Chi inizia e chi finisce
di Domenico Beccaria
Ero a casa, con mio padre
e attendevamo di assistere alla finale di Coppa dei Campioni,
come si chiamava allora, che si disputava allo stadio Heysel
di Bruxelles, tra la Juventus e il Liverpool.
Sono
passati trentatré anni ma sembra ieri. Le immagini un po'
sfocate in bianco e nero che arrivavano dal Belgio e riempivano
d’orrore i televisori ed i cuori di tutti gli italiani,
non si possono cancellare dalla mente di chi le ha viste.
Ero a casa, con mio padre e attendevamo di assistere alla
finale di Coppa dei Campioni, come si chiamava allora, che
si disputava allo stadio Heysel di Bruxelles, tra la Juventus
e il Liverpool. Mio padre, granatissimo ma vecchio stampo,
aveva lo spirito nazionalista che lo portava a simpatizzare
sempre e comunque per il concorrente italiano che disputava
il successo allo straniero. Io, altrettanto granata, ma
moderno, ero apertamente schierato per i rossi britannici,
perché per quanto nazionalista potessi essere, ero disposto
a fare eccezione se a rappresentare il tricolore erano loro,
gli acerrimi rivali cittadini. Ma quella sera era destino
che lo sport passasse in secondo piano rispetto alla tragedia
umana che si stava consumando attorno a quel fatiscente
impianto, che sarebbe stato indegno anche dei combattimenti
tra gladiatori dell'antica Roma, non solo di una finale
europea di fine Novecento. Non eravamo preparati a una cosa
così. Nessuno lo era. I corpi ammassati uno addosso all'altro,
a bramare un soffio d'aria e un centimetro di spazio, che
potevano significare la differenza tra la vita e la morte.
Qualcuno giaceva esanime a terra, con un amico o un parente
che cercava di dargli conforto. Qualcun altro invece era
riverso al suolo per sempre, la fragile fiammella che era
in lui spenta per sempre. Un padre che piange la figlia
è l'immagine che cristallizza tutto questo orrore e lo sintetizza
al meglio. Chilometri su chilometri, fatica, sacrificio,
ma anche gioia e speranza, travolti da
un'insensata carica
di bestie ubriache di birra e di sangue. Non voglio stare
qui ora a cercare le responsabilità, che appaiono fin troppo
chiare agli occhi di chiunque. La storia, anche se non i
tribunali, hanno detto a chiare lettere chi e dove ha sbagliato,
tanto che da quel giorno si è innescato un lento ma inesorabile
processo, che ha portato agli stadi moderni e "sicuri" di
oggi. Ma un paio di considerazioni lasciatemele fare. L'unica
cosa che ha lasciato più allibiti della tragedia è stato
che, alla faccia di tutto e tutti, si sia disputata una
partita di calcio e si sia consegnata e, ahimè, da parte
di molti, anche festeggiata una coppa. Ordine pubblico,
si disse allora e si ripete oggi. Sarà, ma a posteriori
si sarebbe potuto, anzi dovuto, dichiarare nulla la finale,
non aggiudicando il trofeo e contestualmente devolvere,
primo ma doveroso risarcimento, l'intero incasso della serata,
biglietti, diritti tv e quant'altro, alle vittime e alle
famiglie. La seconda considerazione va all'uso infame e
carognesco della tragedia e del dolore, messo in campo in
molti stadi italiani, per deridere e offendere gli avversari
bianconeri. E noi granata, mettiamoci pure una mano sulla
coscienza, la nostra parte l'abbiamo fatta, senza tirarci
troppo indietro. Non ci pareva vero, dopo trentasei anni
di areoplanini e di cori su Superga, di poterci prendere
una rivincita sugli odiati nemici, che per ferirci e offenderci
non avevano esitato ad oltraggiare la memoria degli Immortali.
E anche di Meroni e Ferrini. Ora toccava a noi, avevamo
il coltello dalla parte del manico e la ferita che sanguinava
era la loro. Stolti e miopi, non ci siamo resi conto che
due cose sbagliate non ne facevano una giusta. Ci sono voluti
anni di sedimentazione delle scorie, di metabolizzazione
del dolore reciproco, di maturazione umana, per arrivare
a capire tutto questo. Non smetterò mai di ringraziare gli
amici, sì, amici bianconeri Domenico Laudadio, Francesco
Caremani, Beppe Franzo, Iuliana Bodnari, Rossano Garlassi,
Nereo Ferlat e Fabrizio Landini e mi scuso per tutti gli
altri che non riesco a citare qui, con i quali abbiamo dato
inizio e poi proseguito in questo cammino di conoscenza,
poi di comprensione e infine di redenzione. Con loro siamo
cresciuti insieme, stimolandoci un l'altro a tirare fuori
il nostro lato migliore e a diffonderlo a tutti. La mostra
"Settanta Angeli in un unico Cielo - Superga ed Heysel tragedie
sorelle", realizzata con il mio "Fratellino - Direttore"
Giampaolo Muliari in collaborazione col duo Laudadio e Caremani,
ha avuto una gestazione tribolata, con mille discussioni
se la gente fosse pronta a capire oppure no. Ma bisognava
farla, erano in settanta, da lassù, a chiedercelo e con
loro c'era tutto il buon senso del mondo, quello cui bisognerebbe
attingere a piene mani prima di aprire bocca o muovere le
mani. Oggi quella mostra è diventata itinerante e credo
che molti passi avanti siano stati fatti da entrambe le
parti, ma molti ce ne sono ancora da fare, insieme, e pur
mantenendo intatte le rispettive identità e differenze,
come la leale competizione agonistica sportiva prevede.
Ma li faremo tutti, fino all'ultimo. Perché non conta chi
ha avuto la vigliaccheria di iniziare ad offendere, ma chi
avrà il coraggio di finirla.
Fonte:
Torinoggi.it
©
29 maggio 2018
Disegni: Free Graphics ©
Fotografie:
Associazione Quelli di... Via Filadelfia
© Domenico Beccaria
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Audio: Domenico Beccaria ©
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