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MANFREDONIANI
Quel giorno un gruppo di tifosi juventini di Manfredonia
erano presenti a quella finale in quel disastrato e pericoloso
stadio di calcio.
I tifosi juventini di Manfredonia
presenti all’Heysel. Il racconto (foto-video)
Gli inglesi bevevano e lanciavano
bottiglie e pietre verso i tifosi italiani.
di Franco Rinaldi
Manfredonia.
Il 29 maggio 1985 allo Stadio Heysel di Bruxelles si disputò
quella tragica finale della Coppa dei Campioni tra la Juventus e
gli inglesi del Liverpool. Doveva essere un giorno di festa per
il calcio, ma si trasformò in un dramma per 39 tifosi juventini
che morirono calpestati dalle orde hooligans inglesi. Una finale
maledetta, che a mio parere non si doveva più tenere, tant’è che
i calciatori della Juve non volevano più giocare la partita, ma
i dirigenti UEFA per motivi di sicurezza e per placare gli animi
dei tifosi juventini ed evitare altre vittime, imposero a
Giampiero Boniperti, presidente della Juve di disputare quella
nefasta finale.
Quel giorno un gruppo di tifosi
juventini di Manfredonia erano presenti a quella finale in quel
disastrato e pericoloso stadio di calcio,
fortunatamente tutti
illesi. Tra i tifosi sipontini, circa una sessantina, che
alloggiarono nello stesso albergo di Bruxelles, voglio
ricordare: Michele Santoro detto "Micole
Rivera", Tonino Catalano detto "Tonine
Catalògne", Raffaele Trotta,
Michele Pappalardo, Michele De Nittis, Dino Salice, Girolamo "Mumine"
e Paolo Campo, Filippo
Angelillis, Vincenzo Scuro, Nicola Iacoviello, Piero Triennese detto "Skardine",
Gianni Mondelli detto "Jammaddje"
e Franco Cucciardini detto "Franghine
i cozze". Quest’ultimo, dal fisico possente e dalla forza fisica
poderosa, va ricordato come eroe perché salvò non solo i tifosi
manfredoniani che erano con lui ad assistere alla finale di
Coppa dei Campioni, ma anche altri tifosi juventini. Molti di
questi tifosi, mi riferivamo Michele Santoro e Raffaele Trotta
stavano nella Curva Z, proprio a fianco della orda di ubriaconi
inglesi tifosi del Liverpool; le tifoserie erano divise da
una
semplice rete di plastica e non c’era un poliziotto. Gli inglesi
bevevano e lanciavano bottiglie e pietre verso i tifosi
italiani. Ad un certo punto quando la situazione era diventata
pericolosa, Michele Santoro e Giannino Mondelli si portarono
verso la recinzione del terreno di gioco e riuscirono ad aprire
un piccolo varco. Subito dopo arrivò in loro soccorso Franco
Cucciardini, che si mise di
spalle al pubblico, tenendo alzata la rete metallica che aveva
sollevato nel frattempo al massimo. Questi, sotto le sue gambe
divaricate, fece passare non solo i tifosi manfredoniani ma
anche altri tifosi juventini, che attraverso il buco aperto
nella rete di recinzione del terreno di gioco riuscirono a
salvarsi. Cucciardini, quando
la situazione era diventata insostenibile per la sua stessa
incolumità, si infilò nel varco che aveva aperto ed entrò anche
lui sul terreno di gioco. Alcune testimonianze per la
pubblicazione del presente articolo mi sono state fornite da
Michele Santoro, Raffaele Trotta ed altri tifosi juventini di
Manfredonia che erano presenti in quel maledetto Stadio Heysel
di Bruxelles. Per la storia calcistica, la Juve vinse 1 a 0 su
calcio di rigore realizzato da Michel Platini, ma fu una coppa
bagnata nel sangue, e ribadisco da tifoso della Juve, che quella
finale non si doveva giocare.
(A cura di Franco Rinaldi,
cultore di storia e tradizioni popolari di Manfredonia)
31 maggio 2017
Fonte: Statoquotidiano.it
NDR: Nella foto i tifosi
juventini manfredoniani e baresi presenti all'Heysel di
Bruxelles il 29.05.1985, Giannino Mondelli (primo a sinistra),
Michele Santoro e Tonino Catalano (al centro).
A-Z |
MAURIZIO MAGGI
La testimonianza Maurizio
Maggi:
"Tutti correvano verso il
campo, era un inferno"
"Io e papà senza pensarci di
corsa verso l’alto e fu soltanto così che riuscimmo a salvarci"
di Federico D'ascoli
"Dai
babbo, portami a Bruxelles". La prima partita della Juve allo
stadio è un regalo speciale, indimenticabile per Maurizio. Non è
una partita qualsiasi: è la più importante d’Europa, la finale
dell’unica coppa che manca a Madama. Ma babbo Roberto non si
fida: i biglietti trovati all’ultimo tuffo con un’agenzia di
viaggi sono per un settore di curva. Troppi rischi per il figlio
Maurizio che non ha ancora 14 anni. Alla fine, però, cede alle
insistenze del ragazzo. Destinazione Heysel di Bruxelles, rima
che riecheggia la baldoria crudele, la violenza ebete e il
carosello assurdo del 29 maggio 1985. Trent’anni fa, oggi.
"Sarebbe stata la mia prima volta con la Juve dal vivo, in
finale di Coppa dei Campioni: quando mio padre mi disse sì ero
al settimo cielo - racconta Maurizio Maggi che oggi ha 44 anni -
sembrava una grande festa: la mattina arrivammo nella Grand
Place e scambiai la sciarpa con un ragazzo del Liverpool. Ma
all’arrivo allo stadio il clima era cambiato. Mio padre stava
sempre voltato a sinistra, verso i tifosi inglesi: erano fuori
di testa". Roberto e Maurizio si guardano diritti negli occhi
come mai prima, sulla collinetta dietro al muro alto due metri
che hanno appena scavalcato. Sanguinano, feriti dal filo
spinato. Sentono grida e lamenti che arrivano dal loro settore,
il settore Z, quello dei 39 morti schiacciati, soffocati,
calpestati. Oltre quel muro, il loro confine tra la vita e la
morte, lo spettacolo va avanti. Ci sono le parole di Scirea
all’altoparlante, il fallo su Boniek fuori area, l’esultanza di
Platini dopo il rigore e il giro di campo con la coppa dalle
Grandi Orecchie. Ma babbo e figlio non li vedono dai gradoni
logori e friabili dell’Heysel. "Tra sirene di ambulanze e
cariche della polizia - ricorda Maggi - cercammo i nostri
compagni di viaggio e un telefono per tranquillizzare i parenti.
Poi siamo tornati in albergo sgomenti, senza preoccuparci della
finale in corso". Tra quelli che viaggiavano con loro da Arezzo
due non si salvarono. Roberto Lorentini, medico di 31 anni aveva
schivato la prima carica. Tornò indietro per tentare la
respirazione artificiale ad Andrea Casùla, la vittima più
giovane di quella carneficina, 11 anni, ma fu ucciso da un’altra
ondata hooligan. Morì anche Giuseppina Conti, 17 anni appena.
"Tutto iniziò con un rumore assordante. Aveva ceduto la rete tra
i due settori - ricorda - i tifosi della Juve scappavano verso
di noi in preda al panico. Volava di tutto, bottiglie,
calcinacci, mattoni. Chi inciampava era perduto". "Noi ci siamo
salvati solo perché io, senza pensarci, sono scappato verso
l’alto invece di andare giù verso il terreno di gioco dove
c’erano i cancelli e la via d’uscita più diretta - riflette
Maurizio Maggi - invece lì si concentrò la calca, la polizia
manganellava, venne giù il muro. Solo grazie alla forza della
disperazione riuscimmo a scavalcare, arrampicandoci su un
vespasiano. Ho visto tante persone travolte. Mio padre aveva i
mocassini e non si è mai spiegato come possa aver fatto a
seguirmi di là dal muro"... Quella notte, la notte in cui
l’innocente magia del calcio si spense, rimarrà sempre sospesa
tra i pensieri di Maurizio: "Per qualche anno non sopportavo gli
spazi chiusi, in mezzo alla folla non ero a mio agio. Ora, col
tempo, tutto è passato per fortuna". Trent’anni cancellano le
paure ma non quel delirio al tramonto che ci fece sentire vuoti,
sfiniti e perduti di fronte a una partita di calcio. Trentanove
volte di più.
29 maggio 2015
Fonte: La Nazione
A-Z |
ADALBERTO MAGNANTE
CRONACA CAMERANO
Nell’inferno dell’Heysel:
"Schiacciato contro la transenna, non respiravo più"
Due cameranesi nello stadio
dove si consumò una delle più grandi tragedie del calcio:
"Trovai il mio amico negli spogliatoi con una gamba ferita".
"Non posso escludere di essermi trovato
io stesso a dover camminare sulle persone che erano a terra". È
solo uno dei lampi nella memoria di un residente di Camerano,
che ha preferito restare nell’anonimato e che era presente il 29
maggio del 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles. Quel giorno, in
quel luogo, si consumò una delle tragedie più gravi della storia
del calcio. Si giocava la finale di Coppa Campioni tra Juventus
e Liverpool, poco prima del calcio d’inizio i disordini sugli
spalti provocati dagli hooligans inglesi causarono la morte di
39 persone (32 italiani) e il ferimento di 600. Su quelle
tribune c’era anche una decina di supporters arrivati dalle
Marche, tra cui anconetani partiti con un pullman da Torrette e
cameranesi.
IL
RICORDO - Il testimone guarda la targa
commemorativa che da oggi pomeriggio dà il nome all’area
sportiva di via Scandalli. È stata proposta dall’associazione
"Camerano bianconera" e inaugurata oggi dall’assessore comunale
allo sport Marco Principi, dal consigliere comunale Lorenzo
Rabini e dal segretario dell’associazione Massimo Battistoni.
"Qui oggi si ricordano le vittime, io sono un sopravvissuto ma
me la sono vista brutta" racconta il testimone. "In due eravamo
schiacciati contro la balaustra, costituita da una semplice
barra a ferro di cavallo, e non respiravo più. Avevo la gente
addosso, quando la pressione si allentò riuscii a scappare sul
campo ed evitai la manganellata di un poliziotto che ancora non
aveva capito cosa stesse succedendo, pensava a una invasione del
terreno di gioco. È probabile che io stesso sia passato su
qualche persona. Trovai un mio amico negli spogliatoi, ferito ad
una gamba, chiesi dove lo avrebbero portato ma non me lo seppero
dire". Non si poteva chiamare a casa con la facilità di oggi:
"Tra noi italiani c’era un uomo che lavorava all’allora Sip, la
società per le telecomunicazioni. Non chiedetemi come, riuscì a
creare un ponte telefonico con l’Italia e riuscimmo a turno a
chiamare i parenti per dire che stavamo bene". All’Heysel c’era
anche un altro cameranese, Adalberto Magnante: "Io ero nel
settore più lontano, non posso dire di aver rischiato la vita.
Cosa ricordo ? Che all’ingresso non mi staccarono neppure il
biglietto. Le curve erano fatiscenti, c’era il tufo che si
poteva facilmente staccare e tirare - ricorda Adalberto - per i
5 anni successivi non sono più andato a vedere una partita".
LA
CERIMONIA - Circa 50 persone hanno partecipato
all’intitolazione dell’area sportiva, tra cui il vicepresidente
del direttivo "Camerano bianconera" Marco Isolani, tra i primi a
posare la pietra del ceppo commemorativo. Tutti sono arrivati a
piedi dalla sede dell’associazione, con addosso maglietta e
mascherina commemorativa. Sulla prima, una semplice scritta:
"Per non dimenticare, Heysel, 29 maggio 1985". Sulle mascherine,
un pensiero: "Nessuna persona è morta finché vive nel cuore di
chi resta". "Chi era presente non ci racconta quella storia come
se fossimo al bar a fare colazione - spiega Battistoni - ma
tutti ci dicono che nessuno si era reso conto di quello che
stava realmente succedendo. Cosa insegna quel giorno ? Lo
ribadiamo nel perché siamo qui oggi, e cioè che non si può e non
si deve morire per guardare una partita".
4 settembre 2021
Fonte:
Anconatoday.it (Testo © Fotografia)
A-Z |
MARCO MANFREDI
Trentanove volte di più
Storia del tifoso juventino Marco Manfredi, lo smemorato
dell'Heysel
di
Roberto Bordi
Rimasto coinvolto nei tafferugli dello stadio di
Bruxelles, dove morirono 39 persone, Manfredi svenne e fu
scambiato per un cadavere. Uscito dall'ospedale in stato
confusionale, tornò a casa con mezzi di fortuna. Dell'Heysel
nessun ricordo.
Agli
occhi delle autorità belghe, responsabili della peggior gestione
dell'ordine pubblico mai vista in uno stadio di calcio, Marco
Manfredi era la quarantesima vittima dei tafferugli dell'Heysel.
Ma Manfredi, tifoso juventino di 40 anni che nella vita di tutti
i giorni faceva l'autista all'ospedale di Moncalieri, non era
morto: era solo svenuto. Dopo il suo avventuroso ritorno a casa,
nove giorni dopo la strage che ha cambiato per sempre la storia
del calcio, una foto lo ritraeva vicino a un gruppo di cadaveri
ammassati alla buona nei pressi dello stadio. Lui però era
ancora vivo. Riavvolgiamo il nastro. 29 maggio 1985, allo stadio
Heysel di Bruxelles si gioca la partita più attesa della
stagione. I tifosi della Juventus sperano che sia la volta
buona: dopo la delusione di Atene di due anni prima - sconfitta
contro l'Amburgo - "questa volta la Coppa dei Campioni può
essere nostra". Anche Marco Manfredi lo pensa. E fregandosene
della minaccia rappresentata dai tifosi del Liverpool - gli
hooligans che solo l'anno prima avevano messo Roma a ferro e
fuoco in occasione della finale di Coppa dei Campioni - compra
con due amici i biglietti per la partita. Non sa ancora che sarà
l'ultima della sua vita. La storia è nota. Lo stadio dell'Heysel
è vecchio e malandato. Alcune centinaia di tifosi juventini
vengono sistemati nel settore Z, a fianco della curva
avversaria. Un errore da dilettanti che costerà molto caro.
Prima del match gli hooligans cercano lo scontro con gli ultras
bianconeri. Che però sono sistemati dall'altra parte dello
stadio. Infatti, nel famigerato settore Z ci sono famiglie con
bambini e cani sciolti. E basta. Quando gli Inglesi scavalcano
la recinzione, gli Juventini si muovono in massa nella direzione
opposta. Nasce una calca spontanea che travolge tutti. Un
massacro. Alla fine si conteranno 39 morti. "A noi ne risultano
40", comunicano le autorità belghe. Per fortuna, se così si può
dire, il morto si trasforma in disperso. Si chiama Marco
Manfredi, lavora come autista all'ospedale di Moncalieri ed è
sparito nel nulla. La famiglia lo cerca disperatamente, ma
nessuno dice di averlo visto. Fino a quando un uomo con la barba
lunga, i capelli arruffati e i vestiti sporchi viene visto
aggirarsi in evidente stato confusionale davanti all'ospedale Le
Molinette di Torino. È lui, Manfredi. Lo riconosce un collega.
Che gli chiede dove fosse finito. "Giravo il mondo", dice. "E lo
stadio ?", gli chiedono. "Non lo so", la sua risposta appena
sussurrata. Manfredi non ricorda nulla della strage di
Bruxelles. Racconta soltanto di essere partito da Torino con due
amici. Poi il buio. Pian pianino, gli inquirenti ricostruiscono
la sua storia. Coinvolto nei tafferugli, Manfredi ha perso
conoscenza. Portato in ospedale, si risveglia e convince i
medici di stare bene: viene dimesso. L'autista di Moncalieri ha
poche certezze. Capisce di trovarsi a Bruxelles e si ricorda di
venire da Torino. In tasca ha pochi soldi. Sopravvive e si muove
con alcuni espedienti. Infila una multa dietro l'altra (con i
controllori che fanno finta di niente) e trangugia quel poco che
riesce a rimediare: mele, pezzi di pane, croste di formaggio. La
sua traversata nel deserto dura nove giorni. Poi il lieto fine.
Quando è già a casa, Famiglia Cristiana pubblica una foto
dell'Heysel. La moglie Rosita e mamma Carla lo riconoscono: ha
il volto e il corpo parzialmente nascosti da una coperta, ma è
Marco. Attorno a lui, una distesa di cadaveri. Per fortuna, di
quei tragici momenti Manfredi non ricorda nulla. Da allora, il
calcio non lo ha più interessato. Contava solo una cosa: era
ancora vivo.
29 maggio 2015
Fonte: Ilgiornale.it
A-Z |
SERGIO MARCHESELLI
HEYSEL, 29.05.1985
Trent’anni dopo. Per non dimenticare
di Sergio Marcheselli
E' quasi mezzogiorno quando arriviamo a
Bruxelles. Il viaggio è stato interminabile, soprattutto per me
che non riesco a dormire in pullman. Lungo il percorso ogni
tanto abbiamo superato altre carovane di tifosi juventini, con i
quali ci siamo salutati chiassosamente, ma avvicinandoci alla
città il numero di pullman bianconeri è aumentato in maniera
esponenziale: siamo una marea e questo, anche se si tratta solo
di una illusione, ci fa ben sperare per l'esito della partita.
Il parcheggio che ci hanno riservato è grandissimo ed è
stracolmo di tifosi. Cerco qualche faccia conosciuta, ma so che
è inutile. Solo io, Gino e Fabio siamo arrivati qui per strada;
gli altri tifosi della mia cittadina stanno arrivando in aereo,
beati loro che possono. Cerchiamo le indicazioni per lo stadio.
Non ce ne sono oppure non le vediamo, seguiamo la corrente
bianconera, qualcuno là davanti saprà dov'è. Una breve pausa per
una foto davanti all'Atomium: l'ho visto mille volte sui libri
di geografia e vederlo dal vero mi fa un certo effetto.
Finalmente arriviamo nei pressi dello stadio: esternamente non
ci sembra granché, spero che sia meglio all'interno. Sui prati
attorno allo stadio ci sono tantissimi gruppetti di tifosi: c'è
chi mangia, chi dorme, chi legge la Gazzetta e avvicinandoci
sentiamo i discorsi concitati di mille allenatori; ognuno ha la
sua formazione e la sua tattica di gara, ci accomuna solo la
speranza che non si ripeta la beffa di Atene. Io, apprensivo
come al solito, voglio individuare l'ingresso del nostro settore
per non essere impreparato quando apriranno i cancelli; Gino e
Fabio mi prendono in giro ma si uniscono a me nella ricerca. Ci
avviciniamo al perimetro dello stadio e cominciamo a
percorrerlo. Nei pressi di quella che dovrebbe essere la tribuna
centrale ci sono delle transenne. Qui non si passa. Facciamo un
giro più ampio e arriviamo in corrispondenza di una delle curve.
Sarà la nostra ? Assorti nella ricerca, non ci siamo accorti che
il colore dei prati circostanti è gradualmente mutato: da verde,
bianco e nero è diventato verde e rosso. Qui ci sono i tifosi
del Liverpool. Nella illusoria speranza che la mia maglia
bianconera e quella di Fabio non risultino così evidenti (come
se quella blu da trasferta di Gino con il logo Ariston, lo
scudetto e le stelle sembrasse una normale polo…) proseguiamo
nel nostro cammino. Non posso fare a meno di sbirciare i volti
dei tifosi inglesi, nel timore di una espressione di minaccia e
nella speranza di un sorriso di complicità. Un ragazzo si stacca
da un gruppetto numeroso e si avvicina. Sorride timoroso, indica
la mia maglia e mi parla. Accidenti, come è diversa la sua
parlata dall'inglese della prof.; comprendo la metà delle sue
parole, ma capisco che vuole cambiare la mia maglia con la sua.
Perché no? Magari ci speravo in una cosa del genere e forse sarà
per questo che, oltre alla maglia ufficiale, mi sono portato una
maglia replica acquistata su una bancarella davanti al Comunale
prima della partita con il Bordeaux. Facciamo lo scambio. E'
bella la loro maglia, di un rosso che comunica passione; chissà
quand'è che la Juve deciderà di adottare le maglie fatte con
questo tessuto lucido. Ci diamo la mano e ci salutiamo. Io gli
dico: "Good luck", ma non lo penso veramente, non per stasera
almeno. Proseguiamo nella nostra ricerca, arriviamo quasi alla
fine della curva prima del settore dei distinti; qui c'è un po'
di movimento. Non capiamo o forse capiamo ma non ci sembra
possibile. Ci sono dei tifosi a cavalcioni del muro di cinta che
in questo punto mi sembra più basso che altrove e con il filo
spinato rotto; altri tifosi stanno passando loro dei
contenitori, sembrano casse di birra. Forse stanno portando
dentro degli striscioni, ma qualcosa ci dice che la prima
impressione è quella giusta. Questi sembrano meno amichevoli di
quelli che abbiamo incontrato prima e allora decidiamo di non
indugiare troppo e ci affrettiamo ad allontanarci.
Passato il
settore dei distinti, l'ambiente torna a tingersi del
rassicurante colore bianconero e vediamo anche un cancello con
sopra un cartello che recita "Juventus"; non ci è dato di sapere
se è l'ingresso del nostro settore, ma una valutazione della
piantina dello stadio disegnata dietro al biglietto di ingresso
ci spinge a pensare che sia così. Chiedo a tutti quelli che
incontro se è questo il settore 'N' e puntuale arriva la presa
in giro di Gino e Fabio. Siamo arrivati e anche se è un po'
presto, decidiamo di fermarci qui. Anni di partite al Comunale
ci hanno insegnato che se non sei davanti ai cancelli quando
aprono, ti rimangono i posti peggiori. Il pomeriggio avanza, fa
caldo (perché quando compri la maglia ufficiale ti mandano
sempre quella a maniche lunghe invernale ?), il numero di tifosi
aumenta e tutti si accalcano. Già da tempo abbiamo rinunciato a
stare seduti e, per giunta, nel gruppo si è infilato anche un
poliziotto a cavallo ed io, con la mia solita fortuna, sono
faccia a faccia con il quadrupede. Spero che sia stato
addestrato bene. Sorrido al poliziotto, nella speranza che
capisca che qui non ci sono teppisti, ma lui non si smuove.
"Vabbè, l'importante è che tu tenga buono Furia" penso io.
Cresce l'eccitazione. La batteria dell'orologio mi ha
abbandonato, ma penso che ormai ci siamo. Ora aprono. E' come
una scossa. Cominciano i cori "Juve, Juve" prima ancora di
entrare. Siamo dentro. Ci sistemiamo in una posizione decente,
vicino ai distinti e cominciamo a studiare quello che sarà il
teatro della partita. Il prato è uno splendore. Qui il verde
sembra - se possibile - più verde, che meraviglia. Però il resto
non è granché: lo stadio non ci sembra molto grande; sicuramente
è molto vecchio e comunque tenuto male. Addirittura i gradini
larghi e bassi sono in più parti sbriciolati. Penso che sia
quasi meglio il Comunale, che ho tante volte denigrato.
Ricomincio a fare il solito giochetto delle "forze" sugli
spalti, come se il numero dei tifosi fosse decisivo. Guardo
verso alla curva opposta alla nostra, dove ci sono i nostri
"nemici", ma non è tutta rossa: nella parte verso le tribune ci
sono degli juventini. Chissà, forse siamo talmente in tanti che
ci hanno riservato anche quel settore. Intanto lo stadio si
riempie. Per ingannare l'attesa si parla, si legge un quotidiano
faticosamente mendicato al vicino; ogni tanto qualcuno parte con
un coro e allora tiriamo su sciarpe e bandiere e cantiamo per
darci coraggio e sperando di darne ai giocatori. C'è uno dietro
di me che ha uno striscione con scritto "Mamma sono qui". Questa
mi mancava. L'eccitazione aumenta sempre più. Non riesco più a
calmarmi, se continuo di questo passo esaurirò le unghie prima
dell'inizio della partita. Un boato. Sono entrate delle persone
con la tuta della Juve sul campo. Da qui non riconosco i volti,
potrebbe essere il massaggiatore, ma potrebbe essere anche
Platini. Quanto manca ? Sono quasi le sette. Manca ancora
parecchio ed i minuti sembrano espandersi nell'attesa. Mi metto
tranquillo. Ma dura poco. Un brivido percorre la curva, forse
stanno entrando i giocatori a vedere il terreno di gioco. No,
sta succedendo qualcosa sulla curva opposta. Cerco di capire.
Dai due settori riservati ai tifosi del Liverpool stanno
lanciando degli oggetti verso il settore degli juventini,
sembrano bottiglie, forse sassi, non vedo bene. La parte della
curva bianconera fischia, anche noi fischiamo.
Ma proprio stasera dovevano fare casino
? Fra le due tifoserie compatte si è aperta una frattura. Poi,
come comandati da un unico impulso, i tifosi del Liverpool
cominciano a muoversi in direzione di quelli della Juve. "Ci
saranno le reti" mi dico, "Arriverà la polizia" spero, "Si
fermeranno" prego. Si fermano. Ma è un attimo. Come una molla
gli inglesi si ritraggono e poi ripartono, ma questa volta non
si fermano, continuano ad avanzare. La massa dei tifosi
bianconeri si sposta verso le tribune, forse stanno uscendo. Da
qui vedo che molti si riversano sul campo di gioco. Forse gli
addetti hanno aperto i cancelli e per evitare problemi li fanno
entrare sulla pista. Il settore è quasi vuoto. E quelli del
Liverpool si sono fermati; lentamente ritornano verso i loro
settori e cantano. Cerchiamo di capire, ma da qui è difficile.
L'altoparlante dello stadio non da comunicazioni. Speriamo che
non rimandino la partita. Sarebbe il colmo essere venuti fin qua
per non vederla. Passano i minuti. Il settore degli juventini
rimane vuoto, i suoi occupanti sono tutti in campo. Mi sembra di
sentire delle sirene. Intanto il tempo trascorre, adesso troppo
in fretta. Ma insomma, cosa fanno, perché non dicono nulla ?
L'altoparlante dello stadio comincia a emettere suoni, ma la
confusione è tanta e i messaggi arrivano frammentati. Riusciamo
a capire che i capitani delle squadre leggeranno un comunicato.
Si sente una voce timida, è Scirea ci dicono: "La partita verrà
giocata per consentire alle forze dell'ordine di organizzare
l'evacuazione del terreno. State calmi. Non rispondete alle
provocazioni. Giochiamo per voi". Poi un'altra comunicazione,
questa volta in inglese. Questi è Neal, il capitano del
Liverpool. Non riusciamo a capire. Ma la partita è valida ?
Intanto il campo è sempre pieno di persone, a cui si vanno
aggiungendo squadre di poliziotti o soldati che si dispongono
attorno al perimetro del terreno. Se possibile, il trambusto
aumenta quando entrano in campo alcuni calciatori della Juve
circondati da un gruppo sempre più folto di persone. Arrivano
quasi sotto la nostra curva. Nella calca mi sembra di
riconoscere Cabrini, ma non ne sono certo. E' tardi, l'orario di
inizio è trascorso. Scirea ha detto: "Giochiamo per voi", spero
che non ci abbiano ripensato. Impercettibilmente il campo si
svuota, tutte le persone che c'erano prima sono scomparse. Forse
i tifosi della Juve scesi sul terreno di gioco sono stati
smistati in altri settori dello stadio. Abbiamo notato che molti
spettatori dei distinti alla nostra destra sono andati via.
Forse si sono impauriti per il trambusto. Vediamo un varco nella
rete divisoria fra i settori e molti tifosi della curva ci
passano attraverso per spostarsi nei distinti. Lo facciamo anche
noi, vogliamo vedere un po' meglio. Non c'è nessuno ad
impedircelo. Sono già passate le nove, quando inizia la partita.
I minuti prima lentissimi adesso passano troppo velocemente. Le
squadre giocano abbastanza bene, sembra tutto normale. Voglio
pensare che sia tutto normale. Noi facciamo qualche azione
buona, ma anche loro non scherzano. Sono forti, lo sapevamo.
Tacconi si supera in più di una occasione. Finisce il primo
tempo sullo 0-0. Facciamo qualche commento, ognuno ha la sua
ricetta per vincere, ma non sembriamo molto convinti. Un'ombra
ci opprime. Entrano le squadre per la seconda parte della gara.
Nella Juve non è cambiato nessuno. Passano una decina di minuti,
poi un lampo. Boniek parte al galoppo. Sale l'incitamento, che
diventa un boato quando i difensori del Liverpool lo stendono
nei pressi dell'area. Rigore ! "Ma, c'era ?". L'arbitro dice di
si. Tira Platini. Proprio sotto la curva degli incidenti.
Contrariamente al solito, questa volta lo guardo tirare.
Gol ! Stiamo vincendo. "Manca molto ?".
Adesso il Liverpool non ci sta a perdere e ci comprime nella
nostra metà del campo. Il cuore sta facendo gli straordinari.
Tacconi para anche lo mosche. E' quasi finita. Una sostituzione
per la Juve. Esce Briaschi, entra Prandelli; ci copriamo, il
Trap ha aspettato più del solito a farlo. Manca pochissimo.
Un'altra sostituzione. Esce Rossi ed entra Vignola. E' finita !
Abbiamo vinto. Ci abbracciamo. Gino piange, ma non vuole farsi
vedere. La curva alla nostra sinistra, dove eravamo prima è una
marea bianconera. Aspettiamo la premiazione, vogliamo la coppa
più desiderata. Il tempo passa ma non vediamo nulla. Ce la siamo
persa ? Altri minuti, non si vede nessuno. Ma che fanno ? Hanno
cambiato il rituale ? No, ecco i giocatori che arrivano. Non ci
sono tutti. C'è Platini che corre sotto la curva. Foto. Passano
Tardelli e Boniek proprio davanti a noi. Altra foto. Questi coi
baffi chi è? Favero. Altra foto. Non vedo altri juventini. Ma
dov'è la coppa ? Non c'è più nessuno in campo, esclusi
poliziotti ed addetti. Lo stadio si sta svuotando, per stasera
non fanno altro. Decidiamo di uscire. Torniamo al pullman.
Occhio alle maglie rosse. Dopo quello che è successo, non si sa
mai. Ci rimettiamo in viaggio. Appena fuori Bruxelles, ci
fermiamo in un posto di ristoro. E' chiuso. "Ma come ? Da noi
sono sempre aperti o quasi". Proseguiamo. Abbiamo fame. Un
altro autogrill. Come non detto. Appena vede arrivare i pullman,
qualcuno pensa bene di chiuderlo. Ci teniamo la fame, ci
arrangiamo per i bisogni fisiologici e ripartiamo. Viaggiamo
tutta la notte e arriviamo al confine svizzero alle prime luci
dell'alba. Finalmente, un autogrill aperto. Ci fermiamo e
assaltiamo letteralmente il bar. Ci guardano in modo strano. Una
cameriera piange. Che succede ? Io cerco l'espositore dei
quotidiani. Voglio comprare una copia della Gazzetta per
conservarla come ricordo. Non la trovo. Ci sono solo giornali in
lingua tedesca. Ne compro uno. Ho una conoscenza scolastica del
tedesco, ma riconosco il vocabolo che campeggia in prima pagina
vicino ad un numero troppo alto per essere vero, 'Toten'; e le
immagini che vedo mi scavano un solco profondo nella mente e nel
cuore. Per sempre. Siamo a casa nel primo pomeriggio. Un
conoscente mi offre un passaggio dal terminal degli autobus fino
a casa mia. Mi dice che in paese mi davano per disperso.
Risultavo capogruppo nell'elenco dei tifosi partiti da qui.
Quelli che sono venuti alla partita in aereo sono tornati prima
di noi, ed hanno raccontato di aver sentito il mio nome chiamato
più volte dallo speaker dello stadio. Mi sembra incredibile, io
non ho sentito nulla. Mi dice anche che la mia ragazza ha
telefonato al Ministero degli Esteri. Non le hanno saputo dare
notizie. Arrivo a casa. Mia madre mi abbraccia e piange. Mio
padre non mi dice nulla. Mi guarda e parte per andare al lavoro.
Anni dopo mi dirà di non aver provato una paura simile nemmeno
ai tempi della guerra. Non ho mai voluto guardare la
registrazione di quella serata.
28 maggio 2015
Fonte: Sergiophoto.it
A-Z |
GAETANO
MARINO
L'anniversario
La strage dell'Heysel: è stato
un massacro in diretta
Latina - Il racconto dei
superstiti tra cui l'avvocato Gaetano Marino che il 29 maggio
del 1985 erano a Bruxelles per Juve-Liverpool.
Oggi è il 29 maggio del 2019,
riproponiamo un'intervista di qualche anno fa uscita sul nostro
giornale chi quel giorno era in Belgio a Bruxelles nello stadio
Heysel dove ci fu una strage in occasione della finale di Coppa
dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Ecco la ricostruzione
dell'avvocato Gaetano Marino che quel giorno era all''Heysel.
Ci sono giorni strani e brutti che
vorresti dimenticare. Ma non puoi. È una questione di rispetto.
Lo impone la memoria. Oggi è il 29 maggio, oggi è il giorno
dell'Heysel, un nome che evoca una strage, ma di calcio. In 39
non sono più tornati a casa. La loro sfortuna ? Quel maledetto
settore Z, l'ultima lettera dell'alfabeto, lo spicchio più
diabolico di un impianto fatiscente e contraddittorio. Dentro le
reti da pollaio a dividere i tifosi italiani dai Red devils del
Liverpool, fuori un bel parco, di un verde vivo e l'Atomium a
fare da cartolina da tabaccaio. Adesso quello stadio non c'è
più, è stato demolito e poi ricostruito, ha cambiato nome come
per rifarsi una vita. Sì ricominciare e si chiama Re Baldovino,
sua Maestà. Era un bel pomeriggio quel giorno a Bruxelles. Il
sole ancora alto che tramonta quando in Italia è quasi buio e
poi la Juve che due anni dopo la beffa di Atene cerca la gloria
più importante della sua storia e l'unico trofeo che le manca in
bacheca: è quella che una volta si chiamava Coppa dei Campioni e
adesso si chiama Champions League perché fa più chic.
Un massacro in diretta -
"Bruno ci sei ? Sei in linea", dice Gianfranco De
Laurentis dallo studio della Rai di Roma al collega Bruno
Pizzul. È lui l'inviato, è lui il telecronista che deve
raccontare la finale della Coppa dei Campioni tra la Juventus di
Platini che gioca senza sponsor sulla maglia, come era
all'epoca, e il Liverpool del portiere - marionetta Bruce
Grobbelaar, detentore del trofeo. Pizzul è solo, a quel tempo
non ci sono seconde voci, dalla sua postazione non risponde
subito, è indaffarato, sta succedendo qualcosa, poi interviene.
"È stato ripristinato il collegamento", dicono a gesti dalla
regia. L'audio è telefonico, non pulito, con un inquietante
fruscio in sottofondo. "La situazione è degenerata sotto il
profilo dell'ordine pubblico, il settore dei tifosi è debordato
nel settore degli juventini - dice Pizzul con il suo tono
inconfondibile ma questa volta stravolto dall'emozione di dover
raccontare non una finale ma un massacro in diretta - nella
calca della folla sono crollate le cancellate", prova ad
ipotizzare. È un'ipotesi perché c'è confusione e non si capisce
niente con le autorità del Belgio impreparate e che non sanno
cosa fare. Le notizie che arrivano sono frammentarie, sul canale
due della Rai con la scritta in sovra impressione in diretta da
Bruxelles, si vedono un gruppo di poliziotti a cavallo sulla
pista di atletica, sono disorientati: prima vanno avanti e poi
fanno una semicurva. Noi di Latina - Quel
giorno c'erano molte persone di Latina a Bruxelles e un gruppo
anche in curva Z, uno spicchio della curva dell'Heysel. Da una
parte verso il centro gli inglesi, ubriachi, aggressivi e
minacciosi, sono quelli che poi i media hanno chiamato hooligan,
a lato, al confine con la tribuna coperta ci sono gli italiani
ma non sono dei gruppi organizzati. Nella curva opposta invece
ci sono gli altri juventini quelli della vecchia curva
Filadelfia che hanno assistito anche loro in diretta ad una
strage. Non dimentica quel giorno l'avvocato Gaetano Marino che
all'epoca non aveva ancora 30 anni, prima di quel mercoledì
aveva visto altre due finali della sua Juve: a Belgrado e poi
quella di Atene, o meglio quella che tutti ricordano per il
perfido tiro di Magath. Partì in aereo con una comitiva, tra cui
l'avvocato Peppe Di Nardo, l'imprenditore Virginio Moro e altre
persone di Latina. In curva Zeta -
"Trovammo il biglietto all'ultimo momento, quello del settore
Zeta - racconta l'avvocato Marino che ad un tratto si commuove
quando pensa alla coreografia di Torino con migliaia di
cartoncini con i nomi dei morti per ricordare quel giorno - sì,
ero lì. A sinistra avevamo gli inglesi che ad un certo punto
iniziarono a lanciare sassi e pezzi di cemento verso di noi, nel
nostro settore c'erano dei signori, tifosi normali, ci spostammo
verso il muro e la rete ad un certo punto che divideva i due
settori si abbassò. Fu un attacco premeditato, avevano coltelli,
pietre e bastoni, indietreggiamo verso il muro e persi di vista
Peppe Di Nardo che rividi dopo, nella calca aveva perso un
mocassino". Sono passati più di 30 anni ma il film di quella
terribile notte è vivo. "Ricordo un bambino che si aggrappò ai
miei jeans perché non trovava il papà e andai verso il muro,
alzai i gomiti in alto per fare da scaletta a gente che si è
lanciata e si è salvata per evitare la calca". Esplosione di violenza -
Lo scenario che si presenta sembra quello dello scoppio
di una bomba. "C'era polvere, persone che si lamentavano, il
bimbo ritrovò il papà ma i gradoni erano un tappeto di persone,
c'era chi si lamentava e chi era morto". Le notizie che arrivano
dall'Italia in quei minuti sono frammentarie, in tribuna
l'avvocato Gianni Agnelli in compagnia del suo amico l'ex
segretario di Stato americano Henry Kissinger va via, le agenzie
battono le notizie con i morti e dal Belgio rimbalzano le
polemiche sulla superficialità del servizio d'ordine. È finito
tutto all'improvviso è questo quello che mi resta, sono riuscito
ad andare a vedere la partita in tribuna, ma a casa non avevo
detto che avevo il biglietto della curva Zeta. Poi dopo la
partita arrivammo a piedi in hotel e all'ingresso dei locali di
Bruxelles c'erano i vigilantes con i cani e ti chiedevano se eri
italiano. Se la risposta era sì allora potevi entrare, se eri
inglese invece no". Cosa è stato l'Heysel -
Anche Virginio Moro era nella curva Zeta e ricorda ogni istante
di quel giorno. Un inferno in uno stadio. "Sono un tifoso del
Milan ma in quel periodo seguivo le squadre italiane che
andavano in Coppa Campioni - racconta - era un'occasione anche
per visitare città che non avevi mai visto. Se siamo vivi è una
fortuna e siamo dei miracolati. Io ho fatto un volo di sei metri
da quel muretto che è crollato e mi sono caricato un ferito
sulle spalle, Massimo Giannolla, anche lui di Latina che stava
con noi. Mi sono accorto subito che la situazione stava
degenerando quando eravamo vicino alla curva degli inglesi, sono
volati dei razzi che solo per caso non ci hanno preso, ci siamo
spostati e sono arrivati i sassi ma anche pezzi di cemento. La
gente ha iniziato a correre e si è creato il caos. Le sensazioni
? Mi è morto un bambino accanto e tante persone sono svenute.
Quando vedevi uno che si rialzava significava che era vivo".
Questo è stato il 29 maggio del 1985 all'Heysel, uno stadio
morto anche lui insieme a 39 persone innocenti.
29 Maggio 2019
Fonte: Latinaoggi.eu
(Fotografia di Adriano Lazzarini)
A-Z |
CARLO e ANDREA MAZZANTI
Heysel, trent'anni dopo
"Scampati alla morte grazie a
nostro padre"
di Fabrizio Cibin
SAN
DONÀ - "Heysel, noi vivi grazie allo scrupolo di papà". C'erano
anche loro allo stadio, in quella terribile sera del 29 maggio
1985. Allora Carlo e Andrea Mazzanti avevano rispettivamente 27
e 23 anni (oggi hanno una agenzia di comunicazione e una casa
editrice) e nelle mani un biglietto a testa del famigerato
"settore Z", quello delle 39 vittime. "Solo mio papà Giorgio
aveva un biglietto per la tribuna, mentre noi ne avevamo trovati
due della curva maledetta" - ricorda Andrea. Padre che all'epoca
era primario chirurgo alla Casa di cura Giovanni XXIII;
particolare non da poco, perché anche lui aiutò a curare dei
feriti. "Quando arrivammo in città ci rendemmo conto che
l'organizzazione era assolutamente inadeguata: c’erano
hoolingans ubriachi ovunque". Padre e figli vanno a controllare
lo stadio e vedono che la struttura è fatiscente e pericolosa. A
quel punto decidono: o si trovano altri biglietti o si torna a
casa. "Cercammo dei bagarini e comprammo a peso d'oro due
tagliandi del settore N, la curva opposta, dove c'erano solo
italiani. Insieme a noi c'era anche un ragazzo di Mestre,
conosciuto in aereo: convincemmo anche lui a cambiare e in
qualche modo, forse, gli salvammo la vita". Andrea e Carlo
ricordano, poi come non si capì mai veramente quello che
successe. Ma anche l’orrore per i feriti visti poi all'esterno e
nei bus ("Sangue, sangue dappertutto"). Solo all'arrivo in
Italia seppero della tragedia.
30 maggio 2015
Fonte: Il Gazzettino
A-Z |
KEVIN McFADDEN
"Per me, è stata la notte in cui il calcio è morto"
di Chris McNulty
Un uomo di Donegal ricorda il
disastro dell’Heysel.
Quello avrebbe dovuto essere il viaggio
di una vita, ma ora è il suo peggiore incubo. Kevin McFadden ha
lasciato la sua casa a Garshuey, tra Newtowncunningham e Killea,
per un viaggio che si sarebbe concluso nello stadio Heysel, a
Bruxelles, per la finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e
Juventus. Accompagnato dall’abituale compagno di viaggio, il
defunto Mickey Cresswell di Derry, McFadden è volato a Heathrow
prima di prendere un treno per Dover, il punto d'incontro per i
tifosi del club. A bordo del pullman si sono presentati con i
biglietti della partita. Per come le cose sarebbero andate a
finire non ce ne sarebbe stato bisogno. La notte del 29 maggio
1985 rimane una delle notti più famigerate del calcio.
Trentanove tifosi - 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e il 37enne
Patrick Radcliffe, originario di Belfast, che lavorava a
Bruxelles come archivista per la CEE - hanno perso la vita e
altri 600 sono rimasti feriti in seguito allo scoppio di
disordini nel settore Z, una zona apparentemente neutrale quella
sera nel fatiscente stadio Heysel. I tifosi del Liverpool hanno
caricato attraversando la rete da pollaio che divideva i
settori, presidiato da un esiguo allineamento di agenti di
polizia. Cercando riparo i tifosi della Juventus hanno provato a
scavalcare il muro perimetrale fino alla bandiera all'angolo.
Alcuni ci sono riusciti, altri non sono emersi dall’ammassamento
(a sei metri di altezza in alcuni punti). Il muro alla fine è
crollato sotto la spinta. Se avesse resistito alla pressione, il
bilancio delle vittime avrebbe potuto essere ancora maggiore.
McFadden era nelle vicinanze del Settore Y. Sentiva che qualcosa
non andava, anche avvicinandosi allo stadio. "Era un caos",
dice. "Le bandiere erano confiscate al punto di ingresso, ma
altri in coda le stavano lanciando di nuovo oltre il muro. Come
è potuto accadere ? "Si è fatta una grande fatica per entrare e
non c'erano per niente tornelli". Sedici anni prima, McFadden -
il cui padre, Paddy, era un membro fondatore dei Kildrum Tigers
- era il PRO dei Finn Harps quando una delle condizioni del loro
accesso in Lega d'Irlanda era che avessero installato i tornelli
a Finn Park (li avevano prestati dall'ippodromo di Sligo).
"Quella era la finale della Coppa d’Europa", sottolinea. Io ero
stato in stadi migliori nella Lega d’Irlanda. C'erano 12.000
tifosi nell’area dietro il punto in cui eravamo. "Alcune parti
erano fatte solo di pura argilla, c'erano macerie che giacevano
in altre e non c'erano servizi igienici - dovevi fare pipì
contro un muro e chi ti stava semplicemente passando davanti. La
partita non avrebbe mai dovuto essere giocata lì". Questa era
una questione sollevata da Peter Robinson, allora segretario del
Liverpool, che aveva pregato la UEFA di modificare la sede. La
sua richiesta cadde inascoltata. McFadden non era esattamente un
principiante in questi viaggi. Quattro anni prima era stato al
Parc des Princes a vedere il gol all'81° minuto di Alan Kennedy
che permise al Liverpool di vincere 1-0 in Coppa dei Campioni
sul Real Madrid. All’Heysel nel 1985, oltre due ore dopo il
calcio d'inizio previsto, le squadre di Liverpool e Juventus
sono finalmente scese in campo. La tensione accumulatasi aveva
creato un'atmosfera tagliente. La Uefa e le autorità belghe
avevano deciso di giocare la finale, pur di non assistere alle
ripercussioni di un annullamento che avrebbe determinato un
trabocco dei disordini per le strade di Bruxelles. Nel settore
Z, accanto a dove si trovava McFadden nel settore Y, c'era una
zona presidiata dove era crollato il muro. L'unico ricordo di
quelle tribune sgretolate nello scenario maniacale della tarda
serata sono le scarpe sparpagliate nel silenzio. Scarpe di molti
di quelli che hanno avuto la fortuna di sopravvivere al crollo e
scarpe di molti che non lo hanno fatto. McFadden ricorda quel
giorno, di 35 anni fa, come se fosse ieri. Dice: "È stato
doloroso assistere alla partita sapendo che erano morte così
tante persone. Stavamo pensando: "Accadrà di peggio ?" "Siamo in
trappola ?". "Immaginavo se i loro tifosi fossero usciti dal
campo prima di noi... Ci sarebbero potuti essere centinaia di
morti. È stato spaventoso. Avevi solo paura per la tua
sicurezza. "Avevi il tempo stando in piedi per due ore di
pensare a tutto.
Era logico che non avremmo dovuto
vincere la partita. Questo è stato molto evidente. Timidamente
tifavamo per la Juventus". Anni dopo, Alan Kennedy ha espresso
l'opinione che "non potevamo vincere la partita". Non l'hanno
fatto. Al 56° minuto, Michel Platini ha segnato un rigore dopo
che il fallo di Gary Gillespie su Zbigniew Boniek era stato
ritenuto nell'area di rigore dall'arbitro André Daina. L’entrata
di Gillespie era fuori area. Ci sono state poche proteste in
quei momenti. McFadden dice: "Se il Liverpool avesse vinto la
partita sarebbe stato ancora peggio.
Ciò avrebbe significato
che gli Italiani sarebbero stati fuori dal campo per primi e ci
avrebbero aspettato". Mentre la maggior parte dei tifosi della
Juventus erano restati all’interno a vedere Gaetano Scirea, il
loro capitano, sollevare la coppa, i tifosi del Liverpool sono
stati riportati ai propri mezzi di trasporto. Quindi, un istante
che scuote visibilmente McFadden anche oggi: "Eravamo seduti lì,
di nuovo sull’autobus e pronti a partire e un mattone ha
fracassato il finestrino vicino a me. È stato terrificante.
"Erano anche momenti di ansia per amici e parenti a casa. Alcuni
giurarono di averlo visto cadere nel crollo del muro mentre
vedevano le immagini orribili in televisione. Lavorava
all'Everglades Hotel a Derry e quando ritornarono al loro hotel
a ciascuno fu consentita una telefonata. Chiamò le Everglades e
in poche parole compresero a casa che era al sicuro. Erano di
base all'Hotel Princess di Ostenda, a sessanta miglia da
Bruxelles. I ricordi di McFadden sono ancora vivi. La sera prima
della partita si erano goduti una cena, mandando giù una
bottiglia di St Emilion '78, nel ristorante Le Mirabeau. La
mattina dopo la partita, l'accoglienza è stata molto diversa.
"Ci hanno quasi lanciato la colazione e ci hanno voluto fuori
dal posto", ricorda. L'organizzazione del viaggio non aveva più
valore il giorno dopo: ci avevano buttati giù alle sette e
mezza. Tutto era cambiato. Era come un blackout totale. L'hotel
praticamente ha chiuso quando siamo tornati - non c'era cibo,
niente bevande, niente di niente. "Al traghetto a Calais era
come una scena di The Spy Who Came In From The Cold con gli
alsaziani che ci scortavano dall'autobus sul traghetto. "Siamo
stati trattati come teppisti. È stato così brutto quando siamo
tornati a Dover. "Il fine settimana prima della sua partenza, ha
partecipato al matrimonio di Shaun e Frances Watson. Al suo
ritorno, gli fu concesso un applauso nel Carrig Inn, la pozza
d'acqua di Alma O'Donnell a Carrigans. L'immagine di Anne
Diamond, che presenta Good Morning Britain in TV-am, "con una
faccia aggressiva che ci incolpa di ciò che era accaduto",
graffia ancora McFadden, convinta che i membri del Fronte
Nazionale fossero da biasimare. "L'ho sentita dire: I tifosi del
Liverpool hanno inscenato una rivolta". Quello era disgustoso.
Le persone che erano nel luogo dove non sarebbero voluto essere
avrebbero dovuto essere intervistate per chiedergli cosa fosse
successo". Trentacinque anni dopo, non ha mai visto il suo amato
Liverpool in carne e ossa da quella fatidica notte a Bruxelles,
contento invece di lavorare con il Killea FC. "Non potevo andare
in mezzo alla folla", afferma McFadden, che ha lavorato come
Front of House Manager alle Everglades. "Se ci fosse un
matrimonio, dovrei restare nella stanza tutto il giorno, prima
che entrino. Non potevo entrare in una stanza affollata dopo
Heysel. Non sono mai stato così. Il 29 maggio 1985 ha cambiato
tutto: Heysel, per me, è stata la notte in cui il calcio è
morto".
29 maggio 2020
Fonte: Donegaldaily.com
A-Z |
PAOLO
MOISE'
Io, uno spezzino, nell'inferno
del calcio
di Ilaria Morelli
L’idea
di un volo fino a Bruxelles, per assistere alla finale della
Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, aveva sin da
subito entusiasmato Paolo Moisè e molti altri tifosi della Juve
originari della Spezia. L’accordo con un’agenzia di viaggi fu
rapido. Appuntamento maledetto, stadio Heysel di Bruxelles.
Partirono il 28 Maggio 1985 con il pullman, destinazione Milano,
da lì volo per Amsterdam. Arrivati nella capitale olandese li
aspettava un altro pullman per portarli a Bruxelles; 32
appassionati tifosi della Juve, volevano solo calcio, purtroppo
divennero testimoni per la vita. Il giorno della partita, il 29
Maggio 1985, Paolo, dopo aver fatto insieme ai suoi compagni un
giro panoramico della città, decise di andare nel centro, dove
vide un’atmosfera fantastica di festa. Inglesi e italiani che
fraternizzavano, scambiandosi le rispettive sciarpe, tutto era
tranquillo. Dopo pranzo, i tifosi spezzini tornarono in centro e
videro le prime avvisaglie di disordine: inglesi ubriachi che
urlavano e spaccavano vetrine dei negozi, ma ancora peggio
cercavano uno scontro fisico con italiani. La polizia locale
cominciò ad intervenire facendo i primi fermi. 18.30, orario in
cui Paolo e gli altri compagni entrarono nello Stadio Heysel,
nella triste "Curva Z". Prima di entrare sequestrarono agli
italiani le aste di plastica delle bandiere, Paolo se la legò
intorno al collo come un mantello. Non era più una festa,
bastava poco per capirlo. Vide molti inglesi entrare ubriachi e
in compagnia di molte bottiglie di birra, la cosa lo stupì molto
lasciandolo incredulo. Insieme a lui nella "Curva Z" c’erano
persone provenienti da ogni città d’Italia, anziane, ragazzi,
famiglie con qualche bambino e a dividerli dalla curva degli
avversari solo una rete da pollaio. Il controllo della polizia
era, a suo parere, un po’ troppo scarso: c’era un poliziotto
nell’alto della curva, uno al centro e uno in fondo alla
scalinata. Intanto gli inglesi bevevano e bevevano e bevevano, e
quando le loro bottiglie di birra finivano, le tiravano verso
gli italiani, sparando anche al centro della curva italiana dei
lanciarazzi. Paolo vide tante persone colpite da questi oggetti
che perdevano sangue. Ad un certo punto, con un po’ di paura che
percorreva il suo corpo, vide i giovani inglesi, rossi in viso,
che urlavano aggrappandosi alla rete, che non ci mise molto a
cedere e dare inizio ad una vera e propria tragedia. Gli inglesi
brandivano dei bastoni, e picchiavano con violenza i tifosi
italiani che furono spintonati e sballottati: era il caos. Per
Paolo è difficile descrivere tutto ciò che vide quel giorno, si
ritrovò svariate volte di fronte a persone che si lamentavano o
invocavano aiuto perché feriti; finalmente riuscì ad entrare
dentro il terreno di gioco, ma fu colpito da un oggetto di
ferro, che gli fu lanciato da chissà quale teppista,
provocandogli, fortunatamente solo un taglio al labbro. Paolo
non riuscendo più a trovare il suo gruppo, si mise a
disposizione dei barellieri, prontamente intervenuti per portare
i feriti in un’infermeria, dove vi era un medico molto anziano;
si adoperò per soccorrere molte persone, vide morire un signore
di Prato, gli stringeva la mano, aveva gli occhi sbarrati, capì
che era morto solo dopo che il medico gli diede conferma. Ha
visto la disperazione negli occhi delle persone che cercavano i
loro cari e gli amici, sentito urla strazianti dei feriti che
lentamente si placarono dando spazio purtroppo ad un silenzio di
morte accompagnato da un atroce dolore dei sopravvissuti. Vide i
militari portare via dei corpi e metterli sotto un tendone,
cercò di entrare per vedere se potevano esserci suoi compagni,
ma gli fu impedito e nel frattempo pensò dentro di sé cosa ci
faceva lì e uno stato di tristezza lo pervase. Arriva l’ora di
tornare in albergo e riuscì riesce a trovare fortunatamente
tutti i suoi compagni di viaggio, alcuni con leggere ferite,
altri solamente spaventati; cercò invano di telefonare a casa,
le linee erano intasate e ci riuscì solo il mattino seguente.
Tornarono a casa, non sorridendo e cantando, ma con le lacrime
agli occhi e il pensiero di 39 morti.
28 aprile 2010
Fonte: Cittadellaspezia.com
A-Z |
RICCARDO MOLESTI
"29 maggio 1985"
Ero
là, ma questo niente aggiunge e niente toglie ai miei pensieri
su quella tragica e folle serata. Arrivammo nella mattinata, con
uno dei tanti torpedoni provenienti dall’Italia. Ci dirigemmo
verso il centro di Bruxelles. Eravamo tanti bianconeri, pieni di
entusiasmo, determinati a tornare a casa con la Coppa. Il
ricordo della sconfitta bruciante di due anni prima ad Atene era
ben impresso nelle nostre menti. Ma stavolta sarebbe stata
nostra, saremo tornati in Italia con la coppa. Nella piazza del
centro di Bruxelles trascorsi buona parte della mattinata, a
scattare foto, ad intonare cori, con i miei amici e con altri
bianconeri conosciuti sul momento. C’erano anche i tifosi
inglesi. Proprio così. Con alcuni di loro scattammo delle foto,
scambiammo anche le sciarpe. Da qualche parte in casa ancora
credo di avere sia quelle foto che la sciarpa del Liverpool.
C’erano tutte le condizioni per vivere una giornata emozionante,
che sarebbe stata trionfale in caso di nostra vittoria. Nel
primo pomeriggio ci trasferimmo allo stadio, ma durante il
tragitto il nostro pullman fu fatto oggetto di lanci di
bottiglie di birra da parte degli hooligans. Alle 3 del
pomeriggio erano già ubriachi fradici e scorrazzavano
liberamente per le strade di Bruxelles. Non fu dato peso alla
cosa, nemmeno da noi: il pullman sfrecciò via veloce e la cosa
finì lì. L’ingresso allo stadio fu traumatico: una calca
incredibile, poliziotti belgi che attraversarono la folla a
cavallo, creando ancora più caos. Ma nessuno si lamentò: eravamo
lì per la Juve e per la coppa. Qualche disagio era sopportabile.
Quello che accadde dopo è ampiamente documentato da immagini e
fotografie. Tragedia e follia. Tragedia per 39 persone
innocenti. Follia tutto il resto. Follia giocare la partita,
anche se comprendo e condivido i motivi di ordine pubblico.
Follia nostra, che eravamo nella curva opposta a quella della
tragedia, per nostra fortuna, pensare che fosse accaduto niente
di grave. Qualche voce circolava all’interno dello stadio. "ci
sono dei feriti gravi", "ci sono anche dei morti". Non ci
credemmo, non ci volemmo credere. Era assurdo solo pensarlo. E
poi erano voci riportate dagli ultras della Juve, che
scavalcando la rete di recinzione avevano percorso tutto il
campo. Magari stavano cercando solo lo scontro fisico contro i
tifosi del Liverpool. Anzi, che uscissero dal campo così che la
partita potesse iniziare. Follia il rigore di Platini calciato
proprio sotto la curva dove si era consumata la tragedia, follia
l’esultanza dei giocatori. Mai dimenticare l’Heysel. Se è
accaduto una volta potrebbe ancora accadere e troppe volte negli
stadi italiani, qualche anno fa, sarebbe potuto accadere di
nuovo. Mi spiacque immensamente nel 2005, quando dopo 20 anni
Juve e Liverpool si affrontarono nuovamente, vedere alcuni
nostri tifosi girare la testa in segno di diniego all’offerta di
"pacificazione" proveniente dai tifosi del Liverpool. E sono
convinto che nessuno di loro fosse presente, la notte della
tragedia. Non fu follia non restituire la coppa; maledetta,
insanguinata, da non celebrare, da non ricordare con gioia, ma
da tenere, a testimonianza di un evento tragico della nostra
storia ed anche per ricordare i 39. Anche loro erano a Bruxelles
per vedere la Juve trionfare. Assurdo, anzi, ancora una volta
folle, dopo 20 anni pensare che i tifosi di oggi del Liverpool
siano in qualche misura responsabili degli accadimenti tragici.
Senza dimenticare che anche buona parte dei tifosi inglesi
presenti a Bruxelles il 29 maggio 1985 è da considerare
incolpevole. Molti di loro, la maggioranza di loro, erano lì,
come noi, per tifare la propria squadra del cuore. Con passione
infinita, con infrangibile senso di appartenenza, ma con alcuna
intenzione violenta. Quel ragazzo con cui scambiai la mia
sciarpa era uno di questi…
19 dicembre 2012
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
NESTORE MOROSINI
Quel giorno, all’Heysel, 35
anni fa
di Nestore Morosini
Trentacinque
anni fa ero allo stadio dell’Heysel, inviato del Corriere della
Sera per raccontare la giornata dei nostri tipografi tifosi
della Juventus che erano venuti in Belgio il giorno prima. Ero
lì, perché il giorno successivo sarei dovuto andare a Spa per
seguire il GP del Belgio, poi saltato perché l’asfalto rinnovato
si sbriciolava sotto la forza dirompente delle gomme delle
monoposto. All’Heysel ci fu il pandemonio che tutti sanno. Io
avevo scritto un articolo divertente sui tipografi: lo buttai
nel cestino e mi accesi a riportare le impressioni dei tifosi
scampati alla furia degli inglesi e dei loro proiettili di
vetro. Ricordo perfettamente quello che è successo in quel
giorno tremendo. Ricordo i morti di fronte alla tribuna centrale
neri in viso come se avessero avuto un infarto, li ricordo
perfettamente posti per terra come in un obitorio all’aperto.
Ricordo perfettamente che a un certo momento, da sotto il banco
dove stavo scrivendo, balzò fuori la testa bionda di mia nipote
Elisabetta, figlia di mio fratello, che gridava terrorizzata
"zio, zio". Le diedi il telefono e le dissi di chiamare sua
madre che sicuramente, a Fano dove abitavano, stava vivendo
momenti drammatici. Elisabetta era stata premiata per i suoi
splendidi voti al liceo classico e, tifosa della Juventus, aveva
avuto in dono dai genitori volo aereo e biglietto per assistere
alla partita. Dopo aver scritto il mio servizio, portai
Elisabetta fino al pullman che l’avrebbe dovuta condurre
all’aeroporto: erano le tre del mattino. Da quel giorno tremendo
Elisabetta non ha più voluto vedere una partita di calcio. Il
giorno dopo tornai allo stadio e vidi migliaia di scarpe
accatastate sotto la tribuna dell’orrore, perdute dai tifosi
italiani che fuggivano dalla folle furia inglese. Quella
giornata non la si può dimenticare, ogni volta che da uno stadio
sento arrivare il coro degli stupidi che urlano "Devi morire,
devi morire" a un giocatore infortunato e caduto a terra, penso
ai morti dell’Heysel, penso al terrore della gente che scappava
da quella tribuna, penso agli occhi di mia nipote Elisabetta. E
vorrei non esserci stato.
29 maggio 2020
Fonte: Crisalidepress.it
A-Z |
ERNESTO MOTTO
Nel 35° della strage
dell'Heysel, i ricordi
di Ernesto, monticellese
presente allo stadio
''Sono trascorsi trentacinque
anni, ma i ricordi di quella giornata restano nitidi nella mia
memoria, nonostante il tempo che passa. E sono sicuro che sarà
così per sempre''.
Monticello
- A due giorni dall'anniversario della strage dell'Heysel - la
tragedia avvenuta il 29 maggio 1985, poco prima dell'inizio
della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool,
nella quale morirono trentanove tifosi - abbiamo raccolto la
testimonianza di Ernesto Motto. C'era anche il monticellese -
conosciuto per il suo impegno in parrocchia e nella compagnia
teatrale Amici del Teatro e dello Sport - allora neo
diciottenne, fra gli spettatori di quella partita drammatica.
Una vittoria macchiata dalla morte di decine di innocenti
tifosi, letteralmente travolti dalla grande ressa che venne a
crearsi tra il settore che ospitava gli hooligan inglesi e
alcuni degli juventini presenti. Molti di questi si lanciarono
nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, altri cercarono
di scavalcare gli ostacoli ed entrare nel settore adiacente,
altri ancora si ferirono contro le recinzioni. Il muro ad un
certo punto crollò per il troppo peso: moltissime persone
rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella
corsa verso una via d'uscita, rappresentata da un varco aperto
verso il campo da gioco. Ma Ernesto Motto e il resto della
comitiva partita dallo storico Juventus Club di Missagliola,
allora gestito da Carlo Rigamonti, scomparso di recente, non
poteva sapere il tragico epilogo che quella gara per la
conquista della Coppa avrebbe conosciuto. ''Ricordo che per
potersi aggiudicare i biglietti della finale, era necessario
assistere a tutte le partite di qualificazione che la Juve
giocava in casa, a Torino. 50mila lire in tutto, il costo del
pacchetto grazie al quale io e mio fratello Eugenio, così come
tanti altri tifosi fra i quali Walter di Cortenuova, riuscimmo
ad aggiudicarci anche la trasferta a Bruxelles per la gara
contro il Liverpool'' ci ha raccontato il monticellese. Fu un
viaggio lungo quello in pullman, per gli juventini partiti dalla
Brianza e diretti in Belgio, con tappa in un albergo al confine
con la Francia. ''Già all'arrivo allo stadio ci accorgemmo che
la tensione era alta, tanto che cercavamo di stare lontani dai
tifosi inglesi e dal rischio di tafferugli. La struttura era
davvero fatiscente: ricordo che le porte di ingresso si aprivano
dall'interno, ma grazie al cielo eravamo nel settore opposto
rispetto a quello in cui si consumò la tragedia''. Poco dopo le
19, mentre attendevano l'inizio della partita, i tifosi
brianzoli hanno capito che le cose si sarebbero messe male:
guardando dall'altra parte notarono infatti un visibile marasma,
presto degenerato. ''Lo stadio si è trasformato in una
polveriera in pochi istanti: per fortuna abbiamo avuto il sangue
freddo di restare ai nostri posti, senza scappare all'esterno
dove nel frattempo era confluito un gran numero di poliziotti e
mezzi di soccorso. Ammetto di aver avuto davvero paura, ma siamo
rimasti fermi, in attesa che la situazione rientrasse, anche
perché non sapevamo nemmeno dove fosse il nostro pullman e nel
marasma avremmo corso il rischio di perdere il resto del
gruppo''. La partita fra l'altro, venne sospesa, ma non
annullata. Una decisione fortemente contestata, ma che per
Ernesto Motto fu da un certo punto di vista provvidenziale.
''Credo che il disastro sarebbe stato totale, se si fosse deciso
di fermare tutto, con conseguenze probabilmente peggiori in
termini di vite umane'' ha aggiunto, ricordando poi il
fuggi-fuggi a fine gara verso l'esterno, la grande confusione e
la gioia alla vista del pullman che attendeva la comitiva
missagliese. ''All'appello per fortuna non mancava nessuno, così
abbiamo potuto rientrare in albergo e successivamente fare
ritorno a casa, senza poter dare notizie ai nostri familiari
fino al giorno successivo poiché all'epoca i telefoni cellulari
non esistevano'' ha proseguito il monticellese ricordando
l'arrivo a Missaglia e la gioia incontenibile di riabbracciare i
propri cari. ''Ad accoglierci c'era davvero tanta gente,
felicissima di poterci vedere scendere dal pullman, tutti sani e
salvi: è stato un momento emozionante e bello inserito in
un'esperienza pesante, ma che non dimenticherò mai''.
31 maggio 2020
Fonte: Casateonline.it
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