Io all'Heysel c'ero, e non
voglio dimenticare
di Alberto Rossetto
Io
ero studente universitario e mi recai in Belgio con un
mio compagno di corso; ancora ricordo il guardare
sospetto di chi, all'interno dell'Ateneo ma non solo,
scopriva che uno studente era anche un appassionato
calciofilo, quasi che le due cose si escludessero a
vicenda. Per molti leggere un libro e andare ad
assistere ad una partita di calcio sono due operazioni
incompatibili. La gente è proprio strana, chissà se
pensa ancora così, oggi che il calcio è quotato in borsa
e i clubs fanno a gara per accaparrarsi i migliori
managers e consiglieri finanziari oltre agli strateghi
della comunicazione. Partimmo nel pomeriggio del 28
maggio da piazza Castello per arrivare, dopo una nottata
sulle strade di mezza Europa, in tarda mattinata nella
capitale belga; la carovana era composta da una
quarantina di pullman, ai quali se ne aggiunsero almeno
venti durante il tragitto prima della frontiera con la
Francia. A Bruxelles il clima era stranamente calmo,
gruppi di tifosi italiani ed inglesi si scambiavano le
sciarpe in giro per la città, anche se la sera
precedente i britannici non avevano mancato di devastare
la Grande Place. Ci recammo allo stadio con molto
anticipo, seguendo i consigli che ci erano stati
impartiti durante il viaggio, consigli tesi proprio ad
evitare incidenti e contatti con i tifosi avversari in
prossimità del campo di gioco. Infatti appena entrati
nell'Heysel ci rendemmo subito conto che il giusto
appellativo per descriverlo fosse appunto campo di gioco
e non stadio, talmente era incongruo per quel tipo di
finale. Quando
nella curva opposta alla nostra gli inglesi iniziarono i
primi tafferugli non ci si rese conto della gravità
degli eventi; con il passare del tempo le cariche degli
hooligans si fecero più cruente, costringendo molti
tifosi italiani a trovare rifugio sul rettangolo di
gioco. La partita non aveva inizio, si percepiva ora la
gravità della situazione, ma non si riusciva a
quantificarla. Si pensava ai "soliti" incidenti
provocati dai "soliti" criminali che frequentano gli
stadi. Non esistevano ancora i telefoni cellulari,
quindi non era possibile mettersi in contatto con
l'esterno; ricordo che un ragazzo di Lecce di fianco a
me aveva una radiolina portatile dalla quale gli parve
di capire che c'erano sette morti nel settore Z.
Un
po' sarcasticamente gli chiesi se capiva bene il
francese, visto che secondo me sette morti in uno stadio
equivalevano ad un'ecatombe. Non l'avessi mai detto. Fu
un bene che la partita venne poi giocata perché gli
animi erano troppo surriscaldati e molti, non solo
giovani, ma anche attempati signori padri di famiglia,
volevano farsi giustizia da sé; se quella partita non si
fosse giocata il numero delle vittime sarebbe di ben
altro numero. Appena terminata la partita la polizia
belga, responsabile per il suo comportamento imbecille
almeno quanto i teppisti, ci fece partire in fretta e
furia ed in pratica scoprimmo la vera realtà della
tragedia solo in Francia, in autogrill, a notte fonda.
Resici conto di quanto era accaduto cercammo di
avvisare le nostre famiglie in Italia, ma pochi nel mio
pullman disponevano di franchi francesi da utilizzare
per telefonare. Si procedette pertanto ad una sorta di
catena, nel senso che un paio di persone telefonarono in
Italia e dettero ai propri familiari i numeri telefonici
degli altri componenti in modo che potessero mettersi in
contatto con i loro parenti. I miei genitori furono
avvertiti intorno alle 4 di notte. Una volta a casa
venni a sapere dei festeggiamenti avvenuti in varie
città e mi sorbii l'enorme fiume di parole, scritte e
non, riversate sui fatti di Bruxelles, dai tanti
"esperti" che furono interpellati per esprimere
un'opinione in merito: sociologi, psicologi,
giornalisti, opinionisti, ecc. La realtà, unica ed
inconfutabile, era e rimane la morte di 39 persone che
erano accorse in quella maledetta città per divertirsi
seguendo la propria squadra del cuore: nessuna parola
potrà mai esprimere la condanna di un simile orrore.
Nessuna parola potrà mai cancellare il dolore dei
parenti delle vittime. Per una morte così assurda, c'era
bisogno di un silenzio assordante, invadente; invece si
è coperto tutto con le parole di chi volle essere a
tutti i costi protagonista di una storia in cui non era
minimamente implicato. Si discusse anche molto
sull'opportunità che la Juventus non ritirasse quella
coppa macchiata di sangue: pure speculazioni demagogiche
! Nessuno, dico nessuno, ventilò invece l'ipotesi
contraria; proprio perché macchiata di sangue quella
coppa non avrebbe dovuto essere restituita alla UEFA,
quella coppa macchiata di sangue doveva diventare un
macigno per dirigenti sportivi e addetti alla sicurezza,
quella coppa macchiata di sangue avrebbe dovuto segnare
la svolta contro la violenza attraverso un gesto forte,
inequivocabile, storico, quella coppa macchiata di
sangue doveva essere l'ultima coppa.
Fonte:
Bradipolibri.it
© 24 gennaio 2007
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