Egitto. I fantasmi di Port Said di Giovanni Piazzese
Il 1° febbraio 2012 nello stadio di Port Said,
durante una partita di campionato, 72 tifosi
dell'Al-Ahly venivano assaltati da gruppi di
persone armate e massacrati. Centinaia i feriti,
in un episodio ancora oggi ritenuto tra i più
gravi dell'Egitto post-rivoluzionario. A
distanza di tre anni, parlano i sopravvissuti.
"Quando le luci dello stadio si sono spente ho
notato tante sagome muoversi verso di noi ma non
mi ero reso conto di cosa stesse accadendo. Solo
dopo aver acceso un fumogeno ho visto i miei
amici a terra, pieni di sangue, e ho capito che
ci stavano uccidendo". Ayman, un giovane tifoso
dell’Al-Ahly, la pluridecorata squadra di calcio
del Cairo, è uno dei sopravvissuti dei
gravissimi scontri avvenuti il 1° febbraio 2012
presso lo stadio di Port Said, in Egitto.
L’incidente ha provocato 72 morti, tutti
sostenitori dell’Al-Ahly, oltre a centinaia di
feriti. A tre anni di distanza, questo episodio
è ancora ritenuto uno dei più gravi e
controversi dell’Egitto post-rivoluzionario.
Quella sera l’Al-Masry di Port Said ospitava la
squadra capitolina in una partita di campionato.
A pochi secondi dal termine del match, che la
squadra di casa si apprestava a vincere con il
rotondo punteggio di 3 a 1, centinaia di tifosi
dell’Al-Masry hanno invaso il campo di gioco. I
giocatori di entrambe le formazioni hanno subito
guadagnato l’ingresso degli spogliatoi correndo
verso il tunnel, mentre la polizia rimaneva
impassibile dinanzi alla massa di tifosi diretti
verso il settore ospiti. Secondo le
testimonianze dei sopravvissuti, i mille o poco
più tifosi dell’Al-Ahly sono stati assaliti da
individui in possesso di mazze, spranghe,
coltelli e spade. Le porte del settore ospiti
erano rimaste chiuse a chiave sin dal primo
minuto dell’incontro mentre le luci venivano
misteriosamente spente poco dopo l’invasione di
campo. "Eravamo intrappolati come topi" -
prosegue Ayman. "Molti di noi sono morti
combattendo, mentre altri si sono gettati dagli
spalti nel tentativo di sfuggire al massacro".
Ayman è riuscito a salvarsi dopo essere stato
sopraffatto da un nutrito gruppo di persone che
lo ha picchiato lasciandolo a terra, inerte.
Pensavano fosse morto, ma ha trovato la forza
per alzarsi e raggiungere l’uscita non appena si
è presentata l’occasione.
Le autorità egiziane, all’epoca sotto il
controllo del Consiglio Supremo delle Forze
Armate (SCAF), hanno subito negato le proprie
responsabilità puntando invece il dito contro i
tifosi dell’Al-Masry. Fonti del ministero
dell’Interno, infatti, riferiscono come alcuni
gruppi di tifosi abbiano deliberatamente cercato
lo scontro con i sostenitori dell’Al-Ahly. Una
versione che, nella sostanza, ridurrebbe la
tragedia di Port Said ad uno scontro tra
tifoserie. Eppure, sono in molti a pensare che
le cose siano andate diversamente. "Ci sono
elementi, come i cancelli chiusi o le luci
spente, che m’inducono a pensare che non si sia
trattato di una semplice coincidenza", dice
James Dorsey, professore di Relazioni
internazionali presso la Nanyang Technological
University di Singapore e autore del libro "Turbulent World of Middle East Soccer". Secondo
Dorsey, le prove raccolte non sono sufficienti
ad individuare con certezza i responsabili della
tragedia, "ma non c’è dubbio che la polizia
debba essere considerata colpevole per non
essere intervenuta e per aver consentito il
massacro".
Le testimonianze raccolte dalla Ong
egiziana Egyptian Initiative for Personal Rights
riferiscono di cancelli sguarniti e di assenza
di controlli prima dell’inizio dell’incontro.
Nei successivi quattro giorni le strade attorno
al ministero dell’Interno, al Cairo, sono state
prese d’assalto dai tifosi dell’Al-Ahly,
desiderosi di vendicare i propri compagni e di
farla pagare alla polizia, con cui non c’è mai
stato un buon rapporto. Fin dal 2007, quando i
gruppi ultras sono stati formati, i tifosi hanno
regolarmente ingaggiato aspre battaglie con le
forze di sicurezza egiziane, accusate a più
riprese di detenzioni preventive, torture ed
eccesso d’autorità. Ieri come oggi, molti
egiziani usano il termine arabo "hukuma" - che
vuol dire "governo" - quando parlano della
polizia. "Questa sfumatura linguistica mostra
come i cittadini intravedano in un comune agente
di polizia un’autorità in piena regola, con
poteri che vanno ben oltre il suo ruolo" dice
Hussein Magdy, ricercatore presso l’Egyptian
Commission for Rights and Freedom. In un periodo
in cui Mubarak manteneva saldamente il controllo
sulla società e ostacolava con tutti i mezzi
qualsiasi manifestazione, gli stadi sono
diventati un terreno di scontro privilegiato
dove incanalare le rivendicazioni di una parte
degli egiziani. Sebbene gli ultras non abbiano
mai voluto identificarsi con la politica, la
loro passione per il calcio e l’avversione nei
confronti della polizia li ha uniti nonostante
le loro diverse estrazioni sociali. Nel corso
degli anni, il loro numero è cresciuto a
dismisura a tal punto che, oggi, rivendicano di
essere il secondo gruppo più importante per
numero di affiliati, preceduti solo dai Fratelli
Musulmani. Nel gennaio 2011, quando la
rivoluzione egiziana ha cominciato a prendere
piede, gli ultras si sono piazzati in prima
linea durante i combattimenti contro la polizia.
I tifosi dell’Al-Ahly, la cui squadra è tra le
più blasonate in Africa ed ha il numero più alto
di sostenitori in tutto l’Egitto, hanno
affrontato senza timore i bastoni e le
pallottole della polizia. Il loro ruolo è stato
decisivo durante i 18 giorni di rivolta popolare
che hanno preceduto la destituzione di Mubarak,
ma anche dopo l’uscita di scena dell’ex ra’is i
rapporti tra ultras e polizia non sono
migliorati. Questo perché non è stato promosso
alcun serio tentativo di riforma delle forze di
sicurezza egiziane, tantomeno dei piani alti del
ministero dell’Interno o di altri dicasteri
chiave.
Così, sono in tanti a leggere i tragici eventi
di Port Said come una rivalsa della polizia e
del cosiddetto deep state nei confronti degli
ultras. "Non esistono né foto né video
immediatamente successivi alla tragedia, mentre
i rapporti ufficiali a disposizione
dell’autorità giudiziaria riferiscono come tutte
le vittime siano morte per asfissia causata
dalla ressa attorno ai cancelli d’ingresso"
sostiene l’avvocato egiziano Mohammed Khader.
Secondo Khader questa versione non dissipa la
mole di sospetti e sembra, semmai, un tentativo
sbrigativo di risolvere il caso. La
superficialità delle indagini, sostiene
l’avvocato, si nota anche negli arresti sommari
e nelle sentenze dei presunti responsabili
dell’eccidio. Il procuratore ha accusato 73
persone, principalmente tifosi dell’Al-Masry ad
eccezione di due poliziotti. Tra gennaio e marzo
2013, 21 di loro sono state condannate a morte,
molti altri hanno ricevuto pene detentive
comprese tra 1 e 15 anni di carcere, mentre
altri ancora attendono di conoscere il verdetto.
La sentenza ha provocato reazioni molto
contrastanti. Da un lato, le famiglie delle
vittime e i tifosi dell’Al-Ahly hanno accolto
con entusiasmo l’esito del processo, sebbene
alcuni ultras abbiano protestato per
l’incapacità di condannare un numero maggiore di
poliziotti. Dall’altro, i residenti di Port Said
hanno respinto il giudizio della corte e hanno
sottolineato come le persone condannate non
siano altro che dei capri espiatori. Per tutto
il mese di febbraio Port Said è diventata una
città fantasma con i negozi chiusi per protesta
e scioperi di massa mentre le manifestazioni
popolari venivano represse nel sangue. Il
bilancio di quei giorni parla di 42 morti, tra
cui due poliziotti, e oltre 800 feriti. "Tra le
persone condannate a morte ci sono anche alcuni
capi ultras dell’Al-Masry", dice Khader. "Conosco personalmente molti di loro perché ho
vissuto 11 anni a Port Said. Sono tifosi, sono
in grado di scontrarsi con la polizia o con i
sostenitori di altre squadre, ma dubito
fortemente che possano commettere un crimine di
questa portata". Inoltre, non è chiaro per quale
motivo i tifosi dell’Al-Masry avrebbero dovuto
attaccare i fan dell’Al-Ahly anziché festeggiare
una vittoria che mancava dal 2008.
A febbraio del 2014 la Corte di Cassazione ha
accolto l’appello di tutti i 73 imputati.
Attualmente, 15 di loro si trovano dietro le
sbarre mentre gli altri rimangono in libertà, in
attesa di conoscere quale sarà l’esito del nuovo
processo. Dal luglio 2013, cioè dopo la
destituzione forzata dell’ex presidente Mohammed
Morsi, la giustizia egiziana ha condannato a
morte oltre 1000 persone accusate di essere
sostenitori dei Fratelli Musulmani, il movimento
che il governo egiziano ha inserito nella lista
delle organizzazioni terroristiche nel dicembre
2013. Gran parte di queste sentenze è poi stata
commutata in pene detentive e lo stesso potrebbe
accadere anche nel caso di Port Said. "L’aspetto
più preoccupante di questa storia, però, è che
molti residenti di Port Said evitano di recarsi
al Cairo per paura di ritorsioni", dice Ahmed,
un giornalista che ha seguito in prima persona
gli sviluppi della vicenda. "Qui al Cairo c’è
gente che ritiene i cittadini di Port Said
responsabili di quanto avvenuto, mentre gli
abitanti della città costiera rivendicano la
loro innocenza e puntano il dito contro
l’esercito, la polizia e i Fratelli Musulmani".
In un Egitto ancora alla ricerca della
quadratura del cerchio, la strategia del divide
et impera può favorire il governante di turno,
ma rischia di ostacolare la ricerca della
verità.
8 Febbraio 2015
Fonte: Osservatorioiraq.it
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