CARLO
RICCI
Dal dramma dell'Heysel a
Juventus-Lazio...
Il calcio non è morto
di Alessandro Zappulla
Treno
Roma-Torino, Juventus-Lazio all'orizzonte e quel lavoro fuso al
sentimento che spedisce come di consueto in "prima linea".
Appunti di viaggio da cui parte il racconto di quel che sarà la
mission biancoceleste in terra bianconera. Passione per il
calcio che non tramonta mai, ma che soffre terribilmente i
freddi dati domenicali di un tifo in calo. L'afflato che ha
spinto 1000 anime a Torino per sostenere la Lazio a far da
contraltare e una compagnia inattesa come scorta sino alla Mole.
Si tratta di Carlo Ricci, un rispettabile medico romano di 74
anni, in attesa di raggiungere la sua Juve. Carlo è un tifoso
della prima ora che non nasconde il suo scudetto bianconero
cucito sulla felpa. Sorride quando capisce che la meta di questo
viaggio condurrà al medesimo traguardo: sponda opposta. "Sono
juventino da sempre - esordisce - amo la Vecchia Signora e non
sopporto la Roma e il Napoli (ride)". La compagnia di Carlo è di
quelle che gradisci sin dal primo istante. Mai eccessiva, spesso
taciturna a volte malinconica. "Viaggio spesso per Torino. Vado
per assistere a tutte le partite in casa della Juventus e torno
quasi sempre arrabbiato". La chiosa sa di nota stonata.
Apparentemente figlia di un palato eccessivamente fine, quasi
classista. Ma subito il compagno di viaggio juventino si
riprende: "Ne ho viste talmente tante di Juventus che a questo
punto cerco il gusto di una bella partita. Mi diverto se si
gioca bene al calcio, anche se ultimamente questa squadra non mi
diverte più...". Tira fuori un tablet e scorre alcune foto
d'epoca. "Sono tifoso da sempre e discuto spesso con mia moglie.
Le da noia restare sola. Ma io a casa davanti alla tv non riesco
proprio a divertirmi. Ho bisogno dello stadio". Il display mette
in coda le foto di una vita, archiviate gelosamente come si fa
con un amore che si rispetti. Carlo sorride soddisfatto, nel
raccontare i suoi aneddoti bianconeri, mentre continua a
sfogliare il suo archivio. D'un tratto si blocca. Il dito punta
una foto sbiadita. "Questa è l'Heysel io ero in curva Z". Si
pianta per un attimo e a stento ritrova il sorriso. "Sono uno
scampato. Posso tranquillamente dire un sopravvissuto". Scorre
le immagini di quell'orrore e si sofferma sulle prime pagine di
quel maggio del 1985. "Io sono quello in piedi fra decine di
morti. Avevo mio figlio con me e in un attimo me lo sono perso".
Una lacrima gli solca il viso. Le rughe di una vita ne
accompagnano la discesa. "Non appena iniziò l'avanzata degli
hooligans sugli spalti la sua mano mi scivolò via...". Carlo è
tradito dall'emozione, ma che alla fine sfuma nella
soddisfazione. "Lo ritrovai dopo un'ora e mezza. Stava
rannicchiato sotto una panchina. Riuscì a scavalcare decine di
cadaveri per poi mettersi in salvo". Rievocare la barbarie di
quegli attimi non ne blocca il gusto per questo sport. Lui è un
ultras vero, di quelli che vanno oltre. Di quelli che sanno di
cosa è fatta la paura e non temono di raccontarne i confini.
"Una rete ci divideva dalle bestie. Noi non eravamo tifosi
organizzati. Nel settore Z c'erano soltanto famiglie, donne e
bambini. All'ingresso gli hooligans sfondarono la fragile rete
divisoria e quando la polizia fuggì fu il disastro. Centinaia di
persone rimasero pressate sui divisori. Sui muretti...". Mentre
l'inatteso compagno di viaggio juventino sfoglia l'album si
blocca su di una foto.
"Quei i cadaveri li ricordo ancora sotto
le mie mani. Il muretto era crollato e parecchi tifosi morirono.
Io ero disperato. Sono scampato al massacro ma non trovavo mio
figlio. Prima di riabbracciarlo sono rientrato tre volte in
curva e per tre volte ho alzato la testa di un ragazzo morto.
Era tale e quale a mio figlio da dietro...". Carlo piange il
dolore che da dentro non si è mai placato. Il terrore che solo
un padre nella disperata ricerca di un figlio può provare. Carlo
Ricci oggi ha ancora voglia di tifare. Carlo Ricci è la risposta
del bene che vince sul male. L'amore per la vita si misura anche
nel saperne apprezzare colori e sfumature e seguire la propria
squadra anche a 600 km di distanza ne è una prova. Il calcio
come sport da amare. Il calcio come passione che non può
soffocare. Nemmeno in tanto dolore, neanche in un simile orrore.
Sorride Carlo Ricci. Tifa Juve e non dimenticherà mai nomi e
volti delle 39 vittime dell'Heysel, ma oggi vuole solo gioire
per il gioco più bello del mondo. "Spero di rivedervi domani e
spero di essermi divertito...". Il calcio non può morire. Il
tifo nemmeno, finché esisteranno persone come Carlo.
22 gennaio 2017
Fonte: Lalaziosiamonoi.it
A-Z |
Il mio Heysel
Il
prossimo anno saranno passati 30 anni da quel giorno: avevo 42
anni, da sempre juventino, ed avevo seguito la Juve a Belgrado
(finale con l'Ajax) e ad Atene (con l'Amburgo) e non potevo
mancare a Bruxelles... Sentivo che era la volta buona ! In
ospedale (sono un medico) a Tivoli, una infermiera che aveva un
parente impiegato in una agenzia turistica mi disse che avrebbe
potuto trovarmi 5 biglietti che occorrevano per mio figlio (14enne),
mio cognato, due nipoti e per me. Con l'immancabile bandiera che
riportava i 21 scudetti, partimmo in aereo per Bruxelles la
mattina del 29 maggio con un viaggio organizzato di 2 giorni.
Col senno di poi poteva essere un presagio il fatto che sui
biglietti della curva Z ci fosse un segno di pennarello nero che
cancellava qualcosa... Certamente non mi è venuto in mente quel
giorno: la Juve, ero sicuro, sul tetto d'Europa ! Fummo portati
subito allo stadio, saranno state le tre del pomeriggio e ci
mettemmo subito alla ricerca del cancello della curva Z. Lo
trovammo subito, anche se il cancello era una porticina
sopraelevata non più larga di 80 cm alla quale si accedeva
tramite una stretta scaletta di ferro. Non ci meravigliamo del
fatto che gli Juventini entravano con bandiere e striscioni,
mentre gli inglesi, che entravano insieme a noi, erano carichi
di confezioni di lattine di birra. Perché preoccuparsi ? A
Belgrado e Atene olandesi e tedeschi ci erano seduti vicino,
ubriachi fradici, ma senza il minimo incidente con noi.
Scegliamo subito dove metterci: il posto migliore era dietro una
di quelle ringhiere di ferro, eravamo in 5, la occupavamo
completamente e nessuno poteva coprirci la visuale. Invidiavamo
gli juventini della curva opposta: lì era un tripudio di
bandiere bianconere, noi eravamo pochi e male organizzati, ma
cercavamo di far sentire il nostro tifo per la Vecchia Signora.
Mancava tanto alla partita ed eravamo stanchi di stare in piedi,
provammo a metterci seduti, durò poco perché entrarono in campo
in borghese i giocatori e quelli del Liverpool vennero sotto la
curva Z per salutare i propri tifosi. Ricordo in particolare un
giocatore coi capelli rossi che incitava i tifosi inglesi con
dei gesti che non ho mai visto negli stadi italiani... Non era
il classico saluto con la mano per ringraziare i supporters, ma
qualcosa in più, di diverso, come per incitare a lottare, ma non
sono i calciatori che debbono lottare in campo ? I giocatori
della Juve erano lontani, sotto l'altra curva... Appena usciti
dal campo i calciatori, cominciò ad arrivare dalle nostre parti
qualche lattina di birra vuota lanciata dagli inglesi, poi
divennero sempre più numerose ed incominciammo ad avere qualche
timore. Alle lattine seguì qualche frammento di pietra (il
cemento dello stadio era fatiscente) e piano piano ci
allontanammo dalla nostra posizione. Ad un segnale, che sembrava
convenuto, gli inglesi cominciarono a correre verso di noi prima
in piccoli gruppi e poi sempre più numerosi, lanciando di tutto
ed a quel punto il nostro spostamento divenne fuga verso il
muretto che delimitava la curva. Ci perdemmo tutti di vista e la
calca impediva qualsiasi movimento volontario... Mi ritrovai
solo, in posizione quasi orizzontale, con persone sopra e sotto
di me... Restavano all'aria solo le spalle e la testa; faticavo
a respirare, non riuscivo a muovermi né con le braccia, né
tantomeno con le gambe, il respiro era superficiale e sempre più
difficoltoso anche perché un ragazzo che stava accanto a me,
nella stessa posizione, aveva un gomito che mi comprimeva la
trachea. Con un filo di voce gli chiesi di spostarlo... Per
fortuna ci riuscì. Un incubo durato non so quanto... Dopo un
tempo interminabile, strisciando sugli altri riuscii ad arrivare
sulla pista di atletica. A quel
punto mi girai e mi resi conto
di quanto era successo... E mio figlio ? Cercai lui e gli altri
tra
quelli
che erano in mezzo al campo... Facevo la spola tra la curva ed
il centro del campo e riuscii a trovare mio cognato ed un
nipote. Da loro appresi che l'altro nipote era andato a
rifugiarsi nella curva degli juventini, ma Fabio dove era ?
Tornai verso la curva Z e vidi che la maggior parte gente era
scesa in campo e vi erano però tante persone a terra; anche
sulla pista persone a terra con degli infermieri e agenti
accanto... Mi feci coraggio e col terrore nel cuore rientrai
nella curva alla ricerca di mio figlio... lo cercai tra le
persone ferite a terra con qualche amico vicino che cercava di
portare soccorso... Nulla ! Cominciai a cercarlo allora tra
quelli che purtroppo erano morti... Per tre volte ho sollevato
la testa di un ragazzo morto, in posizione prona, che dall'
abbigliamento e dal fisico sembrava Fabio... La prima pagina
della Gazzetta del 30 maggio mi mostra mentre mi aggiro
inebetito per la curva Z. Sono in piedi sotto la seconda "a" di
"Assassinati" con jeans e maglietta bianca. Disperato
ritorno in mezzo al campo, sputo in faccia ad un agente a
cavallo che mi imponeva di sgombrare il campo e di entrare nella
tribuna principale: a lui non fregava nulla che io stessi
cercando mio figlio. Mi avvio, costretto con la forza, verso la
tribuna ed a quel punto, rannicchiato in un angolo di una della
panchine degli allenatori, mio figlio che tremava di paura...
Non so per quanto tempo siamo rimasti abbracciati a piangere...
Arriviamo in tribuna quasi tra gli insulti di chi vi stava già
per diritto; non si erano resi conto di quanto fosse successo e
pensavano che fossimo i soliti tifosi esagitati e violenti... Da
lontano vedevamo le ambulanze portare via i morti ed i feriti...
Poi l'appello dei capitani a stare calmi... I tifosi inglesi che
razziavano quanto rimasto abbandonato sulla curva... Maledetti !
Sono passati 30 anni, ma il rancore non mi è ancora passato ! Il
mio racconto potrebbe fermarsi a questo punto, ma voglio
raccontare quanto ho vissuto in tribuna per il resto della
serata. Inizia la partita ed ovviamente noi 4 vicini, in piedi e
senza scarpe... Col passare dei minuti è stato come se avessimo
dimenticato tutto quanto successo, non pensavamo più ai morti,
ai feriti... Eravamo diventati di nuovo tifosi ed abbiamo
esultato al rigore della vittoria. Finita la partita mi resi
conto che anche in me vi fosse qualcosa di assurdo, direi quasi
di bestiale. Da quel giorno non sono più entrato in uno stadio
per una partita di calcio. In occasione della finale di Roma con
l'Ajax ho avuto a disposizione biglietti che subito ho
regalato... Forse andrò, non so quando, allo Juventus Stadium.
27 agosto 2014
Fonte: Comitato "Per non dimenticare Heysel"
di
Reggio Emilia
A-Z |
ROSSANO RINALDI
Heysel 25 anni dopo, Rinaldi:
"Strage che si poteva evitare"
L'
"anniversario" lo ha trascorso, per impegni personali, a Londra,
proprio nel cuore di quell'Inghilterra dalla quale arrivavano
gli "hooligans" che provocarono la strage dell'Heysel in
occasione della finale di Coppa Campioni (all'epoca si chiamava
ancora così) con 39 morti, di cui 32 italiani, e oltre 600
feriti. Parliamo di Rossano Rinaldi, oggi presidente del Parma
Baseball che quel 29 maggio del 1985 era a Bruxelles assieme
alla futura moglie da tifoso juventino e si trovava proprio nel
settore "Z", quello della carica dei supporter inglesi agli
juventini. Sono trascorsi 25 anni da quella serata e, anche se
le emozioni si sono stemperate, i ricordi sono ancora indelebili
nella sua mente. "Eravamo andati a Bruxelles per assistere a un
incontro che poteva dare alla Juventus una vittoria storica e
invece siamo finiti nel mezzo di una delle pagine più buie del
calcio". Rinaldi ricorda "l'impressione di poca organizzazione
che avevamo avuto fin dall'arrivo allo stadio e qualche timore
quando avevamo notato la vicinanza con gli inglesi. Però nessuno
poteva immaginare quelle che sarebbe successo". Una carica dei
tifosi inglesi, in gran parte "hooligans", sfonda la rete
divisoria e semina il panico nel settore degli italiani "dove
eravamo tutti o quasi, famiglie e appassionati, perché gli ultrà
juventini erano nel settore opposto dello stadio". In pochi
istanti, sugli spalti si scatena l'inferno: la fuga disordinata
si trasforma in una strage: "Io sono riuscito a cavarmela, per
fortuna, con qualche livido e qualche botta rimediata nel
fuggi-fuggi, mentre alla mia futura moglie - spiega Rinaldi -
andò molto peggio, perché rimase imprigionata contro una delle
transenne a "u" che c'erano sugli spalti, schiacciata dagli
altri tifosi in fuga. Per fortuna non cadde e quindi alla fine,
anche se dolorante e ferita gravemente, riuscì a essere aiutata
a portarsi fuori da quella bolgia infernale". Per Rossano
Rinaldi "c'erano quella sera condizioni impensabili oggi in
qualunque impianto sportivo. E per evitare la strage sarebbe
stata sufficiente la presenza di una cinquantina, non di più, di
agenti a fare da "cuscinetto" fra le due tifoserie. Invece la
carica dei tifosi del Liverpool non ha avuto nessun contrasto e
il fatto che in quel settore ci fossero solo persone "normali"
ha aumentato la gravità delle conseguenze, perché tutti
scappavano in preda alla paura". E anche nel dopopartita le cose
non andarono meglio: "L'assistenza ai feriti non fu delle
migliori, e anche in quello la confusione regnava sovrana. Alla
fine, dopo i primi controlli in ospedale a Bruxelles, siamo
dovuti tornare a Parma con i pullman dello Juventus Club, perché
in aereo non era concesso viaggiare agli accompagnatori dei
feriti". La futura moglie di Rinaldi si trascinò poi per diversi
mesi le conseguenze delle ferite dell'Heysel, ma "grazie alla
competenza del professor Saginario, che ancor oggi ringrazio,
tutto si risolse per il meglio. Resta però il ricordo indelebile
della trasformazione in tragedia di quella che doveva essere
solo una serata di sport a causa della poca attenzione -
conclude Rinaldi - di chi doveva organizzare l'evento". Per la
cronaca, lo stadio teatro di quella strage è stato raso al suolo
e ricostruito e solo una targa ricorda quella serata che ha
segnato uno spartiacque fra il "prima" e il "dopo" nella
sicurezza negli stadi. Ma i morti, purtroppo, sono ancora lì a
testimoniare che, quando la follia si sovrappone al tifo, la
tragedia può sempre essere in agguato.
31 maggio 2010
Fonte: Gazzettadiparma.it
© Fotografia: Marco Vasini
A-Z |
GIOVANNI ROSSETTI
Trent’anni fa la tragedia
"La morte provò a prendermi nel
Settore Z
Fui salvato dalla mano di uno
sconosciuto"
Il bolognese Rossetti, oggi
49enne, e i ricordi dell’Heysel
Un
cimitero senza bare, né croci o colori. Solo bianco e nero. I
corpi scuciti e impastati di sangue ammucchiati sul cemento
sbrecciato, addosso a un cantiere con montagnette di sabbia
morsicata dalle ruspe, pietre buttate e vecchi arnesi da lavoro
arrugginiti. "Stavano lì, coperti dalle bandiere bianconere
chiazzate di rosso scuro. Quei nostri vessilli erano diventati
lenzuoli per avvolgere la morte, ancora calda. Ne sollevai uno.
Poi un altro. Un terzo ancora. Mi fermai. Non ne potevo più.
L’ultimo aveva la faccia strappata e il fianco squarciato. Non
era l’amico mio". Dopo averlo corteggiato a lungo nella notte
del 29 maggio 1985, la morte non riuscì a recapitare l’ultimo
bacio a Giovanni Rossetti. C’era anche lui all’Heysel, con
appena i suoi 19 anni e tre amici: tutti bolognesi. Tifoso, si
era innamorato della Signora bianconera nel 1978, incontrata una
domenica di aprile in cui pareggiava 1-1 al Dall’Ara con i
rossoblu. Cinque anni dopo conosce Franco Febbo, presidente dal
1974 dello Juventus club delle Due Torri, e prende la tessera
nella stagione 83-84. Inizia a girare l’Italia degli stadi. La
stagione seguente Platini e Boniek trascinano i bianconeri alla
finale dell’allora Coppa dei Campioni, un mondo lontanissimo dai
pacchetti turistici e dai lustrini della Champions League
odierna. Si gioca con il Liverpool, il meglio e il peggio del
calcio d’Oltremanica. I Reds inglesi non camminano mai soli.
You’ll never walk alone, non è appena lo storico canto che viene
giù dalla Kop (la curva di Anfield, lo stadio nel cuore
d’Inghilterra), al tempo gli Hooligans l’avevano trasformato nel
loro inno di guerra. Nel vecchio impianto dell’Heysel a
Bruxelles in Belgio, è la seconda finale di fila per gli
inglesi, che dodici mesi prima avevano vinto ai rigori
all’Olimpico di Roma, lasciandosi dietro la solita scia di
scontri e accoltellati. "Stavo facendo il militare e non potevo
espatriare - ricorda Giovanni, seduto in un bar del Pilastro con
di fianco la bellissima Ada e proprio Franco Febbo. Il 16 maggio
mi arrivò il congedo, ero di nuovo libero. Comprai i biglietti
per il match: 380 mila lire, volo compreso. Sul tagliando era
scritto: Settore Z, lontano dagli altri tifosi della Juve. "Non
preoccupatevi, sono tutte famiglie con bambini", dissero
all’agenzia turistica". Gli hooligans erano molti di più dei
bambini. L’atmosfera è surreale quel caldo pomeriggio. Chi
arriva all’aeroporto viene fatto salire sui bus. La città è
blindata, la prima e unica tappa è lo stadio. Il piazzale sotto
la curva è una latrina, piena di bestie: le più mansuete sono
gli annoiati cavalli della polizia che lasciano pozzanghere di
piscio e cumuli di sterco. "Alle 17.30 eravamo già dentro lo
stadio. Si passava da una stretta porticina di ferro. Il nostro
spicchio è l’ultimo della curva: il settore Z. Con i miei amici
ci mettiamo su in alto, poco sotto il tabellone elettronico.
C’era una piccola rete alla nostra sinistra, una di quelle di
plastica che recintano i campetti e 6-7 poliziotti tra noi e la
tifoseria inglese. In campo squadre di bambini del posto che
giocavano, a destra un muro, quello che poi crollerà". Fa caldo,
si beve e si canta, si fraternizza, "con alcuni ci scambiamo le
sciarpe". Poco prima delle
sette
e mezzo inizia il carnaio. "Spuntano magliette bianche con la
scritta "Vendichiamo Roma". Gli inglesi intonano You’ll never
walk alone, parte un razzo che finisce su di noi, ne arriva un
altro: è il segnale, la guerra comincia. Gli hooligans sono
entrati e nel cantiere di sotto si sono
armati con ferri e
bastoni. Li guardavamo e vedevamo il loro pollice passare sotto
la gola. "Vi ammazziamo" non era solo un gesto, ma una minaccia
vera". In quello spicchio di curva gli juventini iniziano a
ondeggiare. Il cemento dei gradoni è talmente vecchio che basta
un colpo col tacco della scarpa per sbriciolarli e fare delle
pietre. "Rispondiamo ai razzi, parte una sassaiola, gli
hooligans sfondano la recinzione e sono di qua. Cerco di
fermarne uno mi arriva una bottigliata sul braccio. Cado, scappo
via, torno verso l’alto, sotto il tabellone". Non c’è scampo
però. Gli hooligans fanno il vuoto, ci si accalca sul muretto a
fine curva. Si soffoca, ci si calpesta. "Il mio amico dice:
andiamo via di qui, salviamoci, entriamo in campo. Tento di
scavalcare, mi impiglio nella recinzione. Un signore corpulento
e baffuto, un belga, mi dà una spinta e mi butta di là sul
terreno di gioco. Mi ha salvato la vita. Sono in campo. La
polizia arriva e manganella forte, un colpo al braccio, me lo
spezza. Mi guardo, ho sangue ovunque. Cado stordito". In curva
si soffoca sotto il peso delle botte e dei corpi che si
ammassano, la polizia scappa condannando a morte decine di
persone. "Ero stordito, capivo poco, ma sento un boato tremendo.
Crolla il muro del settore Z. E sono solo macerie e sangue".
Giovanni lo portano via, sotto nell’infermeria dove non c’è
nulla. "Mi medicano il braccio, mi buttano per terra con una
bottiglia d’acqua addosso. Eravamo tantissimi, tutti feriti. Ma
io in fondo stavo bene. Cercavo i miei amici, ne trovo uno.
Usciamo. Sul piazzale. E c’erano già i morti, con le bandiere
sopra. Eravamo partiti in quattro, ma lì ne mancavano due. Alzo
una bandiera, poi un’altra, poi la terza, poi basta". Poi è
storia: 39 morti, il gol di Platini, la sua esultanza sguaiata,
una coppa di sangue. Nessun telefono per chiamare casa, nessuna
voce cui dire: "Sì, sono vivo". Il ritorno in Italia con un
aereo militare, dove Giovanni rivede gli amici. E una serie
infinita di ricordi. "Un anno dopo ho bruciato il biglietto di
quella partita. Lo guardavo e avevo gli incubi. Per quattro anni
non ho più messo piede in uno stadio". Oggi Giovanni fa il
postino a Bologna. Ha perso due di quei quattro amici, morti più
di dieci anni fa. Non è svanita però la passione per la Juve.
"Mi sono fatto altre quattro finali: Roma, Monaco, Amsterdam e
Manchester. Non è mai più accaduto niente". Lui aveva visto già
tutto. Troppo.
26 maggio 2015
Fonte:
Corrieredibologna.corriere.it
A-Z |
... GIOVANNI ROSSETTI ... |
39 angeli sempre nel cuore
di Giovanni Rossetti
29
MAGGIO 1985: mi ero appena congedato dal servizio di leva, tra
una settimana si giocava Juventus-Liverpool finale di Coppa
Campioni. Avevo ancora qualche giorno di ferie "forzate" e
decisi con altri 3 amici miei di recarci presso un’agenzia di
viaggi, volevamo a tutti i costi andare a Bruxelles per la
finale. Prendemmo tramite l’agenzia Nettuno viaggi di Bologna il
pacchetto aereo + biglietto settore Z a/r. Ci dissero: "E’ un
settore tranquillo, ci sono quasi tutti tifosi normali", ci
guardammo in faccia uno con l’altro e decidemmo di acquistarli,
nessuno di noi era mai stato in aereo e mai a vedere una partita
all’estero. Arrivò il giorno, partimmo, 4 giovani neanche
ventenni, con noi c’erano altri tifosi juventini, arrivammo a
Bruxelles verso le 14.30 circa, ci caricano su dei bus e ci
portano davanti allo stadio, nel piazzale. La prima cosa che
facemmo era trovare da mangiare e così andammo a prenderci un
panino e da bere, erano circa le 17.00, decidemmo di andare a
fare un giretto prima di entrare, la polizia belga lo sconsigliò
dicendoci che c’erano tifosi inglesi che disturbavano. Noi
incuranti di tutto e tutti aggirammo il cordone della polizia e
dopo 300-400 metri circa ci trovammo a tu per tu con un manipolo
di tifosi inglesi, iniziò uno scambio di insulti reciproci, mi
ricordo che dissi ai miei amici di stare molto attenti e pronti
a tutto, dopo una decina di minuti arrivano dei poliziotti a
cavallo e ci fecero allontanare e ritornare nel piazzale. Erano
le 17.30 e già giravano voci di scaramucce tra tifosi in centro
città, ma sembravano solo voci e nient’altro, allora decidemmo
di entrare nello stadio. Mi ricordo di una fila lunghissima e ai
lati 2 cordoni di polizia a cavallo che ci pressavano in
continuazione… Gli inglesi li si vedeva da lontano. Dopo un’ora
abbondante riuscimmo a entrare, qui la sorpresa: lo stadio
faceva letteralmente schifo, nella parte sinistra era
letteralmente vuoto. Ci posizioniamo proprio nella zona meno
gremita, vicino a una rete che divideva la curva, proprio di
fianco agli inglesi che li vedevamo molto "agitati". Ad un certo
punto iniziò un fitto lancio di oggetti vari, sassi, monetine e
altro, rispondemmo alle provocazioni con lancio di oggetti anche
dal nostro settore, andammo avanti così per 30 minuti circa. Il
peggio doveva ancora accadere… Erano le 19.00 se non sbaglio,
gli inglesi si aggrappavano alla rete cercando di scavalcarla,
molti di loro iniziano a fare oscillare la rete fino a piegarla
verso avanti, i primi che riuscirono a entrare furono respinti
da un manipolo di noi (eravamo pochi e meno organizzati di
loro). Li ho visti entrare con bastoni, bottiglie, aste di
bandiere, ecc... Io con i miei amici siamo corsi verso il basso
del settore con l’intento di uscire dallo stadio, ma ormai si
erano tutti accalcati lì, vicino a questa porticina da cui siamo
entrati. Gli inglesi avanzarono sempre più minacciosi e in
numero troppo alto per poterli respingere. A
un certo punto
risalimmo di nuovo verso l’alto per non rischiare di essere
attaccati da
inglesi
inferociti e armati di tutto ciò. Si vedevano i primi
risultati,
parecchi di noi erano riversi in terra insanguinati e loro
continuavano a colpirli, panico totale e fuggi-fuggi generale.
Tornammo verso il basso, intanto uno dei miei amici fu colpito
da un sasso (penso) che gli provoca una ferita al capo, con una
bandiera che avevamo con noi gli tamponiamo la ferita. Scappiamo
verso il basso e vedendo che molti di noi iniziavano a
scavalcare la recinzione che portava verso la pista di atletica,
decidemmo di fare uguale. Io e uno dei miei amici scavalchiamo,
io rimasi impigliato con il filo di ferro e mi procurai una
ferita nel gomito. Non riuscivo più a muovermi, ad un certo
punto un signore, che penso non era italiano, forse francese o
belga, mi afferrò per il cavallo delle gambe e mi scaraventò
dentro la recinzione del campo nella pista di atletica. Uno dei
miei amici riuscì a scavalcare da solo, gli altri due (di cui
quello ferito alla testa) li perdemmo di vista. Corriamo verso
il campo di gioco e la polizia manganellava solo noi !!! Un
poliziotto mi viene incontro e mi diceva qualcosa in francese io
alzai le braccia e lui una manganellata nel polso che me lo
fratturò. Per circa 30 secondi dal dolore mi accovacciai, non
capendo più cosa e dove andare, sentivo urla e lamenti, mi
guardo il braccio che mi colava sangue a volontà, uno dei miei
amici che riuscì a scavalcare con me mi accompagnò verso la
tribuna dove esisteva un’infermeria, riuscimmo ad entrare e mi
curarono mettendomi 6 punti nel gomito e fasciandomi il braccio
e polso. Ci accompagnano fuori dallo stadio e ci misero seduti
in terra, il mio amico mi dice: stai qui che vado a cercare gli
altri, dopo un paio di ore ritornò con gli altri 2 scossi e
impauriti. Intanto nel piazzale della tribuna sembrava un
ospedale da campo con feriti e gente che vagava nel vuoto, era
un inferno. Voci dicevano che c’erano solo 2 vittime, ma tanti
feriti. La partita non la vedemmo, chiaramente non importava
più, il muro io per fortuna non l’ho visto crollare, o almeno
non me ne accorsi. Raggiungemmo l’aeroporto con un taxi, trovato
fortunosamente, aspettammo l’aereo e ritornammo in Italia,
all’aeroporto ci viene a prendere il papà di uno dei miei amici
che era con me. Tramite lui imparammo che cosa realmente era
successo... 39 nostri fratelli non fecero più ritorno. Questo è
quello che mi ricordo di quella triste serata, dei miei amici,
solo 1 è ancora qui con me (non ha più messo piede in uno
stadio, gli altri 2: uno è morto in un incidente stradale,
l’altro di malattia). Di tutta questa vicenda il male fisico (6
punti nel gomito e polso fratturato) non è niente... Quello che
purtroppo mi rimane dentro è il dolore che non ho potuto aiutare
i miei fratelli juventini. Alcuni di voi che ho in amicizia
erano presenti quella sera, chiedo scusa a tutti voi per il mio
post, ma sono ormai 28 anni che mi porto dentro questo
incancellabile dolore.
Con affetto, Giovanni Rossetti.
39 ANGELI SEMPRE NEL CUORE.
17 ottobre 2013
Fonte: Facebook (Pagina di
Giovanni Rossetti)
A-Z |
ALBERTO ROSSETTO
Io all'Heysel c'ero, e non
voglio dimenticare
Io
ero studente universitario e mi recai in Belgio con un mio
compagno di corso; ancora ricordo il guardare sospetto di chi,
all'interno dell'Ateneo ma non solo, scopriva che uno studente
era anche un appassionato calciofilo, quasi che le due cose si
escludessero a vicenda. Per molti leggere un libro e andare ad
assistere ad una partita di calcio sono due operazioni
incompatibili. La gente è proprio strana, chissà se pensa ancora
così, oggi che il calcio è quotato in borsa e i clubs fanno a
gara per accaparrarsi i migliori managers e consiglieri
finanziari oltre agli strateghi della comunicazione. Partimmo
nel pomeriggio del 28 maggio da piazza Castello per arrivare,
dopo una nottata sulle strade di mezza Europa, in tarda
mattinata nella capitale belga; la carovana era composta da una
quarantina di pullman, ai quali se ne aggiunsero almeno venti
durante il tragitto prima della frontiera con la Francia. A
Bruxelles il clima era stranamente calmo, gruppi di tifosi
italiani ed inglesi si scambiavano le sciarpe in giro per la
città, anche se la sera precedente i britannici non avevano
mancato di devastare la Grande Place. Ci recammo allo stadio con
molto anticipo, seguendo i consigli che ci erano stati impartiti
durante il viaggio, consigli tesi proprio ad evitare incidenti e
contatti con i tifosi avversari in prossimità del campo di
gioco. Infatti appena entrati nell'Heysel ci rendemmo subito
conto che il giusto appellativo per descriverlo fosse appunto
campo di gioco e non stadio, talmente era incongruo per quel
tipo di finale.
Quando nella curva opposta alla nostra gli inglesi iniziarono i
primi tafferugli non ci si rese conto della gravità degli
eventi; con il passare del tempo le cariche degli hooligans si
fecero più cruente, costringendo molti tifosi italiani a trovare
rifugio sul rettangolo di gioco. La partita non aveva inizio, si
percepiva ora la gravità della situazione, ma non si riusciva a
quantificarla. Si pensava ai "soliti" incidenti provocati dai
"soliti" criminali che frequentano gli stadi. Non esistevano
ancora i telefoni cellulari, quindi non era possibile mettersi
in contatto con l'esterno; ricordo che un ragazzo di Lecce di
fianco a me aveva una radiolina portatile dalla quale gli parve
di capire che c'erano sette morti nel settore Z.
Un po' sarcasticamente gli chiesi se capiva bene il
francese, visto che secondo me sette morti in uno stadio
equivalevano ad un'ecatombe. Non l'avessi mai detto. Fu un bene
che la partita venne poi giocata perché gli animi erano troppo
surriscaldati e molti, non solo giovani, ma anche attempati
signori padri di famiglia, volevano farsi giustizia da sé; se
quella partita non si fosse giocata il numero delle vittime
sarebbe di ben altro numero. Appena terminata la partita la
polizia belga, responsabile per il suo comportamento imbecille
almeno quanto i teppisti, ci fece partire in fretta e furia ed
in pratica scoprimmo la vera realtà della tragedia solo in
Francia, in autogrill, a notte fonda. Resisi conto di quanto era
accaduto cercammo di avvisare le nostre famiglie in Italia, ma
pochi nel mio pullman disponevano di franchi francesi da
utilizzare per telefonare. Si procedette pertanto ad una sorta
di catena, nel senso che un paio di persone telefonarono in
Italia e dettero ai propri familiari i numeri telefonici degli
altri componenti in modo che potessero mettersi in contatto con
i loro parenti. I miei genitori furono avvertiti intorno alle 4
di notte. Una volta a casa venni a sapere dei festeggiamenti
avvenuti in varie città e mi sorbii l'enorme fiume di parole,
scritte e non, riversate sui fatti di Bruxelles, dai tanti
"esperti" che furono interpellati per esprimere un'opinione in
merito: sociologi, psicologi, giornalisti, opinionisti, ecc. La
realtà, unica ed inconfutabile, era e rimane la morte di 39
persone che erano accorse in quella maledetta città per
divertirsi seguendo la propria squadra del cuore: nessuna parola
potrà mai esprimere la condanna di un simile orrore. Nessuna
parola potrà mai cancellare il dolore dei parenti delle vittime.
Per una morte così assurda, c'era bisogno di un silenzio
assordante, invadente; invece si è coperto tutto con le parole
di chi volle essere a tutti i costi protagonista di una storia
in cui non era minimamente implicato. Si discusse anche molto
sull'opportunità che la Juventus non ritirasse quella coppa
macchiata di sangue: pure speculazioni demagogiche ! Nessuno,
dico nessuno, ventilò invece l'ipotesi contraria; proprio perché
macchiata di sangue quella coppa non avrebbe dovuto essere
restituita alla UEFA, quella coppa macchiata di sangue doveva
diventare un macigno per dirigenti sportivi e addetti alla
sicurezza, quella coppa macchiata di sangue avrebbe dovuto
segnare la svolta contro la violenza attraverso un gesto forte,
inequivocabile, storico, quella coppa macchiata di sangue doveva
essere l'ultima coppa.
24 gennaio 2007
Fonte: Dal libro "Juve alé -
cronaca sentimentale di un tifoso juventino" - Bradipolibri 2007
A-Z |
Per non dimenticare
di Alberto Rossetto
Io
all'Heysel c'ero. Ero nell'altra curva, il settore M, così sono
riuscito a tornare. Per pura fortuna, perché ? Avevo previsto di
andare a Bruxelles in modo autonomo, poi ho deciso di andare con
lo Juventus Club Torino, altrimenti sarei finito anch'io nel
settore Z. Z come ultima lettera dell'alfabeto, Z come la fine
della civiltà causata da un branco di ubriachi assassini, Z come
la fine della dignità per i poveri corpi delle vittime
sottoposti a ruberie ed umilianti pratiche da parte delle
autorità belghe, Z come l'ultimo modo di organizzare e gestire
un grande evento sportivo, Z come la fine dei diritti dei
familiari per un equo processo. Io all'Heysel c'ero, e non
voglio dimenticare. Non voglio dimenticare i colpevoli, gli
assassini materiali e chi li ha tollerati, non voglio
dimenticare il fiume di parole versato da giornalisti,
sociologi, politologi nei giorni seguenti (quando invece sarebbe
servito tanto silenzio), non voglio dimenticare il fatto che il
Comune di Torino non abbia nemmeno pensato di erigere una stele
a ricordo delle vittime (anche se non c'era nessun torinese fra
esse, era pur sempre coinvolta la Juventus), non voglio
dimenticare il gran movimento dei politici per promuovere un
gemellaggio tra la Municipalità di Liverpool e quella di Torino,
non voglio dimenticare gli imbecilli che hanno manifestato per
strada e, soprattutto non voglio dimenticare il tentativo di far
passare come correi i tifosi juventini. Io all'Heysel c'ero, e
tutte le ipocrite frasi di circostanza che sto sentendo in
questi giorni che precedono la doppia sfida con i "Reds" mi
danno la nausea. Non voglio altra violenza, voglio andare allo
stadio per divertirmi, voglio andare allo stadio per tifare in
pace la mia squadra, voglio andare allo stadio con mio figlio
(se lui lo vorrà), ma non voglio sentir parlare di perdono, non
voglio sentir dire che è passato tanto tempo, non voglio sentire
parlare di gemellaggi o cose simili. Io all'Heysel c'ero, e
voglio che colpe e colpevoli, a vent'anni di distanza, siano
chiaramente indicati. Questo accoppiamento giunto proprio nel
ventennale della tragedia suona quasi come una beffa del
destino, perché tra i sostenitori del Liverpool ci sarà
sicuramente qualcuno che era presente anche a Bruxelles, e come
si dovrebbe accoglierli, con i fiori ? Basta violenza, ma
nemmeno perdono. Io all'Heysel c'ero, e non voglio dimenticare.
29 maggio 2009
Fonte: Giulemanidallajuve.com
A-Z |
PAOLO ROSSI
Trent’anni fa la tragedia
dell’Heysel. Paolo Rossi ricorda il giorno più triste
"Se avessi saputo non avrei
giocato"
di Pietro Guadagno
Vincere
una Coppa dei Campioni dovrebbe essere uno dei ricordi più belli
nella carriera di un calciatore. Di più emozionante,
probabilmente, c'è solo un Mondiale. Ebbene, nel palmares di
Paolo Rossi ci sono entrambi, ma la sensazione è che vorrebbe
cancellare dalla sua vita il giorno in cui, assieme alla
Juventus, salì in cima all'Europa. "Non c'è alcun motivo per
essere fieri di quel trofeo - racconta. La verità è che quella
gara non si sarebbe dovuta giocare. E, se allora lo avessi
saputo, non avrei mai fatto quel giro di campo. Ci voleva
rispetto per quei 39 morti".
ALL'OSCURO. Già perché quella notte,
prima di scendere in campo, i giocatori non sapevano quello che
era effettivamente accaduto. "Dentro di noi sapevamo che
qualcosa di grave era successo. Ogni tanto, vedevamo entrare
qualche ferito negli spogliatoi per farli medicare. Ci venne
anche il sospetto che ci fosse qualche morto, ma nessuno poteva
immaginare una tragedia di quelle proporzioni", prosegue l'ex
attaccante bianconero, ammettendo che non fecero altro che
seguire le indicazioni: "Ci fecero rimanere chiusi negli
spogliatoi fino all'ultimo momento. C'erano delle voci che
giravano su quale fosse la situazione ma nessuno ci disse cosa
era veramente accaduto. Anche perché altrimenti avremmo potuto
dire la nostra, fare qualcosa. Alla fine, ci dissero soltanto:
"Andate in campo e giocate". Solo dopo la partita abbiamo
appreso dei 39 morti". Che fosse successo qualcosa di grave,
però, i giocatori della Juventus lo avevano intuito. "Si giocò
in un clima che non si può altro che definire surreale - spiega.
Vedevamo il settore Z dello stadio completamente vuoto e ci
chiedevamo il motivo. E' vero che dopo il gol esultammo e che
festeggiammo al momento di sollevare la Coppa, ma solo perché
eravamo all'oscuro della tragedia che si era appena compiuta".
FILA DI CORPI. Poi, però, anche Rossi e compagni si resero conto
del dramma che si era appena consumato. Lo videro proprio con i
loro occhi, una volta saliti sul pullman che li avrebbe portati
lontano da quell'inferno. "Io quei corpi, in fila fuori dallo
stadio coperti dai teli, li ho visti", dice oggi,
sottolineandone l'assoluta assurdità: "Non esiste morire in
maniera così banale per una partita di calcio. Non ha senso".
Per l'ex centravanti, quella fu l'ultima partita con la maglia
bianconera, prima di trasferirsi al Milan: "Il giorno dopo, io e
alcuni compagni partimmo direttamente da Bruxelles per il
Messico per un ritiro con la Nazionale. Senza nemmeno passare da
Torino". SPARTIACQUE. A trent'anni di distanza, comunque, il
ricordo è ancora vivo. Ed è anche giusto, a parere di Rossi, che
ora fa il commentatore per Sky, ma che è pure un imprenditore di
successo. "A mio avviso è un bene che se ne parli anche oggi.
Quella sera è stata una sorta di spartiacque, perché ha fatto
aprire gli occhi a tutti. Finalmente è stato evidente che certi
stadi non erano adeguati. Purtroppo non doveva esserci la
necessità di vedere morire 39 persone perché venisse compreso".
Ora, evidentemente, la situazione è cambiata, ma c'è comunque
qualcosa che non va giù a Pablito. "Oramai gli impianti sono
adeguati e questo è fondamentale - sottolinea. Mi sembra però
assurdo che servano ogni volta tremila agenti per garantire la
sicurezza di chi assiste alle partite. Evidentemente non siamo
ancora figli di una cultura sportiva così forte". Ed è una
considerazione molto amara, trent'anni dopo l'Heysel.
29 maggio 2015
Fonte: Corriere dello Sport
A-Z |
Ci hanno fatto fare gli attori. Ma fu sbagliato festeggiare
di Paolo Rossi
Sono
passati trent’anni ma ancora oggi raccontando a tv e giornalisti
di mezzo mondo quel maledetto giorno mi resta un grande dolore.
Noi avevamo avuto la percezione, dallo spogliatoio, che qualcosa
fosse successo: erano arrivate voci che c’erano due o tre morti,
qualcuno disse addirittura sette. Ma eravamo lì in balia degli
eventi. Nessuno sapeva che erano già morte 39 persone: dalle
20.15 alle 20.45 addirittura siamo rimasti chiusi nello
spogliatoio, era uscito soltanto Scirea per leggere il
comunicato ai tifosi. Vedevamo arrivare gente ogni tanto per
farsi medicare, ma la verità era lontana per noi. Così, senza
che nessuno ci dicesse nulla, abbiamo giocato quella partita:
siamo stati attori incolpevoli e, rivedendo i fatti a distanza
di tempo, capisco che fosse giusto giocare per evitare che
succedesse qualcosa di ancora più grave. Quello che non si
doveva fare invece assolutamente erano i festeggiamenti. Qui
sono mancate completamente le istituzioni: dico l’Uefa, i
dirigenti, il Comune, il Questore, qualche dirigente della Juve.
Non dico questo per discolpare i giocatori: ma perché non
eravamo assolutamente al corrente di quanto successo. Soltanto
alla fine, nello spogliatoio o addirittura quando siamo saliti
sul pullman, ci hanno informato di quello che era realmente
successo. E dopo purtroppo ho anche visto quella serie di corpi
senza più vita a terra, sotto il muro crollato. Da questo
tragico evento, in trenta anni, gli inglesi hanno tratto spunto
per rinnovare gli stadi e sradicare il tifo violento: noi invece
abbiamo fatto poco, e se per il derby di Roma servono duemila
agenti significa che quella lezione purtroppo a noi non è
servita.
29 maggio 2015
Fonte: La Nazione
A-Z |
30 ANNI FA L’HEYSEL Paolo Rossi: "Ci tennero nello
spogliatoio fino alla fine"
di Antonio Bevilacqua
"Dentro di noi sapevamo che qualcosa di
grave era successo ma prima della partita nessuno ci diede
informazioni precise. Ci dissero solo andate in campo e giocate.
Dopo abbiamo saputo che in 39 erano morti…" Paolo Rossi non
scorderà mai la tragica notte dell’Heysel.
"Io quei corpi, in fila fuori dallo stadio coperti dai
teli, li ho visti. A trent’anni esatti di distanza, è bene che
se ne riparli. Quella sera ha fatto da spartiacque, ha aperto
gli occhi a tutti. Anche se non ci sarebbero dovuti volere 39
morti (32 italiani) per capire che certi stadi non erano
adeguati. Ci fecero rimanere chiusi negli spogliatoi, fino
all’ultimo momento. C’erano delle voci che giravano su quale
fosse la situazione ma nessuno ci disse cosa era veramente
accaduto. Anche perché altrimenti avremmo potuto dire la nostra,
fare qualcosa. La partita fu surreale, con un occhio al settore
Z, vuoto, dello stadio. Anche l’esultanza dopo il gol e l’avere
sollevato la Coppa festeggiando furono legate al fatto di non
sapere con precisione quanto era successo".
23 maggio 2015
Fonte: Resport24.it
A-Z |
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