,
erano le 18.50, poi si è scatenato l'inferno".
SCHIACCIATI - Restano schiacciati migliaia di
spettatori, terrorizzati: da una parte gli hooligans
inglesi che spingono, inveiscono e lanciano bottiglie di
vetro spezzate, dall'altra la polizia belga che colpisce
con i manganelli chi cerca una via di fuga verso il
terreno di gioco. "Una folla sovrumana mi spingeva, non
c'era scampo. Mi mancava l'aria, non riuscivo a
respirare. Da quel momento il buio, fino a quando mi
sono risvegliato in ospedale. E in quel momento mi è
sembrato di rinascere una seconda volta". SEMPRE IN
FINALE - Carmelo si sveglia dal coma quando la moglie,
il figlio e i parenti lo hanno già visto in prima pagina
su tutti i giornali. Le braccia larghe, il volto
inespressivo. "Mi avevano dato per morto. Fortunatamente
oggi posso raccontare questa storia, a differenza dei 39
che purtroppo hanno perso la vita quella maledetta sera
(32 gli italiani, NdR)". La passione per la Juventus è
rimasta intatta. Anche se per superare lo choc sono
serviti 10 anni senza stadio. Poi è stata una finale e
una partita dopo l'altra: Carmelo è sempre stato
presente. "In tribuna o in campo, in Champions League
come in campionato o in Coppa Italia, a volte da
fotografo accreditato, riuscendo a unire le mie grandi
passioni: foto e calcio". Tifando bianconero. "E
sperando che a Cardiff arrivi finalmente il successo
sfuggito a Berlino, Manchester e in tutte le altre
finali perse. Lo meriterebbe Allegri con i suoi ragazzi
e lo meriterebbero anche tutti quei tifosi, che come me,
fanno tanta strada per seguire la Juve da tutte le parti
d'Italia". Come quelli che 32 anni fa viaggiarono alla
volta di Bruxelles.
(NdR: Carmelo
Di Pilla è l'uomo riverso a terra con la camicia bianca)
Fonte:
Gazzetta.it
© 31 maggio 2017
Fotografia: Corriere della Sera
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"Un’onda mi spinse,
poi il buio"
Carmelo Di Pilla, uno dei sopravvissuti: "Sono
un miracolato".
Mi
chiamo Carmelo Di Pilla, ho sessantasei anni e sono
morto trent’anni fa. Quando mi trovarono avevo un
biglietto nella tasca dei pantaloni. Un biglietto di
curva, settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles, la
data stampata era quella del 29 maggio 1985. Il giorno
prima di morire andai a ritirare il biglietto in
un’agenzia di Isernia, la città dove abitavo. Io e i
miei quattro amici juventini seguivamo la Juve ovunque,
due anni prima eravamo stati ad Atene. Per la finale
dell’Heysel avevamo pagato per un posto in tribuna.
"Questi sono biglietti di curva", dissi al dipendente
che ci consegnò i tagliandi. "Ve li cambieranno quando
arriverete là", rispose. Non era vero, non ero così
sciocco da crederci; ci tenemmo i biglietti, protestare
sarebbe stato inutile e poi troppa era la voglia di
goderci la partita. La mattina dopo partimmo da Roma,
arrivammo a Bruxelles all’ora di pranzo. Girammo la
città, ci fermammo a mangiare. Nelle strade e nelle
piazze c’erano molti tifosi italiani. Ricordo che a
tavola mi riempii di tutto, ostriche, tagliatelle,
cioccolato caldo con la vaniglia, mangiai così tanto da
stare male. Arrivammo all’Heysel verso le cinque. Il
cielo era di un blu bellissimo. Ricordo i cancelli
d’entrata stretti stretti, che dovevamo passare
mettendoci di lato;
ricordo
l’impianto vecchio, i tubi arrugginiti, le reti
metalliche rotte, i gradoni di marmo. Pensai che non era
il posto degno per una finale di Coppa dei Campioni. Ne
parlai con i miei amici, eravamo tutti d’accordo: non è
uno stadio da finale. Poi vidi Grobbelaar, il portiere
del Liverpool, che passava a pochi metri da noi, oltre
la rete. Ci eravamo seduti in prima fila, a ridosso del
campo. "Voglio sgranchirmi le gambe e avere un po’ di
spazio davanti" - dissi ai miei amici - "Andiamo a
sederci là". Ora posso dire che quel piccolo lusso che
volli concedermi forse mi salvò la vita. Presi la
macchina fotografica che portavo sempre con me e
cominciai a scattare foto ai giocatori del Liverpool e
ai poliziotti a cavallo che giravano per il campo.
All’epoca lavoravo come commerciante di frutta, ma la
fotografia era la mia grande passione. Ovunque andassi,
avevo la mia macchina fotografica. Ad un certo punto mi
girai, ricordo che guardai il grande orologio che
troneggiava sulla curva: erano le sette meno dieci.
Passò qualche minuto e mi accorsi che mi muovevo senza
volerlo fare, un’onda umana mi spingeva, premeva, mi
schiacciava. Mi girai ancora: in alto vidi un ammasso
senza senso di persone. Urlavano, spingevano, avevano
visi stravolti, le bocche aperte alla disperata ricerca
d’aria. L’onda si fece sempre più impetuosa e cattiva.
Successe tutto in fretta: cercai di attaccarmi alla
rete, ricordo le dita impigliate che mi bruciavano.
Gridai aiuto. Una, due tre volte. "Aiuto ! Aiuto ! Aiuto
!". Poi venne il buio. Non ricordo più nulla. Mi
risvegliai la mattina dopo, in ospedale, poco prima
dell’alba. Non ero lucido, non capivo perché mi trovavo
lì. Mi dissero che all’Heysel c’erano stati degli
incidenti. Qualcuno mi aveva trovato a terra, svenuto. E
mi aveva portato fuori dallo stadio. Da lì, in ospedale.
Mi allontanai per cercare un telefono e avvisare mia
moglie che stavo bene. Lei piangeva, non smetteva di
piangere, mi disse che stava stringendo forte mio
figlio; io ero confuso, non capivo cosa mi stava
dicendo. Girai tra i corridoi dell’ospedale. Vidi un
giornale francese. In prima pagina c’ero io: morto. Sono
quello con la maglia bianca, nella foto a fianco. A
terra, come Gesù, le braccia larghe, il viso da
cadavere. Seppi più tardi che quella foto aveva fatto il
giro del mondo. L’aveva vista mia moglie, che dalla sera
prima non aveva avuto più notizie di me. I miei amici mi
avevano cercato, tra i bivacchi fuori dall’Heysel, dove
sostavano uomini e altri simili che erano diventati
animali. Ma non mi avevano trovato ed erano tornati in
Italia. Un medico dell’ospedale mi disse che il re
Baldovino era venuto a farmi visita. Più tardi
arrivarono anche Sordillo e Matarrese, presidente e
vicepresidente della Figc. Avevo il volto tumefatto,
varie ferite, gli occhi gonfi, il corpo di un rosso
acceso. Ero morto, mi ripetevo. Ero un uomo morto e ora
sono vivo. Sono un miracolato. Un sopravvissuto. Non lo
so cosa o chi ha deciso che io quel giorno mi salvassi,
so che mi sedetti vicino alla rete perché volevo
sgranchirmi le gambe. Il 29 maggio del 1985 ero allo
stadio Heysel di Bruxelles, settore Z, lì dove è
arrivata la morte. Volevo solo vedere una partita, mi
sono ritrovato dentro l’apocalisse. Mi chiamo Carmelo Di
Pilla, ho sessantasei anni e trent’anni fa sono morto
gridando aiuto. Ma poi la vita mi ha ripreso. (Testo di
raccolto da Furio Zara)
Fonte:
Corriere dello Sport
© 29 maggio 2015
Fotografie:
Comitato Heysel Reggio Emilia © GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
Icone: It.vecteezy.com
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