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Roberto Fagotti
Curva Settore
M-N-O
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Renzo Falavigna
Curva Settore M-N-O
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Pierpaolo Filippi
Curva Settore Z
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Gino Franchetti
Tribuna Stampa
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Beppe Franzo
Curva Settore M-N-O
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Un brindisino
all'Heysel: "La percezione della tragedia solo alla
fine"
di Ludovica Anelli
Ventinove maggio 1985. Ricorre venerdì prossimo
il trentesimo anniversario della strage dell'Heysel, lo
stadio di Bruxelles, dove persero la vita 39 persone, 32
italiane tra cui il mesagnese Alberto Guarini. Le
immagini di un giorno tanto triste continuano ad essere
stampate negli occhi di chi era presente. E la conferma
di questo viene proprio da un brindisino, l'architetto
Carlo Faccini.
BRINDISI
- Ventinove maggio 1985. Ricorre venerdì prossimo il
trentesimo anniversario della strage dell’Heysel, lo
stadio di Bruxelles, dove persero la vita 39 persone, 32
italiane tra cui il mesagnese Alberto Guarini. Malgrado
il tempo trascorso, il ricordo di una notte così tragica
è ancora vivo nella mente di molti. Una sfida, quella
tra Juventus-Liverpool nella finale di Coppa dei
Campioni dell’85, vinta, poi, dalla "Vecchia Signora,
che ha segnato per sempre il mondo del calcio moderno e
che, ancora oggi, è impossibile da dimenticare. Le
immagini di un giorno tanto triste continuano ad essere
stampate negli occhi di chi era presente. E la conferma
di questo viene proprio da un brindisino, l’architetto
Carlo Faccini che, contattato da BrindisiReport.it, a
distanza di anni, ha ripercorso quella drammatica
esperienza che ricorda come se fosse ieri. "E’ passato
tanto tempo - racconta Faccini - ma ogni volta che ne
parlo mi vengono i brividi. Avevo 32 anni, ero giovane,
ma con la testa sulle spalle e ricordo perfettamente che
quel giorno, nonostante l’entusiasmo, la gioia di stare
lì fossero immensi, sin da subito ebbi la percezione che
stava per accadere qualcosa". Una sorta di presentimento
"salva-vita" per lui e per chi era al suo fianco. Sì,
perché, stando a quanto ha raccontato, Faccini, arrivato
a Bruxelles, si rese conto che in curva, dove aveva
acquistato il biglietto, c’era una confusione mai vista
prima, tale da capire che quella davanti ai suoi occhi
di lì a poco sarebbe diventata una situazione davvero
molto pericolosa. "Mi accorsi, notando una serie di
movimenti strani tra la tifoseria inglese - prosegue
l’architetto - che il clima non era dei migliori.
Allora, mentre persi di vista mio fratello Antonio che
si allontanò con altra gente, presi con me il più
piccolo, Stefano e, insieme con un amico, ci
allontanammo con l’intenzione di non restare lì, ma di
andare a vedere la partita in un bar nelle vicinanze.
Cambiammo idea, quando andando via, mi resi conto che
avevano aperto l’entrata della tribuna centrale, quasi
completamente vuota e dove provammo a sederci, riuscendo
così a vedere tutta la partita". Nessuno, infatti, se
non i coinvolti nello scontro, si accorse della strage
che era scoppiata poco prima del match per mano dei
tifosi del Liverpool, i cosiddetti hooligans che, già in
passato, si erano resi autori di atti vandalici e
teppistici. "A parte un po’ di caos, qualche oggetto
lanciato all’inizio, noi che avevamo ormai preso posto
da tutt’altro lato - dice ancora Carlo Faccini - non ci
accorgemmo di nulla: vedemmo la gara e poi, solo una
volta usciti dallo stadio, non trovando più neanche il
pullman che da Bruxelles doveva portarci all’aeroporto
di Ostenda per prendere il volo di ritorno, venimmo
messi al corrente di quanto accaduto. Furono, infatti,
le forze dell’ordine che, d’accordo con gli
organizzatori, decisero di far giocare ugualmente la
partita tentando di ovattare la notizia il più
possibile, questo per non creare giustamente ulteriori
tensioni". Solo la mattina dopo, attraverso tv e
giornali, Faccini e gli altri scoprirono tutto, venendo
a conoscenza anche di tragici eventi, quelli che occhi e
orecchie mai avrebbero voluto vedere e sentire. "Il
giorno seguente - ricorda Carlo - mi rincontrai con mio
fratello più grande, Antonio. Più leggevo i giornali e
sempre meno era la forza che avevo per commentare. Seppi
che Alberto Guarini (il ragazzo mesagnese che rimase
coinvolto nel tragico evento, NdR) con cui avevo
condiviso il viaggio di andata aveva perso la vita.
Quella notizia per me fu come una doccia fredda, ci ho
messo del tempo ad imparare a convivere con quel dolore,
ancor più perché conoscevo bene quel ragazzo, più volte
avevamo anche giocato insieme a tennis". Una tragedia
che non stava né in cielo, né in terra e che non troverà
mai una spiegazione valida. "Sono passati 30 anni -
conclude Faccini - ma ho impresso ben in mente tutta la
storia. Conservo ancora oggi il biglietto in curva per
quella finale. Certo, devo dire, che il fatto che
all’epoca non ci fossero telefoni cellulari, che erano
poche le forme di sicurezza, credo che incise
notevolmente sull’accaduto, aggravando di conseguenza
tutta la situazione. Oggi, da questo punto di vista, c’è
molta più attenzione. Ciò sempre fermo restando che per
una tragedia del genere non esistono giustificazioni di
alcun tipo. Quello doveva solo essere un giorno di
festa".
Fonte:
Brindisireport.it
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Fotografie:
Brindisi Report
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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"Per anni non sono più
andato allo stadio"
di Loris Del Frate
PORDENONE
- Roberto Fagotti, pordenonese di Rorai grande ha 60
anni. Ne aveva la metà la notte maledetta dell’Heysel.
Era con altri tre amici di Pordenone nella curva "N"
opposta alla strage. "Non abbiamo capito subito cosa
accadeva. Anzi, pensavamo che i tifosi juventini
avessero assalito quelli del Liverpool. Poco dopo
capimmo che la colpa era degli Hooligans e che erano
morti tanti italiani. Montò una grande rabbia e anche i
tifosi moderati volevano fare giustizia. Anche contro la
polizia che non ci aveva tutelato. Far giocare la
partita fu giusto, servì a calmare gli animi. Al gol
della Juve non ho esultato, volevo andarmene. Per farci
uscire passammo in mezzo a un cordone di poliziotti e
tutti lanciavamo monetine: non avevano difeso gli
italiani. Solo dopo sette ore riuscii a chiamare casa.
Mi madre mi disse: Dove sotu ? Torna casa subito. Allo
stadio sono tornato molti anni dopo".
Fonte: Il
Gazzettino
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LA STORIA
Renzo Falavigna: "Io,
scampato alla strage dell'Heysel"
di Riccardo Lonardi
Pegognaga
- C'era anche lui allo stadio Heysel di Bruxelles il 29
maggio 1985. Data e tragedia che invano cerca di
dimenticare da 33 anni. Mentre racconta alla Voce di
Mantova la sua terribile esperienza, un singhiozzo gli
sale in gola e gli si inumidiscono gli occhi. Il
pegognaghese Renzo Falavigna c'era andato da juventino,
certo del trionfo della squadra del cuore nella finale
Coppa Campioni contro il Liverpool. "Siamo partiti da
Gonzaga - racconta - con il club di Juventini Due
Stelle, alle 4.30 del pomeriggio in 33 su un pullman
proveniente da Brescia. Con me c'era Massimo Giovannini
di Villa Saviola. Sedici ore di viaggio per giungere
alle 8 del mattino successivo a Bruxelles, dove non
c'era nessun cartello che indicasse l'Heysel. Ad
accompagnarci nel parcheggio dello stadio abbiamo fatto
salire uno spazzino del posto. Il parcheggio era già
quasi interamente occupato da altre corriere italiane ma
soprattutto inglesi. Gli hooligans erano giunti il
giorno prima, carichi di bottiglie di birra. Già
ubriachi, si divertivano a lanciare le bottiglie ovunque
mandandole in frantumi. Scena premonitrice di ciò che
sarebbe avvenuto poi. Alle 15 giungono poliziotte a
cavallo che, ignorando gli inglesi, hanno puntato su noi
italiani imputandoci del disastro di bottiglie e vetri
sparsi e quindi offendendoci con male parole". Perché
hanno ignorato gli inglesi ? "Secondo me per pregiudizio
anti-italiano risalente all'epoca in cui i nostri
connazionali andavano a lavorare nelle miniere belghe.
Allo stadio, davanti al quale sorge un'ampia fontana,
altro spettacolo indecente: gli hooligan ci si erano
buttati dentro più ubriachi che mai buttando addosso a
noi italiani le bottiglie vuote". Descrive quindi le
pessime condizioni dello stadio, le cui scalinate nella
curva destinata agli italiani, erano praticamente di
pietre sovrapposte una sull'altra. Nelle stesse
condizioni la curva "Zeta", dove gli hooligan si erano
messi ad usare le pietre come proiettili contro gli
juventini. Per evitarle molti sono scappati verso la
recinzione, che poi ha ceduto sotto la pressione,
causando le prime vittime. "Nel frattempo - racconta
Falavigna - viene verso la nostra curva capitan Scirea
con gli occhi pieni di lacrime dicendo "Ragazzi è
successo un pandemonio. Vi chiediamo scusa, ma per far
andare fuori dallo stadio gli hooligans con un certo
ordine c'impongono di giocare la partita". Che è
iniziata con un'ora e mezza di ritardo. Sono quindi
giunti i poliziotti veri, le teste di cuoio, facendo
fuoriuscire gli hooligan e chiudendoli in un cerchio di
una ventina di carrarmati per tenerli a bada. Noi
italiani siamo invece stati costretti ad uscire dallo
stadio dopo mezzanotte, per evitare che ci scontrassimo
con gli inglesi. Abbiamo fatto in tempo a vedere lo
spettacolo di morte. La Juve aveva vinto su rigore di
Michel Platini, ma nessuno aveva voglia di festeggiare.
Volevamo solo tornare a casa e piangere i nostri morti".
Renzo Falavigna è stato invitato in questi giorni a
Reggio Emilia, dove, per iniziativa privata, è stato
eretto un monumento alle vittime della furia hooligans e
della carenza organizzativa belga.
Fonte:
Vocedimantova.it
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Video:
Comitato Heysel Reggio Emilia ©
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Il pegognaghese Renzo
Falavigna ricorda la tragedia dell’Heysel che lo sfiorò.
"Mai più"
di Riccardo Lonardi
PEGOGNAGA
- Il tifo calcistico è fatto di esplosioni di gioia, di
momenti di amarezza, ma in qualche caso anche di momenti
di vera tristezza. "Da fedelissimo juventino - dice
Renzo Falavigna di Pegognaga - non posso dimenticare
quel tragico 29 maggio 1985, quando nello stadio belga
Heysel anziché gioire per la prima vincita di Coppa
Campioni della mia squadra del cuore, piansi per i 39
tifosi che ci hanno rimesso la vita. Io era là a vivere
quella tragedia. E ringrazio il Signore per essere stato
sfiorato personalmente dalla sciagura. Ma ancor oggi, a
35 anni di distanza, gli occhi mi si riempiono di
lacrime avendo visto scomparire degli amici di Reggio
Emilia, coi quali ho raggiunto il Belgio ad assistere
alla disputa della Juve con i Reds del Liverpool. A loro
infatti e a tutti gli juventini deceduti all’Heysel è
dedicato il monumento eretto appunto a Reggio, di fronte
al quale io sono ritratto. Questi fatti non dovranno mai
più accadere, perché lo sport deve essere inno di vita".
Fonte:
Mantovauno.it
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Fotografia: GETTY IMAGES
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30 anni fa l’Heysel
"Camminavo sui cadaveri"
di Giorgio Pasini
Il racconto di
Pierpaolo: il 29 maggio 1985 aveva 13 anni. Il braccio
del padre lo salvò dal massacro nella Curva Z.
"Avevo
quasi tredici anni, non ero mai andato allo stadio prima
di quel giorno. Papà non se la sentiva. Roma-Juve o
Lazio-Juve erano partite a rischio. Quando però la Juve
andò in finale di Coppa dei Campioni chiamò zio
Giovanni, l'altro fratello di papà. Viveva in Belgio, ad
Anversa, dove aveva sposato una fiamminga. "Posso
trovare i biglietti, venite ?". Così partimmo in cinque:
io, papà, zio, suo figlio di diciotto anni e un amico.
In auto, una Citroen BX. Un lungo viaggio, lunghissimo.
Siamo arrivati ad Anversa il giorno prima della partita,
ricordo tutto nitidamente". Comincia così il racconto
drammatico e doloroso, intenso da trattenere il fiato,
di Pierpaolo Filippi, laziale di Latina, famiglia
juventina da sempre. Quella terribile sera del 29 maggio
1985 era al fianco di papà Gianfranco nella famigerata
Curva Z dell'altrettanto famigerato stadio Heysel di
Bruxelles. Quello che non c'è più. In mano due biglietti
vecchi di trent'anni, li maneggia con estrema cura. Sono
il numero 11336 e 11337. Costo 300 franchi: 7,44 euro al
cambio d'oggi, 9.518 lire quello d'allora. Sono
ingialliti, come i giornali d'epoca, belgi e italiani,
che il padre ha custodito a sua insaputa per quasi tutto
questo tempo. Davanti c'è la corona della monarchia
belga e il timbro postale su una scritta inquietante in
francese e fiammingo: "L'organizzazione declina ogni
responsabilità in caso di incidenti, di qualsiasi
natura, che potranno verificarsi durante il match".
Dietro la mappa dello stadio e i loghi degli sponsor
della competizione. Pierpaolo, che ora ha 43 anni e 2
figlie (Lucia di 9 e Anna di 6), ce li mostra come l'albumetto
portafoto a fiori con il quale ha collezionato gli
autografi dei giocatori juventini. Ognuno ben riposto
sotto la plastica e con il nome scritto a matita. I suoi
idoli. Parliamo nella sua agenzia immobiliare davanti
allo Stadio Olimpico (l'ex Comunale) di Torino, dove s'è
trasferito l'anno dopo quella finale. Proprio di fronte
alla curva Filadelfia. In Corso Agnelli. Cinque vetrine
più in là c'è il "granatastore". Da Superga all'Heysel,
ognuno ha le proprie tragedie a Torino. Pierpaolo ci
racconta quella che trent'anni fa, assurdamente, ha
portato via 39 vite bianconere. Non la sua. Grazie al
braccio possente di papà Gianfranco che lo cinse forte
per quella terribile, interminabile e indimenticabile
mezz'ora. "Ricordo la tensione enorme di un bambino che
per la prima volta andava allo stadio a vedere la sua
squadra e viveva un evento enorme. Una tensione gioiosa.
Sentivo così la giornata che non mangiai praticamente
nulla. Avevo lo stomaco chiuso. Arrivammo a Bruxelles
all’ora di pranzo. E subito rimasi stupito del fatto che
noi e i tifosi inglesi entrammo subito in contatto, ma
in un clima di festa. Cambi di sciarpa, foto mescolati:
niente lasciava presupporre quello che sarebbe successo
dopo poche ore. Era una bella giornata di sole, cocente.
Ricordo la lunga attesa fuori dallo stadio prima di
poter entrare. Verso le sei e mezza di pomeriggio
finalmente aprirono i cancelli e subito ebbi un
presagio. La curva Z era dedicata al tifo non
organizzato, alle famiglie come la nostra. Gli ultras
della Juve erano dalla parte opposta, ma a sorpresa ci
trovammo a fianco gli hooligans del Liverpool. Entrammo
insieme con loro. Ricordo che la polizia belga tolse
l’asta di plastica della mia piccola bandiera, mentre
loro entravano con le bottiglie di birra in mano. E
allora erano di vetro. Assurdo. Come dentro. C’era
pochissima polizia. E quasi tutti gli agenti sotto la
curva della Juve. Inspiegabile. Nei resoconti ho letto
che c’erano 164 poliziotti. Non so se fosse vero, di
sicuro non sentivi la presenza delle forze dell’ordine.
Rossi contro bianchi - Il pre-partita però fu
tranquillo. C’era un incontro tra due squadre giovanili
locali. Evidentemente doveva intrattenerci. Gli inglesi
tifavano per la squadra rossa, noi per quella bianca.
Avevano scelto in base ai colori. Partirono i classici
cori da stadio. Sfottò, per lo più. Noi inneggiavamo
all’Everton, la rivale del Liverpool che quell’anno
vinse il campionato inglese. Poi, improvvisamente,
l’atmosfera si scaldò. Troppo. Scoppiarono delle mini
risse tra gli stessi hooligans. Ogni tanto qualcuno,
completamente ubriaco, veniva preso e portato fuori.
Eravamo divisi da una semplice rete metallica. Sì, di
quelle che si usano negli orti. Gli inglesi iniziarono a
fare pressione, senza che la polizia intervenisse.
Secondo me capirono che potevano andare oltre, che
nessuno li avrebbe fermati. Così lo fecero, senza
nessuna opposizione. Noi eravamo famiglie spaventate, le
forze dell’ordine non erano adeguate. Così come lo
stadio fatiscente. I gradini erano molto bassi e
malconci. Si staccavano pezzi con le mani. Cominciarono
a tirarceli addosso, assieme a razzi. Ci ritirammo verso
l’estremità della curva. L’intero settore Z era
ammassato in un terzo della curva. Una calca esagerata.
Ricordo dei ragazzini che per scappare ci passavano
sulle teste. Non c’era un buco dove infilare il piede.
Ci trovammo divisi in due gruppetti. Io, papà e lo zio
belga, gli altri tre spariti dalla vista. Ero
terrorizzato. Papà fin dal primo momento mi strinse
forte a lui e non mi lasciò mai un attimo. Fu la mia
salvezza. Io davanti, lui dietro a cingermi il petto col
braccio destro. Il sinistro era bloccato, si faceva
fatica a respirare. Impossibile muoversi, ripararsi. E
arrivava di tutto. Ricordo gente a fianco a me con la
faccia gonfia per le pietre che arrivavano. Uno venne
colpito in pieno da un razzo. C’era sangue dappertutto.
Io fui davvero fortunato. Non fui colpito da nulla. Papà
si ruppe due costole nella calca.
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Sotto i piedi sentivo qualcosa
di solido e molliccio al tempo stesso, ma non riuscivo a
vedere nulla. Pensavo fossero gradini, non era così. Il
silenzio era pazzesco. Gli inglesi urlavano, noi eravamo
paralizzati. A un certo punto mio zio, che nei piccoli
spostamenti s’era trovato a un paio di metri da noi
chiese aiuto. Lo vedevamo scivolare giù, come
risucchiato da una palude. E’ stato il momento più
drammatico. Papà non poteva muoversi. Se mi avesse
lasciato sarei finito. In quel momento successe l’evento
che ci salvò: crollò il muro. Sì, il muro accusato di
aver causato la maggior parte dei morti. In realtà fu il
contrario. Prima di tutto non era alto, il dislivello
non era eccessivo e sotto c’era del verde, non
l’asfalto. Fu la nostra fortuna. Cedendo fu una valvola
di sfogo per tutti noi. E in quel momento gli inglesi si
resero conto del dramma e in un attimo cessarono di
lanciare pietre e pressarci. Vidi zio che stava cedendo,
senza più forze, e qualcuno improvvisamente gridò:
"Calma, calma. E’ finita". La gente iniziò a
sparpagliarsi e quello fu il momento dello choc. Capii
cosa avevo sotto i piedi. Non gradini, non vestiti o
borse o striscioni: erano le vittime, la maggior parte
delle vittime. Erano morti calpestati, asfissiati. I
volti erano lividi, c’era sangue. I corpi uno
sull’altro. La fine che poteva fare mio zio. O io, se
mio padre non mi avesse tenuto. Il bambino del giornale
- Nelle cronache lessi che perse la vita anche un
bambino di undici anni, cagliaritano. Si chiamava Andrea
Casula. Ricordo di aver visto un bambino nella calca. Fu
un attimo. Tempo di girare la testa e non c’era più.
Eccolo, è qui in questa foto (indica un’immagine
sgualcita di un giornale dell’epoca, NdR). Terribile.
Era il caos generale. Papà mi portò verso la tribuna. I
tifosi inglesi continuavano a cantare e urlare.
Dall’altra parte dello stadio quelli della Juve non
capivano cosa succedeva. Arrivarono i poliziotti a
cavallo, ma era tutto finito. Noi eravamo sopra l’uscita
degli spogliatoi. Il tunnel era di plastica, si vedeva
qualche giocatore del Liverpool. Ricordo che uno di loro
indicò i tifosi e fece il gesto del dito sulla tempia:
questi sono pazzi. La telefonata a casa - Papà mi lasciò
con lo zio e tornò nella curva a cercare gli altri. Anni
dopo mi raccontò quanto fu straziante. Non trovò
nessuno, ma per fortuna erano salvi e ci incontrammo
fuori dallo stadio mentre accatastavano i corpi sotto
lenzuoli bianchi. C’erano ambulanze, medici, poliziotti,
feriti. Papà cercò una cabina per chiamare a casa. Non
c’erano i cellulari. Disse che stavamo bene, che non
eravamo in quel macello. Una bugia. Alla partita non
pensavamo più.
Tornammo a casa dello zio, ad Anversa. La
finale che aspettavo con ansia, la mia prima volta allo
stadio, la vedemmo in tv. In un clima assurdo. Il giorno
dopo comprammo i giornali locali. In molte foto c’era
papà con la sua camicia di jeans che camminava tra i
cadaveri. In una ci sono anch’io. S’intravvede la mia
testa bionda. Poi siamo ritornati a casa. Il tema di 3ª
media - A mamma abbiamo raccontato la verità tempo dopo,
un po’ per volta. Come ci ho messo tempo per tornare
allo stadio. A scuola tutti mi chiedevano, io non
riuscivo a parlarne. Cercavo di rimuovere. Poi l’anno
dopo, per l’esame di terza media c’era un tema:
"Raccontate un episodio della vostra vita che vi ha
colpito". Fu l’occasione per liberarmi. Scrissi 13
pagine, fitte. La professoressa telefonò a casa per
farmi i complimenti: "Non posso darvi il tema, ma lo
terrò come esempio" disse ai miei genitori. Mi diede un
bel voto. E venimmo a Torino. Volpiano per l’esattezza.
Giocavo nelle giovanili del Torrazza Piemonte.
L’allenatore era Giuseppe Forte, il padre del vostro
Camillo. In porta c’era Luca, suo fratello. Ero un
difensore. Stopper. Ho giocato fino in Prima categoria,
nell’Ivrea. E nel frattempo sono tornato allo stadio.
Ero troppo tifoso, Platini il mio idolo. Prima al Combi,
per gli allenamenti. A caccia di autografi. Li ho tutti.
Poi sono andato alle partite. Quelle più tranquille. Ai
derby mai, quelli no. Al Delle Alpi sono andato per
Italia 90. Comprai l’abbonamento. Vidi tutte le partite
tranne una, la semifinale: c’era l’Inghilterra, contro
la Germania per di più. Troppa paura, troppi ricordi.
Regalai il biglietto. Dal giorno dell’Heysel non ho più
visto una squadra inglese dal vivo. Capitai in un bar
del centro per Juve-Manchester di Champions, quella del
gol di Inzaghi. Ricordo le stesse scene di allora.
Chiesi al barista perché vendesse alcoolici che erano
vietati. Mi rispose: "Provaci tu a non darli a questi
qui"… Sono passati trent’anni, vorrei chiudere il
cerchio, finire bene questa storia anche se i ricordi
non potrò mai cancellarli del tutto. Vorrei andare a
Berlino. Se fosse andato in finale il Bayern no, non mi
sarei fidato. Con il Barcellona invece mi sentirei
sicuro. Sono a caccia di un biglietto". Un altro da
collezionare, infilare nella scatola che papà Gianfranco
gli ha nascosto per anni. C’erano dentro i due tagliandi
della Curva Z dell’Heysel e i ritagli di giornale che ci
sta mostrando.
Fonte:
Tuttosport
© 28 maggio 2015
Fotografie:
Pierpaolo Filippi
(Album Flickr) ©
Icone: It.vecteezy.com
© Pngegg.com
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"La mia notte senza
Coppa all'Heysel"
Una
prima volta c'è per tutti, ma non sempre fa bene
ricordarla. A Bruxelles, stadio Heysel, quella sera del
29 maggio 1985 io c'ero. C'ero e ho visto tutto, al di
là di quel gol su rigore di Michel Platini, decisivo per
l'assegnazione della Coppa alla Juve, che pure non
avrebbe potuto in futuro ricordare quello come un giorno
glorioso. Tutto o quasi ho visto. Perché il mio
"esserci" è partito in ritardo, impegnato com'ero a
litigare, spalle al campo, con i responsabili dei
collegamenti telefonici che non avevano fatto trovare a
noi del "Giorno" il richiesto telefono al posto stampa
in tribuna. Quando mi sono accorto che qualcosa di
strano accadeva nel settore di curva alla sinistra della
nostra postazione probabilmente da casa mia avevano già
chiamato con preoccupazione comprensibile la redazione
del giornale, perché il dramma che si stava consumando,
visto in Tv, doveva essere se possibile persino
amplificato. "Guarda lì che cosa succede !", bofonchiò
Gianmaria Gazzaniga al mio ritorno al posto, senza
nemmeno chiedermi che risultato avessi ottenuto con
quelli dei telefoni. Lì dove ? Sentivo urlare, ma non
capivo, lo stadio era una bolgia infernale. La prima
immagine che mi colpì fu nella curva alla mia destra,
dov'erano raggruppati i tifosi della Juve. La curva era
evidentemente in tumulto. Ne partivano lanci di oggetti
verso il campo; qualcuno tentava, respinto dai pochi
agenti incaricati di mantenere l'ordine attorno al
rettangolo di gioco, di scavalcare le transenne e
buttarsi dentro. "Siamo alle solite - mi scappò detto.
Che cosa vogliono fare quei deficienti ?". "Di là -
disse una voce - è di là che tentano di andare". Fu
allora che mi accorsi di quel che stava accadendo. Si
vedeva gente che premeva contro le reti di protezione e
la polizia belga che usava il manganello. Qualcuno si
aggrappava a improbabili appigli, poi si lasciava cadere
oltre, sul corridoio in pietra o sul prato vicino alla
bandierina del calcio d'angolo. Ma sul prato, ecco,
c'era gente distesa. Il servizio d'ordine si preoccupava
di liberare il campo, ma non era possibile: la piccola
fiumana pareva ingrossarsi sempre più e gli hooligans
inglesi bersagliavano senza sosta (cos'erano ? pezzi di
ferro ?) il settore a rischio accanto alla loro curva,
dove molti italiani che non avevano fatto ricorso alla
prevendita degli Juve Club avevano trovato posto. "Non
ha retto - si sentì urlare - è crollato il muro !".
Allora sì il disastro divenne visibile. C'erano corpi
distesi sul prato e non si muovevano più. C'era gente
che si muoveva da uno all'altro, altri invitavano gli
agenti a intervenire e indicavano la follia inglese che
non aveva fine, la fuga disperata di inermi pacifici
tifosi alle prese con energumeni seminudi armati di
spranghe di ferro: sospinti nel vuoto, gli italiani
cadevano gli uni sugli altri. "Vado giù", dissi, mentre
le barelle cominciavano a portar fuori corpi inanimati e
la polizia intimava bruscamente di liberare il terreno
di gioco a tutti coloro che si reggevano in piedi. Udivo
voci scandalizzate mentre l'altoparlante invitava il
pubblico a mantenere la calma: "Ma che cosa fanno ?
Vogliono che si giochi ?".
Mentre
si dava inizio alla partita (era la scelta migliore,
sosteneva qualcuno, per evitare che il vecchio Heysel
diventasse un campo di battaglia), io scoprivo
tutt'altro spettacolo nello spiazzo davanti al settore
tribune. Erano arrivate alcune ambulanze e altre ne
erano state richieste, ma la capitale del Belgio
appariva incapace di reggere alle proporzioni della
tragedia che nessuno aveva saputo prevedere. Con
l'esperienza di quel giorno e di tutti i problemi che
sarebbero stati creati in seguito attorno al calcio da
masse di scriteriati e violenti pseudo tifosi, qualcuno
certo avrebbe stabilito che in quello stadio, glorioso
ma trascurato e non adeguato a ospitare in sicurezza una
finale europea, non si poteva giocare. Ma allora
l'organizzazione calcistica era ancora fin troppo
ingenua a fiduciosa. Chi mai avrebbe pensato di dover
approntare un piano di soccorso per qualcosa come
seicento feriti ? Perché erano quelle, si sarebbe
appreso poi, le proporzioni del dramma. Avevano montato
delle tende per tenervi riparati i feriti più gravi.
Lungo il muro dello stadio erano allineati una trentina
di corpi, ricoperti alla meglio. Erano morti ! Ma quante
vittime senza più speranza aveva dunque provocato quella
follia ? Nessuno sapeva dirlo. Non certo gli spettri che
si aggiravano lì attorno, ognuno raccontando il proprio
pezzetto di storia tragica. Di come i tifosi italiani
fossero stati accolti allo stadio come potenziali
delinquenti dalla polizia a cavallo belga, fin troppo
amichevole nei confronti dei tifosi del Liverpool. Di
come gli inglesi, ubriachi, avessero cominciato una
volta assiepati nel loro settore (ne erano entrati,
probabilmente, più di quanti fossero in possesso di
regolare biglietto) a lanciare lattine piene di birra,
poi pezzetti di cemento strappati alla carne di quello
stadio in decadenza, poi proiettili di ferro. Di come
avessero poi sfondato le transenne e divelto le sbarre
di ferro da usare come armi. Di come qualcuno avesse
impugnato il coltello nel gettarsi contro quella piccola
folla tranquilla di famiglie e tifosi anche occasionali:
uno juventino grande e grosso aveva sparato un pugno in
pieno viso al capo dei facinorosi armati, bloccando lo
slancio di coloro che lo seguivano e mettendo in salvo
se stesso e altri vicini a lui. Di come avessero visto
entrare allo stadio eccitata e sorridente una bella
ragazza dai pantaloni verdi (forse Giuseppina Conti, 17
anni) e l'avessero poi riconosciuta fra i corpi distesi
e semicoperti, proprio per il colore di quei pantaloni.
L'avrebbero messa nel titolo di uno dei miei articoli da
Bruxelles la "ragazza dai pantaloni verdi". E il mio
orrore sarebbe continuato il giorno dopo, con i racconti
dei feriti e dei familiari dei morti (39 il bilancio
finale) trovati negli ospedali della città, essa pure
sotto choc, tanto che, in cerca degli italiani ancora in
vita e pur tuttavia gravemente colpiti, sarei
addirittura entrato, senza incontrare i dovuti
sbarramenti cautelari, fra i corpi nudi di uomini e
donne in una sala di rianimazione. Ma intanto quella
sera maledetta, mentre dettavo la mia cronaca mesta,
avevo potuto vedere Michel Platini, un grande in
assoluto, andare al gol su rigore per un fallo su Boniek
commesso fuori area. Con quel gol la Juve aveva vinto la
sua prima Coppa Campioni. Ma aveva vinto ? (NdR:
Gino Franchetti, nato a Milano il 7 marzo 1943, è un
giornalista sportivo. Ha lavorato, oltre che per "Il
Giorno", al "Corriere dello Sport-Stadio" e alla
"Gazzetta dello Sport", dov'è stato caporedattore. Ha
seguito da inviato finali di Coppa e Mondiali. Dal 1995
al 1999 è stato responsabile delle relazioni esterne e
delle attività editoriali dell'Inter)
Fonte:
Sportmediaset.mediaset.it
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Una coppa in più, 39
tifosi in meno:
la tragedia dell’Heysel prima della
finale
di Federico Callegaro
Il racconto di chi ha vissuto quell’incubo,
trentun anni dopo.
TORINO
- "Dal punto in cui eravamo noi sembrava che il settore
Z stesse ondeggiando. Si vedeva un’indistinta marea
rossa che premeva verso gli spalti occupati dagli
italiani e li faceva arretrare". La sera del 29 maggio
1985 Beppe Franzo è dentro l’Heysel, lo stadio di
Bruxelles in cui la Juventus si gioca la Coppa dei
Campioni contro il Liverpool. E’ un ragazzo di vent’anni
ed è un ultras degli Indians, un gruppo di tifosi
organizzati che segue i bianconeri in tutte le
trasferte. "Eravamo partiti il giorno prima da piazza
Castello - racconta - All’epoca i pullman per le partite
fuori casa si radunavano tutti lì". Quello che sta
succedendo dall’altro lato dell’impianto sportivo e che
tutti i testimoni descrivono con la metafora dell’onda
umana lo racconta su "La Stampa" Carlo Capecci, un
avvocato di Pistoia che si trova allo stadio con tre
bambini. L’uomo ha preso i biglietti nel settore Z, il
lato sud della curva occupata dai tifosi del Liverpool e
che doveva servire da cuscinetto tra le opposte
tifoserie. Visto il grande numero di spettatori
italiani, però, in quel punto vengono collocati anche
gli juventini. A separare famiglie e pacifici tifosi
dagli hooligans inglesi c’è una semplice rete:
"Improvvisamente ho sentito un razzo sfiorarmi il capo.
Guardo verso quelli del Liverpool e li vedo che stanno
lanciando altri razzi verso di noi - racconta Capecci -
Siete matti ? Grido. Subito riparo con le braccia il
bimbo più piccolo, spaventato". E’ l’inizio di una
tragedia che costerà la vita a 39 persone. "Le donne
hanno cominciato a strillare, a spingere per scappare.
Ma non solo le donne. Tutti cercavano di allontanarsi il
più possibile dalla rete che li separava dai Reds.
Intanto continuava a volare di tutto, e
c’erano i primi
feriti. Gente colpita al capo col volto rigato dal
sangue". Nel settore Z ci sono soltanto famiglie. Gli
ultras bianconeri sono nell’altra curva e possono solo
intuire quello che sta capitando. "Quando vediamo che
gli inglesi caricano nuovamente verso i nostri decidiamo
di sfondare le barriere e entriamo in campo - racconta Franzo - La polizia belga era quasi tutta radunata sotto
il nostro settore, nell’altra curva dove stava avvenendo
la strage erano in pochi". La polizia carica gli ultras
italiani e riesce a respingerli ma Franzo si separa dal
suo gruppo. Inizia a percorrere a piedi l’anello della
pista di atletica nella speranza di trovare un punto di
accesso alle tribune: "Continuo a camminare e mi
avvicino sempre di più al settore degli inglesi. Arrivo
a pochi metri da loro e mi accorgo che c’è qualcosa che
non va. Ci sono bandiere della Juventus e tricolori
italiani distesi per terra e da sotto i drappi vedo che
spuntano dei piedi". Sono i primi morti. La
carica dei Reds ha spinto i tifosi bianconeri ad
ammassarsi contro un muretto che ha ceduto, facendoli
precipitare nel vuoto. Il tifoso riesce a prendere un
megafono e si mette a gridare verso le tribune spiegando
che è in corso una tragedia ma gli spettatori non lo
capiscono e gli lanciano addosso quello che hanno in
mano. "Eravamo lontani dal punto della strage. Abbiamo
saputo dopo quanto era veramente accaduto". Quello che
cercano tutti, durante e dopo il drammatico evento, è di
reperire informazioni. Lo fanno gli ultras collocati
nella curva opposta al settore Z e che intravedono
soltanto la scena, i famigliari di chi è andato in
trasferta, angosciati davanti al televisore ma senza la
possibilità di mettersi in contatto con i propri cari e
anche i tifosi in bus durante il viaggio di ritorno. "La
prima cosa che abbiamo fatto quando siamo rientrati in
Italia è stata andare a comprare i giornali - racconta
Franzo - Solo guardando le prime pagine abbiamo capito
davvero la dimensione della tragedia". Su alcuni
pullman, poi, dei posti a sedere sono vuoti. E’ il caso
di quello che riporta a casa lo Juventus club di
Alessandria, dove all’appello manca Walter Gianni, un
ragazzo di 27 anni di cui gli amici hanno perso le
tracce durante la carica degli inglesi. Il suo è un caso
fortunato. Nonostante l’angoscia degli altri
alessandrini, infatti, si scoprirà in serata che era
stato ricoverato in un ospedale di Bruxelles. "A casa
erano tutti preoccupati ma i miei genitori no perché mi
avevano visto in televisione - racconta Franzo - Dopo
essere tornato nel mio settore avevamo nuovamente
sfondato i cordoni della polizia per raggiungere gli
inglesi. Mio padre mi aveva visto al Tg mentre piantavo
nel centro del campo da calcio una bandiera Italiana. Il
suo commento era stato: Ho un figlio stupido ma almeno
so che è vivo". Alla fine, nonostante il ministro
dell’Interno belga ne avesse chiesto l’annullamento, la
partita si gioca. Motivi di ordine pubblico, spiegano le
autorità. Far uscire tutti dallo stadio sarebbe stato
peggio. La Juventus vince la Coppa ma, tra quelli che
sono all’Heysel, la partita non la guarda nessuno. Né i
tifosi, né Giovanni Agnelli, che appena saputo dei gravi
fatti ha deciso di tornare subito in Italia. "Gravissime
carenze erano state constatate nell’organizzazione del
servizio di sicurezza attorno allo stadio e al suo
interno". A Torino, però, la gente scende in strada per
festeggiare il successo sportivo. "Ed è la cosa che ci
ha fatto più male - spiega Beppe Franzo - Per noi sapere
che qualcuno aveva voglia di fare i caroselli con le
auto è stato un colpo al cuore. A distanza di tempo ho
avuto modo di incontrare tante persone che si
giustificavano persino per aver scelto di scendere in
strada in quella giornata di disgrazie". Una cosa simile
succede anche ad Alessandria, dove però dalla caserma
dei Carabinieri escono tutte le volanti che si impegnano
meticolosamente a multare i conducenti delle vetture che
si sono date ai festeggiamenti. Per la strage che è
costata la vita a 39 persone sono state accertate le
responsabilità degli hooligans inglesi e quelle legate
alla gestione dell’ordine pubblico, imputate alla
polizia belga.
Fonte:
Lastampa.it
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"Ho assistito alla
tragedia dell’Heysel
35 anni fa, questo è ciò che è
accaduto"
di Paul Fry
Un uomo ha raccontato in prima persona il
tragico evento.
Il
29 maggio 1985, durante la prima finale della Coppa dei
Campioni fra Italia e Inghilterra allo stadio belga
Heysel, si verificò una tragedia indimenticabile. Poco
prima dell'inizio della partita tra la squadra italiana
della Juventus e il Liverpool, ci fu una fuga di persone
che causò decine di morti. Secondo le ricostruzioni
dell’epoca, i tifosi del Liverpool sfondarono una
recinzione che separava le due tifoserie, provocando una
ressa umana. Circa 600 persone rimasero ferite e 39
hanno perso la vita. Oggi ricorre il 35° anniversario
del tragico disastro. Il nostro reporter Paul Fry era
allo stadio durante lo svolgimento dell'evento e lo
ricorda bene. Qui offrirà il suo racconto in prima
persona di come fu assistere allo svolgimento degli
orrori. È un ricordo impossibile da cancellare: file di
corpi, coperti da bandiere e disposti in file
disordinate per terra fuori da uno stadio di calcio. Non
ci fu dignità per loro neanche nella morte, poiché la
discesa degli elicotteri della polizia smuoveva quelle
bandiere, lasciando i corpi esposti nella confusione e
nel caos in quell'orribile serata di 35 anni fa allo
Stadio Heysel di Bruxelles. Circa 50.000 biglietti
furono venduti per la finale della Coppa Europea del 29
maggio 1985, e molti altri entrarono senza biglietto,
ma, al termine della giornata, persero la vita 39 tifosi
di calcio. Tutti sono morti a pochi metri da dove mi
trovavo io, sulle gradinate dello stadio, dietro a una
porta. La maggior parte di loro fu soffocata nella ressa
quando un muro dello stadio crollò, mentre le vittime,
soprattutto ma non esclusivamente italiane, cercavano di
evitare una grandinata di proiettili lanciati dai tifosi
del Liverpool. Nella fredda luce del giorno dopo, mentre
iniziava la ricerca di risposte - e di giustizia -
quelle stesse gradinate erano disseminate di detriti:
grumi di cemento che erano stati usati come armi,
barriere frangi-folla piegate e rovesciate, il muro del
campo crollato e mal costruito e ogni sorta di capo
d'abbigliamento e sciarpe della squadra abbandonati.
Sono rimasto basito quando mi sono reso conto di quanto
fossi andato vicino a rimanere ferito (o peggio) in
quello che era accaduto, era una specie di trauma
ritardato. I brividi sono arrivati qualche giorno dopo,
e poi una sorta di euforia del sopravvissuto che è
difficile da descrivere, una sorta di sensazione del
tipo: "non è ancora il tuo momento, amico, quindi
muoviti".
Erano
le emozioni che mi sono venute in mente quando ho letto
di recente, per la prima volta, la storia di un uomo
dell'Irlanda del Nord che era tra i morti. Patrick
Radcliffe, 39 anni, di Belfast, lavorava come archivista
per la CEE (l’antesignana dell'Unione Europea) a
Bruxelles e non amava nemmeno il calcio. Andò a
trascorrere una serata all’aperto con un collega che
aveva un biglietto in più. Come disse più tardi suo
fratello gemello George: "Era nel posto sbagliato al
momento sbagliato". Non lo erano tutti... Con il senno
di poi, la tragedia dello Stadio Heysel non ha fatto
altro che prefigurare una tragedia ancora più grande -
anche se in circostanze solo in parte paragonabili, a
Hillsborough quattro anni dopo. Ci furono più vittime
quella volta: 96. Ma come a Bruxelles, erano solo
persone che andavano a una partita di calcio. Mi trovavo
nella capitale belga per andare a trovare la mia ragazza
che lavorava come traduttrice in una banca e, per caso,
son passato dallo stadio la mattina della partita tra il
Liverpool, campione d'Europa in carica, e la Juventus.
Mi ha sorpreso vedere soltanto una breve fila davanti ad
una piccola capannina bianca che fungeva al momento da
biglietteria. Non ho avuto problemi a prenderne uno,
penso per circa 15 euro. La maggior parte dei tifosi di
entrambi i club avevano già i loro biglietti e quelli
venduti il giorno della partita erano presumibilmente
per i "neutrali" in un grande settore, il Blocco Z - uno
dei tre dietro la porta. Questo sarebbe diventato
determinante in seguito. Missione compiuta, sono tornato
nella bellissima piazza medievale del centro di
Bruxelles, pavimentata con i ciottoli, la Grand Place.
Era una luminosa e calda giornata di maggio e c'era un
vivace e colorato mercato dei fiori di fronte ai
pittoreschi edifici in pietra e legno oggi utilizzati
come ristoranti e caffè. Ad un lato, una coppia appena
sposata è uscita dal municipio sotto un sole splendente
a farsi fare una serenata dai tifosi del Liverpool e
della Juventus. Per il momento, almeno, c’era armonia,
anche se i tifosi del Liverpool hanno usato le loro
prevedibili parole d'ispirazione televisiva per O’ Sole
Mio. Gli italiani, di comune accordo, vinsero il
concorso di canzoni estemporanee in Eurovisione. Nel
prosieguo della giornata di festa, si vedeva che molti
dei tifosi italiani s’accontentavano di ripararsi in un
caffè per un boccone con uno o due bicchieri di vino.
Per troppi tifosi del Liverpool, la propria scelta di
menu fu un carrello della spesa riempito di bottiglie di
birra vuote da un supermercato in una strada laterale
vicino alla statua del Mannekin Pis. L'atmosfera si è
adombrata quando le bevande sono state consumate. Nel
tardo pomeriggio, la polizia ha isolato una strada in
cui una gioielleria aveva infrante le sue vetrine, con
alcuni articoli rubati.
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Tuttavia,
sono andato con la metro alla partita pensando che
probabilmente certe cose erano solo l’aspetto esuberante
di alcuni casinisti e niente di più. Sono arrivato a
destinazione con il gigantesco Atomium che dominava
l’orizzonte, in anticipo. La mia prima impressione è
stata che i tifosi della Juventus avessero tutti e tre i
settori dietro la porta avversaria, mentre il gruppo del
Liverpool fosse contingentato in due. E anche se era
presto, il settore dei reds sembrava piuttosto pieno.
Sembrava una stupidaggine perché l'Inghilterra era più
vicina al posto e c'era da aspettarsi che moltissimi
tifosi avrebbero viaggiato dal Merseyside, biglietto o
non biglietto. Il settore Z era, al confronto, spazioso.
Ero in piedi di lato vicino alla rete che ci separava
dai tifosi del Liverpool e c'era a malapena qualcuno
davanti a me, fino alla recinzione del bordo-pista. Una
volta incominciate le ostilità, a un certo punto mi sono
spostato in avanti per evitare l'assalto prima di
battere frettolosamente in ritirata, rendendomi conto
che tutte le uscite sicure erano dietro di me. Credo che
tutto sia iniziato con i tifosi del Liverpool che erano
invidiosi di tutto lo spazio che avevamo mentre loro
erano costipati. E non è passato loro inosservato che la
stragrande maggioranza del mio settore erano italiani.
Erano per la maggior parte persone del luogo o emigrati
che approfittavano della possibilità di vedere una
squadra del loro paese in una grande finale proprio alla
porta di casa. Le teste calde nel punto accanto non la
vedevano così e la situazione si è fatta sempre più
calda, a un certo punto ho visto un tifoso del Liverpool
arrampicarsi sulla recinzione e tirare fuori una pistola
lanciarazzi. L'aggressione è partita quasi
esclusivamente dalla mia sinistra, dall’angolo dei rossi
rivolti contro i tifosi italiani, gli azzurri.
All'inizio sembrava qualcosa di tipico all'epoca. Una
serie di esplosioni di violenza negli stadi in
Inghilterra, in particolare in occasione di una coppa
d'Inghilterra tra Luton e il Millwall quell'inverno,
quando i sedili furono rotti e usati come armi, aveva
reso il calcio uno spettacolo così poco edificante che
le compagnie televisive non facevano la fila per mettere
le partite sugli schermi della nazione e i soldi nelle
casse delle autorità calcistiche. In effetti non ci fu
nessun accordo televisivo per sette mesi dopo l’accaduto
fino a metà della stagione 1985 - e questo per soli 1,3
milioni di sterline. I proiettili, dei calcinacci delle
gradinate che si sbriciolavano facilmente con un calcio
del tallone ben assestato, iniziarono a piovere, tutti
ben al di sopra della mia testa.
Non
c’è da stupirsi che i bersagli del fuoco incrociato si
siano ammassati il più lontano possibile. Ma è stato in
quel momento che un muro dello stadio ha ceduto e la
gente è stata calpestata, la vita è rimasta
letteralmente schiacciata in mezzo a loro. Oltre alle
vittime, quasi 600 sono stati feriti in una notte di
infamia che ha avuto conseguenze disastrose per i club
inglesi. C'erano immagini disperate di persone con le
braccia tese che imploravano aiuto. Ma l'assistenza
degli addetti al primo soccorso è stata lenta. Ho visto
i tifosi usare le barriere frangi-folla e i cartelloni
pubblicitari come barelle di fortuna. Una vittima era
coperta da una bandiera della Juventus e io sono stato
scosso alla vista di un braccio che saltava fuori da
sotto la sottile copertura. Era da subito evidente che
era morto. A questo punto mi sono reso conto della
gravità della situazione. Per un paio d'anni avevo fatto
dei turni da freelance sulla scrivania sportiva del
Times e sul The Mail di domenica e sentii il bisogno di
provare se riuscivo ad entrare in sala stampa per
descrivere ai cronisti sportivi che conoscevo quello che
avevo visto. Era anche, mi sono reso conto più tardi, un
rifugio sicuro. Ho iniziato a farmi strada superando un
paio di poliziotti distratti e ho potuto vedere alla mia
destra che erano stati fatti dei buchi sulla parete
esterna dello stadio, permettendo un facile accesso a
quelli senza biglietto. Avevo incontrato alcuni tifosi
dei Reds senza biglietto sul traghetto e sul treno da
Ostenda, tra cui uno nel viaggio serale da Londra a
Dover, il cui biglietto del treno era per Liverpool a
Bootle, con la parola "Bootle" sbarrata e "Belgio"
scarabocchiata al suo posto. Non sapeva scrivere
Bruxelles, scherzando. La scena fuori all'Heysel era
quella del set di un film drammatico: c'erano polizia,
ambulanze, persone a caso che camminavano e elicotteri
sopra la testa, che illuminavano dai riflettori... Mi
sono recato all'ingresso principale e ho visto che la
reception era assediata e ho seguito i cartelli fino
alla tribuna stampa, dove sono entrato senza problemi.
Quando ho iniziato a chiacchierare con un giornalista,
sono stato ascoltato da un responsabile della BBC che mi
ha chiesto se volevo fare un'intervista. Mi sono seduto
accanto all'ex capitano del Liverpool Emlyn Hughes, che
era in lacrime mentre descrivevo la scena del matrimonio
felice di prima e la discesa nella follia e nella morte.
Non sapevo, finché non sono tornato a casa, che mia
madre a Stevenage aveva visto l'intervista in TV e
sapeva che ero al sicuro. Il calcio d'inizio era stato
ritardato - ma il calcio non contava più niente se la
gente stava morendo. I giocatori del Liverpool hanno
fatto appello alla calma, ma senza successo. Le mogli
dei giocatori, ci è stato detto, erano in lacrime.
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Avevo
potuto osservare che la rete che avevo accanto era stata
abbattuta e i tifosi del Liverpool si erano riversati
nel blocco Z, c'erano gas lacrimogeni pesanti nell'aria,
la polizia con gli scudi antisommossa e la gente che
correva in tutte le direzioni. Per un'ora hanno tirato
fuori i corpi dalle macerie. Intorno a me si è discusso
se la partita dovesse svolgersi. C'erano divisioni. Ma
per l'ordine pubblico, una volta conclusa la sommossa,
perché quello era (e c’erano stati problemi alla fine
anche con gli Italiani quando i tifosi avevano visto i
loro connazionali attaccati) la partita si è dovuta
condurre fino al termine. Per prima cosa, avendo fatto
guadagnare tempo alla polizia per pianificare una
strategia di uscita dopo la partita ed evitare uno
spargimento di sangue più grande dentro Bruxelles, era
meglio per contenere. Ma nessuno voleva giocare. Ci è
giunta voce che i giocatori erano restii a partecipare a
quella che avrebbe dovuto essere una manifestazione
spettacolare. La moglie di Kenny Dalglish, Marina, è
stato poi riferito che abbia detto di aver pregato che
non avesse un penalty perché temeva per lui se avesse
segnato. Così come accadde, Michel Platini segnò dal
dischetto del rigore - davanti ai tifosi del Liverpool -
l'unico gol della partita. La Juventus ha così vinto una
finale che molti pensavano non si sarebbe mai dovuta
disputare. Platini ha detto più tardi di non essere
molto contento del calcio di rigore. Non pensava che
fosse giusto e la Juventus non voleva vincere in quel
modo. Ma come si è arrivati a questo punto ? Si potrebbe
sostenere che l’Heysel era inevitabile. C'era un
cocktail pericoloso in bella vista che era stato
nascosto: molte delle autorità potevano prevedere quello
che accadde ma la UEFA, l'organo di governo del gioco
europeo, non fece nulla. A parte i fondati timori per lo
stadio, c’era preoccupazione per la sicurezza dei tifosi
dopo la finale Liverpool-Roma di un anno prima a Roma,
quando si perpetrò molta violenza ai danni dei tifosi
ospiti, con la polizia che si accanì sulle loro
sofferenze. Si temeva che alcuni tifosi del Liverpool
potessero venire a Bruxelles in cerca di una qualche
forma di vendetta. Lo stadio era stato costruito nel
1920. Era chiaramente non adatto all’evento. La UEFA, i
responsabili dello Stadio Heysel e la polizia belga sono
stati indagati per le loro responsabilità. Albert
Roosens, capo della Federcalcio belga, fu processato per
aver permesso la vendita dei biglietti del Blocco Z ai
tifosi della Juventus. Dopo un'indagine durata 18 mesi,
il dossier del giudice belga Marina Coppieters concluse
che le colpe dovessero ricadere esclusivamente sui
tifosi del Liverpool, 14 dei quali hanno poi ottenuto 3
anni ciascuno per omicidio colposo - le uniche accuse
per cui potevano essere estradati - con la metà delle
loro condanne sospese. Ma dopo un appello degli avvocati
belgi, le condanne di 11 tifosi furono aumentate a 4 e 5
anni.
Il
teppismo è stato per troppo tempo una macchia per il
calcio inglese e il giorno dopo l’Heysel, il primo
ministro Margaret Thatcher ha iniziato un processo che
avrebbe portato a bandire i club inglesi dalle
competizioni europee per cinque anni, il Liverpool per
un altro anno. Il club di Anfield si qualificò per
l'Europa in cinque di quei sei anni, tre come campione
della Lega. E questo in un'epoca in cui i club inglesi
erano una forza dominante in Europa. Stadi con tutti i
posti a sedere, telecamere a circuito chiuso e i
migliori corpi e regolamenti di polizia hanno
contribuito enormemente a ridurre i problemi all'interno
dei campi di calcio. Ai piantagrane è stato impedito di
recarsi all'estero, anche se ci sono stati gravi
incidenti che hanno coinvolto i tifosi inglesi
all'estero, in particolare in Italia nel 1990 e all'Euro
in Portogallo nel 2004. L’Heysel è stato ricostruito
dopo la tragedia, ma al suo posto è previsto un nuovo
super stadio in stile Tottenham. Il seguito davvero
triste per Heysel è che in parte ha portato ad
Hillsborough appena quattro anni dopo. La polizia e i
funzionari di polizia e del calcio erano totalmente
condizionati dall’Heysel e da altri incidenti negli
stadi, tanto che qualsiasi problema nel calcio era
semplicemente, nella loro mente, il diretto risultato
del teppismo - e quindi si comportavano di conseguenza.
Allo stesso modo, quando morirono 96 tifosi, schiacciati
contro le recinzioni e sulle gradinate di Sheffield
durante la semifinale della FA Cup tra Liverpool e
Nottingham Forest nel 1989, la prima reazione dei
responsabili fu che la colpa era del teppismo. Non era
così. Quei poveri tifosi, tra cui donne e ragazzini,
sono morti a causa di una cattiva gestione del pubblico,
e la polizia aveva invertito le proprie responsabilità -
ripetutamente, anche in tribunale - rigirandole ai
tifosi del Liverpool che erano i colpevoli. È stata una
narrazione che, attraverso il sostegno compiacente di
una parte dei media, ha trovato un più ampio seguito e
ci sono voluti più di 25 anni perché le famiglie di
coloro che hanno perso la vita incontrassero giustizia.
E la loro lotta non è del tutto finita, la loro causa è
ancora insoddisfatta. Ci saranno cerimonie e racconti
virtuali dedicate ai morti dello Stadio Heysel nei
prossimi giorni per celebrare i 35 anni. E questa è una
ottima cosa. Le lezioni sono state imparate, gli stadi
sono stati migliorati al di là di ogni riconoscimento,
così come la polizia e l'organizzazione delle partite. E
mentre la Premier League è un pozzo di soldi fintamente
camuffato da competizione leale, dobbiamo sperare che i
tifosi non passino mai più un pomeriggio o una serata ad
una partita di calcio solo per non tornare mai più a
casa.
Fonte: Derbytelegraph.co.uk
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