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PORDENONESI
"Scampati all’inferno per tre
metri"
Erano nella curva "Z"
dell’orrore: il ricordo di due pordenonesi alla finale Juve –
Liverpool
di Loris Del Frate
Doveva
essere una festa, una notte magica, la fine di un viaggio che
per chi era partito da Pordenone era stato lungo
millequattrocento chilometri. Tanti, ma passati velocemente su
quel pullman diretto allo stadio Heysel e partito dalla piazza
principale in riva al Noncello. Sopra c’erano anche Lino Badin,
allora ventinovenne, sposato da pochi mesi e Mauro De Roia, due
anni in meno, con un figlio in arrivo. Loro dall’Heysel, lo
stadio maledetto che è costato la vita a 39 persone la sera
della finale di Coppa Campioni Juventus - Liverpool, sono
tornati a casa. Miracolati perché erano tre metri più in alto
rispetto all’inferno. Ma quella notte di trent’anni fa non
l’hanno mai dimenticata. E pensare che avevano perso ogni
speranza di andare a vedere la partita. "Avevamo battuto in
lungo e in largo la provincia per trovare i biglietti. Nulla da
fare - raccontano - eravamo rassegnati a guardarla in
televisione". Invece il destino si mise in mezzo. "Ricevetti una
telefonata dallo Juve club di San Stino - racconta Lino Badin -
avevano due posti. Siamo partiti in pullman la sera prima
dell’incontro". In corriera la distribuzione dei biglietti:
curva "Z". Il settore maledetto. Quello del massacro. "Siamo
entrati allo stadio verso le 17. Era una giornata bellissima -
va avanti Mauro De Roia - un sole caldo, mille colori, ma anche
tanta disorganizzazione. Ci volle più di un’ora per entrare.
Tutti schiacciati per passare attraverso una porticina larga sì
e no un metro e mezzo". "Una volta dentro - spiega Lino Badin -
ci accorgemmo subito che quello stadio era inadeguato. Le
gradinate che si sfaldavano solo sbattendo forte i piedi e una
rete, come quella dei pollai, che ci divideva dall’orda dei
tifosi inglesi, quasi tutti ubriachi. Già fuori avevamo visto
l’area circostante l’impianto tappezzata di lattine di birra
vuote". La salvezza dei due pordenonesi è legata al fatto che si
fermarono nella parte alta della curva "Z". "Per uscire dalla
curva - spiegano entrambi - c’era solo una porticina che era
accanto a dove ci eravamo piazzati noi. C’era il tifo, bandiere,
urla, cori, ma sembrava normale. Almeno fino a quando dal
settore inglese hanno iniziato a lanciare sassi e calcinacci.
Spaccavano le gradinate con gli scarponi e tiravano i pezzi di
pietra dalla nostra parte. La gente si ritirava, iniziava a
indietreggiare, sino a quando gli inglesi hanno invaso il
settore demolendo la rete. In quel momento è successo di tutto".
"Io - dice Badin - ho detto a Mauro che era meglio uscire". "Io
invece - replica Mauro - volevo restare: ho fatto 1400
chilometri per vedere la partita dicevo, adesso non scappo".
Alla fine la situazione è esplosa e i due sono riusciti a
imboccare la porta dirigendosi dall’interno della curva verso
l’uscita dallo stadio. "Se fossimo stati 2 - 3 metri più sotto -
vanno avanti - saremmo stati travolti e probabilmente
risucchiati. Capivamo dal rumore e dalle urla che stava
accadendo qualcosa di grave, ma non abbiamo visto nulla. Una
volta fuori siamo andati in corriera e lì abbiamo visto dalla tv
che c’erano i morti". Di quelli che erano con loro in pullman
alcuni erano feriti. "Siamo andati tutti in ospedale, poi, tre
ore dopo, siamo riusciti a telefonare a casa e a rassicurare le
nostre famiglie. Eravamo vivi. Mia moglie - scherza De Roia - mi
rinfaccia sempre che per lo stress che le ho procurato, ha
dovuto partorire prima del tempo". La partita non l’hanno vista.
29 maggio 2015
Fonte: Il Gazzettino
A-Z |
FAUSTO
PAJAR
Venezia - Heysel andata (e
ritorno)
di Fausto Pajar
Me
la ricordo bene quella sera che diavoli sono usciti dall'inferno
a danzare, macabri e truci, sugli spalti fatiscenti dell'Heysel
a seminare la morte tra inermi famiglie di italiani accorse a
vedere, lassù in Belgio, la finale Juve-Liverpool di Coppa
Campioni. Me la ricordo bene. Non si dimenticano i momenti
assurdi in cui la morte ti passa accanto e lascia sul terreno i
segni del suo transito feroce e assurdo. La notte riporta ancora
l'incubo di quei corpi che rotolano giù dagli spalti mentre il
pallone già pronto per la gara rotola anche lui lontano dai
luoghi della vita e si perde come le anime di quei 39 poveri
tifosi, che neri di tumefazioni e asfissia s'allineano disposti
da mani pietose sul nudo selciato fuori dallo stadio tra urla di
gente in lacrime e di sirene impazzite. Come è cominciata la
sera dei demoni inglesi dell'Heysel ? Con una bandiera della
Juve provocatoriamente bruciata davanti agli spalti del settore
Z. La rete divisoria tra la follia delle creature infernali e
quella delle famiglie italiane - molte quelle venete - che con
un charter avevano raggiunto Bruxelles da Venezia, viene scossa
come un tamburello con un clangore di catene e la furia di chi
sale le maglie metalliche della recinzione per cercare lo
scontro fisico e il sangue. La data è il 29 maggio 1985.
Venticinque anni fa. E' una sera calda di primavera che quasi
sconfina nelle temperature elevate di una precoce estate. Una
lattina di birra con tutto il peso del suo contenuto e i bordi
ferocemente affilati, schizza nell'aria e precipita sulla testa
di un tifoso veneto dietro di me. L'aria pare attraversata da un
lampo di morte: uno zampillo di sangue rosso che si confonde con
i raggi purpurei del tramonto. Ma l'aria dilata anche un urlo di
dolore raggelante che si distingue come un allarme che sovrasta
l'inno di guerra "You'll never walk alone" che gli hooligans
cantano brandendo minacciosi le aste delle bandiere verso di
noi, folla inerme di famiglie con figli e nonni al seguito che
occupiamo il settore Z della curva. Il corpo cede sulle gambe
sopraffatto dal dolore e da urla belluine e si spande l'odore
sorprendente del sangue che prorompe dal cranio ferito mentre
attorno gli amici sorreggono il corpulento compagno perché non
stramazzi a terra di peso e gli tamponano la ferita con un
candido fazzoletto che subito s'impregna d'un rosso scarlatto.
Il rosso, filtrando tra le dita, dilaga gocciolando sul terreno
nudo, scandendo come una clessidra cruenta il tempo del dolore e
della fine. La strage è cominciata. I corpi s'accalcano verso il
muro che delimita il settore Z e la rampa di discesa che dal
rettangolo di gioco s'insinua verso gli oscuri meandri
sotterranei e fatiscenti dello stadio. Cinque, sei, sette metri
di vuoto: una discesa appunto. Anche a saltare giù - e bisogna
essere atleti ben allenati o semplici uomini disperati per
decidersi a saltare - non s'arriva a terra a piè pari. Eppure
alcuni, pressati da coloro che ormai avevano violato il confine
delimitato invano da una fragile rete salgono sul muro e
cominciano a cadere di sotto fracassandosi le ossa. E sopra i
primi cadono altri. La folla preme sul muro per sfuggire agli
attacchi, per mettersi in salvo mentre gli hooligans dilagano
per uccidere bandendo bastoni, sferrando pugni e calci,
massacrando chi è a terra inerme. Inerme allo stesso modo di
quando era in piedi in attesa dell'inizio della partita. Ma lo
stadio è marcio. Anche il muro è marcio e non tiene più. Gli
ultras del Liverpool sono marci di birra. Il muro crolla di
schianto su coloro che sono già a terra, tutti rotti, sulla
rampa. Quelli che si erano accalcati vanno giù come fantocci con
le braccia che annaspano nell'aria e finiscono anche loro sulla
rampa sopra i calcinacci sbriciolati che hanno sepolto coloro
che erano caduti prima. Intanto Rodolfo Sartor, uno dei
responsabili del Club Juventus di Treviso e notissimo
proprietario del pub Capriccio alla Madonna Grande, mi afferra
per un braccio e mi trascina verso il basso, verso il campo e
così mi salva la vita. Nella recinzione metallica c'è una
porticina. Siamo compressi sulla rete dalla folla che preme. Non
si respira più. Rodolfo è alla mia destra anche lui con la
faccia schiacciata alla rete. La porticina si scardina sotto la
pressione. E' a dieci centimetri. Rodolfo con la forza della
disperazione riesce a spingermi nel varco seguendomi. Insieme
rotoliamo fuori verso la salvezza, ma giusto in tempo per
prenderci una frustata da un poliziotto che ancora - come per
altro tutti i suoi colleghi - non aveva realizzato che cosa era
accaduto e si sentiva in dovere di frenare quella che a tutti
gli effetti era
un'autentica,
inconfondibile, invasione di campo. Lì, sulla rete, che noi
ormai abbiamo lasciato, qualcuno sviene, qualcuno muore cercando
invano un po' d'aria. Altri fuggono alla ricerca di riparo e
salvezza. Altri ancora cercano di arrampicarsi sulle maglie
della recinzione, altri ancora tentano di passarvi sotto. Quanti
ne tiriamo fuori ? Dieci, quindici, non so. Poi ci si ritrova a
centinaia in mezzo al rettangolo di gioco. Vedo Bruno Schiavon,
il famoso titolare dell'osteria trevigiana "Al ponte Dante", che
soccorre alcuni feriti. Lui ha avuto la fortuna di essere
risparmiato dall'orda di hooligans scatenati e armati, perché
indossava il cappellino della Ferrari, rosso come i colori
distintivi dell'orda furente e ubriaca. Per lui la Ferrari era
un mito. E quel gadget per la testa preso a Monza era un'icona
da esibire con orgoglio e con venerazione. Da quel giorno è il
talismano tangibile di una fede salvifica capace di esorcizzare
ogni personificazione del male. I diavoli sanguinari erano
passati davanti e dietro di lui bastonando e urlando, facendo il
vuoto sugli spalti. E lui - nonostante si trovasse proprio
vicino alla rete di separazione tra i settori X e Z - era stato
lasciato indenne e s'era ritrovato solo, incolume, sulle
gradinate a guardare l'opera nefanda dei seminatori di morte,
che per via del cappellino lo avevano scambiato per uno di loro.
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Ormai la strage è compiuta: 39 morti (32 italiani, 4 belgi, due
francesi, un irlandese) e seicento feriti. Con un gruppo che si
è affiancato a me (tra questi c'è anche Gaspare Lucchetta, uno
dei fratelli titolari dell'Euromobil di Falzé di Piave), mi
posiziono davanti all'accesso della tribuna d'onore protetta
dallo schieramento di uno squadrone a cavallo. Agito un
tesserino in pelle rosso-amaranto e chiamo il ministro Gianni De
Michelis. I poliziotti a cavallo tra il tesserino dal colore
regale e il grido "monsieur le ministre !" equivocano sul mio
ruolo e mi fanno passare con tutto il gruppo. Raggiungiamo la
tribuna e scendiamo nella sala interna dove tra i tavoli del
sontuoso buffet allestito per le autorità si aggirano corpi
macilenti e sanguinanti di feriti che hanno trovato rifugio e
qualche cura lì dentro. Noi usciamo in strada. Sul selciato si
allineano già una decina di corpi alcuni coperti con lenzuola,
altri ancora a cielo aperto. Nessuno di loro ha le scarpe.
Nessuno di loro... Non me la sento più di ricordare tutti i
particolari. La morte non è uno spettacolo da esibire anche se
quei i corpi, che fino a pochi minuti prima erano persone,
appaiono come testimoni inerti eppure urlanti di quali livelli
di abiezione può coltivare la malvagità dell'uomo. Giuseppe
Spolaore, di Bassano, aveva 14 anni, allora. E' il figlio di
Amedeo morto all'Heysel a 55 anni. Il giovane riportò la
frattura di un femore. Ha detto recentemente: "Quella sera a
Bruxelles si sono intrecciate e sovrapposte una serie di
concause talmente consequenziali e perverse nel loro succedersi
da rendere tutto follemente dirompente. Sicuramente gli
hooligans sono stati il fattore scatenante, ma anche l'assenza
di polizia, la struttura inadeguata dello stadio, la mancanza di
uscite di sicurezza, la tipologia di persone che si trovavano in
quel pezzo di curva, l'organizzazione carente hanno fatto il
resto". Tecnicamente è stato proprio così. Umanamente no. Perché
se il tempo lenisce il dolore di certo non guarisce le ferite
dell'anima. E' per questo che bisogna ricordare. Ricordare
tutti: (Omissis Lista Vittime). Che dire di più ? Che le
autorità ci volevano spedire via subito in aereo perché non
volevano grattacapi, ma che noi - i vivi - restammo compatti
all'ingresso dell'aeroporto fermi nella volontà di cercare negli
ospedali tutti i feriti per portarli a casa con noi. E così fu
nonostante le minacce e nonostante alcuni venissero "deportati"
con i pullman verso un altro scalo distante più di 60 chilometri
e spediti a Venezia. Così fu, appunto. Oggi dell'Heysel è stato
cancellata ogni pietra. Lo stadio della morte è stato demolito.
Al suo posto nel 2000 è stato costruito uno stadio moderno
intitolato all'anima buona di re Baldovino, quasi a esorcizzare
quel luogo di morte. Heysel, il nome Heysel e quello che vi
accadde, rimane tuttavia nella memoria collettiva dell'Europa
come uno dei luoghi dove il male si è manifestato in tutta la
sua abbietta potenza in una sera calda di primavera che quasi
sconfinava nelle temperature elevate di una precoce estate.
Agosto 2010
Fonte: Il Gazzettino Illustrato
A-Z |
SAVERIO PALLADINO
Heysel, mi sono salvato così
di Nicola Lavacca
A 27 anni dalla tragedia,
Saverio Palladino, scampato alla violenza degli hooligan
inglesi, racconta che cosa successe nello stadio maledetto.
Quel
tragico mercoledì del 29 maggio 1985, Saverio Palladino era
nella famigerata curva Z dello stadio Heysel di Bruxelles.
Faceva l’artigiano tessile nella sua Bitonto, in provincia di
Bari, dove vive tuttora. Finalmente aveva coronato il sogno di
veder giocare la Juventus in una finale di Coppa dei Campioni.
Grande era la sua passione per la squadra bianconera che aveva
seguito dal vivo una sola volta nell’ottobre del 1976 allo
Zaccheria di Foggia, dove un gol di Bettega aveva mandato al
tappeto l’undici rossonero. La gioia di poter assistere a una
partita così entusiasmante fu spazzata via da uno degli eventi
più drammatici e luttuosi che il calcio ricordi. La furia cieca
degli hooligans del Liverpool causò una vera strage: 39 morti,
di cui 32 italiani, e oltre 600 feriti. Saverio Palladino,
allora 32enne, rimase coinvolto negli incidenti che cominciarono
un’ora e mezza prima della gara. Durante la ressa furibonda che
si venne a creare sugli spalti riuscì miracolosamente a trovare
una via di fuga, mettendosi in salvo. Ancora oggi il suo ricordo
di quella triste giornata è intriso di commozione, amarezza e
tormento. "Sono stato fortunato a uscire indenne da quella
bolgia", racconta: "Ogni volta che ne parlo mi vengono i
brividi, soprattutto se penso a quelli che hanno perso la vita.
Per una partita di calcio: è assurdo, inconcepibile. Non appena
rivedo quelle terribili immagini spengo il televisore. Mi fanno
troppo male, al cuore e all’anima. E provo anche un pizzico di
rabbia perché probabilmente fu sottovalutata l’intera vicenda e
non si fece abbastanza per fronteggiare la micidiale avanzata
dei tifosi inglesi".
Mai avrebbe immaginato il signor Palladino che quella trasferta,
cominciata in maniera così gioiosa e serena, si sarebbe
trasformata in una sciagura. "Qualche giorno prima decisi,
insieme ad altri cinque amici, di acquistare il biglietto per la
finale. Pagai 600 mila lire, comprensive del viaggio in aereo
che avrei preso per la prima volta. Non vedevo l’ora di
assistere alla sfida tra la mia Juve e il Liverpool. Partimmo da
Brindisi con un volo charter insieme a una ottantina di tifosi
bianconeri provenienti da Bari e da altre province, tra cui
c’era anche il signor Benito Pistolato che poi purtroppo morì.
Alle tre del pomeriggio arrivammo a Bruxelles e ci dirigemmo con
un pullman allo stadio Heysel. Sinceramente, tutto sembrava
tranquillo. Alcuni di noi familiarizzarono con gli inglesi,
scambiando anche le sciarpe".
Saverio Palladino entrò allo stadio insieme ai suoi
amici, in quella curva Z che sarebbe poi diventata il simbolo
della barbarie. "Erano più o meno le 18,30. Mi ritrovai al
centro del settore a noi riservato, proprio perché non c’erano
posti assegnati. Rimasi impressionato dalla presenza di molte
famiglie straniere. Vidi tanti bambini sorridenti che
aspettavano di assistere alla sfida tra due squadre titolate del
calcio europeo. Ero sereno anch’io. Ma, verso le 19 si scatenò
il putiferio. I tifosi inglesi, che occupavano la zona centrale
della curva e la parte adiacente alla tribuna d’onore,
cominciarono a inveire contro di noi, con cori e sfottò,
soprattutto quando il portiere del Liverpool, Grobbelaar,
durante il riscaldamento si avvicinò loro per avere maggior
incitamento. Poi, scoppiò il finimondo: una pioggia incessante
di lattine, bottiglie, calcinacci, bastoni. In quel momento
capii che la situazione stava degenerando. Si trattava di un
assalto in piena regola. Così, dalla nostra parte la gente
cominciò ad arretrare sotto i colpi degli hooligans. Urla di
disperazione, i bambini che piangevano. Non mi era mai capitato
di assistere a scene del genere".
In pochi istanti il terrore s’impadronì dello stadio.
Saverio Palladino fa quasi fatica a descrivere quei terribili
momenti. La sua voce è rotta dall’emozione: "Sembrava una
guerriglia, ci fu una calca tremenda.
Alcuni si lanciarono nel vuoto per
evitare di rimanere schiacciati, molti furono costretti ad
ammassarsi verso l’ormai famoso muro di cinta che delimitava la
parte destra della curva. Quel muro che poi cedette sotto il
peso della folla, causando numerose vittime. Vidi anche degli
spettatori che per fuggire e trovare un varco calpestarono altre
persone. Io, nonostante fossi in preda al panico e avessi una
mano sanguinante per essere stato colpito da una bottiglia rotta
lanciata dagli inglesi, rischiai di essere travolto sotto la
spinta di coloro che erano alle mie spalle.
Per fortuna riuscii a raggiungere il terreno di gioco
attraverso una breccia nella rete di recinzione ormai
pericolante. Nella foga del momento trascinai letteralmente con
me un ragazzo diciottenne. Soltanto dopo mi resi conto di
avergli salvato la vita, anche se nella confusione generale
persi le sue tracce. Quando misi piede sul campo tirai un
sospiro di sollievo. Girai lo sguardo verso la curva: i tifosi
inglesi continuavano a caricare incontrastati, mentre i pochi
poliziotti in servizio erano pressoché inermi. E sulle
gradinate, negli spazi rimasti vuoti, c’erano alcuni corpi
esanimi mentre dall’altra parte giungevano i lamenti delle
persone ferite. Scene raccapriccianti".
Le proporzioni della strage furono chiare soltanto nelle
ore successive. Lo intuì anche Saverio Palladino che, dopo aver
attraversato il campo, cercò riparo in tribuna d’onore. "Dietro
di me vedevo ancora quel tappeto di scarpe che si era formato
davanti alla curva. Gli infermieri mi curarono la ferita alla
mano con tre punti di sutura. In tribuna mi ritrovai al fianco
di Boniperti, dell’allora ministro De Michelis e di altre
personalità. C’era tanto caos. Quello che non dimenticherò mai
fu la drammatica elencazione del numero dei morti. Di minuto in
minuto un portavoce comunicava alle autorità presenti
l’aggiornamento: prima sette, poi nove, poi quindici, infine
oltre trenta. La tragedia si era compiuta. Stetti malissimo. Mi
venne un groppo in gola. Finalmente rividi i miei amici
bitontini: ci stringemmo forte, con le lacrime agli occhi".
La finale fu giocata ugualmente per evitare ulteriori
tensioni e incidenti. Vinse la Juve, con un rigore contestato
che Platini trasformò in gol. "Mi ricordo che Boniperti non
voleva che si giocasse", dice Palladino: "Poi prevalse la
decisione dei dirigenti UEFA e delle forze dell’ordine belghe.
Io assistetti alla partita passivamente. C’era un clima
surreale. Pensavo a quanti avevano perso la vita. Mi sembrava
tutto irrazionale, soprattutto l’esultanza dopo il gol della
Juve. Ero preoccupato perché non riuscivo a telefonare a mia
moglie Rosa. Io e i miei amici uscimmo dallo stadio al fischio
finale. Preferimmo non vedere la premiazione. Avevo un piede
scalzo, trovai una scarpa di fortuna e mi diressi verso il
pullman. All’aeroporto rimasi esterrefatto e inorridito nel
vedere su un quotidiano belga la foto di quel sostenitore
juventino, con la sciarpa al collo, mentre piangeva
disperatamente davanti al corpo senza vita di un amico".
Il gruppo dei tifosi che era partito da Brindisi si
lasciò alle spalle il "buio" dello stadio Heysel: "Alle 9 del
giorno dopo tornai a casa, abbracciai forte mia moglie Rosa e il
piccolo Gianluca che allora aveva 5 anni (in seguito nacque
Maria Rosaria N.d.R.). Ci fu un pianto liberatorio. Ma il
ricordo di quella tremenda esperienza mi aveva segnato. Per
quasi sei mesi continuai ad avere gli incubi. Avevo ripetuti
attacchi di panico. Un tormento quotidiano che sono riuscito a
rimuovere con il passar del tempo. Da allora decisi di non
andare più allo stadio per paura che potesse accadere di nuovo
qualcosa di brutto, di orribile. Sono rimasto un simpatizzante
della Juve, sono anche contento che abbia rivinto lo scudetto.
Credo, però, che nel calcio ci sia ancora troppa violenza. E se
una persona perde la vita per una partita è assurdo".
29 maggio 2012
Fonte: Famigliacristiana.it
A-Z |
PAOLO
PASELLO
La vergogna dell’Heysel, parla
il rodigino sopravvissuto
di Francesco Saccardin
Rovigo - Trenta maledetti anni ma il
ricordo è ancora li, vivo, incancellabile. Paolo Pasello, ex
vicepresidente dello Juventus club di Rovigo (fondato nell'87 e
attivo fino al 2002, 50 abbonamenti e 750 soci nel momento di
massimo splendore), è uno dei sopravvissuti della tragedia
dell’Heysel, una delle pagine più nere della storia del calcio e
dello sport, 39 morti nella calca che prima della finale
dell'allora Coppa dei Campioni contro il Liverpool provocò il
cedimento di un muretto e il suo successivo crollo. "Abbiamo
comprato i biglietti al costo di 300 franchi - inizia il suo
racconto - nell'85 ancora non c'era l’Euro, più o meno
l'equivalente di 9mila lire dell'epoca, e siamo partiti in
quattro a bordo di una Ritmo la sera prima, il 28 maggio. Dopo
dodici ore di macchina siamo arrivati a Bruxelles intorno alle 8
del mattino e siamo stati accolti da un imprenditore del luogo
che aveva rapporti commerciali con uno della nostra comitiva.
Poi, dopo una sostanziosa colazione, abbiamo fatto un giro
turistico per la città. Bella, bellissima, come la giornata,
tanto sole, tutto prometteva bene"... È in città, però, che
Paolo vede i primi gruppi di hooligans: "Li conoscevamo di fama.
Avevano già creato problemi di ordine pubblico in Inghilterra,
in tanti erano lì già due giorni, completamente ubriachi...
C'era gente che beveva birra e girava con casse di alcolici fin
dalla mattina. Detto questo, comunque, nulla che lasciasse
presagire quello che
sarebbe
successo dopo...". È il "dopo", per il signor Pasello, inizia
alle 17, quando, posati armi e bagagli, il gruppo fa finalmente
il suo ingresso allo stadio. "Ci siamo resi subito conto che la
situazione poteva essere problematica - prosegue - ingressi
strettissimi, nessuno a dare indicazioni e nemmeno a obliterare
il ticket che fatto è rimasto intatto, ma soprattutto polizia a
cavallo schierata all'esterno ma nessun agente dentro. Nemmeno
uno"... Paolo prende posto con gli amici in curva "O": "E' stata
la sorte a decidere per noi, vedevamo dalla parte opposta del
catino dello stadio la curva Z, la famigerata curva Z, quella
divisa a metà da una rete metallica posticcia e provvisoria,
tirata su alla bell'e meglio e che poi sarebbe crollata sotto il
peso dei tifosi. In ogni caso, fino alle 19.30, tutto è stato
tranquillo, in campo giocavano due squadre di ragazzini, fino a
un'ora prima della partita ancora non era successo nulla"… Poi,
al fischio finale di quel mini match, la tragedia, improvvisa.
"Gli inglesi - spiega Pasello, ancora provato nonostante siano
passati trent'anni - hanno preso a ondeggiare senza motivo
spingendo sulla rete. Due terzi della curva Z era riservata a
loro, erano tanti, e in troppi già ubriachi, i nostri nella
paura di entrare a contatto con gli hooligans hanno arretrato
fino al muretto divisorio"... Il resto è storia: in 39 muoiono,
chi travolto nella calca, chi cadendo dal parapetto, altri
schiacciati dal muretto che collassa sotto il peso della folla.
"Nessuno di noi si è reso conto di nulla - riprende Paolo - il
passaparola ha iniziato a parlare prima di uno, poi forse di due
morti, vedevamo gente in campo e quando la polizia, sempre a
cavallo, ha fatto il suo ingresso nel terreno di gioco, abbiamo
deciso di uscire. Temevamo potessero sospendere la gara e che
all'uscita si scatenasse la guerriglia, sapevamo già di quello
che pensavamo fosse solo un morto e volevamo avvisare casa"...
Il gruppo inforca la metro e raggiunge la stazione centrale ma è
solo chiamando in Italia che realizzano che ci sono 39 vittime e
che la gara, sciaguratamente, qualcuno ha deciso di farla
giocare lo stesso. "Siamo entrati in un bar e abbiamo visto
tanti inglesi piangere per la rabbia e la vergogna - racconta
ancora Pasello come un fiume in piena - io mi sento ancora un
miracolato, c'era gente di Rovigo tra i morti e sarebbe bastato
che i nostri biglietti fossero in curva Z per trovarsi
all'inferno. Una cosa però, a distanza di tempo, mi fa pensare:
anche se hanno dovuto toccare il fondo e qualche anno dopo ci
sono stati altri morti a Sheffield, gli inglesi il problema
della violenza negli stadi lo hanno risolto in modo radicale e
definitivo. Loro, come gli olandesi - conclude Paolo - non hanno
più avuto problemi che invece certi loro pseudo tifosi hanno
continuato a creare altrove. È questo anche per colpa di Paesi
come l'Italia, dove questo genere di comportamento viene
tollerato e non considerato come Oltremanica"...
28 maggio 2015
Fonte: Rovigooggi.it
A-Z |
ATTILIO PAVONE
Attilio, il ragazzo che riuscì
a salvarsi
"Sarò a Berlino"
di Giuseppe Salvaggiulo
"Quando
penso all’Heysel, mi rivedo sulla pista di atletica, dopo essere
passato accanto ai cadaveri. Un interminabile mezzo giro di
campo verso la salvezza. Il ricordo più definito è una
sensazione indecifrabile. Una sospensione temporale ed emotiva,
chissà quanto lunga, pochi minuti o mezz’ora fino alla supplica
ai giocatori: "Non giocate"". Quindici anni fa Attilio era un
ragazzo che viveva a Taranto e sognava la Juventus: sua madre,
trovati due biglietti, lo accompagnò a Bruxelles. Oggi
l’avvocato Pavone vive a Milano, è sposato, ha un figlio di 4
anni e sogna ancora la Juve, al punto da lottare per ore con il
computer per assicurarsi un biglietto per Berlino. Attilio e sua
madre arrivano in pullman a Bruxelles dopo due giorni di
viaggio. "È ancora giorno: coda caotica, poliziotti a cavallo
derisi dai tifosi, stadio decrepito. L’ingresso è una piccola
porta di legno. Gli addetti al controllo rinunciano e fanno
passare tutti. Finalmente siamo dentro. Settore Z, a metà: sarà
la nostra salvezza. A sinistra la curva degli inglesi, divisa da
una specie di rete da pollaio. Precaria e sinistra, a
ripensarci, ma in quel momento non lo penso. Sono troppo felice.
Invece cominciano a staccare mattoni e a lanciarli su di noi. La
folla ondeggia, la rete s’affloscia. Gli inglesi invadono il
settore Z. Botte. Panico. Senso di impotenza. Chi può, fugge.
Corri e corri e si cade tutti insieme. Resto intrappolato in un
cumulo umano. Perdo di vista mia madre. Gente sopra e sotto,
voci disperate, una mano che ci tira su, uno per uno. Rivedo mia
madre. Passiamo nel varco sulla pista. L’istinto ci dice di
andare il più lontano possibile. Sguardi persi, gente che
piange, volti insanguinati, ambulanze. Più avanzo, più capisco:
non so quanti, ma ci sono morti. Ora li vedo. Ci dicono che si
giocherà e ci viene proposto un posto sicuro nella curva
bianconera. No, vogliamo solo uscire. Finalmente siamo fuori.
Incrociamo il giornalista Gianni Minà e gli chiediamo di
telefonare a casa per dire "siamo vivi". Torniamo sul pullman. A
bordo solo io e mia madre, in silenzio per due ore. Quando tutti
ci raggiungono, resta un posto vuoto con un borsello da
riportare in Italia". Per Attilio quella partita non s’è mai
giocata. "Nella mia testa è la contraddizione insuperabile tra
sogno e tragedia. Negli anniversari mi torna in mente solo
l’immagine della pista di atletica". La madre "ha coltivato per
anni il senso di colpa di aver messo in pericolo la sua e la mia
vita. Ingiustamente, lei juventina che aveva corrisposto a un
mio desiderio. Aveva paura che andassi allo stadio. Non mi
chiedeva di rinunciare, sperava lo facessi io. Tre anni fa le ho
detto che mi abbonavo allo Stadium, spiegandole che è sicuro.
Quest’anno l’ho convinta: per la prima volta dopo 30 anni, è
tornata allo stadio. Accanto a me. Il prossimo desiderio è farlo
con mio figlio Emilio".
29 maggio 2015
Fonte: La Stampa
A-Z |
FIORENZO PELOSO
Trent’anni dalla tragedia
dell’Heysel
Un testimone: vergogna e
meschinità
A trent’anni dalla tragedia
dell’Heysel, quando 39 tifosi (32 italiani) morirono in una
ressa scatenata dagli hooligans del Liverpool a Bruxelles prima
della finale di Coppa Campioni tra gli inglesi e la Juventus il
29 maggio 1985, pubblichiamo il ricordo di Fiorenzo Peloso,
bergamasco che ora vive in Nuova Zelanda, testimone di quella
giornata orribile. Se anche voi avete una testimonianza
significativa di quella tragedia scriveteci a
redazioneweb@eco.bg.it.
In quella trasferta ero
l’accompagnatore della squadra della Juventus, compresi
dirigenti e giornalisti al seguito. Organizzai la trasferta:
partimmo da Ginevra con un Caravelle dell’Air France, nel
tragico giorno dopo assistetti alla peggiore rappresentazione di
un’umanità disumanizzata intorno a uno sport che di sportivo non
aveva più nulla. A distanza di 30 anni non riesco a dimenticare
la somma incredibile di meschinità di cui fui testimone e di cui
ora racconterò alcuni dettagli. I FERITI IGNORATI - Uscendo
dallo stadio sul pullman scortato dalla polizia nessun giocatore
e dirigente della squadra, nonostante la mia insistenza, volle
fare una breve visita alle centinaia di feriti ricoverati negli
ospedali di Bruxelles, si parlava di almeno 500. LA BANCARELLA -
Il venditore di hot dog davanti all’ingresso della tribuna a
fianco della curva Z era visibilmente infastidito che si
stendessero davanti alla sua bancarella alcuni cadaveri, tutti
color nero perché morti soffocati. Lui aveva pagato caro quella
posizione e stava rimettendoci i soldi. LE MANGANELLATE - I
poliziotti che manganellavano fanaticamente quei feriti che
erano riusciti fortunosamente a scavalcare la rete del campo di
calcio per fuggire al lancio di bottiglie di birra degli
hooligans, perché nel campo di gioco si entrava solo con il pass
autorizzato. L’AMBULANZA - L’autista di un’ambulanza bianca
irritato perché insistevo a caricare una ragazza con una gamba
spezzata che portavo in braccio, mi spiegava che lui era
arrivato lì per ultimo e quindi dovevo rivolgermi all’altra
ambulanza, lontana circa una 50 metri: era questione di rispetto
della precedenza. I RESIDENTI - Quei 4 ignobili abitanti di
Bruxelles che nelle vicinanze dello stadio si rifiutarono di
aprirmi la porta per farmi fare una telefonata di emergenza
all’Hotel Hilton affinché informassero l’organizzazione di
Torino della gravità della situazione, gridarono da dietro la
porta "merde a les italiens". L’UEFA - I 4 responsabili
dell’Uefa che davanti alla porta della tribuna d’onore mi
impedirono fisicamente di salire le scale fino al primo piano
dove c’erano i box dei cronisti, per avvisarli che fuori già si
contavano almeno una dozzina di morti soffocati. Peraltro c’è da
osservare che nessuno di loro si premurò di scendere fuori per
constatare cosa stava accadendo. LA SOSPENSIONE - Fu una bugia
colossale che la partita non poteva essere sospesa, il vero
problema sarebbero stati i rimborsi dei biglietti e dei diritti
televisivi. Fu deciso a tavolino che la finale non poteva essere
vinta dal Liverpool. E così fu a imperitura vergogna. PLATINI -
E poi la "perla" dell’indimenticabile frase dettami sottovoce da
Platini all’aeroporto: "ne muoiono di più sulle strade, perché
fare tanto casino". LA GAFFE - Infine nel volo di ritorno lo
steward di Air France disse due parole al microfono per
congratularsi con i giocatori e tradusse malamente dal francese
la frase "bravi voi che avete vinto", ma ne uscì con
involontaria ironia "Bravi voi che ci avete guadagnato" (gagnez
= vincere in francese), al che molti giornalisti a bordo
applaudirono sarcasticamente, poiché nessun giocatore aveva
manifestato l’intenzione di rinunciare ai 150 milioni del premio
partita per destinarli ai familiari dei morti e dei feriti.
Un’esperienza che mi ha regalato un’indelebile ferita
confermando la distanza siderale che esiste tra "quel" calcio
professionistico e caino e lo sport autentico e leale. Chi può
mi aiuti a convincermi che "l’ambiente" è cambiato.
25 maggio 2015
Fonte: Ecodibergamo.it
A-Z |
MARCO
PIUMI
HEYSEL - Il viaggio, gli
spalti, la Coppa
Aspettavo
quel giorno da mesi, era finalmente arrivato, si parte per
Bruxelles, domani si gioca la finale di Coppa dei Campioni. Il
percorso della stagione era stato come tutti auspicavano, senza
incertezze, decisi a prendersi la coppa maledetta, che ci era
sfuggita due anni prima. Nessun dubbio che questa sarebbe stata
la volta buona, ne eravamo tutti convinti, anche dopo aver
battuto gli inglesi nella Supercoppa Europea giocata tra il
ghiaccio e la neve. Ho trovato due posti per la finale, per me e
mio fratello, grazie a Gianni, un amico di famiglia che conosce
personalmente Perruquet, lo storico presidente del Juventus Club
di Via Bogino, il più importante d’Italia. Si viaggia in pullman
con partenza da Piazza Castello alle 20 di Martedì sera, siamo
con l’autobus numero 1. Nella piazza ci saranno almeno 20
pullman, una enorme carovana pronta a viaggiare tutta la notte
per portare il tifo bianconero in Belgio. Si notano le
bancarelle in tutta la piazza, il clima è festoso, ci sia avvia
verso la speranza di una vittoria. Si parte e partono i cori
dentro il bus, comincio a pensare che sarà una lunga notte…
Qualcuno ha perfino una tromba da stadio, con cui ci rintrona
ogni 10 minuti. Passano le ore e la stanchezza prende il
sopravvento, e si cerca di dormire, tra un coro, una
strombazzata ed uno scherzo. Si scherza con un tifoso, un po’
sovrappeso, che dorme con la bocca aperta. La sorte sarà avversa
per questo ragazzo: morirà in un incidente stradale in Corso
Appio Claudio a Torino a bordo della macchina guidata da Favero
difensore bianconero. La sua passione per la Juve lo trascinerà
alla morte, ma purtroppo non sarà il solo… Ci si sveglia al
mattino, molto arruffati (dormire in pullman non è certo il
massimo), ma il pensiero della partita serale ci fa ripartire di
slancio. Guardo fuori dal finestrino, siamo ancora in autostrada
in Francia. Arriviamo alla frontiera tra Francia e Belgio, il
doganiere non ci controlla grazie ai numerosi regali (sciarpe,
foto, bandiere…) e ci fa "Forza Juve" "Forza Platini" !!! Penso:
"Bello passare la dogana così… E se portavamo droga od altro?"
!!! Siamo in Belgio, ed in poco tempo arriviamo a Bruxelles,
sono le 12 circa, ed appena si passa per le vie del centro
notiamo che tutti i pub sono pieni di inglesi che si stanno
riempiendo lo stomaco di birra !!! Il clima è comunque festoso,
noi parcheggiamo non molto distante dalla zona dello stadio,
vicino all’Atomium. Prendiamo un tram ed andiamo verso un
ristorante italiano, che ci sta aspettando, per pranzare. Noto
che la polizia belga ci segue, ci controlla assiduamente, forse
pensano che possiamo fare qualche casino. Mangiamo, riesco a
telefonare a casa, dico che va tutto bene. Mia mamma qualche
giorno prima della partita mi aveva chiesto ragguagli sullo
stadio, su come era fatto, se era sicuro. Le faccio vedere
alcune foto sul Guerin Sportivo, in cui si vede una struttura
abbastanza moderna con seggiolini nelle tribune principali. So
che dovremmo avere posto nella tribuna frontale a quella
principale, spostati verso la curva dei tifosi della Juve. Le
dico che andremo in una tribuna, facendole capire che è
l’equivalente del settore denominato Distinti dello Stadio
Comunale. Finito di mangiare vorremmo andare verso il centro, ma
ci dicono che è meglio non andarci, poiché sembra che gli
inglesi abbiano mezzo demolita la piazza principale di
Bruxelles, la Grand Place. Volevo vedere il Manneken Pis, la
statuetta simbolo della città, praticamente un pupetto che fa la
pipì, ma ci dicono che è meglio di no. Passa il tempo, si prende
la metropolitana per tornare verso la zona dello stadio, e
dentro ci sono parecchi tifosi inglesi. Il clima è veramente
molto festoso, ci scambiamo sciarpe, cappellini, praticamente
all’uscita dal trenino della metro sembro più un tifoso del
Liverpool, che della Juve !!! Si va verso il bus, e gli addetti
del club ci danno una sciarpa a testa, con la scritta che
ricorda l’evento, ci danno una bandierina bianconera da mostrare
quando entreranno le squadre in campo, insomma ci rivestiamo da
juventini. Poso le sciarpe inglesi ed il cappellino, che ho
scambiato prima, nella mia borsa sul pullman: le porterò a casa
come ricordo. Il gigantesco Atomium sovrasta la zona del
parcheggio dei bus, è uno dei simboli di Bruxelles, ricorda la
struttura atomica del Ferro. Essendomi diplomato da poco come
Perito Chimico, lo osservo con curiosità. Andiamo a piedi verso
lo stadio, già penso all’atmosfera dentro l’impianto ed il cuore
comincia a galoppare. Fuori dallo stadio, vediamo decine e
decine di tifosi inglesi letteralmente stesi a terra,
completamente ubriachi. Si sente nettamente l’odore di Birra, ma
non ci facciamo troppo caso, oramai la palpitazione del momento
ci
assale, la voglia di essere lì dentro ad assistere alla Finale
sovrasta ogni altro pensiero. Ho la mia sciarpa, la bandierina,
mio fratello ha anche una trombetta da stadio che è stata
portata fino a lì quasi senza mai usarla, per non sprecare
neanche un alito di gas, con l’idea di usarla solo durante la
partita. Ai controlli, ci sequestrano subito la bandierina alta
40 cm, e chiaramente anche la trombetta, tra lo sbigottimento di
mio fratello e la rabbia per questo sopruso. Se questo serve per
garantire la sicurezza, pazienza pensiamo, però cosa ci facevamo
con la bandierina di tanto pericoloso ? Entriamo nella tribuna,
ed alla nostra sinistra notiamo la curva completamente piena dei
tifosi della Juventus. Guardo a destra e noto la curva del
Liverpool, ma vedo anche che un terzo della curva è piena di
altri tifosi della Juve. Il primo pensiero è che siamo talmente
tanti juventini, che oltre alla curva, alla nostra tribuna, ci
hanno assegnato anche un altro settore. Praticamente c’erano
tifosi della Juve ovunque tranne in quei 2/3 della curva alla
mia destra. Manca un’ora e dalla curva della Juve alcuni ultras
cominciano a fare casino, tutti pensano che possa portare bene,
poiché la stessa cosa era successa l’anno prima a Basilea per la
finale di Coppa delle Coppe vinta con il Porto. Dopo un po’ di
baruffa tra ultras e poliziotti, tutto torna calmo, ed il tifo
si accende. Passa poco tempo e vediamo qualcosa ondeggiare nella
curva inglese, e notiamo che i tifosi bianconeri nello spicchio
a loro riservato, si spostano verso sinistra. Comincia una serie
di cariche da parte dei tifosi inglesi. La rete che divide le
due tifoserie ondeggia sotto la spinta degli inglesi. I tifosi
bianconeri si stringono sempre di più. La polizia non fa nulla,
anzi è completamente schierata verso la curva dei tifosi della
Juve. Cominciamo a gridare alla polizia, di fare qualcosa, di
intervenire, basterebbe poco per sedare queste cariche, forse
anche solo un idrante, ma niente. Entra sul terreno di gioco la
polizia a cavallo, e la scena ha del surreale, continuiamo a
gridare verso i poliziotti, ma dopo poco vediamo in lontananza
crollare un muretto esterno e vedo precipitare un tifoso fuori.
Poi il caos, non capiamo più nulla, non si percepisce cosa stia
accadendo. Dopo un po’ vediamo parecchi tifosi in campo, a quel
punto interviene la polizia che tenta di respingere questa
folla, cercandola di rispedirla nella tribuna. Non capiamo
nulla, quello che si era visto bene, erano gli assalti dei
tifosi del Liverpool verso quelli bianconeri, ad ondate durate
almeno 10 minuti. Mio fratello si volge verso di me e mi dice:
"Per una volta che andiamo a vedere una Finale, deve succedere
tutto questo casino ?". Lo penso anch’io, ma mi preoccupo, ho la
responsabilità di mio fratello che è più piccolo, penso a chi è
a casa e teme per noi. Assieme a noi c’è anche Gianni, che ci ha
procurato i posti, e con lui il figlio molto piccolo. A questo
punto non si capisce veramente se la partita si farà o meno,
passa il tempo, si vede di tutto in campo, poliziotti, addetti
alla sicurezza, assistenti sanitari, fotografi: una evidente
confusione. Molti tifosi della curva della Juve cercano di
entrare in campo, vengono respinti, ne vedo nitidamente uno
indicare con la mano e con disperazione quello che è accaduto ad
un poliziotto. Noi non capiamo, l’impressione è che sia crollata
la recinzione e che i tifosi siano entrati in campo, spinti
dalla foga dei tifosi del Liverpool, non percepiamo il dramma.
Dopo un po’ qualcuno in tribuna dice che ha sentito notizie di
morti, poi di solo feriti, insomma, nessuna informazione certa.
Ad un certo punto l’altoparlante dello stadio ci informa che
parleranno i due capitani delle squadre: finalmente sapremo
qualcosa. Parla Scirea: ci dice di stare tranquilli, che si
giocherà, che si giocherà per la sicurezza, si giocherà per voi.
Si è persa la concezione del tempo, non ci rendiamo conto che è
passata un’ora o un’ora e mezza dall’orario stabilito per
l’inizio della partita (allora si giocava alle 20,15). Quello
che notiamo è che il settore dei tifosi della Juve nell’altra
curva, ora è completamente vuoto, rimangono solo tracce di
sciarpe, bandiere, striscioni. Entrano finalmente i giocatori in
campo, si pensa solo alla partita ora, ma non è la stessa
emozione che pensavamo di provare, lo sgomento per quello che
era successo ci privava di qualcosa atteso febbrilmente da
giorni. La partita inizia, si tifa come fosse una partita
normale, si grida, si esulta per il rigore di Platini, si soffre
per gli attacchi del Liverpool e per le parate di Tacconi, si
gioisce al fischio finale. Abbiamo vinto la nostra prima Coppa
dei Campioni !! Ma vediamo rientrare velocemente tutti i
giocatori negli spogliatoi, ed il pensiero di tutti è: "ma la
Coppa ?" Dopo un po’ rientra in campo Scirea con la Coppa e la
porta sotto la curva dei tifosi della Juventus, dietro a lui ci
sono gli altri giocatori, ma non si festeggia come al solito,
comunque fanno un giro verso le tribune esibendo il trofeo.
Quando escono dal campo, noto che la
curva dei tifosi del Liverpool è completamente vuota, hanno
approfittato di questi momenti per far andar via i tifosi
inglesi e per evitare scontri ulteriori. Questa sarà l’unica
cosa sensata che questa improvvida organizzazione avrà
realizzato in quell’infausta giornata. Ci fanno uscire dallo
stadio, ed i pensieri si accavallano tra la preoccupazione per
quello che è successo e che non comprendiamo completamente e per
la preoccupazione di chi stava a casa ed ha visto ciò in tv. Il
mio pensiero è rivolto ai miei genitori a casa che sanno di
avere i loro due figli a Bruxelles, in quella maledetta serata.
Mi rasserena il fatto di averli informati riguardo il settore
che ci spettava e che per fortuna non era assolutamente stato
interessato da alcun problema. Torniamo al pullman, e qualcuno
cerca di telefonare a casa, ma tutta la zona sembra
completamente isolata dal resto del mondo. Verso le 3 della
notte, il nostro amico Gianni riesce a contattare la moglie e
tramite lei la mia famiglia: sono un po’ più tranquillo, adesso
sanno che stiamo bene !!! Si parte in piena notte verso Torino,
un viaggio ben diverso da quello del giorno prima. Mi sveglio il
mattino e dopo poco ci fermiamo ad un autogrill in Francia.
Entriamo per fare colazione, ma lo sguardo dopo poco è sui
giornali lì presenti. Vedo foto tremende, corpi travolti uno
sopra l’altro, cadaveri, disperazione. E’ come se mi avessero
dato un colpo allo stomaco, rimango esterrefatto, comincio a
collegare quello che ho visto con queste foto, ed il risultato è
atroce. Leggo il numero dei morti, ed è un’altra mazzata dentro
! Capisco realmente cosa è accaduto, cosa è successo in quella
curva, i pensieri scorrono e ricostruiscono una vicenda che
sembrava brutta, ma che ora era completamente devastante.
Riprendiamo il viaggio, ormai più triste che mai, e noto davanti
al mio posto, una borsa, mi informo e mi dicono che era di uno
delle vittime che aveva viaggiato con noi !!! Sempre peggio,
penso, poteva capitare a ciascuno di noi, solamente la fortuna
di avere un posto in una tribuna anziché in quella maledetta
curva, ci aveva salvato la vita ! A questo punto non vediamo
l’ora di tornare a casa dalla propria famiglia, di non pensare
più a nulla, di cercare di sopravvivere ai pensieri e ai
ricordi. Arriviamo verso le 20 di sera a Torino, in Piazza
Castello, da dove eravamo partiti due giorni prima, che adesso
sembrano una vita fa. La piazza è piena di gente, sono già
arrivati tutti gli altri autobus, e molti chiedono informazioni.
Sembriamo dei reduci da una guerra ! Ci chiedono come stiamo, se
abbiamo notizie di Tizio e di Caio, scene mai viste prima ! Vedo
anche un arbitro famoso che cerca tra i pullman in arrivo
probabilmente i suoi figli. Ho fretta di tornare a casa con mio
fratello, ho fretta di dimenticare tutto, di cancellare quello
che non dimenticherò mai! Però l’abbraccio di mia mamma a me e a
mio fratello non lo dimenticherò mai!
29 maggio 2015
Fonte: Juventibus.com
A-Z |
BRUNO
PIZZUL
"Mai più un nuovo Heysel"
Ci
sono, sedimentate nel ricordo, esperienze che lasciano tracce
profonde, che si vorrebbe poter cancellare. Ma non si può, non
si deve. Heysel: per me la sola parola evoca sensazioni
angosciose, un disagio che riguarda la sfera della coscienza,
l'aspetto umano. Sono passati vent'anni da quella terribile
notte in cui, per una partita di pallone, ci furono 39 morti e
un'infinita scia di dolore. Confesso un costante senso di
imbarazzo quando vengo sollecitato a ricordare ciò che accadde,
anche perché, in piena buona fede, mi si chiede una
testimonianza di carattere professionale: quali difficoltà
incontrai nel raccontare quella tragedia, che problemi ebbi per
comunicare nel modo meno traumatico la drammatica realtà. E
invece dentro di me è restato solo lo sgomento per l'assurda
tragedia, l'inaccettabile sensazione che ci fossero morti e
feriti, lutti e lacrime in un contesto che, nonostante la
sovreccitazione che spesso caratterizza il tifo sportivo,
avrebbe dovuto essere di festa, di condivisione di un momento
ludico. Certo, l'aspetto professionale non fu facile, anche
perché le notizie arrivavano in maniera contraddittoria e c'era
l'ovvia esigenza di comunicarle quasi centellinando il flusso
informativo, nel tentativo di preparare un po' alla volta quanti
stavano ai teleschermi e magari avevano parenti e amici in
quello stadio, a una realtà che andava facendosi di momento in
momento più dolorosa. Ricordo, per esempio, quanto mi costò
decidere di non far parlare al microfono i pochi che, raggiunta
la postazione, mi chiedevano di poter far sapere ai parenti che
erano vivi, che se l'erano cavata: è stato molto duro vietare
quel naturalissimo desiderio di tranquillizzare mamme, mogli o
amici; ma decisi, non so se a ragione o a torto, che se avessi
attivato quella specie di improvvisato e comunque parziale ponte
radio-televisivo, avrei involontariamente contribuito a gettare
nella costernazione e nell'angoscia le migliaia di mamme, mogli
o amici cui non poteva pervenire alcun messaggio personale
rassicurante. Molto poi mi colpì il racconto commosso di
monsignor Pierino Carnelli, indimenticato testimone della Chiesa
nel mondo dello sport professionistico: mentre la terribile
serata volgeva ormai al termine, incontrò l'allora presidente
della Juventus Boniperti il quale, tra le lacrime, gli confidò
che, subito dopo il fatale crollo di quel muro, si era
precipitato tra i feriti e i moribondi e tutti gli chiedevano di
trovare un prete, per l'ultimo conforto. "E io non ho saputo
trovarlo", si rammaricava. Di quella tragica notte molto si è
parlato, spesso in termini di cruda ricostruzione giornalistica.
Sono state individuate responsabilità, formulate accuse di ogni
genere. Ma, ripeto, credo che sarebbe opportuno soprattutto
utilizzare quei dolorosissimi ricordi per comprendere come sia
indispensabile accompagnare la propria passione sportiva con il
corredo della tolleranza, della buona educazione, della
consapevolezza che gli stadi sono luoghi a rischio. Da ultimo
non posso non riferire un altro motivo di profonda amarezza: mi
ero convinto che l'enormità di quanto accaduto avrebbe, almeno
per un po', indotto i tifosi a comportamenti più riflessivi e
maturi. Invece nulla cambiò, anzi ci furono addirittura
insopportabili strumentalizzazioni dettate dal mai abbastanza
deprecato "tifo contro". Brutto da dire, doloroso da ricordare.
Ma dobbiamo comunque avere la forza e la costanza per urlare
"mai più un nuovo Heysel".
28 maggio 2008
Fonte: Juvenews.net
La testimonianza del cronista televisivo di quel 29
maggio 1985, finale di Coppa Campioni.
Ho sperato di cancellare le immagini dell'Heysel, ma è
una ferocia impossibile
di Bruno Pizzul
IL RICORDO - Si dice che il tempo finisce per scalfire a poco a
poco i ricordi di qualsiasi tipo, attenuandone significati e
impatti emotivi. C’è del vero nell'assunto, ma resta la
constatazione che esistono fatti i quali mantengono un proprio
vigore permanente nel tempo, per la gravità dell'evento e le
circostanze particolari in cui maturarono. Di sicuro quel che
avvenne a Bruxelles il 29 maggio del 1985, sinteticamente
individuato come Heysel, rappresenta un momento che continua a
evocare un cumulo di sentimenti e di risentimenti, dolore per le
vittime, dispetto e scandalo per il modo colpevolmente
inadeguato con cui si fronteggiò una situazione che avrebbe
potuto e dovuto essere gestita in modo diverso. I 39 morti,
quasi tutti italiani, persero la vita in modo assurdo,
sacrificati dalla colpevole superficialità delle autorità
belghe, del tutto impreparate a controllate il gran numero di
tifosi inglesi e italiani arrivati a Bruxelles per vedere la
finale di Coppa Campioni tra Liverpool e Juventus. Quello che
accadde è stato ricostruito con crescente precisione per
l'enorme impressione e commozione che provocò, quanti erano
presenti in quello stadio allora fatiscente e inadeguato e la
miriade di telespettatori impietriti dal susseguirsi di immagini
via via più crude vissero una serata terribile. Confesso di
avere più volte coltivato la speranza di poter cancellare dalla
mia memoria quelle tragiche sequenze che mi videro coinvolto in
quanto responsabile della telecronaca diretta di un evento
sportivamente molto atteso ma che poi ebbe tragica conclusione.
Ma mi rendo subito conto che quello che accadde, proprio per la
sua assurdità e ferocia, non può e non deve passare nel
dimenticatoio, dovendo trasformarsi in monito per una diversa e
più responsabile partecipazione alle vicende sportive. In
effetti poi, anno dopo anno, constato di esser stato colpito da
una vera e propria ferita nella mia coscienza di uomo, prima e
più ancora che nei ricordi di cronista impegnato in un complesso
compito. Mai infatti ho sentito di peso di quel lavoro svolto in
modo inconsueto e in un contesto particolarissimo, mi sono
piuttosto sentito schiacciato dall'assurdità di essere arrivato
in una bella e civile città europea per raccontare le emozioni
di una partita di pallone e aver invece dovuto dire di 39 morti
e centinaia di feriti. Credo che sia inutile insistere sugli
errori, omissioni e leggerezze della autorità belghe, così come
non mi pare il caso di riandare a certe polemiche riguardanti la
mia telecronaca, da alcuni giudicata troppo portata a
compiacimenti di natura sportiva, quasi a sminuire l’aspetto
luttuoso. Accadde quel che mai e poi mai sarebbe dovuto
accadere, ma come ho spesso detto e ripetuto, sono rimasto
profondamente deluso e addolorato dalla constatazione che quei
tragici eventi anziché generare, almeno per un po' di tempo, una
presa di coscienza degli appassionati di calcio, inducendoli a
comportamenti più cortesi ed educati, si trasformarono in
indecorosa occasione per insultare le vittime e la squadra di
appartenenza, auspicando il ripetersi di altre carneficine del
genere. Assurda espressione del mai abbastanza censurato tifo
contro. Parche si giocò quella maledetta partita, perché i
giocatori scesero in campo pur sapendo sia pure in parte
l'accaduto, perché poi gli juventini non lasciarono la coppa
vinta in qualche modo davanti alla curva Zeta, perché io feci la
telecronaca anziché trincerarmi In luttuoso silenzio ? Sono
interrogativi ai quali ognuno può dare una risposta e che il
prossimo anno torneranno di attualità. Certo è che vivere i
ricordi di quel Juventus-Liverpool a stadi vuoti, e per ora non
di soli spettatori, assume un sapore del tutto particolare. In
ogni caso Heysel da non dimenticare, per me come per tutti.
28 maggio 2020
Fonte: La Stampa
A-Z |
MICHEL PLATINI
L'incubo Heysel
Arriviamo
allo stadio due ore e mezzo prima della partita, l'atmosfera è
tranquilla. Le tribune stracolme, entriamo in campo per salutare
i nostri tifosi. Chi avrebbe potuto immaginare quello che
sarebbe successo di lì a qualche ora ? Fine di un sogno - Heysel
resterà per sempre la partita che non avrei mai voluto giocare,
la fine di un sogno, quello in cui il calcio - nonostante i
soldi, gli interessi, le televisioni - rappresenta ancora un
gioco, un divertimento. Quella tragica notte ha cambiato per
sempre la mia percezione. Primo ritardo - Mezz'ora prima della
partita, stiamo completando il riscaldamento nei corridoi sotto
le tribune, quando giungono le prime notizie. Confuse, vaghe,
avvolte da mille cautele. Ci sono stati degli scontri tra le
tifoserie, un tifoso è morto, la partita verrà posticipata di
15'. Duplice ansia - Mi sento invaso da una duplice ansia: da
una parte l'impazienza di giocare al più presto la finale della
Coppa dei Campioni contro il Liverpool, dall'altra l'angoscia
per l'insensatezza di ciò che si sta verificando. Accanto a me,
Antonio Cabrini cerca invano di mettersi in contatto con la
moglie. Zbigniew Boniek, solitamente tra i più spensierati prima
di ogni partita, è una maschera di cera. Assurda tragedia - Le
notizie continuano ad arrivare a strappi, disordinate, senza
conferme. La nuova comunicazione ufficiale ci informa che il
calcio d'inizio slitterà di un'ora e mezzo. Ora i morti
sarebbero due, anzi tre, anzi si tratterebbe di feriti gravi. La
verità è che noi siamo all'oscuro della tragedia in atto. Solo
rientrati in albergo, dopo la partita, prendiamo coscienza della
gravità del bilancio. Un'assurdità che mi accompagnerà per il
resto della mia vita. Partita vera - Una volta in campo -
sfidando l'accusa di cinismo - giuro che è stata partita vera.
Almeno questa è la mia impressione. Certo, entrambe le squadre
hanno cercato di limitarsi nelle inutili proteste, ma al momento
del gol, la nostra gioia è stata sincera. Incontenibile. Non
abbiamo saputo trattenerci dall'esultare, a conferma della
nostra ingenuità. Giusto giocare - Per ragioni di ordine
pubblico il trofeo ci viene consegnato nello spogliatoio, mentre
noi vogliamo condividere la gioia con i nostri tifosi, così
torniamo sotto le tribune. Un gesto sicuramente da evitare, se
avessimo saputo cosa era successo. A chi sostiene ancora oggi
che quella finale non doveva essere giocata ricordo la minaccia
di incidenti ancora più gravi. Giocare è stato anche un modo per
stemperare quella folle tensione che si respirava all'interno
dello stadio. Gravi responsabilità - Le responsabilità risiedono
piuttosto altrove. L'Heysel non era uno stadio adatto per una
simile partita. Il giorno prima, visitando l'impianto
nell'ultimo allenamento di rifinitura, eravamo rimasti
stupefatti dalle sue condizioni fatiscenti. Le barriere tra i
settori erano inesistenti. Mancavano le minime misure di
sicurezza. Detto questo, non voglio dimenticare le gravissime
responsabilità di chi, tra i tifosi inglesi, ha attaccato i
tifosi italiani. Heysel mai più - Dopo quella notte il calcio è
cambiato radicalmente. Perdendo la sua originaria purezza, al
prezzo di decine di innocenti, si è dato regole e controlli più
severe. Per chi ha vissuto l'Heysel, viceversa, è come se
qualcosa si fosse rotto per sempre. Non ho più voluto tornare in
quell'impianto, non saprei reggere l'emozione.
28 marzo 2006
Fonte: Uefa.com
A-Z |
PAOLA
POPPI
29 MAGGIO 1985 - 29 MAGGIO 2015
di Paola Poppi
Sono passati trent’anni e ancora oggi
non mi sembra vero che sia potuta accadere una simile tragedia.
Da allora, ogni anno il 29 Maggio il mio primo pensiero è per le
persone che non ci sono più, per le loro famiglie. Ogni anno il
29 Maggio rivivo i momenti e le emozioni di quella giornata che,
man mano che passa il tempo si trasformano, ma non si confondono
e restano ben distinti e scolpiti nella memoria. Ogni anno i
ricordi diventano sempre più nitidi e me li tengo stretti nella
mente e nel cuore per rispetto di chi non è tornato. Ci alziamo
presto, facciamo colazione e siamo allegri e fiduciosi: la Coppa
dalle grandi orecchie ci sembra vicina. Verso le 9 lasciamo
l’albergo dove abbiamo pernottato. Io sono partita da sola, non
conosco nessuno, ma lego subito con un gruppo di ragazzi di
Bologna, Roberto, Antonio e Gabriele. Sono simpatici, tifosi sì,
ma tranquilli. Con me sono molto protettivi e di questo gliene
sarò sempre grata. Mentre raggiungiamo il pullman, incrociamo un
gruppo di tifosi del Liverpool, che vogliono riposarsi un po’
prima di raggiungere lo stadio. Mi sembrano ubriachi. Una
ragazza giovane, bionda, dallo sguardo un po’ perso e gli occhi
gonfi di sonno mi passa vicino. Farfuglia qualcosa. L’allegria
si stempera in moderata preoccupazione. Partiamo per Bruxelles.
Il nostro albergo è vicino al Mare del Nord. Ci vuole un po’ di
tempo. Sul pullman si chiacchiera e si scherza. Ogni tanto si
alza un coro propiziatorio. Siamo ancora sereni e fiduciosi. A
mezzogiorno arriviamo a Bruxelles. La Grand Place è un po’
bianconera e molto rossa. Foto di gruppo tra tifosi delle due
squadre, scambio di sciarpe, cori, ma la birra scorre a fiumi e
preferiamo non partecipare a questo gemellaggio etilico.
Pranziamo in un ristorante greco. I miei nuovi amici apprezzano
il cibo. Io mando giù a fatica due bocconi e lascio lì il piatto
quasi pieno. Ritorniamo verso la Grand Place: è semivuota di
persone, ma piena di bottiglie vuote. Nel primo pomeriggio,
finalmente, partiamo per lo stadio. Ancora chiacchiere, risate,
cori e Forza Juve. Arriviamo allo stadio:
la prima cosa che vediamo è l’Atomium, quasi nessuno sa
cosa sia e io, da brava maestrina, spiego. Quanta gente !
È la finale di Coppa dei Campioni, dai, è normale che ci
sia tanta gente !
Non è normale, però, che la gente vada alla partita con le casse
di birra in mano. Siamo piuttosto preoccupati e ci teniamo
lontani dai tifosi più agitati. Raggiungiamo la zona davanti
alla porta d’ingresso. Mi guardo intorno, scambio un’occhiata
con miei ragazzi (saranno sempre i miei ragazzi, anche se da
molti anni non ci sentiamo più). Abbiamo avuto tutti lo stesso
pensiero: "Ma questo è uno stadio da finale di Coppa dei
Campioni ?"
No, non
lo è ! Adesso sì che siamo veramente preoccupati. E non abbiamo
ancora visto niente ! Ancora non ci siamo dispersi in piccoli
gruppi o a coppie, trascinati da ogni parte dalla folla. Ancora
non abbiamo avuto gli incontri ravvicinati con i cavalli della
polizia belga. Ancora non siamo stati sollevati da terra. Ancora
non… Alle 7 di sera, per mano all’unico ragazzo che è riuscito a
starmi vicino, entro all’Heysel; è già stracolmo di gente e non
sono entrati ancora tutti. Forse siamo già in troppi.
Di fronte a noi, nella curva opposta,
la Z sapremo dopo, c’è un po’ di agitazione. Parte qualche
razzo. La gente si muove. La distanza è troppa per capire
meglio. Quando pensiamo che il peggio sia passato, in pochi
minuti il campo da gioco si riempie di persone che urlano,
scappano, piangono. Non è possibile ! Cosa sta succedendo ? Cosa
è già successo ? Un’ora e mezzo di ritardo, stadio militarizzato
con colpevole
e
tardiva ostentazione di forza: non potevano pensarci prima a
organizzare un servizio d’ordine minimamente decente per
difendere le persone ? Nessuno si era accorto che gli hooligans
erano arrivati da tre giorni e da tre giorni la città e i paesi
vicini vivevano come in una specie di coprifuoco ? Inizia la
partita. Tra la tragedia e la partita, gli appelli dei due
capitani che invitano i tifosi a mantenere la calma e assicurano
che la partita
si
sarebbe giocata di lì a poco. Ciao, caro Scirea. Anche in quel
momento hai dimostrato la tua integrità morale. Si gioca.
Proviamo un po’ di sollievo. Non sappiamo ancora e pensiamo che
se si gioca, forse, non è successo nulla di grave. Cosa sia
veramente successo lo sapremo
più tardi dalla radio del pullman che ci porta
all’aeroporto in una Bruxelles quasi deserta. Tristezza, non
rabbia, ma tanta tristezza in tutti noi. Non si può morire per
una partita di calcio ! Sabato scorso allo Juventus Stadium
hanno ricordato in modo commovente e suggestivo tutte le persone
che non ci sono più. Mi auguro che anche a Berlino, prima della
finale tra Juve e Barcellona ci sia un momento per ricordare
tutti. Mi piacerebbe che la Juventus chiedesse all’UEFA un
minuto di raccoglimento. Il 29 Maggio per me è un giorno
fatidico. Fino a tre anni fa il 29 Maggio era l’Heysel. Dal 2012
il 29 Maggio è anche il terremoto. Sono due date legate da un
filo di smarrimento e di angoscia. Sono stati due tradimenti: il
29 Maggio 1985
il
tradimento del calcio, del mio calcio, il 29 Maggio 2012 il
tradimento della mia terra, l’Emilia, che credevamo immune dal
terremoto e che invece ha fatto crollare tutte le nostre
certezze. Trent’anni dal 29 Maggio 1985, tre anni dal 29 Maggio
2012: non posso e non voglio dimenticare !
Paola Poppi,
Crevalcore (Bologna)
29 maggio 2015
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
25 anni fa l'Heysel
di Paola Poppi
25
anni fa l’Heysel. C’ero anch’io. Non l’ho mai dimenticato. Non
ho mai voluto dimenticare. Da 25 anni, ogni 29 Maggio, il
pensiero torna lì e ogni 29 Maggio il pensiero tornerà lì, anno
dopo anno. Ero nella curva opposta alla Z. Un caso. Per questo,
come dico sempre, sono qui a raccontare. Ero partita da sola, in
aereo, da Bologna nel tardo pomeriggio del 28. Non conoscevo
nessuno. Sull’aereo ho conosciuto alcuni ragazzi, Roberto,
Antonio, Gabriele, che subito mi hanno come "adottata". Mi sono
stati vicini. E’ stato importante. L’unico ricordo bello di
quelle due giornate. Al nostro arrivo a Bruxelles non capiamo
bene perché ci trasportino in un albergo sul Mare del Nord.
Sembra una sistemazione rimediata sul momento. Pazienza, non è
quello il motivo per cui siamo lì. E’ già tardi, ma i ragazzi
vogliono cenare. Usciamo dall’albergo a gruppi. C’è chi prende
il taxi e va ad Ostenda. Al rientro racconterà di una città
sotto "coprifuoco". Gli Hooligans sono lì da due giorni. Il
taxista li lascerà a piedi poco prima dell’ingresso in città.
Noi cerchiamo un ristorante vicino all’albergo. Il paese è
deserto. Non c’è anima viva in giro. Ci siamo solo noi, un
gruppo di juventini in cerca di un posto dove mangiare. Non ho
dimenticato la porta chiusa a chiave del ristorante e il
proprietario che in francese chiede se siamo Italiani o Inglesi.
Quando rispondo che siamo Italiani, l’uomo apre la porta, poi la
richiude in fretta alle nostre spalle. Non ho dimenticato gli
hooligans ubriachi che alle 9 del mattino dopo cercavano un
posto dove dormire. Stravolti, strafatti di birra. Saliamo sul
pullman che ci porta a Bruxelles. Grande Place. Tifosi juventini
e tifosi del Liverpool si scambiano le sciarpe. Cantano. E
bevono birra, troppa birra. Il clima è disteso, quasi festoso.
Noi quattro ci teniamo "alla larga", non si sa mai. Pranziamo in
un ristorante greco, poi di nuovo sul pullman, verso lo stadio.
Sorpresa. Brutta sorpresa: non è uno stadio da capitale europea.
Speriamo bene ! Scendiamo dal pullman. Quanta gente ! Passano
alcuni inglesi con casse di birra. Un addetto ci indica il
nostro settore. Ci mettiamo in fila. Siamo in dieci, io e nove
ragazzi. Mi fanno come da scudo, perché capiamo subito che c’è
troppa gente e cerchiamo di non separarci. …Uno, due tre,
quattro, cinque secondi e spariscono tutti. I miei piedi sono
sollevati da terra. Roberto mi tiene stretta per un braccio e
restiamo insieme solo noi due. Il tempo passa e non si va
avanti. C’è movimento. La folla ondeggia. Si apre una specie di
corridoio, ma si riempie subito. Capiamo perché: poliziotti a
cavallo. Non ho dimenticato il cavallo a pochi centimetri da me
e il poliziotto che smistava i tifosi sempre seduto sul suo
cavallo. Son tutti matti ! Si può andare tra la folla con i
cavalli ? Confido nell’intelligenza dell’animale, non in quella
di chi ha dato quelle disposizioni. Sto ferma, immobile e tengo
d’occhio il cavallo. E’ passata un’ora e mezza. Siamo bloccati.
Alle 7, finalmente, siamo davanti alla porta d’ingresso, sembra
quella di un pollaio. Apro la borsa per il controllo, ma
l’addetto mi fa segno di andare avanti. Nessun controllo a
nessuno. "Il peggio è passato" - penso. Ora siamo dentro. C’è il
sole. Gradinate in terra battuta. Non è uno stadio da capitale
europea. …Uno, due, tre piccoli razzi volano da una parte
all’altra nelle curva opposta, poi… Il finimondo. Campo da gioco
pieno di gente, poliziotti a cavallo che respingono gli
"invasori", tentativo di "spedizione punitiva", per fortuna
fallito, di un gruppo di juventini scalmanati. Sembro dentro a
un film. Non ho dimenticato il ragazzo toscano, scappato in
tempo dalla curva Z e finito in mezzo a noi che sconvolto
diceva: – Vogliono ammazzarci tutti ! Non ho dimenticato quel
gruppo di ragazzi che voleva uscire dallo stadio, ma che è stato
costretto a tornare indietro, perché le porte erano chiuse.
Chiusi dentro, come in trappola. E adesso ? Cosa facciamo ?
Stiamo lì. Aspettiamo. Pensiamo sia successo qualcosa di grave,
ma non possiamo immaginare una tale tragedia. Chissà a casa, mia
madre e le mie sorelle che non volevano che io partissi, mio
padre che non è venuto con me, come a Basilea l’anno prima, per
paura dell’aereo. Non c’erano mica i telefonini per dire che
stavamo bene ! Non ho dimenticato i poliziotti in tenuta
anti-sommossa arrivati con grave ritardo che hanno circondato il
campo da gioco. Non ho dimenticato la voce di Scirea che
invitava alla calma. Povero caro Scirea. E’ tardi. Si gioca ?
Giocano. La partita. Il giro di campo con la coppa. Tutto per
l’ordine pubblico. Tutto per evitare una tragedia più grande.
Alla fine lo stadio si svuota. Non ci sono più hooligans sugli
spalti. Usciamo: non c’è un poliziotto in giro. Raggiungiamo il
pullman che ci deve riportare all’aeroporto e lì sappiamo cosa è
successo. 39 morti ! Non si può ! Non si può morire per una
partita di calcio ! Non si può morire così ! Non ho dimenticato
niente di quel 29 Maggio. E non ho dimenticato le immagini viste
il giorno dopo alla TV. Ho sempre pensato e lo penso anche oggi
che se non si fosse giocata la partita nessuno sarebbe uscito
vivo da quello stadio, ma ho anche sempre pensato che la
Juventus dovesse rinunciare alla coppa. Fa ancora in tempo.
"Quando cade l’acrobata, entrano i clown" ha detto Michel
Platini allora, scrive oggi Walter Veltroni. E’ un bel libro.
Dipinge in modo autentico e commosso quel giorno. Leggerlo aiuta
a ricordare le persone morte all’Heysel. Leggerlo aiuta a non
dimenticare. Un abbraccio ai loro famigliari.
Paola Poppi, Crevalcore (Bologna)
29 Maggio 2010
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
CLAUDIO POZZI
Una bottiglia frantumata e
tanto sangue: la strage iniziò così
Il racconto di Claudio Pozzi
che si trovava nel settore Z dello stadio Heysel, quello
travolto dall'ondata di hooligans che lasciò a terra 39 morti,
nella tragica finale di Coppa Campioni 1985.
Quel
29 maggio del 1985 avevo 30 anni e da 25 anni le immagini che ho
visto sono impresse indelebilmente nella mia memoria. Eravamo
partiti con un pullman da Busto Arsizio con il Club Amici della
Juve; in realtà avevamo perso le speranze qualche giorno prima
quando ci dissero che i biglietti erano finiti, ma poi si
liberarono alcuni posti nel maledetto settore Z e riuscimmo a
partire. Dopo 15 ore di viaggio arrivammo nei pressi dello
stadio attorno alle 16 e la prima cosa che notai erano gruppi di
inglesi sdraiati nei prati attorno allo stadio già ubriachi.
L'emozione per la partita, però, non ci fece soffermare troppo
su quelle immagini: volevamo vedere la nostra Juve alzare la
coppa e nulla più. L'umore era alle stelle, la giornata bella e
noi juventini eravamo in tantissimi. Quando ci avvicinammo allo
stadio ricordo che la struttura dell'Heysel mi impressionò per
quanto appariva vecchia e poco adatta ad una finale di Coppa dei
Campioni. Si entrava da grandi portoni che immettevano alle
scale, una volta percorse le quali si sbucava nella parte più
alta dell'anello; da lì si doveva ridiscendere i gradoni per
arrivare al proprio posto. Ero accompagnato da quattro amici e
insieme ci siamo messi uno accanto all'altro: erano le 18 circa.
Quella è l'ultima immagine normale che ho nella memoria, tutto
il resto non aveva più niente a che fare con una partita di
calcio. Attorno alle 19 lo stadio cominciò a riempirsi e dal
nostro settore vedevamo i settori dedicati ai tifosi del
Liverpool pieni di hooligans scatenati che avevano cominciato a
lanciare cori e slogan contro gli italiani. Notai subito che la
rete che divideva i settori X e Y, dedicati agli inglesi, era
del tutto inadeguata a contenere una delle tifoserie più agitate
del mondo. Poi c'era un cordone di agenti più simili a vigili
urbani che ai nostri poliziotti in tenuta anti-sommossa e infine
noi del settore Z, la parte estrema della curva. Alla nostra
destra c'era un muro - quello che poi crollò - che ci divideva
dallo spazio vuoto prima della tribuna. I primi lanci di
bottiglie cominciarono a metterci sul "chi va là": eravamo a
circa 50 metri in linea d'aria e la maggior parte degli oggetti
si fermava prima di noi, ma realizzai che il peggio stava per
arrivare quando una di queste bottiglie si frantumò sulla faccia
di un tifoso alle nostre spalle. Sentimmo il suo urlo di dolore,
ci voltammo e il sangue gli aveva già ricoperto il viso. La
folla cominciò a spingere in quel momento. I tifosi inglesi
saltarono la rete, superarono senza tanti problemi il cordone di
polizia, invasero il settore Z e solo pochi tifosi juventini
affrontarono questa orda barbara.
La maggior parte, migliaia di
persone, cominciò ad indietreggiare verso di noi e la pressione
si faceva sempre più forte. In un batter d'occhio persi tre del
mio gruppetto e rimasi solo con un altro ragazzo. Ci ritrovammo
a ridosso di quel maledetto muro e con grande fatica riuscii a
salirci sopra e a saltare giù, sotto di me c'erano 4-5 metri di
vuoto. Non so nemmeno se la decisione di saltare la presi io o
se fu la spinta di quella moltitudine di persone a farmi volare
in basso. Anche il mio amico saltò ma si fece male ad un piede;
nulla di grave per fortuna rispetto a quello che capitò a
centinaia di altri tifosi. Poco dopo eravamo fuori dallo stadio
e non avevamo ancora realizzato cosa fosse successo. Sentivamo
urlare, erano grida di sofferenza, lamenti terribili. Ci
allontanammo di qualche metro per cercare di capire cosa stesse
succedendo e soprattutto cercavamo gli altri tre amici che
avevamo perso nella calca. Dopo un po' cominciarono a uscire i
primi feriti, sdraiati su transenne adibite a barelle o sui
cartelloni pubblicitari usati allo stesso modo. Mi misi le mani
nei capelli: prima uno, poi due, tre, quattro persone. Il viavai
non finiva più. Sempre più preoccupati per i nostri amici rientrammo
nello stadio perché era chiaro che le regole erano saltate,
infatti nessuno ci controllò all'ingresso. Avevamo saputo che
all'altoparlante annunciavano i nomi delle persone che si erano
perse e così riuscimmo a far annunciare quelli dei nostri amici.
Li ritrovammo nei pressi del nostro pullman e ci dissero che
avevano camminato sui corpi di altre persone; in quel momento si
fermò un'auto scura dalla quale l'uomo al volante ci chiese cosa
stesse succedendo, dentro quell'auto scorgemmo la figura
dell'avvocato Gianni Agnelli: "Vediamo uscire continuamente
feriti - dissi all'autista - ci sono stati scontri con i tifosi
inglesi". L'auto partì e sparì dietro lo stadio. Avevo perso le
scarpe, me ne resi conto solo in quel momento. Rientrammo una
terza volta nello stadio, sempre senza essere controllati e
guardammo il secondo tempo di quella partita. Solo alla fine del
match la percezione di quello che era successo si fece concreta
e violenta: pensavamo ci fossero stati solo feriti ma dalla
televisione dell'autista del pullman apprendemmo che c'erano
state decine di morti. Il viaggio di ritorno fu silenzioso.
Quella sera avevamo vinto la coppa ma avevamo perso molto di
più: il senso di quello che avevamo fatto era sparito, non
sapevamo come reagire di fronte ad una simile tragedia. Tornato
a casa, a Oggiona Santo Stefano, tutti mi chiedevano di cosa
avevo visto e per mesi quelle immagini mi perseguitarono; ancora
oggi provo un profondo senso di smarrimento davanti ad una
simile tragedia che non aveva senso allora quanto oggi, 25 anni
dopo.
28 maggio 2010
Fonte: Varesenews.it
A-Z |
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