Il Torino non c'è più
di Vittorio Pozzo
Scomparso, bruciato, polverizzato.
Una squadra che muore, tutta assieme,
al completo, con tutti i titolari, con
le sue riserve, col suo massaggiatore,
coi suoi tecnici, coi suoi dirigenti,
coi suoi commentatori. Come uno di quei
plotoni di arditi che, nella guerra,
uscivano dalla trincea, coi loro ufficiali,
al completo, e non ritornava nessuno,
al completo. È morto in azione. Tornava
da una delle sue solite spedizioni all'estero,
dove si era recato in rappresentanza
del nome dello sport italiano. Aveva
presa la via del cielo per tornare più
presto, per far fronte agli impegni
di campionato. Un urto terribile, uno
schianto - ai piedi di una chiesa, di
una basilica addirittura - una gran
fiammata. E poi più nulla. Il silenzio
della morte. Era la squadra Campione
d'Italia. Era, quasi al completo, la
squadra che rappresentava i colori del
nostro Paese nelle competizioni internazionali.
Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar,
Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik,
Gabetto, Mazzola - appellò in ordine
di squadra i dieci azzurri - Bongiorni,
italiano d'origine, nazionale di Francia;
Schubert, nazionale della Cecoslovacchia;
Martelli, Ossola. Operto, Fadini, Ballarin,
Grava, nazionali di riserva o dell'avvenire.
Erano con loro: Cortina, il massaggiatore
di quest’anno della Nazionale; Erbstein,
l'ungherese; l'allenatore Lievesley,
uno dei migliori tecnici che avessimo
in Italia al momento attuale; Civalleri
ed Agnisetta, dirigenti della vecchia
guardia, e Cavallero, Tosatti e Casalbore,
tre giornalisti, tre compagni di lavoro.
Se non fosse che li abbiamo visti noi,
morti, aiutando nelle operazioni ufficiali
di identificazione dei cadaveri, ci
rifiuteremmo di credere a quanto avvenuto.
Giocatori che erano l'orgoglio della
nostra città e dell'Italia sportiva
tutta, ragazzi sani, pieni di salute,
sprizzanti energia da ogni poro, uomini
che erano le speranze nostre per le
lotte con gli stranieri, ridotti in
quelle condizioni ! A farsi forza per
allontanare il pensiero da quella spaventosa
visione, si viene presi, afferrati da
un senso di vuoto. Amici, famiglie,
squadra granata, squadra nazionale:
più nulla. Per Torino che amava la squadra
che porta il suo nome come sua, per
il mondo calcistico tutto, è una tragedia
dalle proporzioni terribili ! Menti,
che venivi a confidarti con me ogni
tanto, Ballarin che tanta paura avevi
di perdere il posto in Nazionale dopo
la partita di Zurigo, Rigamonti che
t'ho fatto piangere l'anno scorso a
Parigi prima della partita colla Francia,
Grezar che mi corresti dietro la settimana
scorsa per offrirmi una birra e per
chiedermi se in realtà anch'io ti ritenessi
diventato "vecio". Maroso, tu il vero
puro sangue dell'ultima generazione,
Valentino Mazzola che facevi i capricci,
mi davi dei grattacapi e poi mi scrivevi
per chiedermi scusa, Loik che a gare
finite amavi un bicchiere di vino buono,
Voi tutti che mi foste compagni nelle
lotte per 11 buon nomi, e che mi rimproveraste
quando Vi lasciai, pochi mesi fa, ora
siete Voi a lasciare me, e che può anche
essere poco, a lasciare l'ambiente e
la vita, ed è tutto. Permettetemi che
non scriva più, che Vi saluti, in nome
di tutto il grande esercito degli sportivi,
ritto sull'attenti, in silenzio. Dicevo
sovente con Voi, scherzando, che io
ero un po' come il portinaio di San
Pietro, per cui cose nuove, belle o
brutte, in senso assoluto più non esistono.
Me l'avete procurata Voi, colla Vostra
scomparsa collettiva e fulminea, la
sensazione nuova: sotto forma di uno
strazio che non ha nome.
5 maggio 1949
Fonte: La Stampa
© Fotografie: Salvatore Giglio
Un grave lutto ha colpito la
nazione
L'aereo del Torino reduce da
Lisbona urta e precipita sulla collina
di Superga.
Trentun vittime: diciotto calciatori,
dirigenti e tecnici del sodalizio, il
pilota e tre membri dell'equipaggio
e i giornalisti: Cavaliere de "La Stampa",
Casalbore di "Tuttosport" e Tosatti
della "Gazzetta dei Popolo". Sulla soglia
di casa erano come soldati che tornano
all'accampamento, i giovanotti del Torino
che erano stati a battersi sul campo
di Lisbona; e si erano battuti con impegno
sul terreno sconosciuto, alcuni di loro
superando il malessere suscitato dal
clima diverso e dalla rapidità del trasferimento;
e avevano perduto con onore, come soldati
che hanno fatto il loro dovere, anche
se la fortuna non li ha premiati. Avevano
tenuto alto il nome della Patria, fatto
gridare il nome della Patria alla folla
forestiera; avevano mostrato a gente
che per anni ha conosciuto di noi solo
le cose più tristi, che per anni ci
ha immaginati avviliti, prostrati, umiliati,
un fresco sorriso di giovani, un alacre
impegno di far bene. Si erano presentati
come eletta ed esempio della nuova generazione,
che riprende con coraggio la sua vita
dal fondo ove, non per sua colpa, si
è ritrovata dopo la guerra. Perché con
quest'animo noi vediamo partire le nostre
squadre ginnastiche, sportive, atletiche,
ogni volta che vanno all'estero; chiediamo
ad essi
qualcosa
di più e di diverso che una emozione,
di tifosi o un'esaltazione di spettatori.
Con che gratitudine li vedemmo uscire
per la prima volta dai confini, questi
giovani, dopo la buia pausa della guerra;
come benedicemmo quelle loro prime affermazioni,
quelle loro prime vittorie, ciclisti,
atleti, calciatori; raccoglievano intorno
al loro gioco pacifico i primi consensi
degli stranieri; si facevano ammirare
per noi, amare per noi. E ad essi abbiamo
continuato ad affidare, come a una bandiera,
le sorti nuove, la riconquista delle
simpatie smarrite; li abbiamo mandati
fuori perché dicano alla gente straniera
che siamo diversi da come ci hanno creduto;
queste squadre elastiche, agili, brave,
sono il simbolo della lotta di tutta
la Nazione per rimettere in sesto la
Patria, per farla risalire dal cupo,
riconquistare amicizie dove ancora prevalgono
sospetti o gelosie o rancori. Li mandiamo
fuori pacifici campioni perché siano
gli araldi di una fraternità sportiva,
i primi a buttar giù le frontiere di
odi o di malintesi; e siano magari gli
arditi, i pionieri di una più vasta
solidarietà umana da cui ci venga comprensione
e giustizia. E come soldati caduti li
piangiamo questi giovani fulminati sulla
porta di casa; né la parola ci pare
troppo retorica, sappiamo di quanta
disciplina, di quanti sacrifici, di
quante rinunce alle facili gioie della
giovinezza era fatto il loro compito
che pareva ai nostri occhi di spettatori
nulla più di un gioco gaio ed agevole.
Li piange Torino, percossa e stordita
dalla prima notizia come dall'annuncio
di una sventura collettiva; e lo sbigottimento
e il dolore entrarono in ogni casa come
se di ogni famiglia fosse scomparso
il figlio diletto. E li piange la nazione
che li amava, ne conosceva i nomi urlati
tante volte nel calore di un incontro;
e anche chi di calcio e di squadre non
si è mai occupato, chi non ha mai assistito
a una partita è sbalordito e commosso;
sente oscuramente che qualche cosa di
tutti noi è arso nel rogo sulla collina
avvolta di fatale caligine insieme alla
giovane vita dei campioni; ognuno di
noi era loro debitore per qualche cosa,
la gioia di vedere la bella squadra
in cima alla classifica, l'orgoglio
con cui la vedevamo partire per gli
incontri internazionali, la nostra gratitudine
di sedentari, di inerti, di sfiduciati
per la gioconda volontà di vincere che
ci offriva. Poveri ragazzi, loro certo
a questo non pensavano. Erano contenti
di tornare a casa, portavano nelle valigette
il regaluccio per la mamma, le sorelle,
l'innamorata e nella memoria il ricordo
di qualche bella ragazza che aveva sorriso
alla loro spavalda giovinezza; preparavano
le parole con cui si sarebbero scusati
con i compagni e i dirigenti per non
avere strappato la vittoria, se la promettevano
brillante per la prossima volta. Erano
spensierati e semplici anche se si sentivano
avvolti dall'ammirazione e dall'affetto
della gente; e ricambiavano quell'affetto,
quell'aspettazione di grandi cose con
una disciplina severa e volonterosa.
Come soldati sono caduti, spensierati,
semplici, colti a tradimento sulla soglia
dell’accampamento. E ci suonano spontanee
nella memoria le parole con cui i soldati
ricordano i loro caduti "tutti giovani
sui vent'anni, la sua vita non torna
più".
5 maggio 1949
Fonte: La Stampa
© Fotografia: Salvatore Giglio
L'attimo dell'immane sciagura
Cielo tempestoso raffiche di
vento - Attesa ansiosa sul campo dell'Aeritalia
- Schianto contro il muro posteriore
della Basilica - Autorità e soccorritori
sul posto - Il compianto della folla.
Ieri sera stavamo scrivendo questa cronaca
dolorosissima, la più, dolorosa che
certo, da anni, ci toccava di mettere
sulla carta, il telefono nella sala
della nostra redazione, continuava a
trillare. Parliamo di telefono, ma in
realtà erano quattro o cinque, sei,
dieci telefoni, che trillavano all'unisono
formando una sola voce: come fosse rima
disperata, pressante invocazione. Si
sapeva che cosa voleva apprendere la
persona che stava dall'altra parte del
filo. Non occorrevano molte frasi, molte
spiegazioni. Appena, alzato il ricevitore,
udivamo una voce di uomo o di donna,
non importa, ci pareva sempre la stessa,
la quale tremante ci chiedeva È vero
?". Noi non rispondevamo che con un
monosillabo: "Sì". L'interlocutore non
domandava di più. Riferire di un fatto
di questa gravità, di un fatto che ha
sconvolto l'intera città di Torino,
che colpirà tutta l'Italia e che risuonerà
ovunque, non è facile. Troppi sono i
sentimenti che s'affollano nella nostra
mente, troppe notizie si accavallano,
troppi visi noti e cari ci appaiono
in un solo momento i cari nomi. Ieri
pomeriggio, sul campo dell'Aeritalia,
si attendeva l'apparecchio che doveva
giungere verso le 16,30 portando la
squadra di calcio del Torino, reduce
dal Portogallo ove, come è noto, aveva
sostenuto l'incontro con il "Benfica".
Si attendevano i nostri cari campioni,
i più noti, quelli che ad ogni avvenimento
sportivo erano sulla bocca di tutti,
seguiti da una specie di commovente
devozione, dall'ammirazione per le loro
imprese. Giocatori del "Torino", figure
popolari, erano: Bacigalupo, Martelli,
Castigliano, Grezar, Menti, Loik, Gabetto,
Mazzola, Ossola, Ballarin I, Ballarin
II, Operto, Maroso, Fadini, Bongiorni,
Grava, e Schubert. Li accompagnavano
i dirigenti: Agnisetta, Civalleri. Egri;
l'allenatore inglese Lievesley e il
massaggiatore Cortina, e i fedeli giornalisti
e cronisti della loro attività: Cavallero,
Casalbore e Tosatti. Pilotava l'aereo
il comandante Meroni. Nella palazzina
del campo assieme al personale di volo
si trovavano i soliti affezionati che
vanno puntualmente a ricevere i "granata"
al ritorno da ogni loro trasferta. Qualcuno,
guardando fuori dalle finestre si mostrava
preoccupato: dopo un fugace accenno
di schiarita, avvenuto nel primo pomeriggio,
le nubi si erano più rinserrate e fatte
fosche: dalle 15,15 circa la pioggia
scendeva copiosamente. Tuttavia non
c'era nessuna vera e propria apprensione.
Quasi tutti leggevano, per ingannare
l'attesa i giornali della sera, Stampa
Sera. Nell'ultima pagina, il nostro
Luigi Cavallero dopo le considerazioni
sulla partita, dichiarava: "Stamane
i granata si sono alzati presto per
prepararsi al ritorno. Tra poche ore
l'aereo, che ha trasportato a Lisbona,
dirigenti, giocatori e giornalisti,
spiccherà il volo per atterrare all'Aeronautica
di Torino, tempo permettendo, verso
le 17. Che le nubi ed i venti ci siano
propizi e non facciano troppo ballare...".
Frattanto, l'Ufficio radiotelegrafico
del campo, aveva preso contatto con
il collega sull'aereo. Si veniva così
a stabilire un legame fra quel gruppo
di persone che attendeva nella palazzina
e coloro che in quell'attimo si trovavano
a grande altezza, in un mare di nubi,
sballottati dai venti sotto le raffiche
della pioggia. Tenue legame che però
bastava a dissipare quelle preoccupazioni
che potevano essere sorte nel frattempo.
L'apparecchio dunque stava approssimandosi
a Torino e manteneva la rotta nonostante
il cattivo tempo. Tuttavia, nell'ufficio
radiotelegrafico tale ottimismo non
era completamente condiviso non che
si pensasse minimamente ad una sciagura
orrenda, quale doveva accadere, ma si
pensava che l'atterraggio si presentasse
piuttosto laborioso. Le segnalazioni
infatti provenienti dall'apparecchio
non erano del tutto confortanti. Le
nubi gonfie di pioggia, formavano attorno
all'apparecchio una cortina spessissima
e la visibilità era ridotta al minimo.
Il vento poi, violento, ostacolava la
marcia. Un minuto prima delle 17, una
comunicazione segnalava che l'aereo
navigava a quota duemila. La trasmissione
continuava. Ormai ai avvicinava il momento
in cui non solo il radiotelegrafista
del campo avrebbe potuto avere legame
con il velivolo, ma tutti, tutti, avrebbero
potuto percepire il rombo possente dei
suoi motori, l'annuncio fragoroso del
suo arrivo. Invece quei motori più nessuno,
al campo dell'Aeritalia, li avrebbe
sentiti. L'ora di un atroce destino
stava per scoccare. Una frazione di
secondo. Alle 17,05 precise, improvvisamente
il ricevitore del campo taceva. Il radiotelegrafista,
impressionato, sollecitava più e più
volte. Silenzio. Tuttavia non era quello
ancora il momento in cui si pensava
alla catastrofe: si pensava piuttosto
ad un guasto della radio di bordo. Il
pilota avrebbe cercato di "arrangiarsi"
senza l'ausilio delle segnalazioni da
terra. Ormai l'aereo era su Torino.
Si trovava a quota duemila... Ma perché
non si sentiva il rumore dei motori
? Perché il velivolo ritardava ad arrivare
sulla città ? E far sentire con la sua
voce che era lì, che era giunto sano
e salvo, che stava per riposarsi finalmente
dopo la lunga corsa in mezzo alla tempesta
da Lisbona a Barcellona e poi in un
sol balzo fino a Torino ? Nessuno al
campo immaginava che cosa fosse successo
nell'attimo subito dopo il silenzio.
Un attimo, un soffio, la frazione di
un secondo: in quel brevissimo spazio
di tempo era accaduta la catastrofe.
Il terrapieno era alto quattro metri
circa. L'apparecchio aveva picchiato
lì, si era schiacciato, incassato, contorto,
frantumato. I rottami erano ricaduti
sulla spianata del giardino: le fiamme
ancora li avvolgevano e al bagliore
delle fiamme gli accorsi potevano vedere
numerosi corpi straziati. Nessuna parte
del velivolo, nell'urto tremendo era
volata lontana come spesso accade. I
motori, le ruote, il timone, i pezzi
di ala, erano tutti raccolti, compressi
nel terreno, in una area ristretta.
Ma l'attenzione dei carabinieri e delle
persone portatesi sul posto non veniva
più a lunga, attratta dalla massa informe
dell'aereo. Tutti avevano un solo pensiero:
correre presso quei miseri corpi che
si vedevano accanto ai rottami arroventati,
recare, se possibile, un soccorso. Strappare,
se possibile, alla morte qualcuno dei
passeggeri. Ma quando i più animosi
si avvicinavano ai resti fumanti, si
accorgevano che ormai non c'era più
nulla da fare. La sciagura aveva coinvolto
tutti, non aveva risparmiato nessuno.
Gli uomini che pochi istanti prima erano
vivi, respiravano, parlavano sull'apparecchio,
giacevano su quel terreno riarso dall'incendio
con le carni straziate, martoriate.
Le vittime tra i rottami "Chi sono ?
Da dove verranno ?" erano queste le
domande che rimbalzavano di bocca in
bocca. Sotto la pioggia, al riverbero
degli ultimi guizzi delle fiamme, tra
il fumo, carabinieri ed abitanti di
Superga si aggiravano smarriti. Ad un
tratto qualcuno scorgeva sul terreno
accanto ai resti dei corpi, due magliette
granata con lo scudetto tricolore. Era
una folgore che passava nella mente
di chi aveva scorto quei due indumenti.
"E' l'apparecchio del Torino ! Sono
i giocatori del Torino che vengono da
Lisbona !". La notizia subito si diffondeva
a Superga, correva giù per frazioni
e casolari in tutta la collina. E attraverso
il telefono arrivava in città.
Frattanto, come abbiamo detto,
era giunta alle 17,12 alla caserma delle
Fontane l'angoscioso appello ed i vigili
del fuoco erano partiti immediatamente
con un distaccamento e una auto barella.
Sulla scia dei pompieri salivano al
colle barelle della Croce Rossa, della
Croce Verde, alcune jeeps della Celere,
della Polizia stradale, funzionari e
agenti di Polizia, reparti di carabinieri
e subito dopo le autorità: il Prefetto,
il Sindaco, il Questore, numerosi consiglieri,
e tanti e tanti altri: il rag. Giusti,
segretario del Torino, che era ad attendere
la squadra sul campo, assieme al direttore
del campo dell'Aeronautica, Ing. Catella,
l'avv. Giovanni Agnelli, presidente
della Juventus, alcuni giocatori della
squadra bianconera fra cui Hansen, Depetrini
e Rava. I primi a giungere a folle velocità
erano i pompieri, i quali innestata
una conduttura ad una "bocca" sul piazzale,
si prodigavano a spegnere i residui
di incendio. La loro opera veniva condotta
a termine in pochi minuti. Si poteva
così avvicinarsi meglio ai rottami,
ed estrarre i primi resti umani. Triste
opera sotto la pioggia, con gli "uomini
curvi sui tronconi carbonizzati, gli
impermeabili lucidi, i visi rigati di
gocce e di pianto. Indicibile commozione.
La folla che in un primo tempo era penetrata
nel giardino, veniva respinta sul piazzale
dalla forza pubblica. Si tentava di
identificare i corpi (o meglio quel
che ne rimaneva) pietosamente composti
su barelle. Ma tale tentativo risultava
subito vano, dato che non sussisteva
più nessun volto. L'identificazione
era legata a piccole cose, a tenui prove:
una cosa di estrema gravità, di estrema
delicatezza che non si poteva evidentemente
compiere in quel luogo ed in quelle
condizioni. Perciò si veniva nella determinazione
di trasportare i cadaveri alla camera
mortuaria del Cimitero generale e là
procedere con maggiore calma alla identificazione,
presente l'autorità giudiziaria. Tuttavia
già sul momento si poteva conoscere
il nome di qualcuno fra i periti. Un
carabiniere trovava il passaporto del
direttore di Tuttosport: un piccolo
rettangolo di carta bruciacchiata in
cui si riusciva ancora a leggere un
nome noto agli sportivi di tutta Italia:
Renato Casalbore. Quasi contemporaneamente
veniva ritrovata la carta di identità
di Aldo Ballarin, il terzino destro
che tante volte difese con valore i
colori azzurri della nostra Nazionale.
Valigie sconquassate, cappelli, indumenti,
carte, portafogli, borse, scarpe, tutto
rovinato, bruciacchiato, sformato; e
tutto veniva accuratamente, amorosamente
raccolto per essere trasportato in città.
Tre ore durava questo pietoso compito.
Sulla cima di Superga la nebbia filtrava
tra la pioggia con un fumo tra sbarre:
sbarre di pioggia, zampilli, che scendevano
sferzanti, inesorabili. Il vento era
cresciuto di intensità ed arruffava
i capelli di tutti quegli uomini che
si aggiravano oppressi dalla sciagura,
in quel fango, in quel grigiore, sotto
la grande Basilica muta. Se straziante
era lo spettacolo, sulla cima del colle,
lungo la strada che sale serpeggiando
da Sassi, lo spettacolo era commovente.
L'aggettivo non è fuori posto. Spettacolo
commovente. Parliamo delle automobili,
dei camioncini, delle motociclette che
si arrampicavano per l'aspra strada:
sopra v'erano appassionati sportivi,
amici, conoscenti: o semplicemente delle
persone che avendo appreso della sciagura,
correvano incredule, angosciate per
accertarsi con i loro stessi occhi.
Parliamo soprattutto di coloro che abbiamo
visto sotto il rovescio dell'acqua,
andare a piedi, sulla strada per Superga:
andare a piedi e camminare lentamente
lungo bordo: riparandosi alla meglio,
spesso con la giacca gettata sulla testa.
Sull'ultimo tratto di strada sotto il
piazzale, l'ingorgo delle macchine era
addirittura pauroso: parafango contro
parafango, camion a ridosso, di piccole
vetture, motociclette e micromotori
che s'insinuavano in stretti corridoi.
Tutti coloro che arrivavano in prossimità
del luogo della sciagura chiedevano
subito: "Qualcuno è vivo ?" Questa domanda
non aveva risposta. O meglio: chi se
la sentiva rivolgere e "sapeva", allargava
le braccia in un gesto sconsolato o
abbassava il capo senza dire nulla.
Nel vasto piazzale s'erano andate adunando
via, via, centinaia e centinaia di persone.
E quello che colpiva di più era che
questa folla, questa grande folla, era
silenziosa. Le notizie erano già purtroppo
risapute. Tutti rimanevano immobili
attendendo non si sa bene che cosa.
Molti piangevano sommessamente, tutti
erano annichiliti. "Ora so che purtroppo
è vero" diceva un signore "ma a me sembra
di non potermene mai convincere. Continuo
a ripetermi che sono morti, che sono
tutti morti, eppure mi ribello, non
voglio crederci". Verso le 19,30, mentre
le ombre della sera calavano rapidamente
la folla si apriva per lasciare passare
le autoambulanze su cui erano state
deposte le misere salme. Al termine
della discesa, accanto alla stazione
di Sassi, sostavano tre o quattrocento
persone: ogni macchina che appariva
proveniente da Superga veniva fermata,
si chiedevano notizie. Si seppe che
le autoambulanze stavano arrivando.
Quando passarono, il brusìo cessò. Tutti
tacquero e si scoprirono. Le donne dicevano:
"Ci sono i ragazzi del Torino". E piangevano.
Appena la tremenda notizia ha avuto
conferma, una domanda è sorta immediata:
"Quali sono state le cause della sciagura
?" Diciamo subito che a tale domanda
non si può per ora rispondere. Soltanto
una inchiesta che immaginiamo verrà
aperta sollecitamente, chiarirà queste
cause. Le supposizioni sono molte: si
ritiene di poter escludere un guasto
all'apparecchio: tutte le persone che
si trovavano a Superga nel momento della
catastrofe sono concordi nell'affermare
che il battito dei tre motori del G.212,
era regolarissimo fino all'istante dell'urto.
E allora ? Sei minuti prima, ricordiamo,
dall'apparecchio era stata segnalata
la quota: 2000 metri. Sei minuti dopo
il velivolo si trovava a quota 650 circa
e sbatteva contro il terrapieno. Come
mai è avvenuta questa rapida discesa
? Forse il pilota era sicuro di trovarsi
già sulla città, in prossimità del campo
? Potremmo riferire altre ipotesi che
ieri sera circolavano: ma è ancora troppo
presto, mancando nel modo più assoluto
gli elementi per formulare un giudizio.
5 maggio 1949
Fonte: La Stampa
© Fotografia: Salvatore Giglio
L'inchiesta delle autorità sulle
cause della catastrofe
Il racconto del priore della Basilica
- Una fiammella s'accende nella notte
tra i rottami e si spegne all'alba.
Nella mattinata di Ieri una
commissione di tecnici aeronautici ha
oltrepassato il cancello del giardino
ove cadde il trimotore, e ha sostato,
a lungo, sulla spianata che accoglie
i rottami. La commissione, aiutata dai
carabinieri della stazione di Superga,
ha compiuto un minuzioso esame dei vari
pezzi, rimovendone la maggior parte.
Tale operazione ha provocato, purtroppo,
macabri ritrovamenti: spostando il carrello,
è venuto alla luce un braccio: altri
resti sono stati via via scoperti fra
le lamiere contorte e annerite. I resti,
pietosamente composti, sono stati più
tardi sistemati su di un'autoambulanza
e trasportati al Cimitero Generale.
Inoltre i carabinieri rinvenivano nuovi
indumenti, pezzi di valigie, oggetti
personali, frammenti più o meno ampi
di fotografie o di carte d'identità:
il tutto andava a raggiungere l'altro
materiale già ritrovato e depositato,
per ora, nella caserma dei militi. Non
si sa se la commissione dei tecnici
abbia potuto trarre delle conclusioni:
ma, ciò, tuttavia, appare alquanto improbabile.
L'urto deve essere stato spaventoso:
la vedetta dell'apparecchio che ha picchiato
per prima contro il muro è completamente
scomparsa: come pure sono scomparsi
i posti dei due piloti e in rottami
minuti è finita la cabina ove erano
i passeggeri: invano si è cercato una
traccia di poltrone o suppellettili.
L'unica rimasta intatta (in senso lato)
risultava la coda, con un mozzicone
di fusoliera. Il resto - ripetiamo -
era o un ammasso informe di lamiere
o un tritume irriconoscibile che strideva
sotto i piedi di coloro che s'avventuravano
sul posto. Durante la preghiera Don
Tancredi Riesa, priore della Basilica
ci ha narrato come sia stato un altro
sacerdote ad intendere l'approssimarsi
dell'aereo: il sacerdote stava pregando
in una cameretta che è posta appunto
nella parte posteriore della basilica,
sul lato sinistro, quando la sua attenzione
veniva attratta da un rumore possente
che s'ingigantiva sempre più. "Un velivolo
? Con questo tempo ? Così basso ? ".
Con un certo sgomento il prete, chiuso
il libro delle preghiere usciva dalla
stanza e faceva per portarsi ad una
finestra del corridoio. In quello stesso
istante rintronava un colpo orrendo,
seguito da altri rumori simili a quelli
prodotti da un asse che si spacca, scricchiolando,
in più pezzi. La catastrofe era avvenuta.
Don Ricca e questo sacerdote accorrevano
nel giardino e non potevano far altro
che tentare di estrarre - con i carabinieri
e alcuni animosi - i corpi straziati
degli infelici. - Uno spettacolo atroce,
indimenticabile - ha dichiarato il reverendo
- sono ancora stravolto... che Dio accolga
tutti i trentun morti. Noi tutti sacerdoti
della Basilica di Superga abbiamo pregato
tanto per loro. Ieri sera abbiamo sostato
a lungo dinanzi ai resti del trimotore:
e abbiamo pregato, abbiamo invocato
il Signore per le loro anime. Io confido
che mercoledì prossimo, quando celebrerò
una prima Messa di suffragio, molte
persone salgano qui, nella chiesa, per
unirsi alle nostre preghiere. Lo strazio
provocato dalla sciagura ha percosso
in modo particolare tutti gli abitanti
di Superga. Uno diceva: "Proprio la
cima del nostro colle doveva essere
la tomba per tanti ragazzi...". Anche
i carabinieri della locale stazione
si mostravano agitati, aggrondati, impressionati.
Durante tutta la notte essi, oltre il
cancello, avevano vegliato. Una lanterna,
all'entrata del giardino mandava una
bieca luce: il luogo del disastro era
completamente immerso nel buio. Ma ad
un tratto si verificava uno strano fatto,
che, lì per lì, sbigottiva i militi,
dinanzi ai cui occhi assumeva un significato
prodigioso, quasi soprannaturale: fra
i rottami, improvvisamente, si accendeva
un debole bagliore rossastro, che andava
man mano aumentando d'Intensità.
Sembrava che fra i relitti dell'aereo
qualcuno, scivolato senza dire niente
nel giardino, senza che i carabinieri
se ne accorgessero, avesse acceso una
lampada votiva. Per qualche minuto gli
uomini di guardia restarono come impietriti
fissando quella luce rossa. Infine un
brigadiere si scuoteva, avanzava: il
bagliore era causato dalla gomma di
una delle ruote che, non si sa come,
aveva preso (o ripreso) a bruciare.
Nessuno - per un sentimento confuso
e inspiegabile - osava calpestare e
spegnere la tenue fiammella: che per
tutta la notte guizzava tremolando e
che, poco dopo il grigio albeggiare
s'estingueva. Il dolore dei ragazzi
e il dolore della città apparve più
straziante, com'è naturale, alla sede
dell'associazione Calcio Torino, in
via Alfieri. Qui era il luogo più frequentato
dai giocatori granata: e qui la loro
assenza veniva maggiormente sentita,
il senso della loro tragica scomparsa
era più vivo, più opprimente. In permanenza,
da 24 ore, senza concedersi riposo o
toccar cibo, stava in segreteria uno
dei dirigenti, il signor Bachmann, vecchio
giocatore del "Torino": con lui era
un addetto alla segreteria, il signor
Comba: tutti e due con gli occhi gonfi
e rossi di pianto. Attorno a loro v'erano
alcuni giovani delle squadre "riserve"
e "ragazzi". C'era Toma, uno dei superstiti,
con l'impermeabile scuro e il viso stirato,
pallido. Nella mattinata erano giunti
alla sede diversi parenti delle vittime:
una catena ininterrotta, dolorosissima,
di spalle scosse dai singhiozzi, di
grida, di parole affannose, di invocazioni
disperate. Erano giunte la mamma e le
sorelle di Martelli; e la mamma e i
fratelli di Valentino Mazzola; e poi
era giunto il padre di Bongiorni che
aveva detto semplicemente: "Sono venuto
a riprendere mio figlio: lo voglio sepolto
nella terra ove abito, vicino a me".
E lo stesso desiderio hanno espresso
i parenti di Bagigalupo, fratello e
cognato: "Ce lo vogliamo portare a Savona,
il nostro ragazzo... Tutti gli sportivi
della città lo attendono: e lo attende
il suo mare...". E poi è giunto, affranto,
sperduto, spaurito, il terzo dei fratelli
Ballarin: e i congiunti di Rigamontl:
ed è giunta la sorella di Gabetto, la
quale, soffocando il pianto, con voce
sommessa, è riuscita a pronunciare una
frase, una sola frase: " Mi piacerebbe
tanto che vicino a Guglielmo venisse
sepolto il suo caro amico, il suo amico
inseparabile: Ossola...". Lo strazio
per la catastrofe, ripetiamo, ha sconvolto
chiunque: ma vorremmo dire che ha addirittura
schiacciato, sotto il suo peso, i "ragazzi".
Il disastro ha causato, per loro, l'inabissamento
d'un mondo: di un mondo che, vorremmo
dire, era una parte viva, onnipresente,
della loro vita. Il "Toro", le grandi
partite, le folgoranti vittorie della
"loro" squadra, l'ansia di una battaglia
sportiva: e le parate di Bacigalupo
e le "staffilate" di Mazzola e le discese
di Menti e l'irruenza di Castigliano
e i rimandi di Ballarin e Maroso - tutto
questo erano parole, frasi, gesti, raffigurazioni
quasi eroiche, quasi mitiche per i ragazzi.
E di colpo, per loro, è stato, sotto
un certo aspetto, ancora più duro e
crudele. Perché il Torino riviva all'entrata
della sede del "Torino" era stato posto
un grosso libro per raccogliere firme
di adesione al lutto. Centinaia e centinaia
di persone salivano lo scalone per apporre
la propria firma: molti gli anziani,
ma moltissimi i ragazzi - bimbi addirittura
di otto, dieci anni che vergavano nome
e cognome, con scrittura incerta, facendo
scricchiolare forte la penna e sporcando
il foglio d'inchiostro. Poi si guardavano
attorno e chiedevano timidamente, a
voce bassa: "E' qui che veniva Mazzola
? E Loik ? ". Sì, per molti è stato
un colpo duro: e non solo moralmente.
Ci consta che numerosi ragazzi (conosciamo
anche il nome di uno di essi: Beppe
Dondona, studente ginnasiale di 14 anni,
abitante in via S. Francesco d'Assisi
(omissis) sono stati colti da fortissimo
choc nervoso, subito dopo il tragico
annuncio ed è stato necessario metterli
a letto. Molti e molti episodi stanno
a testimoniare l'angoscia dei più giovani:
alla scuola "Pacchiotti" la maestra
signora Zucca, che fu già insegnante
di uno degli scomparsi, Gabetto, mentre
entrava in classe, veniva circondata
dagli scolari che la supplicavano di
ricordare qualcosa della vita dei giocatori
morti. La maestra li accontentava: e
dopo poche sue parole, tutti piangevano.
Un bambinello di sei anni si alzava
ed esclamava: "Bisogna portare fiori,
tanti fiori, bisogna coprirli di fiori...".
E un altro di sette anni: "Io pregherò
il buon Signore che li tenga tutti insieme
in cielo e permetta loro di giocare
ancora, lassù, partite di calcio...".
La signora Zucca singhiozzava e diceva
di sì. Al "Cavour" un gruppo di studenti
stavano giocando a pallacanestro: giunse,
trafelato, un ragazzo e diede l'annuncio.
Fu un solo grido, tutti accorsero: "C'era
anche Casalbore ? C'era anche lui ?
". Renato Casalbore si recava spesso
ad assistere agli incontri degli studenti
e li incoraggiava nel loro sforzo di
rendere popolare ed accetto il gioco
della pallacanestro. "Si - rispondeva
chi era al corrente della catastrofe
- è morto anche Renato Casalbore: è
stato trovato il suo passaporto...".
Tutti uscirono dal campo, a capo chino,
in silenzio. E dallo stesso "Cavour"
è partita una lettera di altri giovanissimi
studenti, diretta al commendator Ferruccio
Novo. La lettera dice: "Il Torino, il
glorioso Torino dovrà risorgere: non
può essere morto sul terrapieno della
Basilica di Superga. Il Torino rivivrà:
e noi supplichiamo coloro che sono in
piedi di adoperarsi per questa resurrezione.
Che il Torino risorga: questo è il nostro
voto ardente. Attendiamo quel giorno
di cui vedremo "ancora delle maglie
granata sul campo - come uno dei giorni
più belli della nostra vita".
6 maggio 1949
Fonte: La Stampa
© Fotografia: Salvatore Giglio
I trentun feretri nella camera
ardente
Due stanze squallide, sporche,
con i muri rosi dall'umidità, accolsero
nella notte i poveri resti dei giocatori,
dei dirigenti, dei giornalisti e dell'equipaggio
periti nella catastrofe di Superga.
Sin dalle prime ore del mattino, lungo
tutto il viale di corso Novara prospiciente
il muro del Cimitero si aggrupparono
uomini e donne giunti da ogni parte
della città - a piedi, in bicicletta,
in tram e restarono immobili, per ore
e ore, il volto teso da un'angoscia
profonda, gli occhi fissi sul cancello.
Qualcuno si staccava dal gruppo allineatosi
spontaneamente sul margine del viale
e si avvicinava agli agenti di servizio
a lato, li interrogava a bassa voce,
quasi temesse di turbare la quiete del
luogo (un corso larghissimo, aperto
al traffico, in cui regnava il silenzio,
come dentro una chiesa). Dall'altra
parte, sul marciapiede fangoso sotto
il muro si facevano avanti di quando
in quando uomini e donne oppressi da
un dolore più straziante. Erano i padri,
le madri, le mogli, i parenti delle
vittime. Agli agenti che vigilavano
di fuori del cancello per impedire a
chiunque l'ingresso, non dicevano nulla.
Bastava loro uno sguardo, e la disperata
insistenza di un gesto. Gli agenti socchiudevano
un poco il cancello, chiamavano i dirigenti
del Torino che c'erano tutti, il conte
Lara, Vilberti, il rag. Giusti, Colombo,
avevano passato la notte in veglia e
li facevano accompagnare. Dentro si
ripetevano, ogni volta, le scene di
dolore. Vennero i parenti di Grezar,
di Aldo e Dino Ballarin con i vestiti
che avevano portato da casa, e vollero
compiere da soli il pietoso bisogno.
Venne nel pomeriggio, la madre del ventiduenne
Rubens Fadini, accompagnata dalla sorella
e dalla figlia. Vestita di nero, un
piccolo velo le copriva i capelli. "Voi
vederlo, voi vederlo" ripeteva nel suo
dialetto e tentava di svincolarsi dalla
stretta delle due donne che "sapevano"
di non poterla lasciar entrare. Se ne
andò via, trascinata a forza, balbettando
sempre con una voce che straziava il
cuore: "Voi vederlo, voi vederlo". Scrosciava
nuovamente la pioggia sul corso, quando
i sei autocarri Fiat che avrebbero trasportato
le salme a Palazzo Madama varcarono
la porta. Ebbe inizio un nuovo appello.
Il primo nome fu quello del nostro Cavaliere.
I presenti si strinsero intorno al camion,
verso la porta, di commozione in un
impeto che nessuna forza avrebbe potuto
frenare. Uscì la bara recata a spalle,
passò in quel piccolo corridoio, alta
sopra gli uomini che rivolgevano l'estremo
saluto al giornalista e all'amico. Erano
le 17,30. La pioggia era cessata, il
cielo si andava rasserenando. "Casalbore"
disse ancora la voce, ed un'altra salma
uscì e fu deposta sull'autocarro, a
fianco di Cavallero. "Tosatti", e la
terza bara si unì alle altre, sul primo
autocarro. I tre colleghi si ritrovarono
insieme, come lo furono prima, molte
volte, inviati "Al seguito dei campioni"
che ancora attendevano nell'obitorio.
Una corona di rose rosse - l'aveva portata
la moglie di Casalbore - fu deposta
sulle tre bare e le ricoprì tutte. Uscirono
le altre bare, a mano a mano che la
voce chiamava. I dirigenti Agnisetta
e Civalleri e l'ungherese Egri Erbstein,
direttore tecnico della squadra, e furono
deposti sullo stesso autocarro dove
aspettavano i nostri colleghi. Un rombo
lacerante di motore, poi venne il secondo
autocarro, e vi salirono i campioni:
Mazzola, il capitano, Aldo e Dino Ballarin,
Bongiorni, Bacigalupo. Poi venne il
terzo, il quarto, il quinto. E tutti
salirono: Castigliano, Fadini, Gabetto.
Grava, Grezar, Maroso, Martelli. Menti,
Ossola, Rigamonti, Schubert. Su ogni
bara v'erano mazzi di fiori e corone.
Nell'ultimo autocarro furono deposte
le salme dei membri dell'equipaggio,
il primo pilota Pier Luigi Meroni, il
secondo pilota, Cesare Biancardi, il
radiotelegrafista Antonio Pangrazi,
il motorista Celeste D'Inca. Gli autocarri
si disposero in fila pronti ad uscire.
Un sacerdote passò dall'uno all'altro,
mormorando le preghiere della assoluzione
e aspergendoli con l'acqua benedetta.
Da una porticina comunicante col cimitero
comparve allora un uomo che portava
una grossa corona di garofani rossi.
Andò verso l'autocarro su cui erano
deposte le prime cinque salme dei giocatori
e depose, nel centro la sua corona.
"Il giovane Grosso Pier Carlo ai suoi
grandi campioni". Un nome ignoto, uno
dei centomila che amavano e seguivano
con entusiasmo i ragazzi del "Torino".
Poco dopo le 19 giunge il sindaco e
immediatamente si forma il corteo dei
sei autocarri e delle macchine del seguito.
La grande folla si scopre. Molti si
fanno il segno della croce, piangendo.
Qualche mano si agita lentamente ad
abbozzare un trepido saluto. La folla
vuol vedere i campioni per l'ultima
volta e seguirli. Esser loro vicini,
dir loro che non potrà mai dimenticarli.
Ora corrono tutti dietro il corteo,
si buttano fra le macchine, si fanno
avanti. Migliaia di biciclette si incrociano,
si confondono, si rincorrono. Corso
Novara, corso Catania, corso Regina,
via Denina, i giardini reali. Si muove,
a scatti, il corteo dei sei autocarri,
delle macchine e delle migliaia di biciclette.
Ad ogni incrocio si trovano le strade
sbarrate da un groviglio che si infittisce
sempre più, fra l'urlo rabbioso dei
motori. Ma nessuno si allontana, nessuno
si fa indietro. In piazza Castello altra
folla silenziosa attende dietro gli
sbarramenti. Dagli autocarri le bare
vengono sollevate ed entrano sotto il
portone di Palazzo Madama, seguite dai
parenti. Avanzano adagio, e la folla
si segna, gli agenti si irrigidiscono
nel saluto. Salgono trentun bare, trascorre
un tempo lunghissimo, mentre nel salone
del primo piano, trasformato in una
enorme camera ardente, attendono il
sindaco, le autorità e gli amici. Sul
bordo estremo di un lunghissimo banco
coperto di drappi neri è posata una
minuscola corona con un nastro giallo
e azzurro: i bambini della colonia di
Loano. Il pianto rotto da singulti e
da implorazioni, sale verso il soffitto
altissimo, si ripercuote come in un'eco.
La mamma di Fadini è accorsa anche a
Palazzo Madama in lacrime. Un giovane,
nell'angolo estremo del salone, si copre
il volto con le mani e si abbatte su
quell'ultima bara che sembrava dimenticata.
È il fratello di Bonaiuti. Lo devono
trascinare via di peso. È già al fondo
dello scalone, sorretto da due amici
pietosi e di sopra nove salme occupano
i catafalchi lungo la parete di fondo:
Mazzola, Cortina, Lievesley, Erbstein,
Agnisetta, Civalleri, Casalbore, Cavaliere
e Tosatti. Un drappo tricolore le copre.
Su quella di Lievesley si vedono anche
i colori dell'Union Jack sovrapposti
a quelli della nostra bandiera. Il salone
si riempie a poco a poco dello straziante
dolore delle famiglie. Un pianto sommesso
di una dama, ma non ha potuto reggere
allo strazio. Il grido di questa donna
non riusciremo a dimenticarlo. Altre
donne - madri e mogli - sono piegate
sulle bare di Mazzola e di Menti, insensibili
ad ogni richiamo, ad ogni gesto di affetto.
Piangeranno su quelle salme, tutte loro,
si odono ancora i suoi singulti. Comincia
il pellegrinaggio. A notte, mentre cadeva
una fine pioggerellina, la folla continuava
a fluire nel salone di Palazzo Madama.
Centinaia di macchine sostavano nei
parcheggi; altre giungevano ogni minuto,
pubbliche e private, e altre persone
mute e commosse aspettavano che i cancelli
si aprissero e la "Celere" permettesse
l'ingresso. Non uno, che protestasse;
in silenzio guardavano le luci accese,
i fiori, la gente che arrivava sempre.
E pioveva, e sempre nuova gente. Tutta
la notte, senza soste.
6 maggio 1949
Fonte: La Stampa
© Fotografia: Salvatore Giglio
Un giorno di apoteosi prima
di entrare nella leggenda
Dinanzi Palazzo Madama, ieri
sera, tra la folla che spingeva silenziosa
contro gli alti cancelli degli ingressi
per porgere un saluto alle vittime di
Superga, abbiamo inteso più volte fra
le esclamazioni rotte dai singhiozzi
e dai ricordi, una frase. È la loro
apoteosi. La parola può sembrare eccessiva
a un osservatore che sia rimasto estraneo
agli ultimi avvenimenti; a chi, come
tutti i torinesi ha vissuto questi giorni
di dolore e di smarrita costernazione,
no. La camera ardente. Immobili, cerei,
disfatti, chiusi entro le lucide bare
di quercia, i resti dei trentuno che
la pietà ha raccolto fra le macerie
dell'aereo nella sera terribile della
sciagura, ora riposano nella camera
ardente, nel più sontuoso salone dell'antico
palazzo. È la sala delle assemblee dove
si riunì già il Senato Subalpino. Qui
si sono svolte le cerimonie più solenni
del primo regno, e comparvero uomini
che la storia non ha dimenticato, Insigni
nell'arte della politica, nell'ardire.
Pionieri, uomini forti e maturi. Ci
piace l'accostamento. Dove un tempo
disputarono parlamentari, ora si allineano
fianco a fianco i corpi straziati di
un gruppo di giovani. Sono i ragazzi
che la città aveva votato allo sport
e prediligeva fra tutti i suoi figli,
perché rappresentavano l'élite della
gagliardia e della gioventù, perché
i loro nomi pronunciati per anni da
tutte le bocche si erano fusi in un
complesso inscindibile, sino a essere
indicati come il simbolo atletico di
una nazione. Dopo le scale marmoree
trasformate in gallerie di corone -
quante, cento, dal Governo al Municipio,
dagli enti cittadini, ai giornali, alle
società sportive, ai privati - fra quattro
giganteschi ceri, in uno sfolgorio di
luci, di fiori, di nastri e di colori
la camera ardente è apparsa ai visitatori
in tutta l'imponenza e l'amorosa cura
con cui era stata predisposta. Le bare
formavano un semicerchio spezzato su
tre lati. Su ognuna garofani bianchi
e garofani rossi, un ampio drappo tricolore,
un crocefisso, il ritratto del morto,
e una targhetta metallica nella quale
era inciso un semplice nome. Sul lato
di sinistra vi erano le salme di Biancardi,
Bonaiuti, Ballarin Aldo, Ballarin Dino,
Bacigalupo, Castigliano, Fadini, Gabetto,
Grava, Grezar. Sul lato di centro: i
giornalisti Tosatti, Cavallero, Casalbore,
i dirigenti Civalleri, Agnisetta, Erbstein,
Lievesley, Cortina, il capitano della
"nazionale" Valentino Mazzola. Sulla
destra: Loik, Maroso, Martelli, Menti,
Ossola, Operto, Rigamonti, Schubert,
il ten. col. Meroni, il personale di
volo D'Inca e Pangrazi. Rendevano onore
il gonfalone della città a mezz'asta,
gli stendardi dell'associazione Torino
e della Juventus. A fianco di ogni bara
carabinieri in alta uniforme, agenti,
vigili, valletti del Municipio e, in
prima fila, i ragazzi della squadra
Campione, in maglia granata con una
fascia nera al braccio e lo scudetto
tricolore dei campioni d'Italia sul
petto. Sono ragazzi dai 16 ai 17 anni,
che stavano rigidi sull'attenti davanti
ai loro fratelli morti e avevano gli
occhi gonfi di pianto fissi in un punto
lontano. Un batter di ciglio, il contrarre
secco d'un muscolo, il più piccolo segno
tradiva la loro emozione. Forse vedevano
ancora i compagni correre sui campi
di gioco nelle magnifiche trame di cui
essi soli sapevano il segreto. Forse
sognavano un passato divenuto improvvisamente
troppo lontano e staccato per sempre.
Fino a ieri avevano fiducia nei loro
maestri che speravano di poter imitare.
Adesso, di colpo, sono chiamati a sostituirli.
I morti lasciano un'eredità ardua, impari
ai loro anni e alle forze. E lasciano,
con una tradizione gloriosa, uno scudetto
di campioni d'Italia. Hanno ragione
ad essere sgomenti, i giovani, e ben
lo comprende la città che si stringe
intorno e li conforta come conforta
i parenti delle povere vittime. Pensate
alla sensazione che assalirà i quarantamila
ospiti dello stadio, quando, una delle
prossime domeniche, in un giorno radioso
di sole, dagli spalti affollati attenderanno
silenziosi il comparire della loro squadra,
e vedranno i ragazzi, i quindicenni,
vestire le maglie granata dei nazionali
? E quei giovani tanto volenterosi ed
emozionati, forse qualcuno, molti anzi,
saranno indotti a chiamare con i nomi
familiari di quelli che la morte ha
stroncato nel tuffo di Superga ? Ininterrotta
sfilata, a questo senza dubbio pensavano
ieri le migliaia di sportivi accorsi
a Palazzo Madama. Erano sopraggiunte
persone di ogni ceto e di ogni età:
giovani operai e studenti, intere famiglie,
molte dame, ammiratrici, madri, vecchie;
gente che non aveva mai assistito ad
un incontro di calcio, che non aveva
mai letto i resoconti sportivi, che
non aveva mai trepidato dinanzi all'altoparlante,
della radio per la trasmissione di una
partita internazionale. Eppure erano
lì, nonostante la pioggia, il terribile
assembramento, i cordoni di polizia,
l'affannarsi delle jeeps" della "Celere"
dalla lugubre sirena. I tram si svuotavano
in piazza Castello, i cinematografi
erano quasi deserti, i locali pubblici
vuoti. Torino lentamente sfilava dinanzi
le bare: i 40 mila dello stadio erano
venuti puntuali all'ultimo convegno.
Da ogni parte la folla spingeva alle
porte del Palazzo. "Brigadiere, sia
buono, apra un attimo solo, ci faccia
entrare. Da due ore aspettiamo sotto
la pioggia". E l'agente stordito dalla
gran ressa allargava le braccia impacciato:
"Non posso. Come vi aprirei ! Ma la
sala è già gremita: abbiate pazienza
ancora. Fra poco verrà il tenente e
vi farà passare". "Tenente, son tre
ore: la coda è ancora lunga: noi siamo
donne: La prego, ci lasci andare avanti".
Ma il tenente aveva la voce
scossa: "Donne, la folla è ancora aumentata:
io non riesco a muovermi, ora verrà
il commissario. Con un po' di calma
entrerete tutti". E mentre nella piazza
ululavano le sirene della polizia e
le "jeeps" scavavano nella massa per
diradarla, fra le bare si svolgeva il
mesto pellegrinaggio. Una fila continua
che sostava di feretro in feretro e
si chinava sulle fotografie, e accarezzava
i fiori, i nastri, i drappi tricolori.
Le litanie delle donne si sperdevano
sotto le vaste arcate interrotte a tratti
da lamenti angosciosi: erano grida di
strazio, invocazioni disperate: le mogli
e le madri delle vittime crollavano
schiantate sulle casse adorne di fiori.
A questa scena la fila dei visitatori
si disuniva, e dieci braccia erano protese
per soccorrere le infelici; altre mani
rassettavano con cura le bare: qualcuno
rialzando una fotografia caduta, diceva:
"Guarda come è bello ! Sembra che parli:
come quando è andato a vincere a Parigi,
come quando è partito per Madrid !".
Stamane: una sosta, una paralitica la
portarono. Vi erano già i parenti del
povero morto e la madre. Ma la paralitica
non badò a nessuno e si protese con
le mani incerte verso la fotografia
del giovane scomparso. Come la ebbe,
la portò vacillando alle labbra, la
baciò, volle guardare il volto del più
nobile e del più fine giocatore della
"nazionale". Nessuno la conosceva, tutti
osservavano estasiati i suoi gesti.
E mentre riponeva il ritratto sulla
cassa la vecchia paralitica fu scossa
da un nuovo tremito di pianto, e scivolò
dalla carrozzella ai piedi della bara.
Piangeva, era un filo di voce: uno strazio.
Ed ecco la madre vera di Maroso avvicinarsi
alla poveretta, e sollevarla. Le due
donne che non si conoscevano si abbracciarono,
confondendo il loro dolore, le lacrime
e capelli, come una persona sola. Poi
a fatica giunse anche il signore cieco
che si aggrappò allo schienale della
carrozza; e la paralitica sempre piangendo
spiegò: "Cercavo Maroso, perché era
l'unico ricordo lasciato da mio figlio.
Erano stati soldati insieme. Enzo mi
parlava spesso di lui: Mi disse anche
che era un giocatore di calcio, il più
caro amico. Ma Enzo non tornò a casa
dalla Germania. E non seppi mai nulla:
non potei piangere sul suo corpo, né
pregare sulla sua tomba. Sentivo parlare
di Maroso, lo seguo settimana per settimana,
da lontano, come il nostro secondo figlio,
come l'avrebbe seguito Enzo. E pure
questa volta la sorte è stata perfida.
Ora abbiamo perduto anche Maroso. In
questa bara c'è una parte di mio figlio
". "Avanti, è una madre". La sfilata
doveva cessare alla mezzanotte per riprendere
stamane. Non è stato possibile sospendere
le visite. All'una l'area dinanzi Palazzo
Madama era ancora affollata: e nell'attesa
le donne recitavano le preghiere dei
morti in piccoli cori, a gruppi. Era
uno spettacolo commovente cui non fu
insensibile la polizia. Le visite continuarono
per buona parte della notte: ad un certo
punto il popolo ebbe il sopravvento
e ingrossò la fila sino a formare una
colonna. Circondò amorevolmente i feretri:
li unii in un solo grande abbraccio.
Avvenne verso le 2. Alcune voci si levarono
sul trambusto della folla: "Una madre
malata ! Lasciate passare la madre malata
!". Al grido i presenti sciolsero a
poco a poco la ressa e da un breve corridoio
venne avanti una carrozzella nera spinta
da un uomo quasi cieco. Nella carrozzella,
avvolte le gambe in una coperta di pelliccia
scura, una vecchia, bianca, curva, rattrappita
sul petto: una paralitica. Si vedeva
a stento II volto piccolo e rugoso.
Null'altro. Subito nuove voci dissero:
"Avanti è la madre di un caduto". Qualcuno
aggiunse: "E' la madre di Maroso". La
carrozzella fu portata a braccia nella
sala. Alla vista delle bare la vecchia
scoppiò in un pianto dirotto: nella
grande camera ardente la carrozzella
sembrava ancora più piccola: un puntino
nero segnato da fili bianchi. Intorno
si fece silenzio profondo e gli inservienti
domandarono all'inferma se dovevano
condurla al feretro di Maroso. La donna
annuì con il capo. Atmosfera di angoscia.
Le parole stente, ansimanti, quasi impercettibili
erano state circondate dal silenzio.
Come cessarono l'incanto si ruppe. Venne
il pianto. Dinanzi le bare si ricompose
la fila dei visitatori; il mesto pellegrinaggio
riprese e continuò sino alle prime ore
del giorno. La loro apoteosi. Poi il
futuro foggerà la leggenda. Stamane
alle 8, gruppi di persone sostavano
ancora in piazza Castello, dinanzi a
Palazzo Madama. Forse vi erano rimasti
tutta la notte nel nuovo percorso del
corteo funebre, forse erano passanti
che si recavano al lavoro. Vi erano
anche alcuni bimbi, giravano con la
cartella sotto il braccio: balzati dal
letto, con gli occhi gonfi, di sonno
e di lacrime, usciti di corsa per venire
a salutare per l'ultima volta i Campioni.
Alle sette giunse un gruppo di fioraie,
di quelle donne che vediamo agli angoli
delle strade esercitare il loro umile
mestiere; deposero un gran mazzo di
rose presso la soglia del Palazzo, si
ritirarono in silenzio, soffocando,
i singhiozzi nel fazzoletto. Frattanto,
con il passare dei minuti, la piazza
si animava ma non riprendeva il suo
aspetto consueto: restava di recarsi
al lavoro. Ma attorno al grigio edificio
centrale un'atmosfera invisibile ma
viva, palpitante di reverenza e di angoscia.
Alle sette e un quarto giungevano reparti
di forze armate: cinque autocarri di
agenti della "Celere", sette autocarri
di carabinieri. Sono i reparti che prestano
oggi servizio d'onore e disciplinano
l'afflusso della cittadinanza. Più tardi,
dalle otto in poi, il pellegrinaggio
si è fatto incessante, ha assunto un
aspetto maestoso. Sono giunte altre
decine di corone e spalliere di "sempre
verde" e umili, modesti mazzi di fiori
portati dal popolo; rappresentanze di
società sportive, gruppi di appassionati
di ogni parte d'Italia si sono avvicendati
in una manifestazione di cordoglio che
pareva non dovesse terminare mai. A
bassa voce, con parole commosse, venivano
rievocate le gesta dei Campioni, rammentato
il loro indimenticabile ricordo. E dall'uno
all'altro prendevano forma, venivano
svelati particolari della sciagura od
episodi avvenuti durante il riconoscimento
delle salme, venivano commentate le
tante ipotesi che si fanno sulle cause
della catastrofe. Il corteo funebre
avrà inizio alle 17,30 di oggi. Il percorso,
contrariamente ai precedenti comunicati,
seguirà: piazza Castello, via Roma,
corso Vittorio Emanuele, corso Re Umberto,
piazza Solferino, via Alfieri, via Venti
Settembre, Duomo. Gli automezzi con
le corone devieranno da piazza Solferino
per via Cernia, corso Siccardi, corso
Regina sino a corso XI Febbraio, ove
attenderanno le salme dopo la funzione
in Duomo. Il Municipio invita la cittadinanza
a disporsi lungo il tragitto per evitare
l’eccessivo ammassamento. Durante i
funerali, i negozi rimarranno chiusi.
6 maggio 1949
Fonte: La Stampa
© Fotografia: Salvatore Giglio
Su quell'aereo c'era mio padre
di Marco Tosatti
Marco Tosatti, vaticanista de
La Stampa, è figlio di Renato, l'inviato
della Gazzetta del Popolo morto a Superga.
Cinquant'anni dopo, il figlio racconta
come quella tragedia ha segnato la sua
vita.
Ero piccolo, non avevo neanche
due anni quando l'aereo del Torino si
schiantò a Superga. Non ho ricordi chiari
di quel periodo, e nemmeno della mia
infanzia successiva, se non una persistente
sensazione di tristezza, un'atmosfera
cupa, incombente, un'aura che impedisce
ancora adesso di definire contorni e
figure, come certe nebbie torinesi.
E forse quest'assenza di ricordi non
è casuale, forse la mente si è rifiutata
di assorbire sensazioni troppo forti,
troppo intrise di dolore. Vivevamo a
Torino, in via Filippo Burzio; da poco
tempo, da quando mio padre si era trasferito
da Genova per lavorare alla Gazzetta
del Popolo. Gli anni duri, quelli del
conflitto e dell'immediato dopoguerra,
sembravano finiti, si ricominciava a
sperare, a vedere un futuro. Ogni tragedia
appare ingiusta agli occhi di chi la
soffre. Ma da quando ho potuto cogliere,
al di là del dramma della mia famiglia,
il quadro complessivo in cui avvenne
la sciagura, ho vissuto come una misteriosa,
crudele beffa la scomparsa improvvisa
di quel gruppo di uomini che incarnava
un simbolo, la speranza di rinascita
per un Paese ferito, avvilito; e nello
stesso tempo la fine di tutte quelle
singole storie di speranza in una vita
finalmente migliore, dopo tanta guerra.
E - da bambino - mi sorpresi a pensare:
su una collina neanche tanto alta !
Bastava che l'aereo passasse qualche
decina di metri più in su... La sciagura
spezzò tutto questo: e come ogni grande
tragedia si nutre di infinite tragedie
più piccole, minuscole agli occhi della
storia, ma molto più durature dell'emozione
che accompagna i grandi eventi, così
fu per noi. Continuammo a vivere quello
schianto, che ancora ci accompagna;
persino adesso che tanta vita è trascorsa.
Restammo molti anni a Torino. Torino
cambiava, rapidamente; eppure - e solo
adesso me ne rendo conto - la memoria
di Superga non è mai venuta meno, è
stata fatta propria anche da molti che
sono venuti ad abitarvi in tempi lontani
anni luce da quel 4 maggio 1949. Lentamente,
crescendo ho cercato di ricostruire
memorie cancellate dall'infanzia, di
collegare frammenti di ricordo a luoghi
e immagini. Con cautela, per non ferire
chi aveva subito l'impatto pieno della
sciagura. Discorsi soffusi di pudore
perché troppo profondi erano i sentimenti
coinvolti. Devo confessare che trovo
un certo imbarazzo anche adesso, scrivendo
queste poche righe; ma forse è giusto
e salutare che anche a noi giornalisti,
abituati a trattare dei drammi altrui,
tocchi una volta parlare dei propri.
Non ho ricordi diretti di mio padre.
Ho letto i suoi articoli e trovo che
scriveva in maniera molto moderna, ironica,
così lontana dall'enfasi dello stile
prevalente all'epoca. Amici e colleghi
conosciuti molto più tardi, quando già
cominciavo a praticare questa professione,
me lo hanno descritto come una persona
incredibilmente brillante, e amante
della vita. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo,
magari in una di quelle tavolate di
inviati che si ritrovano insieme, a
sera, dopo aver finito di scrivere il
proprio "pezzo".
4 maggio 1999
Fonte: La Stampa
© Fotografia: Salvatore Giglio
Mi presero per ubriaco quando
diedi la notizia
di Maurizio Crosetti
Torino - Angelo ricorda il cielo
nero, i lampioni accesi a metà pomeriggio
e l'acqua che cadeva a secchi. Poi il
silenzio davanti alla basilica e il
fuoco. Silenzio e fuoco. Cadaveri no,
neanche uno. Angelo Lampiano, settant'anni,
fu la terza persona ad arrivare sul
terrapieno dove si schiantò il Grande
Torino ed è probabilmente rimasto l'unico
testimone oculare della tragedia. Fu
lui a dare la notizia all'Ansa, dunque
al mondo. Accadde per caso, ammesso
che qualcosa non accada così. "Avevo
vent'anni e vivevo a Chieri, un paese
non lontano da Superga. Facevo l'autista,
allora la patente l'avevamo in pochi
e di automobili neanche parlarne. Guidavo
le auto del cavalier Giuseppe Vergnano,
proprietario del celebre cotonificio
e presidente dell’ospedale. Quel 4 maggio
pareva notte anche in pieno giorno,
col nubifragio e le nuvole quasi schiacciate
a terra. Vedo arrivare in bicicletta
l'ufficiale dei Carabinieri, tenente
Stettermaier, tutto bagnato e trafelato.
Chiede del cavaliere: "C'è un fatto
strano, non so come spiegare", farfuglia.
Ha bisogno di una vettura e di un autista,
perché deve andare sulla collina di
Baldissero a verificare una segnalazione
di un contadino, e non può salire con
l’unico automezzo dei Carabinieri, un
furgoncino "Trenta Spa" con le gomme
piene. Allora il cavalier Vergnano mi
dice di prendere la Balilla e caricare
Stettermaier. Mentre saliamo sullo sterrato
tra il fango e i lampi, il tenente mi
racconta che un anziano contadino li
ha chiamati dal telefono pubblico, dicendo
di essere stato scavalcato da una cosa
infuocata mentre era a lavorare nei
campi di Bric Paluc. "Non vorrei che
fosse un matto", mi fa l’ufficiale.
Quel contadino si chiamava Sebastiano
Berutto. Io traduco dal dialetto. Lo
carichiamo sulla Balilla e proseguiamo
verso Bric Paluc, quando il tenente
si accorge che a Superga c’è un incendio.
"Saranno state le sei meno un quarto,
per salire impieghiamo una mezz'ora.
Piove che Dio la manda. Arrivati sul
sagrato troviamo monsignor José Cottino,
il rettore della basilica. "Presto,
venite, là dietro è caduto un aeroplano".
Siccome io avevo qualche contatto all'agenzia
Ansa, per la quale facevo l’informatore
occasionale da Chieri, corro al bar
di Superga e li chiamo. "È caduto un
aereo", dico, e all' Ansa mi rispondono:
"Lampiano, quanti bicchieri di barbera
hai bevuto oggi ?". Poi mi urlano di
informarmi meglio. "Così torno sul terrapieno
e lo vedo, mezzo velivolo schiacciato
dentro il muro della basilica, con la
coda intatta e le ali girate in alto.
Il bosco brucia e c'è silenzio, un silenzio
tremendo. Mi addentro con il tenente
in mezzo ad alberi e rottami e lui mi
sussurra: "Angelo, pare sia la squadra
del Torino". Allora guardo in basso
e vedo una fila di cassette di legno
marrone scuro, intatte, con dei cognomi
scritti sopra: le cassette delle divise
e delle scarpe da gioco. Il primo nome
che leggo è Maroso, poi Bacigalupo,
Gabetto, Ossola e Menti. Morti no, nessuno.
Quelli erano quasi tutti schiacciati
nella carlinga. Allora torno al bar
e richiamo l'Ansa: stavolta mi credono.
Poi corro un’altra volta alla basilica,
dove il tenente mi chiede di scendere
alla stazione di Chieri per far venire
tutti i suoi uomini. Ecco, il mio 4
maggio del '49 finisce qui. Casuale,
e niente di eroico. Dopo tre settimane,
l'Ansa mi mandò ventimila lire di ricompensa.
In cinquant'anni questa storia non l'ho
mai raccontata. Quando ci penso sto
male, rivedo il fuoco e il buio e il
silenzio e i miei vent'anni, e la Balilla,
e quei pantaloncini neri a terra, neri
e non granata. Vedo pezzi di cose, per
fortuna non di uomini, ma qualche volta
mi chiedo se non è lo stesso".
4 maggio 1999
Fonte: La Stampa
Miolli, il Grande Torino nel
cuore
di Nicola Lavacca
La storia di Vito Sante Miolli,
il granata che si salvò per caso dal
disastro di Superga. Il figlio Antonio
racconta l'amore per il Grande Torino,
tra foto, ricordi e nostalgia.
Quando
il G212 che riportava in Italia il Grande
Torino, dopo la trasferta di Lisbona,
si schiantò contro la Basilica di Superga,
Vito Sante Miolli era a letto con la
febbre alta. Su quell'aereo avrebbe
dovuto esserci anche lui, ma un violento
attacco di pleurite gli aveva impedito
di partire per il Portogallo con la
squadra granata di cui faceva parte.
Appresa la terribile notizia non seppe
trattenere le lacrime. In Italia il
mito del Toro invincibile aveva varcato
i confini del puro evento sportivo e
quella immane sciagura gettò l’intero
Paese nello sconforto totale. L’allora
21enne difensore, partito da Valenzano,
in provincia di Bari, con una valigia
piena di speranza e di entusiasmo, provò
un profondo dolore per i suoi compagni
di squadra, morti in un pomeriggio grigio
e uggioso, nel fiore degli anni e nel
momento più esaltante di una carriera
calcistica illustre, ricca di trionfi
e di vittorie. Il giovane Miolli faceva
la riserva nel Grande Torino che aveva
strabiliato per i suoi 4 scudetti consecutivi
vinti. Purtroppo, qualche settimana
fa, il 13 maggio scorso, la morte lo
ha sorpreso, all’età di 83 anni. Ma
la sua storia singolare ha lasciato
una traccia indelebile. Suo figlio Antonio
porta con sé il ricordo emozionante
di quella incredibile esperienza, fatta
di sudore, sacrifici e sano spirito
sportivo. Quel tratto di vita, così
intenso e suggestivo, che gli è stato
spesso raccontato dal papà. Ancora oggi
riecheggia nelle sue parole l’incedere
di quei momenti indimenticabili e commoventi.
"Mio padre giocava nel Castellana, ai
tempi della serie C nazionale. Due osservatori
del Torino, che lo avevano seguito durante
alcune partite, lo segnalarono al presidente
Ferruccio Novo. Il passaggio in granata
avvenne in pochi giorni". Il signor
Antonio, che fa l’odontotecnico, mostra
l’album dei ricordi. Foto ingiallite
dal tempo, cimeli, trofei e ritagli
dei giornali dell’epoca. Nell’ estate
del 1947, dopo una decisione molto sofferta,
Vito Sante Miolli lasciò la sua terra
per indossare la maglia granata, un
vanto per chi all’epoca voleva diventare
calciatore a certi livelli. Un legame
forte e una sorta di riverente rispetto
per i campioni più celebrati: Valentino
Mazzola, Bacigalupo, Grava, Gabetto,
Loik, Maroso, Ossola, Grezar, Aldo e
Dino Ballarin, Rigamonti, Castigliano,
Menti II. Così, un ragazzo del Sud,
cresciuto a pane e pallone, dopo tante
battaglie agonistiche sui polverosi
campi di periferia, riuscì ad entrare
nella più grande squadra del calcio
italiano di tutti i tempi. Le gesta
del Torino (che nel dopoguerra aveva
già vinto due scudetti, demolendo qualsiasi
avversario) erano ormai il simbolo della
riscossa non solo sportiva dell’Italia.
Difensore ambidestro tutto cuore e grinta,
bravo nelle acrobazie, l’allora diciannovenne
Miolli prese il treno dei sogni per
cominciare un’avventura che lo avrebbe
portato ad un passo dalla storia. Il
primo ingaggio fu abbastanza interessante:
circa 500mila lire per una stagione.
Alloggiava all’hotel Savoia e si allenava
nel mitico stadio Filadelfia insieme
ai fuoriclasse: un’esperienza ineguagliabile.
"Era considerato una mascotte", racconta
il figlio Antonio: "Mio padre mi parlava
in particolare di Valentino Mazzola,
descrivendolo come una persona di una
umanità infinita oltre che un calciatore
dotato di tecnica sopraffina e di temperamento.
Un capitano vero. Da lui imparò molto.
Si divertiva molto quando portava al
campo il piccolo Sandro che già allora
sapeva palleggiare con disinvoltura".
Lo scudetto 1947/48 fu l’ennesimo trionfo.
Vito Sante Miolli assaporò il gusto
del successo, nonostante il desiderio
di fare l’esordio in serie A restasse
inappagato (all’epoca non c’erano le
sostituzioni durante le partite di campionato).
Nella stagione successiva si rimise
a correre e a lottare. Ormai il granata
aveva colorato la sua vita. Per molti
era il degno successore di Maroso, quanto
a combattività e intuizione. Il chiodo
fisso era sempre quello di debuttare
in prima squadra. Anche Mazzola gli
disse di avere pazienza. L’occasione
si presentò quando fu organizzata un’amichevole
con il Benfica a Lisbona per festeggiarne
il capitano Josè Ferreira che lasciava
il calcio. La partita era in programma
il 3 maggio 1949. A quattro giornate
dalla fine del campionato (48/49) il
quarto scudetto consecutivo era praticamente
già cucito sulla maglia granata. Miolli
pregustava l’esordio; ma il destino
forse aveva deciso che il suo sogno
dovesse rimanere tale. Infatti, a Lisbona
quella volta non ci andò. "Mio padre
quasi certamente sarebbe stato convocato
per la gara col Benfica", fa notare
il figlio Antonio: "Era considerato
tra i giovani più promettenti, il presidente
Novo stravedeva per lui. Tuttavia, una
fastidiosa pleurite non gli consentì
di partire per Lisbona. Lui non ha mai
capito se si sia trattato di una fortuna
o meno... Quando seppe della sciagura
provò un dolore indicibile. È una sensazione
che ho sempre letto nei suoi occhi tutte
le volte che a casa si parlava del Grande
Torino. E forse, oggi, sarebbe stato
felice di veder tornare il Toro in serie
A".
Il cuore e l’animo
di Miolli furono pervasi da un’immensa
tristezza. E nell’ alternarsi dei sentimenti
e delle emozioni forti, si rese conto,
col passar del tempo, di essere diventato
un sopravvissuto di Superga. La sua
carriera, dopo una parentesi nel Bolzano,
prese una direzione diversa. Il Torino
lo cedette al Cagliari (stagione ‘50-’51)
dove disputò 6 campionati in serie B.
Giocò anche insieme a Carlo Regalia
con il quale ebbe modo di frequentare
il corso di allenatore a Coverciano.
Venezia (tre anni di B), Barletta e
Trani furono le sue ultime squadre.
Ma quella gloriosa maglia granata l’ha
sempre portata nel cuore, soprattutto
dopo aver visto le stelle cadere nel
cielo di Superga.
21 maggio 2012
Fonte: Famigliacristiana.it
© Fotografie: Tuttosport.com - Famigliacristiana.it
- Salvatore Giglio - Museo Grande Torino
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