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Italo Lai
Curva Settore Z
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Pasquale Lara
Curva Settore Z
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Piero Lastella
Curva Settore Z
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Domenico Lazzarotto
Tribuna Stampa
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Filippo Lazzeroni
Curva Settore
M-N-O
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Leopoldo e Vittorio Lelio
Curva Settore Z
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Andrea Leonetti
Tribuna 2
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Bruno Limido
Calciatore Fc
Juventus
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Livio
Curva Settore
M-N-O
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Giovanni Lobera
Curva Settore
M-N-O
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Minetto Locatelli
Curva Settore Z
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Roberto Losurdo
Curva Settore
M-N-O
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Mauro Lusetti
Curva Settore Z
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Il racconto di Italo
Lai
QUEL TRAGICO GIORNO...
di Tommaso Mitraglia
LANUSEI - Ventinove Maggio
1985, Bruxelles, stadio dell’Heysel. Si gioca la partita
LIVERPOOL-JUVENTUS, finale di Coppa dei Campioni. Ma più
come un incontro di calcio è un massacro al termine del
quale si conteranno 39 morti, quasi tutti italiani. Le
televisioni di mezzo mondo trasmettono immagini di
inaudita violenza, che con lo sport hanno nulla a che
fare. Quel tragico giorno tra il pubblico ci sono anche
due tifosi ogliastrini, Italo Lai di Lanusei e Salvatore
Ferli di Tortoli, che sperano di divertirsi assistendo
alle prodezze della Vecchia Signora e invece si trovano
a rischiare la propria vita contro i terribili hooligans
inglesi. A 17 anni di distanza i ricordi sono sempre
nitidi e la paura non è ancora passata. Italo Lai che
ora ha 46 anni e di professione fa il macellaio, si
considera un sopravvissuto. "Avevamo il biglietto per le
Tribune dice frugando nella memoria, e invece allo
stadio ci dissero che non c’era più posto e che dovevamo
andare in curva, settore Z, proprio dove si trovavano i
tifosi del Liverpool. Noi italiani potevamo essere al
massimo duemila, tra cui, anche anziani, donne e
bambini, mentre gli inglesi erano più del doppio e tutti
giovani. A separarci c’era una rete metallica alta
appena un metro". I due ogliastrini si resero conto
subito che si trattava di una trappola, e che stava per
succedere qualcosa di brutto. I segnali erano evidenti,
ma le autorità belghe li sottovalutarono. "Tre ore prima
del fischio d’inizio, gli inglesi avevano fatto a pezzi
i sedili in cemento ricavandone dei sassi. Molti avevano
bastoni e coltelli e ci attaccarono con l’intenzione di
uccidere. Io e il mio amico insieme ad un suo cugino di
Milano ci trovammo coinvolti negli scontri. Salvatore fu
colpito e rischiò di perdere i sensi. Anche io avevo la
camicia piena di sangue. L’unica salvezza era saltare il
muro e scendere in campo. Cosi facemmo, anche se la
parte laterale del muro crollò. E in campo la polizia
invece di proteggerci ci respingeva a manganellate.
"Malconci e spaventati, i due ogliastrini riuscirono
però a mettersi in salvo in Tribuna. "Ma il cugino si
era perso e temevamo che fosse morto. A fine partita
esaminavamo i cadaveri uno per uno sollevando i teli che
li coprivano. Per fortuna non c’era, dunque era vivo.
Più tardi infatti lo ritrovammo. Venne l’esercito con i
carri armati e ci scortò all’aeroporto. "Che
insegnamento trarre da una esperienza così tragica ?
Italo Lai non ha dubbi: "io sono e resterò sempre tifoso
della Juve, ma allo stadio non sono più tornato. I miei
figli tutti juventini, mi chiedono di portarli ma io mi
rifiuto. Le partite le guardiamo alla TV, non si può
rischiare di morire per assistere ad un incontro di
calcio. Anche perché oggi la situazione non è affatto
migliorata". Difficile dopo quello che ha passato dargli
torto.
Fonte: La
Nuova Sardegna Sassari
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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Quel tragico 29 maggio
di Piero Lara
Nel
1985, per la terza volta consecutiva, dopo quelle di
Atene e Basilea, la Juventus conquistò il diritto a
disputare una finale europea. Il 29 maggio com’ è
tristemente noto, allo stadio HEYSEL di BRUXELLES,
contro il Liverpool, si svolse l’atto conclusivo della
Coppa dei Campioni. Come nei precedenti, anche
quell’anno riuscimmo ad organizzare un piccolo gruppo
familiare formato, nell’occasione, da cinque persone,
per seguire dal vivo la squadra nella sua avventura
sportiva. Raggiungemmo in auto la capitale belga la sera
prima della partita, e la mattina seguente, come sempre
in questi casi, fu dedicata alla visita della città. Per
la verità, gli incontri del tutto pacifici con gruppi di
tifosi inglesi, in nessun modo lasciavano presagire il
tragico epilogo di quella giornata. Dopo un’attesa
divenuta sempre più spasmodica, giunse finalmente il
momento di avviarci allo stadio, che decidemmo di
raggiungere in taxi. Una leggera inquietudine che, si
insinuò in noi, per le parole del tassista che
raccontavano di devastazioni ad opera dei supporters
inglesi in diversi punti della città, trovò conferma e
si accrebbe una volta giunti nei pressi del campo.
Infatti, sulle grandi aiuole antistanti l’HEYSEL, era
srotolato un disgustoso tappeto di maglie rosse, che
dormivano o impunemente bivaccavano, in stato di
evidente ubriachezza, tra montagne di bottiglie e
lattine. Ancora oggi, mi chiedo perché chi doveva, nulla
ha fatto per impedire tali comportamenti a quegli
animali senza controllo. Dopo diverse scene
raccapriccianti, che per un momento ci fecero pensare di
rinunciare e tornarcene in albergo, ci avviammo verso
l’ingresso del nostro settore contraddistinto dalla
lettera ZETA, e divenuto poi tristemente famoso. Fummo
attorniati da un gruppo d’ invasati che, cantilenando,
con voce lamentosa ed impastata: Liverpool - Liverpool,
si accostavano, provocatoriamente, sempre di più. Senza
reagire, seppur faticosamente, riuscimmo ad entrare, e
ci ritrovammo in una struttura fatiscente e priva di
qualsiasi elementare sistema di sicurezza, che solo la
folle sciaguratezza dell’UEFA poteva destinare a un
incontro tanto importante. La presenza però di
spettatori costituita essenzialmente da italiani
residenti in Belgio o da gruppi familiari come il
nostro, ci fece riacquistare in breve una relativa
serenità.
Ricordo
come se fosse oggi, tre ragazze vestite rispettivamente
solo di BIANCO, ROSSO e VERDE, e rivedo il
familiarizzare di mio nipote, con un ragazzino coetaneo,
che come lui viveva la trepida attesa di vedere
all’opera i propri beniamini. Mancava ancora qualche ora
all’inizio, e sembrava che tutto volgesse per il meglio.
All’improvviso però l’atmosfera cambia. Urla, simili a
quelle di bestie inferocite, precedono l’ingresso degli
hooligans, che, dopo aver forzato il varco d’ingresso,
invadono il settore Y adiacente al nostro. Indemoniati e
tirando di tutto avanzano verso di noi, che
istintivamente e irrazionalmente, arretriamo sempre di
più verso il muro di chiusura del settore. Il lancio d’
oggetti diviene sempre più fitto, e noi sempre più
pressati e spaventati. Una persona a me vicina viene
colpita, e il suo sangue mi ricopre gli occhiali e parte
del viso. Resto incastrato e non riesco a muovermi. La
spinta al pari della paura diventa sempre maggiore. Alle
grida selvagge di chi attacca si sovrappongono le
implorazioni di aiuto, di noi che arretriamo. Un gruppo
di spettatori tenta disperatamente di aprire una via di
fuga, cercando di abbattere la rete che divide il
settore dal campo. Viene, però brutalmente respinto
dalle manganellate dei soli tre poliziotti, messi
colpevolmente a presidiare l’intera curva. Impazzite dal
terrore, alcune persone, nel tentativo di salvarsi si
lanciano dal muro, contro cui oramai siamo
irrimediabilmente schiacciati. Pianti, disperazione,
urla, urla e ancora urla. Poi il PANICO ! Crolla il muro
e cade la rete, l’effetto è simile a quello del vapore
che schizza da una valvola di sicurezza. Veniamo di
colpo catapultati in avanti. Non sono più padrone delle
mie gambe, e letteralmente sollevato in aria, ma per
fortuna senza cadere, passo sopra un groviglio di corpi
da cui emergono braccia protese in una tragica richiesta
di aiuto. Mi ritrovo come altri a correre sul terreno di
gioco. Quando le forze dell’ordine intervengono per
fermare la furia selvaggia degli inglesi, è oramai
TROPPO TARDI. Momenti di altissima tensione accompagnano
il tentativo d’invasione della curva opposta, occupata
dai club bianconeri. Fortunatamente i poliziotti, in
questo caso in numero sufficiente, riescono a
fronteggiare la situazione, che rischia di trasformarsi
in un ulteriore massacro. Purtroppo però dei miei
congiunti non ho tracce. Un agente vedendo il sangue sul
mio viso, vuole farmi trasferire in ospedale, e pur
nella concitazione, riesco a spiegargli che non è il mio
sangue. Attraverso gli spogliatoi, e mi ritrovo
all’esterno, in un’atmosfera allucinante, dove comincia
la seconda parte del dramma.
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CAOS
TOTALE. Persone come impazzite corrono piangendo.
Sirene, grida concitate, autoblindo, militari in assetto
antisommossa, mezzi di soccorso, polizia a cavallo, C’è
tutto quel che però SERVIVA PRIMA ! Il quadro è a dir
poco agghiacciante. Sulla strada, una fila di corpi
ormai senza vita, accanto a cumuli di scarpe e borse. In
ordine sparso molti feriti, cui si tenta di dare i primi
soccorsi, tra questi per fortuna, ritrovo subito, due
del mio gruppo, appena prima che vengano trasferiti
sulle ambulanze. Mancano all’appello però mio fratello e
mio nipote dodicenne. Sono, costretto a guardare tra i
cadaveri, con il timore sempre crescente di un
drammatico ritrovamento. Uomini, bambini, donne. Ho
negli occhi i visi orribilmente congestionati, di una
ragazza senza vita, completamente vestita di BIANCO (una
delle tre che rappresentavano i colori della nostra
bandiera) e di un ragazzino, con intorno al collo il
filo spinato, che lo ha irrimediabilmente strangolato, e
che solo qualche minuto prima discuteva di Scirea e
Platini con mio nipote. Rivedo un uomo accasciato sul
figlio, che singhiozzando, si chiede perché non è
toccato a lui. La mia ricerca, in questo sconvolgente
contesto, risulta vana e incompleta, in quanto, dopo
poco vengo allontanato, poiché si devono spostare le
salme nelle tende militari, prontamente approntate, e
che sempre in questi casi sono simbolo di tragedia. I
taxi e i mezzi pubblici sono stati nel frattempo
requisiti, così mi trovo a vagare senza alcun tipo di
riferimento per posti sconosciuti e per un tempo che
pare interminabile. Ponendomi in maniera ossessiva
sempre la stessa domanda: PERCHE’, PERCHE’, PERCHE’.
Quando lo sconforto sembra aver preso definitivamente il
sopravvento, il destino mi fa incontrare un agente
d’origine italiana, che comprendendo il mio dramma, mi
fa condurre presso l’ ospedale dove hanno trasportato i
primi feriti. Nella sala d’attesa scorgo, subito mio
fratello, che si trova lì perché dopo aver ricondotto in
albergo il figlio, ha intrapreso le mie stesse ricerche.
Lascio a Voi immaginare cosa siano stati quei momenti,
io ricordo solo che i medici furono costretti in qualche
modo a sedarmi. Per una serie di fortunate circostanze,
il nostro gruppo riesce a riunirsi completamente solo
intorno alle 23. Trascorsero infatti diverse ore tra il
ritrovamento della quarta persona che, rintracciammo
quasi subito, e il momento in cui avvenne un altro
piccolo miracolo fra i tanti di cui beneficiammo in quel
giorno maledetto.
Altra
immagine vivida, inserita nel contesto di una grande
tragedia, perché di ritorno in albergo dopo
un’infruttuosa e angosciante ricerca in tutti gli
ospedali. Insieme al nostro taxi, ne giunse un altro da
cui, incredibilmente, vedemmo scendere a fatica, un uomo
con il volto stravolto e tumefatto e con intorno ai
piedi delle buste di plastica al posto delle scarpe,
perse irrimediabilmente e per fortuna solo quelle, all’
HEYSEL. L’ultimo nostro congiunto mancante all’appello.
Finalmente eravamo di nuovo tutti insieme. Solo in quel
momento comunicammo a casa di far parte dell’elenco dei
fortunati, seppur con il bilancio di due feriti, che
ebbero comunque strascichi di mesi, ma che avevano
rifiutato il ricovero, per riunirsi subito con noi e
essere curati successivamente in Italia. Ancora oggi,
tutti i particolari di quei tragici avvenimenti sono
vivi nella mia mente, e anche se a cinque anni di
distanza ho fatto ritorno in uno stadio, Vi assicuro che
niente è come prima. Quando poi i miei ragazzi si
organizzano per assistere ad una partita della loro
JUVE, devo confessarvi che solo il loro ritorno, mi fa
ritrovare la completa tranquillità. Potevo indubbiamente
anche con parole importanti, commemorare in altro modo
la tragedia dell’HEYSEL. Ho, ritenuto però più
opportuno, il tentativo anche con inevitabili
riferimenti personali, di cui mi scuso, di rivivere con
Voi le terribili emozioni di venticinque anni fa. Una
maniera a mio avviso più giusta di tenere doverosamente
vivo il ricordo di quelle 39 vittime, causate
principalmente dalla criminale superficialità dell’ UEFA
e dalla colpevole negligenza delle autorità Belghe.
Tutti conoscevano le caratteristiche di chi fuori dei
propri confini può essere controllato solo come fa un
domatore con le bestie. In conclusione vorrei, solo per
un momento, affrontare l’argomento che tanti dibattiti
ha provocato e che ancora oggi talvolta è riproposto. Se
cioè sia stato giusto tenere quella coppa. Posso
assicurarvi che per chi ha vissuto quei momenti
terribili, tale argomento è completamente privo di
qualsiasi rilevanza. Personalmente lascio questa
polemica a chi vuole approfittare, anche di quei morti,
per mettere in cattiva luce la nostra JUVENTUS. Questi
signori insieme con quelli che nulla fecero per evitare
una simile catastrofe, ritengo abbiano il dovere di
porre più di una domanda alla propria coscienza.
Fonte:
Juvenews.net
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La testimonianza di un
tifoso coratino
A 25 anni dalla tragedia dello stadio Heysel
di Vincenzo Pastore
E’
ormai passata una generazione da quel maledetto 29
Maggio 1985. Bruxelles, stadio Heysel, finale di Coppa
dei Campioni, Juventus e Liverpool si contendono il
massimo trofeo continentale. Quello che succederà prima
della partita è tristemente noto: 39 persone morte, in
gran parte tifosi della Juventus. Quando il calcio, e lo
sport in generale, si trasformano in tragedia. Un triste
rituale al quale assistiamo inermi da troppi decenni e
che ha conosciuto una delle pagine più drammatiche
esattamente venticinque anni fa. E’ ormai passata una
generazione da quel maledetto 29 Maggio 1985. Bruxelles,
stadio Heysel, finale di Coppa dei Campioni, Juventus e
Liverpool si contendono il massimo trofeo continentale.
Mentre gli inglesi hanno già messo nel loro carniere
quattro vittorie in quella manifestazione, per la
Juventus quella Coppa è diventata una vera e propria
ossessione. E’ il tassello mancante di un palmares ormai
completo in tutte le competizioni: due finali disputate
fino a quel momento entrambe perse, con l’Ajax nel 1973
e con l’Amburgo ad Atene nel 1983. Una squadra ormai
arrivata all’apice del suo ciclo strepitoso di vittorie,
con Trapattoni in panchina. E’ la Juve di Platini e
Boniek, Scirea e Tardelli, Cabrini e Paolo Rossi. Quello
che succederà prima della partita è tristemente noto: 39
persone morte, in gran parte tifosi della Juventus.
Pochi sanno però che quella sera a Bruxelles c’erano
anche due coratini: il compianto Franco Ventura e Piero
Lastella, storico custode del palazzetto dello sport di
Corato. Ed è stato proprio Piero a parlarci di quella
sera, con l’emozione ancora padrona del suo racconto.
"Sono sempre stato un grande tifoso della Juve -
esordisce Piero Lastella. Sono stato tante volte allo
stadio Comunale di Torino, lì ho visto la mia prima
partita della Juve contro l’Inter a sedici anni. Poi
sono andato a Basilea, nel 1984, finale di Coppa delle
Coppe contro il Porto. L’anno prima ad Atene, nella
sfortunata finale di Coppa dei Campioni contro
l’Amburgo. Era una squadra fortissima, ma non riusciva a
vincere la Coppa più importante. Ecco perché decisi di
andare a Bruxelles nel 1985. Era un viaggio organizzato,
mi costò in totale 450.000 lire". Piero poi passa al
racconto di quella giornata. "Atterrai a Bruxelles nel
pomeriggio del 29 Maggio, in aereo avevo trovato altri
tifosi bianconeri. Verso le 18 arrivammo allo stadio e
incontrai Franco Ventura.
Cercai
di entrare in tribuna centrale con Franco, ma non
potetti farlo perché avevo il biglietto nel settore Z.
Mi diressi allora verso quel settore dello stadio e
iniziai a notare alcune cose strane. L’ingresso era
strettissimo, i tifosi inglesi, ubriachi, ci
accoglievano con lanci di bottiglie, lattine di birra.
Si sentiva nell’aria che qualcosa sarebbe successo da un
momento all’altro. Gli incidenti iniziarono quando le
squadre entrarono in campo: i tifosi del Liverpool
continuavano a lanciarci tutto ciò che raccoglievano da
terra. Le protezioni per separare il nostro settore da
quello inglese erano ridottissime, e gli hooligans
riuscivano facilmente a scavalcarle. Chiamai la polizia,
ma ci rassicurarono". La calca era sempre più pressante,
la situazione precipitò velocemente. "Dopo circa dieci
minuti - continua Lastella - successe il finimondo.
Allora scavalcai la rete metallica che separava gli
spalti dal campo: la mia salvezza fu che inizialmente mi
trovai in posizione più elevata rispetto agli altri
tifosi. C’era tuttavia una ragazza che mi chiedeva
aiuto. Tornai indietro ma dopo qualche minuto crollò il
muro. Riuscimmo in ogni modo a salvarci mentre
arrivavano i primi soccorsi. Eravamo venuti per
assistere a una partita, ci ritrovammo in una guerra.
Assieme ad altre persone ci recammo in infermeria per
medicarci. Poi in sala stampa, lì seguimmo la partita da
un televisore. Si sapeva che c’erano stati dei morti, io
stesso ne vidi molti coperti da un telo; la mia unica
preoccupazione era tornare in Italia". Un aspetto
drammatico vissuto in quegli attimi fu l’impossibilità
di avvisare i propri cari per tranquillizzarli. "Fu
esattamente così - conferma Piero - in Belgio non
riuscii a mettermi in contatto con la mia famiglia. Nel
dopogara, all’esterno dello stadio, proseguirono gli
incidenti con i tifosi inglesi. Dopo tante traversie
prendemmo il pullman verso mezzanotte che ci accompagnò
in Francia, per evitare che venissimo ancora a contatto
con quelli del Liverpool. Tornai finalmente in Italia
alle ore 11 del 30 Maggio e chiamai subito la mia
famiglia. Credo comunque che la decisione di giocare la
partita sia stata quella più giusta. In questo modo sono
state salvate tante altre vite". Un tragedia che dopo
tanti anni resta fermamente impressa nella sua mente.
"Non vedo con piacere le immagini di quel giorno -
conclude Piero Lastella. Anzi, cerco sempre di evitarle,
come qualche settimana fa con "La storia siamo noi" su
Raidue. Certo qualcosa è cambiato in me dopo quella
partita ma resto tuttora innamorato della Juventus".
Fonte:
Coratolive.it
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Io, testimone della
mattanza dell'Heysel
di Domenico Lazzarotto
29
maggio 1985. Vent'anni fa esatti. Ero lì come tantissimi
altri, juventini e non, a Bruxelles per prendere parte a
una grande festa di sport: la finalissima della Coppa di
Campioni. Sono ritornato letteralmente sconvolto
dall'orrore e confesso che per qualche tempo mi sono
quasi sentito in colpa per non aver fatto nulla perché
la tragedia dell'Heysel potesse essere evitata. Per
lungo tempo mi sono ronzate le urla di disperazione che
giungevano da quella maledetta "curva Z" dello stadio
Heysel, dove il terrore aveva spinto decine e decine di
persone a cercare salvezza calpestando chiunque
incontrassero nella disperata fuga, ostacolate da una
sparuta presenza di impotenti poliziotti belgi. Ad
inseguirli un'orda di barbari, gli hooligans, eccitati
dall'odio e in preda all'alcol: chi lanciava bottiglie,
chi brandiva spranghe di ferro, chi scagliava mattoni e
sassi. Immagini indelebili. Un fuggi fuggi che ha
tramutato la festa in un eccidio senza precedenti in uno
stadio obsoleto della civile Europa. Una mattanza che ho
ancora negli occhi, incapace di esprimere, allora come
adesso, la mia mortificazione di sportivo che per molto
tempo si è rifiutato di entrare in uno stadio: un blocco
psicologico che con il trascorrere del tempo sono
riuscito a superare pungolato dal mio lavoro. Nella
tragedia dell'Heysel si gioca la partita come nulla
fosse. E mentre Boniek cade in area e Platini realizza
il rigore, la radio annuncia i primi nomi dei morti. Ad
angoscia si aggiunge angoscia, perché due di loro,
Amedeo Spolaore e Mario Ronchi, sono di Bassano. Sono
rimasti schiacciati dalle transenne in cemento che
facevano da base alle reti di recinzione travolte nel
momento della grande fuga. Tanti i bassanesi che
ricordano pezzi di quella giornata irreale. La
testimonianza del pasticcere Danilo Tassotti dà la
misura del dramma: "Guardando scioccato fra tanta
confusione, tra urla di disperazione dei feriti e le
invocazioni dei moltissimi alla ricerca di un amico o di
un proprio caro, il mio sguardo s'imbatté su Mario
Ronchi. L'ho immediatamente riconosciuto dal maglione a
rombi colorati. Quando l'ho visto adagiato su quella
transenna, mi sono precipitato a soccorrerlo: respirava
ancora. Ma quando stavo per liberargli la faccia dal
pullover un poliziotto, dopo avermi gridato "via, via",
mi assestò una manganellata alla nuca. Persi i sensi e
quando mi ripresi la barella di Mario era sparita".
Fonte: Il
Quotidiano del NordEst
© 29 maggio 2005
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Perché io sono stato
fortunato
Quel
29 maggio ero nell'altra curva, settore M-N-O, quale
premio della promozione dalla quarta alla quinta
ginnasio. Mio padre mi portò a Bruxelles. La situazione
fu tale che solo dopo la partita, fuori dallo stadio,
apprendemmo che c'era un morto, poi dieci, poi venti...
Poi la cruda realtà. Ma, almeno per noi, fu una cosa che
sapemmo dopo, a partita finita. Dopo che avevamo pianto
e ci eravamo abbracciati per il gol di Platini. Ho
sempre sostenuto, e continuo a sostenere, che quella
Coppa, per quanto portata a casa in una notte luttuosa,
deve essere conservata dalla nostra società come il
cimelio più prezioso, perché conseguito nella notte in
cui tanti suoi tifosi, che inseguivano un sogno, hanno
trovato un'inaspettata e tragica morte. E tutti coloro
che dicono "quella coppa non vale niente", cancellando
sia l'impresa sportiva, che rimane, che il sacrificio di
tante persone, lo fanno perché ci odiano, e neanche la
morte riesce a lenire l'odio per i nostri colori. Anzi,
talvolta ci ostentano Coppe vinte grazie ad una
provvidenziale nebbia e senza le squadre inglesi che,
quegli anni, dettavano legge. Quindi, mi fa piacere che
tu proponga che quella Coppa debba, a imperitura
memoria, essere conservata a sé...
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
© 23 febbraio 2009
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Io, un sopravvissuto
dell'Heysel
Mio figlio credeva fossi morto
di Fernando Pellerano
Il
corpo è disteso esanime sulla pista d'atletica.
Immobile, senza scarpe, coi vestiti stracciati,
calpestato da altri spettatori. "Ecco, quello sono io,
apparentemente senza vita, uscito neppure adesso so come
da quell'inferno". Leopoldo Lelio, ex funzionario di
banca a Bologna, ora in pensione, grande tifoso
juventino, al seguito della Signora in mille trasferte,
fin dagli anni '60, racconta la più indelebile. E' un
sopravvissuto dell'Heysel, vent' anni fa: stasera,
quando in tv scatterà Liverpool-Juve, non potrà non
ripensarci. La sua storia parte da quella tragica foto a
colori, pubblicata su uno speciale di Epoca". E non è
una storia "solitaria", perché accanto a lui, in
ginocchio nella foto, con una maglia numero dieci della
Juve c'è un ragazzino di 14 anni: suo figlio Vittorio,
compagno di tante trasferte. Gli accarezza la testa,
forse pensa "papà è morto". Più in là grida concitate,
lamenti, urla. Momenti tremendi, la follia inglese si è
appena scatenata nel settore Z del patetico stadio di
Bruxelles. Poco dopo la conta dei morti: 39. Momenti che
non si possono dimenticare. "Invece, le dirò, a quella
serata non ci pensavo più. Me l'avete fatta tornare in
mente voi, cercandomi. Così ho ritirato fuori gli
articoli e i ritagli d'allora". E con loro ricordi
vividi, trasparenti, pieni di rabbia, ma anche di
sollievo. "Al momento del sorteggio, io invece ci ho
ripensato subito", racconta Vittorio, testimone di una
vicenda più grande di lui. "Sì, quando ho ritrovato mio
padre là disteso ho pensato fosse morto". Non lo era.
Intorno a loro c'erano tifosi con lo sguardo perso. Fra
questi un ragazzo inglese, con i baffi e la maglia dei
Reds. Sarà lui, insieme a un suo connazionale, a
risvegliare papà Leopoldo. "Per fortuna non sono tutti
ubriaconi impazziti. Una volta vista la foto sul
giornale, riconosciuto il ragazzo, scrissi al sindaco di
Liverpool per chiedergli di rintracciarlo. Lui mi
ringraziò e mi mise in contatto con Jeff Conrad. Volevo
invitarlo in Italia per una vacanza, l'avrei portato a
Messina, la mia città, la mia terra. Stavo organizzando
una colletta, come riconoscimento sincero, visto che se
la passava male, ma per un motivo o per l'altro non
siamo riusciti a rivederci e dopo tante lettere ci siamo
persi". I due Lelio non agirono in giudizio. "M'arrivò a
casa un questionario dell'associazione dei familiari
delle vittime: lo compilai, lo rispedii, ma non seppi
più nulla".
Solo
gratitudine per quel ragazzo inglese e ancora tanta
rabbia per l'inefficienza della polizia belga e per
l'idiozia dei tifosi britannici. "Settore Z, già. Erano
gli unici biglietti disponibili. Già all'entrata, due
ore prima, c'era ressa. Iniziai a preoccuparmi quando
vidi la rete di recinzione fra le tifoserie: ridicola,
sembrava quella di un pollaio. Con mio figlio mi piazzai
al centro della curva, poi ci fu il lancio di pietre, di
bottiglie e infine lo sfondamento. Presi per mano
Vittorio e scappammo, non verso il muro, ma giù in fondo
alla curva. Vidi pugni, coltellate, una ragazza sgozzata
con una bottiglia rotta che chiedeva pietà. Polizia ?
Quattro gendarmi a cavallo, inermi. In fondo alla curva
la rete cedette, feci in tempo a mollare Vittorio che
riuscì a scavalcare la folla e si ritrovò in campo, io
invece svenni nella bolgia e mi risvegliai 30 metri più
in là: non so come ci arrivai. Ero vivo e con me mio
figlio. Andai a farmi medicare sotto la tribuna, ma non
volevano farmi entrare con Vittorio, assurdo. Me ne
scappai in tribuna centrale e lì vedemmo la partita".
Nessuno poteva uscire, si doveva giocare e assistere.
"Fu strano, certo, ma non c'era alternativa. Ogni tanto
ci abbracciavamo, per rassicurarci. Mi diede fastidio
l'esultanza di Platini". Intanto la moglie a casa,
raggiunta da telefonate di amici e parenti, rassicurava
tutti: "Li ho visti in tv, stanno bene". Sì, ma erano
immagini registrate. "Poi la chiamammo alle due di
notte: va tutto bene". In realtà l'odissea continuò dopo
la partita. "Perdemmo l'autobus, un camper di teatini ci
riportò in città, riconobbi l'albergo per caso, il
direttore non voleva darci da mangiare, era tardi.
Chiamai l'ambasciatore, il figlio di Saragat, ci
portarono delle noccioline, come a delle scimmie.
Belgio, Inghilterra. I migliori, con tutti i nostri
difetti, siamo noi". Tornati a Bologna, subito al
Rizzoli: 30 giorni di convalescenza. "Ero giallo,
conseguenza di quel soffocamento, con una gamba
cartonata. E Vittorio ? Niente di niente. "Ma per 5 anni
non sono più tornato allo stadio. Ora sì, ma per il mio
Messina, lontano dalla ressa e vicino alla polizia. La
Juve la vedo in tv. Da piccolo tifavo Torino, poi ci fu
Superga e passai all'altra squadra della città". E
un'altra finale di Champions ? "Eravamo stati anche ad
Atene (0-1 con l'Amburgo), bella gita, brutta partita.
Istanbul mi piacerebbe, non ci sono mai stato, ma non
contro una squadra inglese, mai più. Sarebbe bella una
rivincita col Milan. Ecco, allora forse ci andrei".
Fonte: La
Repubblica
© 5 aprile 2005
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Video: Rai
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Ex dell'Anteo ritrova
in tv il tifoso inglese
che soccorse suo padre
nel disastro dell'Heysel
Vittorio
Lelio, messinese, ha lavorato all'Anteo di Molinella per
10 anni. Il 2 gennaio scorso è andato in televisione,
ospite del programma "Il dono" condotto da Paola Perego
su Raiuno, per incontrare il tifoso del Liverpool che
l'aiutò a ritrovare il padre dopo il disastro dello
Stadio Heysel. Vittorio aveva 16 anni quel 29 maggio del
1985. Era arrivato a Bruxelles insieme al padre,
Leopoldo, che gli aveva regalato il biglietto della
finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il
Liverpool per premiarlo della bella promozione ottenuta
a scuola. Quando si scatena la furia degli hooligans
inglesi i due si perdono di vista. Vittorio ritrova il
padre più tardi, riverso a terra. Lo crede morto, ma è
solo ferito. In suo aiuto interviene il tifoso del
Liverpool, Jeff Conrad, che presta a Leopoldo i primi
soccorsi e poi sparisce tra la folla. Anni dopo,
Vittorio Lelio si imbatte per caso in una foto del
settimanale Epoca in cui si vede lui in ginocchio che
piange accanto al padre ferito (foto in alto). Da qui il
desiderio di ritrovare lo sconosciuto che l'aveva
aiutato in quei momenti drammatici. I tre protagonisti
di questa bella storia, si sono rivisti trent'anni dopo
nel salotto tv di Paola Perego (foto sotto: da sinistra,
Leopoldo, Jeff e Vittorio). I doni che si sono scambiati
nello stile della trasmissione sono la maglietta a
strisce bianconere, con il numero 10 di Platini, che
Vittorio indossava quel giorno e la sciarpa del
Liverpool con la scritta You'll never walk alone (Non
camminerete mai soli), che Jeff a sua volta ha regalato
a Vittorio. (R.Z.)
Fonte:
Duecaffe.it
© 7 gennaio 2016
Fotografia: Rai
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Il triste ricordo
dell'Heysel
In questi giorni tante sono
state le manifestazioni in ricordo delle vittime
dell'Heysel. Dalla marcia di Torino, che ha visto
sfilare al fianco dei gruppi organizzati migliaia e
migliaia di tifosi, al ricordo organizzato davanti
all'ex settore Z dal gruppo Bruxelles Bianconera, dal
torneo di calcio organizzato dai ragazzi dello Juventus
Club Meda sino alla partita della nazionale contro il
Messico. Ma anche noi a 25 anni dalla terribile tragedia
che vide perdere la vita a 39 tifosi bianconeri,
vogliamo attraverso un racconto del nostro socio Andrea
Leonetti, ricordare quella terribile esperienza vissuta
dal vivo da lui con altri 3 soci del ns. club, tra i
quali anche Francesco Nicolamarino.
Nella
vita di ognuno, vi sono date particolari che suscitano
particolari ricordi o emozioni. Nella mia vita mai potrò
dimenticarne fra tante altre una: 29 maggio 1985. A
distanza di 25 anni, oggi, mi viene chiesto di rievocare
gli avvenimenti che sono legati a quel giorno che tutto
il mondo ricorda come il giorno della strage
dell'Heysel. Ci provo, pur nella consapevolezza che
vivere quella situazione è ben altra cosa che
raccontarla e che pertanto tanti particolari, tante
sensazioni, tante emozioni e tanta paura non potranno
mai essere descritti. Inquadriamo innanzi tutto il
periodo storico. La Juventus, la nostra Juventus,
vinceva in Italia con estrema facilità, sotto la
sapiente guida del presidentissimo Boniperti, con Blanc
ha in comune solo l'iniziale del cognome e forse
qualcosina del nome - (otto scudetti vinti negli ultimi
tredici campionati), ma faticava a raggiungere l'ambita
e agognata COPPA dei CAMPIONI. In quegli anni la
competizione si disputava in partite secche di andata e
ritorno sin dai turni iniziali e la competizione era
riservata ai soli vincitori del campionato nazionale di
provenienza. In molte occasioni, la Juventus ha sfiorato
il traguardo, una volta mancandolo in maniera quasi
scontata, battuta in finale dall'Ajax a Belgrado (0-1) e
un'altra volta, sempre con il medesimo risultato due
anni prima di quel 29 maggio 1985 ad Atene, battuta in
maniera sorprendente dall'Amburgo, squadra nettamente
inferiore a quella Juve stellare che giocava con
campioni del calibro di Zoff, Scirea, Platini, Boniek,
Tardelli, Bettega, Paolo Rossi, Gentile e Cabrini.
Quell'anno (1985) con una squadra senz'altro meno forte
(alcuni giocatori erano ormai al crepuscolo, altri non
c'erano più e furono sostituiti dai vari Favero,
Prandelli e Briaschi) avevamo nuovamente raggiunto il
traguardo della finale. Nel gennaio dello stesso anno,
affrontiamo e battiamo in gara unica, a Torino, il
Liverpool aggiudicandoci la Supercoppa europea (presenti
anche in quella gara con tantissima neve, spalata tra
gli altri, proprio da alcuni ragazzi del ns. club di
Andria). Quella vittoria ci fece ritenere che fosse
assolutamente possibile battere nuovamente in finale il
Liverpool.
Arriviamo
alla finale dopo aver eliminato il Tampere, il
Grasshoppers, lo Sparta Praga e il Bordeaux. Allora la
sede della finale veniva stabilita solo un paio di mesi
prima. Il raggiungimento della finale fa scattare
l'immediata caccia al biglietto per la partita di
Bruxelles, stadio Heysel. Da qualche anno, sempre con
Francesco Nicolamarino presidente, avevamo aperto lo
Juventus Club Andria, con difficoltà enormi dovute oltre
che al mantenimento della sede, anche al fatto di avere
difficoltà a mantenere una normale vita associativa, che
in assenza delle televisioni attuali (Sky, Mediaset
ecc.), si concentrava solo sull'organizzazione di
trasferte di particolare interesse o richiamo o per la
loro vicinanza (Bari, Lecce, Napoli Avellino, Ascoli).
Naturalmente, il nostro club, giovane e senza agganci
importanti non riuscì ad accaparrarsi alcun biglietto
per la partita di finale. Coinvolgendo decine e decine
di persone, più o meno importanti, avevamo aperto tanti
canali nella speranza che qualcuno di questi ci
rispondesse in maniera positiva e ci procurasse i tanto
ambiti tagliandi, senza badare al prezzo degli stessi.
Tramite un'agenzia di viaggi milanese, che gestiva il
pacchetto biglietto-viaggio per la partita riuscimmo ad
accaparraci al costo dell'intero pacchetto, con un
ulteriore sovrapprezzo, nr. 4 biglietti di curva. Era
fatta ! Si partiva. In quattro, come i biglietti:
Francesco Nicolamarino, Sabino Chieppa, Sabino Troia e
il sottoscritto Andrea Leonetti. La macchina, una FIAT
RITMO (una Signora macchina dell'epoca), ci fu prestata
da un altro tifoso juventino, amico di Sabino Chieppa.
Programma di viaggio: partenza la sera del 27 maggio,
lunedì. Arrivo a Milano e ritiro dei biglietti nella
mattinata di martedì, con proseguimento del viaggio fino
a Bruxelles. Cena e pernotto nella capitale belga fino
alla partita. Dopo la gara, avevamo previsto di
trasferirci a Lille (un centinaio di chilometri) dove
miei parenti ci avrebbero ospitato per la notte, per poi
ritornare da trionfatori in patria. Il giorno prima
della partenza, avviene forse qualcosa che ci salva la
vita !
Tramite
un rappresentante dell'allora Ariston (sponsor della
Juventus) che avevamo tempo prima contattato abbiamo la
disponibilità di 4 biglietti (di nuovo 4, sembra
incredibile !) di tribuna. Acquistai, pagandoli
profumatamente anche questi 4 biglietti e partimmo con
la convinzione di rivenderli per poterci pagare anche le
spese del viaggio (al mercato nero i biglietti avevano
prezzi incredibili). Il viaggio procede bene e senza
intoppi. Raggiungiamo nella prima mattinata Milano dove
ritiriamo dall' agenzia i 4 biglietti di CURVA Z. Sui
biglietti era disegnato lo stadio con il contrassegno
dei vari settori. A quel punto constatiamo che questi
biglietti di CURVA Z non sono nel settore di curva
riservato alla tifoseria juventina, bensì dalla parte
opposta, insieme ai tifosi inglesi. Questo episodio,
provoca in noi una divisione. Io e Sabino Chieppa,
ritenevamo a questo punto più conveniente vendere i
biglietti della curva e assistere alla partita in
tribuna (era l'opposta rispetto a quella centrale).
Francesco e l'altro Sabino invece prediligevano la
soluzione inversa per poter, a loro dire, esporre in
maniera più visibile lo striscione "Juventus Club
Andria" che come sempre portavamo al seguito. La
discussione sulla questione fu alquanto vivace e in quel
mentre nessun accordo fra di noi fu raggiunto. Da Milano
a Bruxelles la strada era occupata da innumerevoli
pullman e auto che, con in bella mostra i colori
bianconeri e in maniera alquanto festosa e chiassosa si
dirigevano verso la capitale belga. Alle stazioni di
servizio incontravamo centinaia di tifosi bianconeri e
in questo clima di festa raggiungemmo Bruxelles e il
nostro albergo. Dopo esserci rinfrescati, ci dirigiamo
in centro per cenare ed eventualmente vendere i
biglietti in soprannumero, senza ancora aver deciso
quali. Lì abbiamo il primo sentore che non sarebbe stato
tutto rose e fiori. Infatti nelle vie del centro
cittadino, i cosiddetti hooligan inglesi, sotto i fumi
dell'alcool, avevano iniziato a distruggere le vetrine
dei negozi e in più parti della città erano segnalate
cariche della polizia. Incontriamo nei pressi di un
grande albergo del centro cittadino il compianto Gianni
Brera, che a dire il vero, anche lui in evidente stato
di allegria da vino, consigliava ai tifosi juventini di
allontanarsi in quanto i disordini provocati dalla
tifoseria inglese avrebbero potuto degenerare in
qualcosa di più serio.
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Questa
situazione rafforzò in noi la convinzione di cedere i
biglietti della curva Z e assistere alla partita in
tribuna. Seppur a malincuore e con non poco disappunto
da parte di qualcuno, raggiungemmo l'accordo. Ma i
biglietti a chi e dove li vendiamo ? Decidiamo di
rimandare il tutto alla mattina seguente, con la non
tanto celata volontà da parte degli "irriducibili della
curva" di ridiscutere la questione e valutarla anche dal
punto di vista economico. Torniamo in albergo dove
avviene, a mio parere, il secondo intervento
soprannaturale. Sullo stesso piano dove avevamo le
nostre due camere, incrociamo 4 (di nuovo 4, incredibile
!) giovani tifosi inglesi che in lingua madre ci
chiesero se avessimo i biglietti della partita e se
conoscessimo dove avrebbero potuto acquistarli.
Immediatamente gli offriamo i nostri 4 biglietti in
eccedenza, con Francesco che si gioca la sua ultima
carta: offre agli stessi la possibilità di scegliere se
preferivano la curva o la tribuna. Ci chiesero il costo
e sentita la nostra richiesta ci dissero di non esser
interessati all'acquisto. Con una perfetta operazione di
bagarinaggio all'incontrario, vendiamo i biglietti al
prezzo da loro stabilito. Avevano scelto i biglietti di
CURVA Z. La mattina seguente, lasciamo l'albergo per
dirigerci in centro, quando ancora in prossimità
dell'albergo, veniamo fermati da una Mercedes targata
Bari, con a bordo i famigliari del giocatore juventino
Nicola Caricola che ci chiedono dove fosse un hotel di
Bruxelles. Non sappiamo rispondere, ma capiamo subito
che quello doveva essere l'hotel dove alloggiava la
squadra. Seguiamo la macchina che effettivamente ci
porta all'albergo sede del ritiro della Juventus.
Arriviamo proprio mentre il pullman della squadra
rientrava in albergo dopo un sopralluogo allo stadio
Heysel. Non essendoci ressa, ma pochi tifosi, in quanto
il luogo del ritiro non era stato reso noto, entriamo
facilmente nella hall dell'albergo e tutti noi possiamo
tranquillamente avvinarci e farci fotografare con molti
giocatori della Juve (Boniek, Tardelli, Scirea, Briaschi,
Favero, Brio), oltre che parlare con Edoardo Agnelli e
Giampiero Boniperti che nel sentire che giungevamo dal
barese, si mostrò molto premuroso e ci raccomandò di
fare molta attenzione al viaggio di ritorno. Dopo questa
inaspettata e bellissima esperienza, decidiamo di
dirigerci verso lo stadio. A partire dal famoso Atomium
con le migliaia di tifosi si cantava e si festeggiava
l'evento. Le due tifoserie erano mischiate tra loro
senza che si registrassero incidenti. Molte le foto che
abbiamo condiviso con i tifosi del Liverpool, con i
quali in un bar, abbiamo insieme brindato con boccali di
birra. Nulla lasciava presagire al peggio e dei famosi
hooligans nessuna traccia.
Dai
giornali sapevamo che i cancelli dello stadio sarebbero
stati aperti alle 17.00 e con la premura di piazzare il
nostro striscione in bella mostra con largo anticipo ci
dirigiamo verso il cancello d'ingresso. Qui scopriamo
che lo stadio che ospitava la finale della Coppa dei
Campioni, fra le due tifoserie, forse più numerose
d'Europa, era recintato da un muretto ad altezza di
circa 2 metri senza alcuna altra protezione e che il
servizio d'ordine era gestito da alcune decine di
poliziotti alcuni dei quali con cane. All'apertura del
cancello veniamo accuratamente perquisiti e con nostra
somma sorpresa veniamo bollati sulla mano con un timbro
che ci avrebbe consentito l’ingresso e l'uscita dallo
stadio tutte le volte che lo avessimo ritenuto
opportuno. Appena entrati nello stadio, vecchio e
malandato, mentre fissiamo il nostro striscione in un
punto centralissimo della tribuna, sicuramente ripreso
dalle telecamere durante la gara, scopriamo che i tifosi
all'interno dello stadio ricevevano di tutto
dall'esterno in quanto bastava appoggiare sul muretto
esterno dello stadio qualsiasi cosa affinché
dall'interno la stessa potesse essere facilmente
recuperata. Sperimentando subito, la possibilità di
riuscire e rientrare dallo stadio, facciamo un giro
intorno allo stesso dove incontriamo una troupe della
Rai che sta facendo un servizio e scopriamo che i tifosi
inglesi facevano entrare nello stadio dai muretti decine
e decine di casse di bottiglie di vetro di birra nera
(altamente alcolica). Incredibile ! Rientrati nello
stadio scopriamo che il famoso settore Z della curva
inglese è uno spicchio laterale della curva stessa
interamente riservato alla tifoseria juventina senza
nessuna divisione con il restante settore riservato agli
inglesi e la cosa accresce nuovamente il rimpianto di
qualcuno convinto che sarebbe stato meglio seguire la
partita in curva. Per ingannare l'attesa gli
organizzatori fanno scendere in campo due squadre di
bambini che indossano le maglie di Juventus e Liverpool.
Nel mentre il sole che si avvia al tramonto si pone
esattamente alle spalle della curva inglese, impedendo
di fatto di vedere con chiarezza quel settore dello
stadio. Ha inizio la partita dei bambini e le due
tifoserie sembrano entrare già in clima partita.
Naturalmente sale il tifo ciascuno verso la propria
squadra di bambini.
Inizia
dal settore inglese verso lo spicchio di settore
riservato agli italiani (curva Z), un fitto e nutrito
lancio di bottiglie di vetro vuote (prima contenevano la
birra che ora era saldamente assorbita dai corpi dei
tifosi inglesi ormai completamente sbronzi). Questa
situazione fa sì che la folla che gremiva la curva Z
cominciasse a ripararsi ammassandosi verso la parte
bassa della curva stessa. L’enorme pressione che si
creò, generò da lì a poco il crollo del muretto di
recinzione fra la curva e il terreno di gioco
consentendo al gran numero di tifosi assiepati e
ammassati all'angolo della curva di mettersi in salvo
invadendo il terreno di gioco. Questo fiume di persone
che correva all'impazzata nel campo, dirigendosi verso
la curva opposta gremita di tifosi juventini, diede
subito l'impressione che qualcosa di grave stesse
accadendo. Quel sole basso all'orizzonte impediva a
chiunque di avere nitidezza di quel che stava accadendo
e soprattutto impediva di vedere le decine di persone
che sotto il muretto crollato erano rimaste a terra chi
già morto, chi in stato di incoscienza, privo di sensi.
Verso la tribuna occupata da noi, si avvicinarono
persone grondanti sangue dai volti impietriti dal dolore
e dal terrore, che spiccicando frasi incomplete
cercavano di comunicare le dimensioni della tragedia che
si stava compiendo. In campo si riversarono anche i
tifosi juventini stipati nella curva a loro assegnata.
Anche fra questi, vi erano personaggi alquanto esagitati
e armati con strumenti di offesa incredibili. Mi rimarrà
sempre impresso, indelebile, il ricordo del rumore
provocato dalla roteazione di un'arma, che poi ho
scoperto si chiamasse mazzafrusto a una testa, formata
da una palla di ferro ornata di brocchi conici ed
acuminati. Arma in dotazione ai cavalieri medioevali.
Nel settore di tribuna da noi occupato, ove vi era anche
una buona parte di tifosi inglesi alquanto contenuti, vi
furono due tentativi di invasione da parte delle curve
confinanti occupate rispettivamente dalle due tifoserie.
Se la struttura di divisione avesse ceduto, la tribuna
sarebbe diventata teatro dello scontro corpo a corpo tra
le due tifoserie. Dappertutto vi era la sensazione che
era in atto la caccia all'uomo.
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Tifosi juventini che cercavano
di entrare in contatto con la tifoseria inglese
nell'intento di vendicare quanto era successo, che per
fortuna, non era stato interamente percepito nella
portata e nelle dimensioni della gravità. Ricordo con
nitidezza che le pulsazioni del mio cuore arrivarono
alle stelle, la paura mi aveva immobilizzato, il mio
sguardo era diventato assente e guardavo con terrore ad
una scena che tuttora vivo nella mia mente come se
avvenisse ancora davanti ai miei occhi. Un cane, tenuto
da uno dei pochissimi poliziotti presenti in campo, era
in preda, lui per primo, alla paura e abbaiando in
maniera convulsa tirava il poliziotto non verso la gente
che aveva invaso il campo, bensì dalla parte opposta,
come se volesse scappare, mettersi in salvo. Il ritorno
alla realtà lo diede Francesco, quando suggerì di
togliere e mettere a più riprese lo striscione Juventus
Club Andria, nella speranza che tale azione, ripresa
dalle telecamere, potesse rappresentare motivo di
tranquillità verso i nostri parenti che senz'altro,
davanti alla televisione stavano vivendo con
preoccupazione ed ansia il momento. Comunque nessuno, in
quello stadio, aveva saputo che vi erano già 38 morti.
Cominciammo a realizzare l'idea che fosse necessario
cercare di comunicare, in qualche modo, alle nostre
famiglie che eravamo in salvo. Allora non esistevano i
cellulari. Nella stranezza totale ed inusuale di quello
stadio, ricordo che avevo notato sulla sommità della
tribuna una cabina telefonica con un telefono a monete.
Cercai disperatamente di raggiungere quella postazione,
ma mi resi conto che non si riusciva a chiamare in
quanto non si riusciva nemmeno a prendere la linea. Tra
di noi cominciammo a discutere sul da farsi. Anche lì ci
dividemmo, in quanto tra di noi vi era in alcuni il
desiderio di scappare e mettersi in salvo prima che la
situazione degenerasse ulteriormente, in altri vi era
comunque il desiderio di temporeggiare perché lo speaker
dello stadio continuava ad invitare gli spettatori a
rientrare sugli spalti per poter consentire un regolare
svolgimento della partita. In maniera non unanime
prevalse l'idea di andare via, anche se temevamo che
all'esterno dello stadio potessero verificarsi scontri
ancor più violenti, atteso ormai la completa assenza di
ogni servizio d'ordine. Decidemmo comunque di cercare di
comunicare innanzi tutto con le nostre famiglie.
Uscendo in maniera
indisturbata dallo stadio e avviandoci verso un piazzale
antistante lo stesso ove, nella nostra idea contavamo di
trovare apparecchio telefonici, ci siamo imbattuti in
uno spettacolo terrificante. Quell'enorme piazza, era
stata allestita e trasformata in un campo profughi.
Decine e decine di corpi giacevano a terra. Erano state
montate tende da campo con l'intento di creare dei punti
di primo soccorso. Una fila enorme di taxi era stata
fatta convogliare verso la piazza e ciascun taxi
caricava a bordo una persona, ferita, svenuta, morta e
partiva verso uno dei tanti ospedali. In quel contesto
anche chi era sopravvissuto e stava bene cercava di
conoscere dove fosse stato portato il padre, il figlio,
l'amico o la persona cara che era rimasta ferita negli
incidenti. Era una tragedia ! Uno spettacolo
indescrivibile. L'organizzazione fino ad allora
completamente assente diede prova di efficienza nel
momento più delicato. L'allestimento dell'ospedale da
campo, il servizio di ambulanza organizzato con i taxi,
le decine di operatori sanitari che confluivano in
maniera volontaria verso lo stadio per prestare i
soccorsi del caso, l'arrivo dell'esercito con intere
carovane di blindati e mezzi pesanti diedero l'idea
della gravità di quanto era accaduto. Per fortuna
riuscirono comunque a far disputare la partita in
maniera che la stessa potesse sopire e calmare i
bollenti spiriti e consentire una adeguata
organizzazione di un servizio di sicurezza intorno allo
stadio e all'interno dello stesso. A posteriori abbiamo
capito che anche il famoso giro di campo con la coppa
serviva solo ed esclusivamente a consentire un veloce
deflusso dei tifosi inglesi dallo stadio ed evitare
quindi lo scontro fisico. Decidiamo di raggiungere la
nostra auto e dirigerci verso Lille, dai miei familiari. Alla radio ascoltiamo le
notizie in lingua italiana e dopo circa 40 chilometri ci
fermiamo alla prima grande stazione di servizio sulla
strada Bruxelles-Lille per poter telefonare a casa.
Anche lì ci rendiamo conto che non siamo soli. Altre
decine di persone sono in fila davanti alle cabine
telefoniche. Molti di costoro si trovavano casualmente
su quella strada, senza che la stessa fosse la strada
giusta per il ritorno. Erano semplicemente scappati. Si
erano messi in salvo. Lì incontriamo un notaio barese
che era venuto allo stadio con un suo compaesano e ci
racconta che entrambi erano in curva Z e che erano
rimasti schiacciati come polli dalla folla che tentava
di mettersi in salvo. Non aveva più notizie del suo
amico, "Benito Pistolato". Lo confortiamo e gli diamo
coraggio. Il giorno dopo avremmo letto sui giornali il
nome di costui tra le vittime dell'Heysel !!!. Riusciamo
finalmente a comunicare con casa. Tranquillizziamo i
famigliari e giungiamo in tarda serata dai miei parenti
a Lille dove vediamo nel silenzio generale il secondo
tempo della partita in televisione. Nessuna gioia,
nessuna esultanza. Solo dolore e dispiacere. Alla
televisione francese assistiamo ai servizi giornalistici
che trasmettono immagini di una crudeltà inaudita che in
Italia nessuno ha mai visto, per fortuna. Andiamo a
letto, e la mattina seguente ripartiamo verso casa. Per
strada, la stessa carovana dell'andata, questa volta
silenziosa, con i pullman che sul retro avevano
incollate le prime pagine dei quotidiani: "STRAGE A
BRUXELLES - MORTI MOLTI TIFOSI - UNA MONTAGNA DI MORTI -
UNA STRAGE - UNA CARNEFICINA - TERRIFICANTE - LA COPPA
MALEDETTA. Era il 30 maggio, il giorno del mio
compleanno. Compivo 25 anni. Ci fermiamo a Lugano e
mangiamo una pizza. Non vi era comunque nulla da
festeggiare !!! Oggi dopo 25 anni ho rievocato, forse
per la prima volta in maniera dettagliata quei momenti e
quella situazione. Mi piace concludere questo mio
ricordo con una preghiera che il 29 maggio di quest'anno
da più parti si è levata al cielo. La trascrivo: Un
ultima preghiera, mia dama, prima della sera. un bacio
ai fratelli dispersi nel Belgio, quella sera, di
venticinque anni fa. anch'io c'ero! rimboccali meglio,
perché non sentano più freddo sotto il manto delle
nostre bandiere !!!
Fonte: Juventusclubandria.it
© 7 giugno 2010
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"Vidi quei cadaveri
all’Heysel: Non ho vinto nessuna Coppa"
Bruno Limido, ex giocatore
della Juventus, ci racconta quel maledetto 29 maggio
1985.
di Francesco Caielli
VARESE
- Bruno Limido, varesino venuto su nel settore giovanile
biancorosso, nella stagione 1984/85 si era guadagnato la
possibilità di fare il grande salto. La chiamata della
Juventus, la maglia bianconera. C’era anche lui, quella
sera maledetta: in campo, negli spogliatoi, a viverla in
prima persona e oggi a raccontarla. "Sono passati
trent’anni ma il dolore non è passato, non se n’è
andato. È stata una cosa troppo grande, una tragedia
inaccettabile. Uomini, donne e bambini erano partiti per
vedere una partita di pallone e sono tornati a casa in
una bara". Regalai i miei biglietti - Limido ci regala
il punto di vista del giocatore, di quello che ha
vissuto il dramma con un occhio diverso. "Già il giorno
prima avevamo avuto un assaggio del clima che c’era in
città. Eravamo andati in centro per fare una
passeggiata, e i tifosi del Liverpool ci hanno sfasciato
il pullman a sassate. Siamo dovuti scappare". Poi, la
sera della partita. "Siamo arrivati allo stadio un paio
d’ore prima della partita: attorno all’Heysel c’erano
gruppi di inglesi ubriachi, ma nulla di più. Usciti sul
campo abbiamo visto che le tribune erano già piene
zeppe, compreso il famigerato settore Z. E pensate, io
avevo in tasca due biglietti per mio fratello, che poi è
rimasto bloccato e non è riuscito ad arrivare. Non
sapevo che farne, e li ho dati a due di Tradate che
conoscevo. Loro avevano i biglietti per il settore Z che
era già pieno, io gli ho dato i miei di tribuna. Mi
ringraziano ancora oggi". Il dramma. "Eravamo negli
spogliatoi e abbiamo capito che qualcosa non andava.
Arrivava gente con la testa spaccata, sanguinante, che
parlava di morti. Allora io e alcuni miei compagni ci
siamo vestiti e siamo tornati in pullman. Mentre
raggiungevo l’uscita, lungo il corridoio, sono passato
sotto il settore Z e ho visto i morti con i miei occhi.
Alcuni coperti da un lenzuolo, altri no. Siamo saliti
sul pullman, macché giocare. Poi però è arrivato il capo
della polizia belga che ci ha obbligato a tornare negli
spogliatoi: "Ci sono trentanove morti, ma se non giocate
ce ne saranno tremila". Perché i nostri tifosi erano
inferociti, volevano vendicarsi. Ci hanno obbligato a
giocare e lo abbiamo fatto". Quella partita. "Non c’è
stata nessuna partita, nessuno di noi ha festeggiato a
parte quel giro di campo che ci è servito per buttar
fuori la rabbia e la tensione. Nessun festeggiamento,
nessuno ha detto una parola dagli spogliatoi fino al
rientro a Torino. Qualcuno ha scritto che abbiamo
festeggiato la coppa, non è vero. Il giorno dopo sono
andato all’aeroporto di Linate insieme a Scirea per
accogliere alcuni dei morti. Di fianco a chi aveva perso
un figlio, un padre, un marito". Per Limido, non c’è
stata nessuna Coppa. "Io come calciatore non ho vinto
nessuna Coppa dei Campioni, non lo dico mai quando me lo
chiedono. Io ho vinto un campionato di serie B e basta".
Su La Provincia di Varese di venerdì 29 maggio due
pagine speciali con approfondimenti e ricordi dei
protagonisti di quel giorno. Di chi è partito dalla
nostra provincia per vivere un sogno e si è ritrovato in
un incubo.
Fonte:
Laprovinciadivarese.it
© 29 maggio 2015
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LETTERA DEL TIFOSO LIVIO
"Heysel, io c'ero"
Buongiorno, ho letto tante
cose e visto qualche ricostruzione in questi giorni,
sull'Heysel. Io c'ero, avevo 22 anni, ero là con due
amici, ma nella curva opposta. In realtà fu un colpo di
fortuna, io avevo il biglietto della curva Z, poi loro
trovarono i biglietti nell'altra e lo presero anche per
me, per stare insieme. Vi potrei raccontare tante cose,
ma un paio sono molto rilevanti. Non ho mai visto
nessuno organizzare un evento in modo così incompetente
come fecero i belgi e in uno stadio così fatiscente
(anche se allora molti stadi erano vecchi, però questo
era per la finale !!). Tutti sapevano che gli inglesi
erano pericolosi, sfasciavano l'Europa da anni, potrei
raccontarvi cosa fecero a Torino nella curva della Juve
nel 1980 durante Inghilterra-Belgio, eppure di polizia
non ce n'era dentro lo stadio. Noi, semplici spettatori,
non abbiamo saputo dei morti fino a che non siamo
usciti. Forse gli Ultrà della Juve sapevano, eravamo
nella stessa curva, ma molti di noi non sapevano. Morire
per una partita di calcio è tutto l'opposto di quello
che dovrebbe significare questo sport. E' stato
terribile e penso sia una ferita che molte famiglie si
portino ancora dietro, anche se spero che siano riuscite
in qualche modo a trovare serenità. Saluti, Livio.
Fonte: Tuttojuve.com
© 1 giugno 2015
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Ex postino di Mondovì
''Ho assistito alla tragedia
dell'Heysel ma non ho smesso di andare allo stadio"
"Siamo arrivati allo stadio a mezzogiorno. Fuori i
tifosi inglesi erano già ubriachi e i poliziotti ci
hanno proibito di imboccare una strada per evitare il
contatto. Grazie a Dio mi son trovato nella curva
''giusta'', ma da lontano ho visto bene la prima carica
dei tifosi inglesi contro gli italiani. Una scena
terribile. Allucinante: centinaia di persone
schiacciate, decine di corpi cadevano dal muretto. Non
lo dimenticherò mai". Giovanni Lobera, 72 anni, ex
postino di Mondovì, ha vissuto la tragedia dell'Heysel,
lo stadio di Bruxelles dove mercoledì 29 maggio 1985 si
disputò finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool:
39 tifosi morti (30 italiani) (N.D.R. 32). Ieri mattina,
accompagnato dalla figlia Cristina, sedeva sorridente
sugli spalti di Chiusa Pesio, per vedere la seduta di
allenamento bianconera. Ricorda ancora: "Scirea e
Cabrini erano venuti sotto la nostra curva a chiedere di
stare calmi. Sono tornato al pullman, al sicuro. Non ho
visto la partita, non immaginavo che si sarebbe giocata.
E non si doveva giocare". Ma Lobera non ha smesso di
andare allo stadio e c'era anche lui, il 22 maggio 1996
a Roma, alla finale di Champions Juventus-Ajax:
"Vittoria ai rigori, ma pulita e meritata. All'Heysel
non voglio ripensare. Oggi mi godo la nuova squadra. Gli
acquisti estivi ? Bene Pirlo e Vucinic, ma non ci siamo
ancora. Il nuovo stadio ? Bello, ma gli ultras ci sono
sempre. Non so se sia veramente a misura delle famiglie.
Serve un cambio radicale nella cultura dello sport".
Fonte: La Stampa
© 6 agosto 2011
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"Io, sopravvissuto"
di Roberto Belingheri
Minetto Locatelli di Villa
d'Almè era nella curva Z: "Non so come, ma sono vivo.
Aspettai un amico con l'angoscia che fosse morto. Da
allora impossibile tornare allo stadio".
Si rigira il quadretto tra le
mani, e probabilmente non sa se amarlo, o odiarlo.
Perché quel quadretto contiene un biglietto, e quel
biglietto è l’11 settembre della sua vita. Minetto
Locatelli, 68 anni di Villa d'Almè, dipendente della
Regione Lombardia in pensione da una manciata di mesi, è
un superstite dell'Heysel. Trent'anni fa come oggi era
lì, nel maledetto stadio di Bruxelles che ospitò la
finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool.
Non solo era lì: era nel settore Z, il famigerato. La
tomba di 39 tifosi, 32 italiani. Schiacciati
dall'"onda", così la chiama lui, degli hooligans,
schiacciati dalla foga di scappare, schiacciati dal
crollo del muro. Trent'anni dopo legge sul sito dell'Eco
il racconto di Fiorenzo Peloso, offline da lunedì, e si
decide a togliere dal tavolino il quadretto col
biglietto e a bussare alla porta del giornale. "Vi
racconto, se volete. Ma non riesco a scrivere, mi
emoziono troppo". Minetto racconta con calma, con parole
misurate. Ma è come se fosse ieri. Ricorda dettagli che
sono sintomi, più che immagini: è tutto lì, scolpito,
indelebile. Una ferita che non si rimargina, e non è
retorica. L'Heysel è un bivio: c'è un prima e c'è un
dopo. In mezzo, quella sera. "Io amavo il calcio, andavo
sempre all’ Atalanta e con un amico conoscevamo il papà
di Cabrini. Così pochi giorni prima della finale ci dice
che se avessimo voluto saremmo potuti andare a
Bruxelles, stare con la squadra in hotel la sera prima e
in caso di vittoria partecipare alla festa della notte
seguente. Aveva due biglietti di questa curva Z, non me
ne feci un problema e forzai un amico perché venisse con
me. E partimmo". Fin lì, c'erano tutti gli ingredienti
perché la finale fosse uno di quei fatti che vedi anche
per dire "io c'ero". "Arrivata la sera come promesso
andammo nell'hotel della Juve. Parlai due tre minuti con
Scirea, ovviamente con Cabrini, con Platini, con Boniek,
con Tacconi che sembrava il più allegrone. Ricordo in un
angolino, riservatissimo, anche Boniperti". Nulla che
lasciasse presagire una piega tanto negativa dei fatti.
"Fu la mattina dopo che cominciammo a vedere, già verso
le 10, tifosi inglesi ubriachi che spaccavano bottiglie
vuote contro le vetrine. La sera, arrivati vicini allo
stadio, la situazione era pessima. Gli inglesi erano
tutti ubriachi e portavano dentro intere casse di birra.
Una volta entrati, dopo pochi minuti proposi al mio
amico di uscire, perché sentivo che si metteva male. Al
cancello un poliziotto mi puntò il manganello al petto:
uscire era vietato. Così ci posizionammo vicini a un
cancello verde, pronti a scappare. C'era un rumore di
fondo che sento ancora adesso, come una mandria di
cavalli che batte gli zoccoli".
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L'onda. Minetto parla
dell'onda, a quel punto. Sono gli inglesi che avanzano,
sfondano, travolgono. "Una cosa di cinque, sei secondi
che travolge tutto e tutti. Io mi sono ritrovato sulla
cima di una rete metallica alta tre metri, coi pantaloni
stracciati, e non sapevo come fossi finito lì. Riuscì a
scendere, scappai fuori. Cerano feriti ovunque, e la
polizia che manganellava tutti perché rientrassero. Già
allora ero volontario della Croce Rossa, provai a
chiedere a due ragazzette che sembravano addette al
soccorso qualcosa per curare i feriti: avevano solo
salviettine umidificate che nemmeno volevano darmi.
Provai a chiedere del ghiaccio a un camioncino che
vendeva bibite: niente. Fu a quel punto che mi arrivò
una bastonata sulla spalla, da dietro. E l'istinto di
conservazione prese il sopravvento. Scappai, correndo
più forte che potevo. Passava un tram e salì al volo.
Poi con un taxi in hotel, lontano da tutto". Minetto
racconta, gesticola, nei suoi occhi sembrano scorrere le
strade di Bruxelles. "Ma non sapevo più niente del mio
amico. Aveva due bambini piccoli, lo avevo convinto io a
venire e alla tv belga parlavano di cento, centoventi
morti. Mi sentivo morire. Chiamai casa, avvisai di non
chiamare casa sua perché non sapevo se fosse vivo o
morto. Spensi la tv. Scesi in strada, per aspettarlo
seduto sul marciapiede. Dopo tre ore, le più lunghe
della mia vita, arrivò un taxi e da quella macchina
scese lui, con la testa fasciata. Ci siamo abbracciati
per dieci minuti. Lui non era morto, e io mi sentivo
rinato". Minetto non si vergogna delle sue lacrime,
quelle di trent'anni fa come di quelle di oggi che
affiorano mentre racconta. Sorride dicendo che
quell’amico "è passato al ciclismo e anche oggi è al
Giro". Sorride perché forzandolo in quella trasferta non
l'ha consegnato alla morte dell'Heysel. Ma poi racconta
il dramma del "dopo", che nonostante la vita salvata
presenta ogni giorno il conto dell'Heysel. "Non ho più
potuto prendere il treno o un bus, andare al cinema.
Accompagnavo mio figlio alle trasferte della sua squadra
in auto, seguendo il pullman. Vado con mia moglie al
cinema e dopo dieci minuti la aspetto fuori. Dove c'è
gente, io comincio a tremare. La mia mente sa che non è
pericolo al cinema, ma è la stessa mente che mi obbliga
a scappare". E lo stesso vale per il calcio. Nel 2012,
dopo 27 anni di digiuno, Minetto ci riprova. "Col
ritorno dell'Atalanta in serie A, volevo tornare e
vincere questa paura. Ho fatto l'abbonamento in tribuna
Creberg. Al primo gol dell'Atalanta, tutti in piedi
esultando. Io lì, seduto, fermo e tremante. Quel rumore
mi sembrava quello dell’Heysel, quella folla mi sembrava
quella dell'Heysel. E sono scappato via in mezzo a tutta
quella gioia". Nemmeno il momento più bello del calcio,
la gioia di un gol, poteva rimettere insieme i cocci di
quel che l’inferno del calcio aveva distrutto. Quasi
anni prima.
Fonte: L’ Eco di Bergamo
© 29 maggio 2015
Fotografia:
Minetto Locatelli ©
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La strage dell’Heysel, tra
"pescecani" e "mammasantissima"
Roberto Losurdo era già
intervenuto su questo blog. Lo aveva fatto raccontando
di quando conobbe l’avvocato Giorgio Ambrosoli, che lo
difese anni prima di essere ucciso per ordine di Michele
Sindona. Nel 1985, poi, Losurdo si trovò allo stadio
Heysel dove il 29 maggio 1985 si doveva disputare - e
così è stato - la finale di Coppa dei Campioni di calcio
tra Juventus e Liverpool. E finì in tragedia. Oggi, a
trent’anni di distanza, ricorda i fatti che lo
condussero lì e cosa visse in Belgio. Sono granata da
sempre, come tutti i masochisti. Quasi tutti i bimbetti,
nel 1949, tifavano Torino. La Juve, manco esisteva o
quasi. Poi il sogno finì a Superga. Nel 1983, la Juve ad
Atene, perse la finale della Coppa dei campioni (così si
chiamava allora). Mi colpì non tanto la sconfitta,
quanto il fatto che ben 5 mila tifosi bianconeri
rimasero fuori dallo stadio in quanto sprovvisti di
biglietto. Così, quando all’inizio del 1985, si cominciò
a riparlare di una possibile finale della Juve a
Bruxelles, serpeggiò quel "fiuto" dell’affare già
utilizzato in altre occasioni. La mia amica Antonella
Squillaci, responsabile dell’Ufficio Turistico Belga a
Milano, mi consigliò di contattare la Signora Puttaert,
direttrice dell’Ufficio Turistico di Bruxelles alla
Grand Place. In risposta alla mia balbettante lettera in
francese, giunse una risposta in perfetto italiano. La
signora in questione era in pratica nativa della
Svizzera francese con marito italiano. Risposta
interlocutoria con invito ad andare a trovarla qualora
mi fossi trovato da quelle parti. Nel marzo 1985, a
Parigi, con un gruppo di turisti "abbandonati" a una
guida locale, eccomi a Bruxelles per incontrare questa
affascinante bionda che mi scambia per bianconero
ironizzando sull’ottimismo degli italiani per una
probabile finale ancora molto lontana. Nella pausa
pranzo, scopriamo di avere delle conoscenze comuni,
familiarizziamo e, una volta rientrati in ufficio, parte
la telefonata al presidente della federazione calcio
belga il quale mi riceve di lì a poco. Tutto come in un
film, il presidente chiama il responsabile dell’evento
il quale prende nota del tutto rivolgendomi poi la
fatidica domanda: "Combien de billets vous voulez ?" Non
sono pronto alla domanda e balbetto: 500 ? Nessun
problema, qualora la Juve fosse andata in finale, un
telegramma per riconfermare il tutto La Juve, in
extremis, ottiene la finale. Da un anno, collaboravo con
un’agenzia (Angolo di Vacanza, via Ricordi, direttrice
Emma Tabacco, una "grande" nel campo dei viaggi). È
titubante, ma comincia a crederci.
Si decide per il viaggio in
bus (ne opzioniamo 11), 3 giorni con un pernottamento.
Ma dove ? I "pescecani" hanno bloccato tutti i posti
hotel disponibili. Opto per tutto il Nord della Francia
da Lille a Tourcoing e così via, poco più di 100
chilometri da Bruxelles. Parto dunque per Lille, prendo
gli accordi con tutti gli hotel, vado a Bruxelles a
incontrare colei che risulterà determinante durante la
fase tragica: Monique Pansaert, giunonica, simpatica e
disponibile fiamminga di Anversa. Ha soggiornato per
qualche anno a Milano con la famiglia, parla un buon
italiano e accetta di farmi da assistente. La base
operativa sarà il Jolly Hotel, vi sarà un pullman di
riserva che raccoglierà gli eventuali "dispersi" dopo la
sicura vittoria della Juventus. Simpatica parentesi:
c’erano stati degli attentati contro la comunità ebraica
qualche giorno prima. Usciamo dall’hotel. Tanta polizia
e nessuna auto. Anzi, ce n’è una. Gli artificieri stanno
armeggiando. È l’auto di Monique. Un allarme bomba
rivelatasi infondato ed ecco il risultato. La tv ci
riprende. Il marito di Monique vede tutto dal piccolo
schermo. Non so cosa avrà pensato. Il 24 aprile, la Juve
perde 0-2 a Bordeaux, ma conquista ugualmente la finale
(andata 3-0). Nella notte, partono tutti i telegrammi di
riconferma. Il ritiro dei biglietti, è fissato per il 2
maggio direttamente presso lo stadio dell’Heysel. Il 1°
Maggio, mi imbarco per raggiungere la capitale belga.
Una fila davanti a me, viaggiano i "pescecani", i
"mammasantissima" di queste manifestazioni. Una
imprecazione: "Se un c. come Losurdo ha i biglietti,
perché a noi li rifiutano ?". Sorrido sornione, ci siamo
salutati poco prima, mi conoscono di vista, ma non
associano il mio nome. Per loro sono un "nessuno" che
bazzica negli ambienti dei viaggi, probabilmente uno
"scroccone" talvolta presente nel corso delle numerose
manifestazioni turistiche che abbondano. Monique, viene
a prendermi in hotel e raggiungiamo l’Heysel. Mentre in
auto ci avviciniamo allo stadio, c’è già una colonna
lunga oltre 2 chilometri di persone in fila per
accaparrarsi i biglietti. Non immagino che quei
tagliandi, destinati ai tifosi locali, finiranno in gran
parte nelle mani di centinaia di italiani, tra cui i 39
predestinati alla morte. I "pescecani" compreranno quei
biglietti da bagarini. Ne compreranno tanti ancora,
tanti falsi. La scena "tragicomica" avviene nella sala
di attesa dello stadio. Siamo puntuali alle 9. Ma loro
sono già lì in attesa da tempo. Consegno il biglietto da
visita alla reception: "Monsieur Losurdo, entrez". Dopo
20 minuti, esco con 500 biglietti di ingresso, settore
N, quello (insieme a M e O) dedicati agli italiani,
ossia dalla parte opposta del famigerato settore Z in
cui non doveva trovarsi nessun italiano. Il biglietto
dei popolari costava 9 mila lire.
Il 29 maggio, che le cose
potevano mettersi male, lo si poteva intuire nel corso
della giornata. Temperatura vicino ai 30 gradi, inglesi
seminudi che giocavano al pallone con le porte
improvvisate composte da montagne di lattine di birra,
vuote. La metro per raggiungere lo stadio mostrava segni
vandalici con finestre rotte ed escrementi. Avevo già
assistito i nostri ed ero ritornato in hotel per
ripartire poco dopo per lo stadio. Ero provvisto di un
"pass". Mi dirigo verso la tribuna numerata che confina
con il settore Z. È già in atto un fuggi fuggi. Qualcuno
ha il viso insanguinato. La "mattanza" si era già
consumata. Un poliziotto via radio urla "il y a beaucoup
de morts". Cerco di mettere il naso nell’interno, ma
vengo respinto non senza aver sbirciato e visto gente
distesa per terra, immobile la polizia a cavallo. Mi
dirigo nel settore N a vedere cosa succede ai nostri.
Hanno visto i disordini ma non ne hanno capito la
gravità, non sanno dei morti. Il resto è cosa nota.
L’incontro si gioca, la Juve vince. Do disposizione agli
accompagnatori di ogni singolo bus di partire
immediatamente subito dopo la fine dell’incontro. A
Milano, Emma Tabacco si porta in ufficio a ricevere
centinaia di telefonate che dirotta in Belgio a Monique.
La trovo affranta con 2 telefoni che non smettono di
squillare. Mi dice di portami al comando dei pompieri
che funge da centrale operativa. Nessuno parla italiano.
Sulle pareti, fogli "uni" con scritte a mano riportanti
i nomi dei morti e quelli dei feriti che man mano
giungono dagli ospedali. Sono subissati di telefonate.
Mi accolgono bene, mi dirottano molte telefonate.
Genitori, mogli, figli che dall’Italia e non solo (una
telefonata giunge dall’Australia) chiedono di un loro
congiunto. Debbo velocemente fare il giro e leggere i
nomi. Per fortuna, non devo comunicare nessun morto,
solo qualche ferito. Rientro in hotel all’alba. Monique
è altrettanto distrutta. Ci abbracciamo. Il pullman di
scorta è parcheggiato lì vicino. Lo autorizzo a
ripartire. Non me la sento di fare un viaggio così
lungo. In aeroporto ci sono tutti. Gianni Brera parla
con un euforico Cabrini. Hanno vinto la coppa. Sorrisi
da parte di altri calciatori. Non vedo ombra sui loro
volti. Che tristezza. I voli sono completi. Attendo fino
al tardo pomeriggio per un primo posto disponibile.
Seguo il calcio, ma mai più ho più voluto occuparmi di
organizzazione di simili viaggi.
Fonte: Antonella.beccaria.org
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Bruxelles, 30 anni dopo
di Matteo Lucii
Bruxelles, 30 anni dopo. Lo stadio
è vuoto, ed è molto diverso da allora. Non fa paura. Era
l'Heysel, adesso gli hanno dato un nome regale. Sembra
più piccolo, forse lo è. Ricerco i posti di allora:
l'entrata angusta, le gradinate basse, le reti da
pollaio, il muretto. È tutto cambiato. Non fa paura.
Passeggio sul prato, sulla pista di atletica, guardo il
settore Z. Non fa paura. Entro dal cancello giallo,
salgo gli scalini e ritrovo il punto, quasi esatto, dove
eravamo. Guardo il settore Y, quello degli inglesi,
vuoto e pulito. Non fa paura. Mi siedo su un seggiolino
che allora non c'era, cercando l'amico Andrea,
conosciuto solo poche ore prima. Anche lui non c'è.
Respiro forte, guardo il prato, sembra più vicino, e
forse lo è. Non fa paura. Chiudo gli occhi, torno
ragazzino con un balzo indietro nel tempo. Adesso Andrea
c'è. Ed ho paura. Sento i cori minacciosi degli inglesi,
la tensione di chi chiede di allontanarsi dalla rete di
divisione, i fischi degli altri settori ai primi
striscioni incendiati. Vedo arrivare le pietre, vedo
volare i razzi ad alzo zero, vedo persone colpite cadere
a terra senza reazione. Vedo le reti che oscillano, i
primi che scavalcano, gli altri che lanciano bottiglie.
Sento tremare la curva, come scossa da un esercito di
cavalli al galoppo, sento le urla di spavento e il
terreno che cede sotto ai miei piedi. Vedo il tabellone
della curva opposta, dalla mia nuova posizione, sdraiato
e schiacciato da corpi pesanti di gente sconosciuta.
Sento i lamenti, le richieste di
aiuto, l'agonia di chi pensa di non farcela e lo strazio
di chi si è reso conto dell'accaduto. Vedo gli inglesi
che ripiegano, lasciandosi dietro morti e feriti,
incapaci di qualsiasi umanità. Sento il respiro che si
strozza, una volta, due volte, mentre sul tabellone di
fronte vedo me, da piccolo, su una piccola bicicletta
con le ruotine. Sento forze insospettate che mi
strappano dal punto di non ritorno, e gambe tremanti che
mi portano nel parco. Mi lascio cadere in ginocchio.
Sono vivo. Riapro gli occhi. Sono vivo. Possiamo
cominciare, non ho più paura... C'è un particolare che
mi ha colpito, rivedendo il video. Un particolare che
non avevo notato le prime volte, preso dalle emozioni
delle immagini. E' la didascalia sotto il mio nome.
Sopravvissuto. Eppure ero andato, ragazzino, ad una
festa, ad una giornata di sport, non in guerra. E
nemmeno avrei dovuto sentirmi reduce da incidente o da
un disastro naturale. Invece è proprio così: sono un
sopravvissuto. Ma a cosa ? Camminando in quello stadio,
guardando quello che non poteva più essere, ho
realizzato che trent’anni, purtroppo, sono passati
invano. E che ci sarà, prima o poi, un nuovo Heysel.
Diverso nelle forme, negli accadimenti, nelle dinamiche,
ma ci sarà.
Perché è vero che le colpe, quel
giorno, le ebbero in molti: dagli hooligans allo stadio
fatiscente fino alla polizia inadempiente e
pressapochista. Ma la colpa principale, che ci piaccia o
no, ce l'abbiamo noi. Nessuno escluso. Ce l'abbiamo
quando esponiamo striscioni vergognosi sulle disgrazie
degli avversari, come se i morti non fossero di tutti.
Ce l'abbiamo quando cantiamo a squarciagola cori infami
sui tifosi con i colori diversi dai nostri. Ce l'abbiamo
quando quei cori non li fischiamo. Ce l'abbiamo quando
stampiamo le magliette con scritto -39, e quando non ci
rifiutiamo di stamparle. Ce l'abbiamo quando pensiamo di
essere simpatici a firmarsi #juvemerda oppure #amoliverpool.
Ce l'abbiamo quando paragoniamo i fiorentini agli ebrei,
quando vorremmo una nuova Superga. Ce l'abbiamo quando
smettiamo di incitare i nostri colori per offendere
quelli altrui. Ce l'abbiamo allo stadio, al bar, davanti
alla televisione. Ce l'abbiamo quando non riusciamo a
capire che si può essere sportivi rimanendo tifosi. Ce
l'abbiamo perché non abbiamo capito che a volte, per
caso o per fortuna, a tutto questo si può sopravvivere,
ma che a volte, per fato o per disgrazia, può non
capitarci. E in quel momento, sarà troppo tardi. Per
colpa nostra. #39respect.
Matteo Lucii
Fonte: Facebook © 29 maggio 2015
Fotografie: GETTY IMAGES © (Not for commercial
use) © Repubblica.it ©
Video: "History Of Football The Beautiful Game" DVD 2002
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"Io, sopravvissuto alla strage
dell’Heysel"
Racconto di un mugellano…
di Matteo Felli
Ricorreva ieri (mercoledì 29 maggio), il 28esimo
anniversario della strage dello stadio "Heysel" di
Bruxelles, dove persero la vita 39 persone di cui 32
italiane. Il tempo non ha né cancellato il dolore, né il
ricordo, di una notte che doveva essere di festa e
invece si trasformò in una carneficina. Juventus -
Liverpool, la finale di Coppa Campioni del 1985. La
sfida fra la "Vecchia Signora" alla ricerca del primo
titolo nella massima competizione dopo tante finali
perse e i famigerati "Reds" capaci di vincere in pochi
anni ben quattro edizioni e fare incetta di trofei.
Esodo in massa dei tifosi italiani verso la capitale
belga. Perché non si poteva mancare all’appuntamento con
la storia. E fra loro c’erano tanti Mugellani. Uno di
questi era Matteo Lucii, a cui fu assegnato un biglietto
nel settore Z, quello che diventerà la tomba di 39
persone. "Avevo 17 anni, spiega Matteo. L’eccitazione
per la finale di Coppa Campioni era immensa. Mi ritrovai
da solo su questo pullman, ma durante il lungo viaggio
feci conoscenza di tanti ragazzi. Fra questi un ragazzo
di Pistoia (ritrovato su facebook da poco tempo), che
sarà determinante nel salvarmi la vita all’interno dello
stadio". Una sorta di gita spensierata verso una finale
attesa da tempo. Ma una volta arrivato a Bruxelles
Matteo iniziò a capire che la festa ben presto avrebbe
lasciato spazio ad altro. "Tutti eravamo a conoscenza
delle "turbolenze" dei tifosi del Liverpool. I
famigerati "Hooligans" che già in passato si erano resi
autori di atti vandalici e teppistici. Ma non credevo
che sarebbero potuti arrivare a tanto. Già quando
arrivammo in città la situazione sembrava ormai in mano
ai tifosi inglesi, che picchiavano gente alle fermate
degli autobus, spaccavano vetrine e soprattutto
riuscivano a far entrare dentro lo stadio, spranghe
bastoni e casse di birra a quantità industriale. Già
dall’esterno lo stadio appariva logoro e fatiscente. Ma
dentro era peggio. C’erano pezzi di legno ovunque. Le
gradinate erano formate da "Sanpietrini" già spaccati o
che potevi spaccare con un semplice pestone. Per non
parlare delle reti di recinzione, autentiche reti da
pollaio. Insomma il luogo ideale per una carneficina".
Uno stadio obsoleto e non idoneo per contenere 30 mila
persone, un servizio d’ordine non altezza e 10 mila
inglesi ubriachi pronti a "caricare" i tifosi italiani.
"Entrammo dentro lo stadio due
ore prima del match. Eravamo nella curva opposta a
quella della Juventus. La particolarità di questa curva
era che per metà era occupata dagli inglesi e l’altra
metà doveva essere destinata ad un pubblico neutrale. E
invece le agenzie di viaggio avevano venduto i biglietti
anche i tifosi della Juventus. Nel mezzo la famosa rete
da pollaio e 4 poliziotti che ben presto si dileguarono.
Io volevo stare lontano dai tifosi del Liverpool e
invece questo ragazzo di Pistoia mi disse: "Matteo non
ti preoccupare sono esperto di arti marziali non aver
paura. Ti difendo io". Fu la mia salvezza, continua
Lucii. Perché se fossi andato verso il famoso muretto,
che poi crollò, molto probabilmente sarei morto anche
io. Verso le 19 gli inglesi ormai in preda dell’alcol
iniziano prima a lanciare oggetti verso di noi e infine
iniziano a caricare, spazzando via la rete di divisione.
Fu l’inizio della fine". L’inizio della fine per
davvero, visto che gran parte del pubblico juventino e
neutrale si riversò chi verso l’unica uscita (una porta
di un metro per un metro che dava sulla pista
d’atletica) e chi verso il muretto del settore Z che
sotto la pressione di 5 mila persone impaurite, implose
di colpo facendo precipitare nel vuoto tantissime
persone. Molti morirono così. Altri morirono schiacciati
nella calca, soffocati sotto centinaia di persone. "Ho
rischiato anche io quella fine. Al momento in cui gli
inglesi sfondarono la rete mi ritrovai in terra con
tantissime persone sopra di me. Rimasi per oltre venti
minuti in quella posizione. Riuscivo a malapena ad
alzare la testa e l’unica cosa che vedevo era il
tabellone dello stadio, posta sopra l’altra curva. Ad un
certo punto mi resi conto che stavo male che non
respiravo più. Pensai di essere arrivato al capolinea.
Feci appello a tutte le forze che mi erano rimaste e
provai ad alzarmi nonostante il peso delle altre persone
sopra. Alla fine ci sono riuscito". Scosso da quanto
successo, Matteo, come prima cosa pensò bene di uscire
dallo stadio e cercare un telefono per avvisare a casa.
"Il mio primo pensiero fu quello, perché avevo perso
pure la percezione del tempo. E invece quando io
telefonai a casa erano le 19.40. Il collegamento con la
Rai sarebbe iniziato soltanto cinque minuti dopo. Meglio
così.
La mia famiglia non si rendeva
conto di quello che stavo raccontando. Capirono ben
presto appena accesero la Tv. Così come fece tutta
l’Italia. Non voglio immaginare l’angoscia di chi stava
davanti alla Tv e aveva familiari o amici allo stadio".
Matteo scappò dallo stadio e nello shock forse non si
era reso conto della gravità dell’accaduto. Se ne rese
conto due ore dopo quando salito sul pullman che lo
aveva portato a Bruxelles, accese la tv portatile e
dalla voce di Bruno Pizzul sentì il telecronista Rai
annunciare il numero dei morti. "Non credevo a quello
che stavo sentendo. La partita fu giocata per motivi di
ordine pubblico e forse fu la cosa più giusta. Almeno
evitarono alle due tifoserie di darsi battaglia fuori
dallo stadio. In questo modo dettero tempo all’esercito
di intervenire e iniziare a far defluire gli inglesi
fuori dallo stadio. Io non ho più rivisto quella
partita. Ma quella coppa non la sento certo mia. Ha
sbagliato la Juventus. Non dovevano né alzarla quella
coppa, né tantomeno portarla in Italia. Quella fu una
partita giocata per evitare ancora più morti". Ma il
dolore più grande di Matteo Lucii, così come quello dei
tifosi juventini è stato quello di vedere sia da parte
della vecchia dirigenza bianconera, sia da parte della
popolazione belga, come una sorta di rifiuto verso
quello che era successo. "E’ stato ancora peggio vedere
che qualcuno e qualcosa, volesse cancellare quello che
era successo all'Heysel. Voler abbuiare tutto. Insomma
far finta che quel giorno non fosse mai esistito. Questo
mi ha fatto molto male. Non mi è piaciuto il
comportamento della dirigenza della Juventus, né quello
del Belgio. (Nel 1990 fu il Milan la prima squadra
italiana a tornare in quello stadio dopo la tragedia,
per un quarto di finale di Coppa Campioni. Prima
dell’inizio della gara, il capitano Franco Baresi
depositò un mazzo di fiori sotto il tragico settore Z. I
tifosi belgi lo riempirono di fischi e offese, NdR). Ma
questo comunque non mi ha impedito di tornare allo
stadio. Adesso tutte le volte che torno allo stadio
evito di mettermi vicino ai muretti o alle balaustre.
Purtroppo quella sera mi ha insegnato qualcosa". Ha
insegnato qualcosa a tutti. Anche se c’è voluto il
sangue e la morte di 39 persone.
Fonte: Okmugello.it
© 30 maggio 2013
Fotografia: Adriano
Lazzarini ©
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Heysel - Finale Juventus
Liverpool 29 maggio 1985
Ricordo di Claudio Zavaroni
di Mauro Lusetti
Ancora oggi mi sento un miracolato in quanto in quegli
attimi pensavo veramente di non riuscire a portare a
casa la pelle. Partii alla volta dell'Heysel assieme a
Franco un amico di Reggio Emilia con un viaggio in
pullman organizzato dall'agenzia Planetario. Eravamo in
una cinquantina ed ovviamente tutti carichi per
assistere ad una storica finale, come purtroppo si è
rivelata ma per motivi non certo calcistici... Anche mio
fratello Paolo decise di partire assieme ad altri amici
con un viaggio organizzato dal Juventus club di S.
Martino in Rio (RE). Io non sapevo in che settore dello
stadio lui fosse stato assegnato come neppure lui sapeva
del mio, né tantomeno i nostri genitori. Ci ritrovammo
ai cancelli di ingresso dello stadio qualche ora prima
dell'apertura; Settore Z. La temperatura era tiepidina
ma con il calare della sera si fece sentire una fresca
arietta. Avevamo con noi un giubbino di jeans, una felpa
e poco altro. Ad un'oretta dall' inizio della gara o
forse meno gli spettatori del nostro settore furono
presi di mira dal lancio di pietre da parte dei tifosi
Inglesi che intendevano recuperare più spazio nel loro
settore garantendo una libera entrata ad altri tifosi
senza biglietto. Volavano anche bottiglie e casse di
birra. Lo stadio si sgretolava facilmente facilitando
gli inglesi che potevano così trovarsi a disposizione
una infinita quantità di pietre da poter scagliare. Da
parte nostra nessuna reazione ma solo la volontà di
fuggire da questo assalto. La fuga purtroppo si è
fermata davanti alle transenne sulle gradinate e sul
muro laterale di recinzione dello stadio. La folla venne
pressata a tal punto che il respiro veniva a mancare. Il
servizio di sicurezza (peraltro scarso e mal
organizzato) rimase inerte e indifferente anche di
fronte alla volontà della gente di poter entrare nel
terreno di gioco per allentare la pressione che si era
creata. In quei terribili momenti ed in pochi secondi ho
ripercorso tutta la mia breve vita di allora quasi
19enne che aveva rinunciato alla gita della classe per
risparmiare i soldi e poter andare ad assistere alla
finale. Ero vicino al muro, la pressione era immensa, il
respiro mancava. Vidi persone che riuscirono a
scavalcarlo e mettersi in salvo. Ad un tratto la
pressione si fece meno pesante e riuscii (non so ancora
come) a salire sul muro. Aiutai altre persone a fare lo
stesso e mi misi in salvo. Sentii grida che arrivavano
dalla parte inferiore del muro laterale. Centinaia di
persone che correvano, calpestando altre persone
cercando di mettersi in salvo. Sirene di ambulanze,
medici ed assistenti che trascinavano i corpi fuori
dallo stadio come sacchi di immondizia. Non c'era
organizzazione nonostante si sapesse da tempo il
possibile pericolo dei famosi hooligans inglesi. Non
c'era polizia, non c'era assistenza, nulla di nulla. Si
seppe più tardi che in Italia qualcuno pianse sulla bara
di un altro tifoso e che gli oggetti personali furono
portati via dai cadaveri. I miei primi pensieri in
quegli attimi andarono a mio fratello che era presente
allo stadio ed ai miei genitori che erano sicuramente
davanti alla TV, inermi spettatori di quel macello. Non
si era ancora nell'era dei telefonini e chiamare a casa
in quegli attimi fu impossibile. Tornata la "calma"
rientrai nello stadio dalla parte superiore della
gradinata settore Z: una sensazione di vuoto totale.
Migliaia di vestiti, scarpe, effetti personali lasciati
sulle gradinate dalla gente che all'impazzata cercava di
mettersi in salvo. Io rimasi in maglietta e giubbino di
jeans, persi le scarpe così come anche altri effetti
personali. Sulla gradinata (ancora non so come) vidi uno
stivale di mio fratello. Lo raccolsi stringendolo a me.
Era proprio il suo. Dove sarà Paolo ? Vagai per la
gradinata, scesi verso la recinzione del terreno di
gioco e vidi mio fratello assieme ad altri amici. Ci
abbracciammo, un attimo che durò un'eternità. Non si
poteva restare su quella maledetta gradinata del settore
Z. Gli organizzatori dei vari Operators si indaffaravano
per radunare le persone appartenenti ai loro gruppi. E
Franco ? Lo rividi fuori dallo stadio di fianco alla
tribuna assieme ad altri ragazzi del nostro gruppo.
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Ci fecero radunare sotto la
tribuna centrale. Dissero che non era sicuro stare fuori
dallo stadio per timore dei tifosi inglesi. E la partita
? Giocano ? Non giocano ? Che importava ? Tutto si è
fermato nel momento del crollo del muro e della morte
dei nostri amici. Il tempo si è fermato in quel preciso
istante nella mia memoria. Assistemmo alla partita nella
parte inferiore della tribuna centrale. Si vedeva bene
la gradinata del settore Z. Era vuota, odore di morte
dappertutto. Ma la mia memoria, ferma, non ricorda un
attimo di quella partita, solo alcuni lampi, alcuni
flash. Si percepiva solo l’insulso odio degli hooligan,
l’avanzare degli inglesi che lanciano per aria gli
effetti personali dei tifosi esanimi. Uno sfregio alla
persona e alla sua dignità. Al termine della partita ci
ritrovammo tutti sul pullman. Tutti tranne uno, Claudio
Zavaroni. Dov'è Claudio ?? Ci si affannava a chiedersi
chi lo aveva visto, se era nell'elenco dei morti o
feriti. Niente, nessuna conferma o smentita. Avremmo
dovuto andare a dormire in un hotel fuori dal Belgio.
Tutti, di comune accordo decidemmo che non era il caso e
girammo nei vari ospedali della città alla ricerca di
notizie che riguardavano Claudio. Passammo tutta la
notte in pullman senza avere notizie certe di Claudio.
Al mattino fu possibile, tramite (non ricordo bene) il
Consolato o l'Ambasciata poter telefonare ad i nostri
cari in Italia e comunicare che per fortuna stavamo bene
e che saremmo ripartiti la mattina stessa alla volta
dell'Italia, senza Claudio purtroppo. Le notizie che ci
giungevano erano frammentarie. Chi diceva che Claudio
era rientrato con altri amici, chi ci diceva che era
ferito, altri alla fine (purtroppo a ragione) morto; non
volevamo credere. Non ho mai più rivisto le immagini
della partita. Non voglio commentare se era giusto o non
giusto giocare quella partita. Qualsiasi decisione fosse
stata presa era quella sbagliata. Non importava ormai
più niente a quelli del settore Z. Voglio comunque
rivolgere una critica alla squadra. Non si gioisce, non
si fanno giri di campo con la coppa quando sei a
conoscenza della tragedia che si era compiuta. E dire
che si era in un calcio milionario sì, ma non ancora
miliardario come quello degli anni 90 dove tutto va bene
pur di far muovere il circo e il denaro. Non c'erano
ancora i grossi interessi degli sponsor e delle TV ma si
volle giocare e soprattutto esultare. La coppa, come ha
giustamente scritto qualcuno, doveva essere lanciata
verso la tribuna, verso i dirigenti dell’Uefa che hanno
voluto quello stadio e quella vergognosa organizzazione.
Tutto ciò avvenne anche a causa della totale
inadeguatezza dello stadio Heysel e della mancanza di un
seppur minimo servizio di sicurezza, ma come cita il
testo sul biglietto... L'organizzatore declina tutta la
responsabilità di eventuali incidenti, di qualsiasi
natura essi siano, che potrebbero accadere prima e
durante la manifestazione sportiva per il quale il
biglietto è stato acquistato. Accettando questo
biglietto, il titolare rinuncia a tutti i ricorsi per
responsabilità contro l'organizzatore. Ricordando quella
terribile serata, spero di aver dato un contributo alla
memoria dell'amico Claudio Zavaroni. Non ci conoscevamo
ma era un amico, in ogni caso un amico. Qualcuno una
volta scrisse: "Nessuna persona è morta finché vive nel
cuore di chi resta". Al contrario, tutti hanno voluto
dimenticare la tragedia e i suoi morti: l’UEFA, il
Belgio, la città di Bruxelles, la polizia. Come se nulla
fosse successo. Hanno addirittura cancellato lo stadio,
ricostruendolo e cambiandogli nome, nella speranza di
eliminare anche il ricordo di quella tragica sera.
Fonte: Vivishanghai.com
© 29 Maggio 2010
Fotografie:
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