Quel tragico 29 maggio di 32
anni fa
di Giuseppe Messe
29 maggio 1985-29 maggio 2017: 32 anni
dopo. Morirono 39 persone, di cui 32 italiani. Franco Galasso
(nella foto) 61 anni, dipendente comunale, quel giorno era allo
stadio Heysel di Bruxelles. Tifoso della Juventus, aveva da
qualche mese fondato il club Juventus a Mesagne grazie al quale
aveva potuto acquistare un pacchetto di biglietti per andare a
Bruxelles ad assistere alla finale di Coppa dei Campioni
(com’era chiamata allora) contro il Liverpool. Su un volo
charter in partenza da Brindisi assieme a lui salirono Salvatore
Pisani, titolare del bar Carmine, Raffaele Rosato, insegnante di
scuola elementare, Daniele Librato, Bruno e Alberto Guarini che,
purtroppo, perse la vita a seguito degli incidenti provocati
dagli hooligans inglesi. Franco lo abbiamo incontrato ieri
pomeriggio. "Proprio a quest’ora (sono circa le ore 19) ci
avviamo allo stadio. I cancelli erano stati aperti alle ore
18.30. Assistevamo ad una partitella tra bambini; i tifosi
inglesi - molti dei quali ubriachi, tifavano per i bambini che
indossavano la maglia rossa; noi italiani per i bambini in
divisa bianca. Improvvisamente iniziò un fitto lancio di pietre
che era facile staccare dal selciato del vecchio ed inadeguato
stadio controllato da appena una decina di poliziotti a cavallo.
Non so dire chi iniziò la provocazione.
Ad un certo punto
vedemmo un tifoso inglese con il volto pieno di sangue:
probabilmente era stato colpito da una pietra. Gli inglesi
iniziarono a premere sulla rete che divideva i due settori; ci
fu un fuggi-fuggi generale, persone che cadevano e sulle quali
correvano altre persone. Io tra questi. Non caddi con il rischio
di restare schiacciato grazie a Salvatore Pisani che mi tirò per
un braccio. Nella calca persi una scarpa; corsi verso gli ultimi
gradini della gradinata e arrampicandomi sul muro di recinzione
saltai fuori dallo stadio. Corsi a perdifiato: i bar ed i locali
erano stati chiusi per paura. Grazie ad un tassista arrivai in
una pizzeria gestita da italiani di Ascoli che mi fecero
telefonare a casa per assicurare tutti che stavo bene. Mi avviai
verso il pullman che ci aveva portati dall’aeroporto e aspettai
che arrivasse l’autista per mettermi in salvo. Ripartimmo da
Bruxelles all' 1.30 di notte e Raffaele Rosato, che era stato
ricoverato e poi dimesso, mi disse che Alberto era molto grave.
32 anni dopo ? "Sono tornato allo stadio perché sono
appassionato. Per 3-4 anni rifiutai di assistere ad una partita
di calcio. Poi la vita continua, il tempo per fortuna lenisce il
dolore ma il ricordo e la cicatrice li porto sempre dentro di me
stampati a fuoco".
30
maggio 2017
Fonte:
Mesagnesera.it
A-Z |
PASQUALE
GALLO
Heysel,
30 anni dopo… Il racconto di Pasquale Gallo:
"Politici, basta demagogia. Ferita aperta,
ecco cosa accadde"…
di Gaetano Ferraiuolo
Una tragedia immagine, una pagina tristissima
per lo sport mondiale e per tutti coloro che, a distanza di decenni,
piangono ancora per la drammatica scomparsa di un proprio caro.
30 anni fa, in occasione di una finale di Champions League, 39 persone
persero la vita in quella che fu ribattezzata "La strage dell’Heysel",
momenti terribili soprattutto per chi era sugli spalti e che giammai
potrà dimenticare le urla di dolore e le lacrime di chi, con rabbia,
ancora oggi è convinto che tutto ciò poteva essere preventivamente
evitato. La redazione di Granatissimi ha contattato il noto dirigente
sportivo Pasquale Gallo che, con un pizzico di commozione, ha ripercorso
quella giornata incredibilmente intensa: "Ricordo tutto perfettamente,
quasi come se fosse ieri. Per usare un termine medico, si può dire
che chi era presente sugli spalti quel giorno porterà a vita una
grande cheloide, ovvero un’enorme cicatrice che non potrà mai rimarginarsi.
Chi era seduto comodamente in poltrona probabilmente non si sarà
neanche reso conto della gravità della situazione, ma posso assicurarvi
che in quello stadio si respirava un’aria pesante, un clima surreale
e di angoscia. L’organizzazione
della
UEFA fu totalmente carente, sono loro i responsabili di quella tragedia
e della caduta di quel muro: lo stadio era una specie di cantiere
paragonabile ad un impianto sportivo di montagna, in quella curva
furono ammassati gli hoolingans inglesi ed ubriachi e le famiglie
italiane e molti sono morti perché calpestati dalla folla che fuggiva.
Un dolore tremendo". Sul sito Pasqualegallo.net è possibile leggere
un interessante editoriale: "Ho scritto una serie di riflessioni
che vorrei condividere con tutti, soprattutto con chi è al potere
di un calcio sempre più malato. Ho inteso manifestare il mio affetto
alle famiglie delle vittime, non è certo retorica dire che sono
tutti diventati nostri fratelli. Quel giorno dovevo essere in curva
anche io e mi ritrovai casualmente in tribuna; con la mia cinepresa
realizzai un filmato inedito che quest’oggi è andato in onda su
Telecolore, con immagini che colpiscono ed emozionano soprattutto
coloro che erano allo stadio e che hanno visto la morte a due passi".
Pasquale Gallo si dice pronto ad organizzare qualsivoglia manifestazione
atta ad onorare la memoria di tutti coloro che sono morti durante
un evento sportivo, ma lancia un messaggio: "Il primo morto in uno
stadio, nella storia, si è avuto proprio a Salerno con la scomparsa
di Plaitano. Da persona sensibile a certe tematiche, sono pronto
a sposare qualunque iniziativa volta a ricordare chi purtroppo non
c’è più, ma ci tengo a sottolineare una cosa: basta demagogia da
parte dei politici e di coloro che seguono le loro parole, condite
da falsi moralismi e promesse a vuoto. Ogni volta che muore qualcuno,
siamo costretti ad ascoltare frasi tipo "Speriamo che sia l’ultima
volta che accadono cose del genere e che questi avvenimenti possano
essere da insegnamento per il futuro": assurdo ! Questi signori
si chiedano concretamente cosa hanno fatto per migliorare un sistema
malato: pensano forse di risolvere tutti i problemi anticipando
le gare alle 12:30 per motivi di ordine pubblico ? Come se i delinquenti
avessero un orario !". Gallo estende il suo "sfogo" ad argomenti
di stretta attualità: "Il calcio è malato, dai livelli più bassi
fino alla FIGC ed al CONI. Nell’era Calciopoli ho dovuto sopportare
cose inenarrabili pur non avendo fatto niente, a settembre pubblicherò
un libro intitolato "Io e la Juve, storia di un grande amore" che
ripercorrerà le tappe più importanti della storia della Vecchia
Signora del calcio italiano e tutte le ingiustizie che comportarono
la retrocessione in serie B. Coloro che governano questo sport sempre
meno credibile mi devono spiegare dov’è la moralità e dov’è il rispetto
delle regole ! Sta andando tutto a rotoli, c’è bisogno di una totale
riorganizzazione a tutti i livelli". Gallo si esprime anche sul
recente caso denominato "Dirty Soccer" e sulla campagna mediatica
contro la Salernitana: "Preferisco non parlare di cose che non conosco,
ma è chiaro che i granata hanno vinto sul campo e sudando ogni singolo
punto partita dopo partita. Non mi preoccuperei di questo, quanto
di chi è ai vertici del calcio ed è riuscito a rompere il giocattolo".
Infine sulla promozione in B della Salernitana: "Personalmente ne
ho vissute tante. Negli anni ’60 era la Salernitana a mio avviso
più forte in assoluto, con tanti fuoriclasse capeggiati da quel
fenomeno chiamato Pierino Prati. Abbiamo vinto anche nel 1990, successivamente
con Delio Rossi ed Antonio Lombardi. Ovviamente sono felicissimo,
ma mi sono limitato ad un semplice brindisi: da tifoso ed amante
dello sport pulito, auspico che una piazza del genere possa presto
approdare nella massima categoria del calcio italiano".
29 maggio 2015
Fonte: Granatissimi.com
A-Z |
RICCARDO GAMBELLI
Magico, tragico Heysel
"Andiamo
a Bruxelles ?". Eravamo sdraiati sul tappeto della cameretta di
Antonello Perrella, detto Lello; sfogliavamo la sua fornita collezione
di giornalini "al peperoncino". Con noi c’era Andrea. Così, un po’per
caso, un po’ per scommessa, decidemmo di andare incontro all’avventura
più rischiosa e dolorosa della nostra vita. Il 28 maggio 1985, partimmo
proprio da Uopini verso la trasferta più triste della storia. "Stai
attento, non mi piacciono gli inglesi". Fu la raccomandazione di
babbo Enea. "Tranquillo, ci sarà il gemellaggio tra tifoserie nella
Gran Place", risposi. Erano le 19 di pomeriggio quando la Golf di
Andrea ci avrebbe spalancato le portiere, prima di prendere la direzione
verso Bruxelles. Eravamo felici, tanto da mettere esposto al finestrino
posteriore un fazzoletto bianconero. Gli autisti d’altre vetture,
notandolo, ci salutavano suonando il clacson. Per i miei due compagni
si trattava della loro prima finale da spettatori, per me la seconda.
L’anno precedente mi ero recato con Fede Roscia e Pasierino a Basilea,
dove la Juve avrebbe riposto nella sua sterile bacheca la prima
Coppa delle Coppe. Eravamo partiti il giorno stesso con l’Austin
Metro appena uscita dalla concessionaria di Fede, diretti in uno
stadio che a fatica riusciva a contenerci tutti quanti. Uno stadio
adatto per la serie C italiana. A ogni modo, a noi interessava la
vittoria, che arrivò puntuale e sofferta grazie alle reti di Vignola
e di Boniek, ancora una volta "bello di notte". Viaggiammo tutta
la notte attraversando Svizzera, Germania e Lussemburgo, alternandoci
alla guida. Facemmo ingresso a Bruxelles alle prime luci del mattino.
Dopo aver prenotato una camera d’albergo, ci recammo immediatamente
verso l’agenzia di viaggi che teneva in consegna i nostri biglietti.
Era la stessa agenzia che aveva rifornito lo "Juventus Club Siena
Ghibellina" dei tagliandi d’ingresso. La mattina stessa della nostra
partenza un autobus, colmo di tifosi senesi, ci aveva anticipato,
percorrendo la strada che conduceva verso "la partita della morte".
C’eravamo dati appuntamento nella Grand Place per l’ora di pranzo
del giorno 29. Entrammo nell’agenzia del centro di Bruxelles e un
signore ci consegnò le tre curve che avremmo pagato come una tribuna
centrale. "Curva zeta", riportava quel sinistro biglietto. Il nome
di quella curva sarebbe entrato, quella notte, nei libri di storia
contemporanea. Tornammo in albergo, cercando di riposare inutilmente.
Uscimmo di nuovo per visitare la città e incontrare i senesi. Dall’albergo
ci saremmo ripassati solo in piena notte, per recuperare gli oggetti
personali e fuggire velocemente. Nella Grand Place era presente
il mondo intero: italiani e inglesi che si facevano fotografare
insieme mentre scolavano birre, famiglie con bambini, turisti occasionali,
cittadini di Bruxelles che uscivano dal proprio lavoro e anche i
nostri cari amici senesi. Riprovai la stessa sensazione di sempre.
Incontrare un tuo concittadino all’estero è sempre una grande emozione.
Mi è capitato in quasi tutti i miei viaggi, anche quella volta a
San Francisco, quando, girando l’angolo di una strada centrale della
città dei trichechi, andai a urtare Massimo Bianchini, noto professionista
senese. Non era finita. La sera stessa, in un ristorante (a San
Francisco saranno presenti diecimila locali), il mio amico Nando
fu il primo ad accorgersi della presenza di Massimo. Credo si tratti
di un record: incontrare la stessa persona due volte in un giorno
dalla parte opposta del globo. Aldone Brocchi era il capogruppo
di una gita composta anche da famiglie che avevano deciso di trascorrere
tre giorni di svago con la loro squadra del cuore. Lo scorsi io
stesso, chiamandolo a gran voce. Ci abbracciammo come se non ci
vedessimo da tempo infinito. Telefonai a casa, rassicurando i miei
che inglesi e italiani stavano fraternizzando e che non correvamo
alcun pericolo. Ci aggregammo al Club attendendo con ansia l’ora
della verità. La Coppa dei Campioni mancava nella
Eravamo
veramente quelli seduti più vicino alle "belve". Ammiravamo il
verdissimo bacheca della
nostra società che in Italia stava spopolando. Dovevamo sopportare,
da anni, le conseguenti allusioni di tutti gli anti juventini, sostenenti
che le continue vittorie italiane erano frutto di nuovissime Fiat
donate alla classe arbitrale. "Si tratta di sudditanza psicologica",
affermò un giorno l’Avvocato. Una frase ricorrente sino ai nostri
giorni. Le sue
frasi erano sempre sentenze definitive. Seguimmo
l’autobus sino allo stadio. Ancora tre ore e la partita avrebbe
avuto inizio. Dopo aver posteggiato, ci avviammo verso lo stadio
Heysel tutti insieme, socializzando, addirittura, con i tifosi d’oltremanica.
Non potemmo fare a meno di ammirare il gigantesco modello molecolare
dal nome "Atomium", simbolo di Bruxelles, situato in prossimità
dello stadio. Nel piazzale adiacente notammo gli hooligans che stavano
arrivando con numerose casse di birra, entrando addirittura sugli
spalti senza che le forze dell’ordine si assumessero l’iniziativa
di sequestrarle. Quelle bottiglie si sarebbero rivelate pericolose
armi da guerriglia. Finalmente facemmo il nostro ingresso nella
"curva zeta" da un piccolo cancello che sarebbe stato poche ore
dopo l’unica e improbabile via di salvezza per i tifosi bianconeri.
La curva era gremita e ci accomodammo vicinissimi agli hooligans.
Solo una piccola rete "da pollaio", costruita nei giorni precedenti,
ci divideva da un oceano di cappellini rossi. manto erboso che, poche ore dopo, sarebbe stato calpestato da Scirea
e compagni. Ho potuto ascoltare tante interviste di uomini di calcio
e leggere su centinaia di pagine di giornali e riviste quello che
accadde in quelle maledette ore: posso assicurare che la vera realtà
dei fatti è sempre stata travisata ! La Rai, addirittura, lo scorso
inverno ha ripercorso con uno "speciale" quella tragica notte due
superstiti come noi della "curva zeta" hanno raccontato di un agguato
improvviso e senza motivo degli hooligans contro gli juventini.
Falso. La verità assoluta è quella che qui vi narrerò, conosciuta
solo da chi poteva trovarsi a contatto di gomito con i tifosi del
Liverpool. Tutto andò tranquillamente fino a quando, proprio sotto
di noi, un gruppetto di juventini e di inglesi, complessivamente
una decina di persone, non iniziarono a scambiarsi insulti e minacce.
A un tratto vedemmo tre "geniali" bianconeri scavalcare la rete
di recinzione e portar via agli inglesi un loro striscione. Il cimelio
fu trasportato nella parte spettante a noi italiani dove fu bruciato
in modo molto vile. Quello fu il primo atto della tragedia che si
sarebbe presentata agli occhi sbigottiti del mondo intero. Alcuni
inglesi saltarono la rete dando inizio a un tafferuglio. Speravamo
che tutto si risolvesse con qualche "scapaccione" ai tre italiani
che avevano sottratto lo striscione, invece furono sparati i primi
razzi in cielo e purtroppo anche verso di noi ad alzo zero. Molti
hooligans presero di mira la rete in miniatura, che ci avrebbe dovuto
dividere, scuotendola per cercare di abbatterla. Mi rivolsi a Lello
e Andrea: "Ragazzi, qui finisce male, filiamo". Lello, in un primo
momento, non era favorevole a una fuga, ma, quando fu cosciente
che la situazione sarebbe degenerata, decise di seguirmi verso il
cancello dal quale eravamo entrati, l’unico a nostra disposizione
per uscire dallo stadio. Ma lo trovammo intasato da persone che
cercavano di entrare e uscire contemporaneamente. Niente da fare:
impossibile poter andare avanti. Vidi il muro. Quel muro sarebbe
stato il protagonista di tutti i telegiornali delle reti televisive
del pianeta. Ci facemmo largo, con molta fatica, tra gli spettatori
non ancora consapevoli di quello che sarebbe potuto accadere. Per
quanto mi riguardava, mi era stato di grande aiuto il mio istinto,
che mi ha sempre messo in guardia durante tutta la mia vita. Finalmente
potei toccare il muro, mi voltai e vidi i miei due amici dietro
di me. Prima di salire su quel fatiscente agglomerato di cemento
sono sicuro che gridai: "Saliamo, ragazzi". Non era ancora iniziato
il caos di morte e potei arrampicarmi con tutta calma nel punto
più basso del muro. Quando fui sopra mi accorsi che gli hooligans
erano riusciti ad abbattere la rete e stavano caricando i nostri
connazionali che non opponevano la minima resistenza. Contro quella
mandria di tori inferociti l’unica possibilità sarebbe stata la
fuga, ma l’uscita principale si trovava intasata da centinaia di
persone che cercavano di superare quel cancelletto, che, a stento,
poteva far passare un cristiano alla volta. Il problema fu che "the
animals" (termine che usò la stampa inglese), si trovarono di fronte
per lo più i tifosi della domenica: famiglie con figli, pensionati,
ragazzi e ragazze che non reagirono perché pietrificati dal terrore.
La realtà sarebbe stata sostanzialmente diversa se nella "curva
zeta" fossero stati presenti quei tifosi che invece si trovavano
stipati nella curva opposta. Ricordo perfettamente e distintamente
che mi trovavo in piedi su quel muro, cercando il punto più agevole
per calarmi. Mi lasciai scivolare, avendo a disposizione tutto il
tempo per poterlo fare. Un minuto dopo non sarebbe stato possibile:
era iniziata la compressione di migliaia di persone su quella vecchia
struttura che si opponeva, creando morte e terrore. Mi calai, un
salto di circa due metri. Alzai la testa, convinto che i miei due
amici stessero facendo altrettanto. Nessuna traccia di loro, mi
arrivava addosso tanta gente in tutte le posizioni, di schiena,
di testa, di piede: aveva avuto inizio una tragedia senza fine.
Lello e Andrea rimasero, purtroppo per loro, imprigionati tra centinaia
di corpi che si pigiavano tra loro. Sarebbero venuti fuori da quel
caos solo quando la rete che delimitava il campo di gioco non fosse
caduta. Io, calandomi dal muro, atterrai sul tartan della pista
d’atletica. Mi ritrovai dietro la porta di gioco a fare da spettatore
passivo alla tragedia che l’atroce realtà mi stava proponendo. Solo
due poliziotti, impauriti quanto il sottoscritto, si trovavano in
quel momento all’interno dello stadio: fu uno scandalo senza precedenti.
La scena fu interminabile. Potei vedere, chiaramente, i tifosi inglesi
armati di tutto: colli di bottiglie, manici di bandiere e persino
pezzi di gradoni dello stadio. Chi
stava subendo erano onesti lavoratori,
padri di famiglia, pensionati, ragazzini teneri
con la sciarpa bianconera al collo, ragazze piangenti e mamme urlanti
in cerca del proprio figlio. Giuro che se mi avessero consegnato
un mitra, avrei sparato all’impazzata su quegli assassini. Non ho
nessuna vergogna ad ammetterlo. Avrò negli occhi per sempre lo sfregio
di quella curva, piena di scarpe, stracci, camicette imbrattate
di sangue, giornali, indumenti, calze. In un attimo capii che lo
stadio Heysel non avrebbe dovuto essere teatro di quella finale,
non era uno stadio attrezzato per ospitare tifoserie come quelle
presenti su quei gradoni malridotti. L’angoscia non mi mollava:
non sapevo dove fossero i miei due amici. Camminavo avanti e indietro
sul campo di gioco, mentre il film andato in onda sugli spalti della
"zeta" era cessato. Gli hooligans stavano intonando il canto di
vittoria occupando tutta la curva. Continuavo a sognare il mitra.
Stefano Manenti, amico di Uopini, con Cinzia, la sua fidanzata,
furono le prime due persone che incontrai. Si tenevano abbracciati
e piangevano come bambini. Stefano era scalzo: rimase a piedi nudi
tutta la notte. Cinzia era piena di graffi e non smetteva di urlare:
"C’è gente morta, ho visto !!", gridava disperata. Io avevo percepito
che qualcuno non fosse riuscito a uscire vivo dall’inferno, ma non
potevo immaginare che le vittime sarebbero arrivate a trentanove.
Furono avvolte da lenzuoli quelle povere salme, distese fuori dello
stadio e protette da un nugolo di poliziotti arrivati quando i "buoi
erano fuggiti dalle stalle". Continuo a ringraziare il Signore per
avermi risparmiato quello spettacolo straziante. I "numerosi" poliziotti
presenti che si erano precipitati, anche a cavallo, ci fecero accomodare
tutti in tribuna numerata. In quel momento sul terreno di gioco
era presente il corpo di polizia dell’intero Belgio. I tifosi bianconeri
della curva opposta erano incontrollabili, anche se non avevano
ancora percepito la gravità della situazione. A un tratto, in tribuna
apparve Andrea e ci abbracciammo come reduci del Vietnam: "Dov’è
Antonello ?", continuava a chiedermi. Non potevo rispondergli. Ci
condussero all’interno della tribuna Numerata dove Aldo Brocchi,
completamente a torso nudo, voleva sfondare una porta. Non riuscivo
a comprendere il motivo di quella pazza azione: "Aldo, ma che stai
facendo, calmati!", prendendolo per un braccio. "Sono tutti dentro
quella stanza, c’è De Michelis, Boniperti, un sacco di gente, li
rompo tutti !!!", gridava Aldo, un toro impazzito. Effettivamente
erano tutti dentro a quel salone per una riunione urgente con il
capo della Polizia di Bruxelles, personaggi dell’Uefa e Fifa: stavano
valutando se fosse il caso di disputare lo stesso la gara. Ci riportarono
tutti sulle poltroncine della tribuna che in quel momento era super
affollata. Andrea mi pose il problema dell’apprensione e angoscia
che i nostri cari, a Siena, avrebbero potuto vivere in quei momenti.
Non dimenticherò Pier Cesare Baretti, presidente della Fiorentina,
quando condusse Andrea nuovamente all’interno della tribuna per
telefonare ai suoi genitori. Per la cronaca, Baretti sarebbe deceduto
pochi mesi dopo a causa di un incidente verificatosi con l’aereo
personale. Lo vidi tornare, sollevato: "Ho telefonato. Ho detto
che siamo salvi. Mio babbo telefonerà al tuo. In Italia, parlano
di ottanta morti", mi disse Andrea. In effetti, rivisitando la videocassetta
molte volte, Pizzul aveva annunciato circa ottanta morti, in un
primo momento. Passarono le ore senza sapere che cosa sarebbe accaduto.
Non ricordo chi ci confermò che Lello si trovava seduto sull’autobus
del Club senese. Esultammo felici, anche Lello era vivo ! Parlavamo
di morte e di vita come se fossimo in guerra, tutto ciò era irreale.
Vedemmo i giocatori italiani dirigersi verso la curva bianconera
per cercare di tranquillizzare i tifosi, che ormai erano al corrente
della carneficina avvenuta. Non riuscivano a domarli, cercavano
vendetta ! Scirea e il capitano inglese Neal, dalla cabina di regia,
grazie a un microfono annunciarono che la partita avrebbe avuto
regolare svolgimento. Baretti ci confermò che le due società e le
forze di polizia avevano deciso di far giocare il match per evitare
ulteriori incidenti. La partita ebbe inizio. Fu un incontro di calcio
vero, bello tatticamente e come livello agonistico, ma i miei occhi
e il mio cuore erano rimasti su quella curva dove avevo visto bambini
e mamme piangere disperate. Segnò Platini su calcio di rigore. Un rigore
inesistente su Boniek, atterrato due metri fuori dall’area. "Quando
le undici di sera erano passate da un pezzo e stava facendosi più
aguzzo il buio della notte, era quella un’ora inusuale per battere
un calcio di rigore che con tutta probabilità avrebbe consacrato
la squadra campione d’Europa. A quell’ora le partite, che abitualmente
iniziano alle otto e trenta, sono già finite. Eppure le undici di
sera erano passate da un pezzo quando Platini, quella sua maglietta
eternamente calata fuori dai pantaloncini, avviò la rincorsa a trovare
e colpire il pallone che sostava sul dischetto, e mentre nello stadio
belga dell’Heysel non si udiva il bisbiglio di una mosca", scrisse
Giampiero Mughini, sul suo libro dedicato alla squadra del cuore,
la Juve. Effettivamente era tardissimo e faceva freddo. Il vento
che aveva portato morte e strazio continuava a soffiare, spietatamente.
I giocatori fecero il giro d’onore con la Coppa mentre furono fatti
uscire i tifosi italiani. Dopo molte ore sarebbe stato il turno
degli "animals" a essere scortati all’esterno. Nonostante fossero
state organizzate dalle forze dell’ordine delle uscite programmate,
ci confermavano di scontri pesanti all’esterno dello stadio e vetture
italiane incendiate. Recuperammo Lello e, dopo un lungo abbraccio,
salutammo i senesi avviandoci verso l’auto sperando di ritrovarla
intatta. Al rientro, a Siena, saremmo venuti a conoscenza che due
nostri concittadini avevano dovuto ricorrere agli ospedali della
città belga, dove furono trattenuti per giorni. Salimmo in auto
e fuggimmo dopo essere ripassati dal nostro hotel per il recupero
degli oggetti personali. Lello mi ha ricordato, in questi giorni,
che mentre uscivamo da Bruxelles, con Andrea alla guida, un hooligan
ci attraversò la strada, lentamente, con una bandiera in mano. Sembra
che io abbia gridato: "Investilo !!!". Non ricordo la scena, ricordo
solo l’odio immenso che nutrivo in quelle ore per quei mostri che
avevamo incontrato in una giornata di felicità, una giornata di
sport. Nei giorni seguenti iniziarono i commenti dei perbenisti
anti juventini, criticando il comportamento della società che io
ritenni, al contrario, civile, umano e sportivo. Ricordo i giocatori
che, rischiando d’essere soffocati, andarono a placare i tifosi
assiepati nella curva opposta a quella della morte, affinché non
si lanciassero a ingigantire le proporzioni del disastro. Quegli
stessi giocatori, con la morte nel cuore, accettarono di giocare
affinché la tregua della partita consentisse i salvataggi e bloccasse
la violenza. Ho ancora davanti agli occhi l’incredibile serenità
con cui quei giocatori si batterono, consci che lottavano per uomini
e donne che non c’erano più, che avevano sacrificato il bene supremo
della vita per seguirli nella speranza di vederli vincere. La Juve
vinse e il fatto che, su suggerimento degli organizzatori, arrivò
per un momento a mostrare la coppa alla sua gente, fu malevolmente
additato come gran prova d’insensibilità. Fu addirittura perentoriamente
invitata a restituirla, quella coppa. È vero, fu macchiata di sangue
innocente, ma la Juve, che la rincorreva da ventisette anni, la
vinse a testa alta e prima di superare i grandi avversari del Liverpool
vinse l’orrore per la tragedia che si era consumata sotto i suoi
occhi. Poco importò che il rigore su Boniek fosse un regalo dell’arbitro,
quel rigore fu la vendetta di chi era presente in quella lurida
curva, il frutto di una vittoria meritata, fu il mio "mitra". Nei
giorni successivi giurai di non entrare mai più in uno stadio per
il resto della mia vita. "La tragedia e la morte non sono sufficienti
a tenere lontano dal gioco gli uomini della tribù del calcio", scriveva
Desmond Morris, filosofo inglese, studioso dei costumi. È quello
che accadde a me quando, tre mesi dopo esatti, in agosto, la Juve
giocò la prima di Coppa Italia a Perugia. Era la nuova Juve di Manfredonia,
Laudrup, Serena e Mauro, quella che avrebbe conquistato a Tokio
la Coppa Intercontinentale. Decisi d’essere presente allo Stadio
Curi, dove la vista di quei cappellini rossi dei tifosi del grifone
mi fecero tornare indietro di pochi giorni, ricordandomi "the animals"
che caricavano assetati di sangue innocente. Durante il ritorno,
verso Passignano sul Trasimeno, fui superato da un’auto carica di
ragazzi. Dal finestrino posteriore sventolava gioiosamente un foulard
juventino. Ricordai immediatamente il nostro fazzoletto bianconero
che, il 28 maggio 1985, stava facendo altrettanto. Rividi anche
Lello, mentre rispondeva felice al saluto delle altre autovetture,
gridando: "Torneremo Campioni d’Europa".
31 agosto 2007
Fonte:
Dal libro "Coriandoli Bianconeri" di Riccardo Gambelli - Pascal
Editrice - 2007
NDR: Ringrazio vivamente la Pascal
Editrice per la cortese concessione del capitolo
29 maggio 2022
Fonte: Comitato Heysel
Reggio Emilia
A-Z |
CLAUDIO GARELLI
Il buschese
Claudio Garelli ricorda la strage
dell’Heysel:
"35 anni fa
ho visto la morte in faccia"
di Roberta
Bima
Se lo
ricorda bene l'imprenditore buschese, tifoso
juventino quel 29 maggio 1985, lui era in
quello stadio: "Andato per assistere ad uno
spettacolo sportivo per eccellenza, mi sono
ritrovato dentro l’inferno".
La strage
dell’Heysel fu una tragedia avvenuta poco
prima dell’inizio della finale di Coppa dei
Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool
allo stadio di Bruxelles, in cui morirono 39
persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero
ferite oltre 600. Se lo ricorda bene
l’imprenditore buschese, tifoso juventino,
Claudio Garelli. Quel 29 maggio 1985 lui era
in quello stadio: "Andato per assistere ad
uno spettacolo sportivo per eccellenza, mi
sono ritrovato dentro l’inferno" ci
racconta. Tifoserie di Juve e Liverpool
posizionate nella stessa zona dello stadio
separate solamente da una rete che si
utilizza per delimitare gli orti e da lì a
poco fu la catastrofe. I ricordi sono ben
impressi e nitidi nella sua memoria: "Alle
ore 19.30 in campo esibizione di squadre di
ragazzini, sugli spalti rovinati dal tempo
si intravedevano i primi segnali di
intimidazione da parte degli hooligans con
lanci di pezzi di intonaco, calcinacci dei
gradini del vecchio stadio. Poco dopo i
primi lanci di razzi ad altezza d’uomo,
contemporaneamente i primi brutti pensieri
incominciarono ad affiorare nella mia
mente". Ripercorre quegli attimi minuto per
minuto. "Alle 20 le prime invasioni da parte
di hooligans solitari, ricondotti dai
pochissimi poliziotti presenti all’interno
del loro settore. Nel giro di cinque minuti
invasioni sempre più numerose da parte dei
"barbari" inglesi con aggressioni fisiche
con colli di bottiglie e pezzi vetro ai
primi malcapitati tifosi italiani. Il panico
invase il settore Z, quello dove eravamo noi
italiani, e tutti si ammassarono nei punti
estremi a quelli dei contatti con gli
invasori. Ci accalcammo tutti in una morsa
umana incontenibile, un’onda fortissima e
molti di noi non riuscirono a reggere,
alcuni presi da crisi di panico, altri da
stress da compressione altri feriti dalle
colluttazioni con gli esagitati, bestiali
tifosi anglosassoni". Fu il caos, la strage.
"Non potrò mai scordare quelli che erano
intorno a me che di punto in bianco,
supplicando aiuto, senza più un filo di
forza, sparirono sotto i nostri piedi -
continua Claudio - In quei momenti di
concitazione e di estrema concentrazione per
cercare di resistere, ricordo di aver
pensato che era giunto il mio momento ma che
era arrivato troppo presto, a 23 anni non si
può morire così e che avrei voluto fare
molte cose ancora nella vita.
Fortunatamente, mentre ero in questo stato
di trans, un muro dello stadio crollò e
questo ci permise di allentare leggermente
la stretta che ci teneva incollati gli uni
agli altri e riuscimmo a respirare. Capii
che, anche quella volta, sarei riuscito a
portare a casa la pelle". Questa esperienza
cambiò profondamente Claudio Garelli che
ancora ora, dopo tanti anni, quando pensa a
quei momenti pensa di aver visto la morte in
faccia di averci anche parlato. Conclude
Garelli: "Ora, mi piacerebbe che quei tifosi
morti per sbaglio 35 anni fa venissero
ricordati e non dimenticati e questa storia
insegnasse alle giovani leve che è bello
divertirsi e farlo con tanti amici ma che
non si deve mai andare oltre un certo limite
e che non si deve mai perdere di vista
quello che è il rispetto verso il prossimo
sia esso un conoscente o un avversario".
29 maggio
2020
Fonte:
Cuneo24.it (Testo © Fotografia)
A-Z |
GIUSEPPE GENESIO
La strage
dell’Heysel vissuta da un melitese
di Ivano
Verduci
Il 29
Maggio 2020 è ricorso il 35° anniversario
della tristissima pagina di storia sportiva
(che di sport ha poco) conosciuta come la
"strage dell’Heysel" in cui ben 39 persone
morirono e più di 600 rimasero ferite. Era
la finale di Coppa dei Campioni tra la
Juventus di Boniek e Platini e il Liverpool.
Siamo riusciti a carpire la "storia di un
pezzo di vita vissuta" da Peppe Genesio,
melitese di nascita, emigrato a Rescaldina
in prov. di Milano assieme alla famiglia
quando aveva 10 anni. Lui è sempre rimasto
con Melito Porto Salvo nel cuore e
nell’anima ritornando al paese ogni anno per
la festa e per le vacanze estive.
IL
RACCONTO - Io ricordo quel
giorno che vissi come tutti gli Italiani non
staccando gli occhi dalla tv di Stato ed il
seguente dalle pagine dei giornali. Su un
quotidiano mi colpì una foto in cui
riconobbi lui, Peppe Genesio, in quel
disgraziato muro della Curva Z. Mi feci
raccontare tutto in seguito e voglio
condividere con i lettori questo mio
scritto. Genesio faceva parte del fans club
della Juventus di Legnano (MI) e partì
assieme alla cognata, al suo fidanzato e ad
altri 50 con il Bus organizzato appunto da
questa associazione di tifosi. La partenza
la descrive come una delle più affascinanti,
l’adrenalina per l’evento, la gioia di
condividere un giorno importante con la
propria squadra del cuore ed anche la
possibilità di visitare una città come
Bruxelles in cui non c’era mai stato. Lui si
è fatto e continua a farsi sempre apprezzare
per la collaborazione in diverse
associazioni di volontariato del milanese.
Oltre ad essere un grande organizzatore di
eventi enogastronomici in cui predilige
associare pietanze lombarde e far conoscere
quelle melitesi. Quindi non poté mancare la
nomina anche per quel viaggio alla cura del
companatico. Il panino lo "rimpingua Peppe
il melitoto" dicevano a tutti gli
organizzatori e lui non fece mancare le
scorte dei capicolli che si era fatto
inviare dai parenti di giù qualche settimana
prima. Arrivati la mattina presto in Belgio,
si diedero tutti appuntamento allo stadio
nel primo pomeriggio e "visita libera alla
città". Peppe assieme ai cognati ed altri
amici cominciarono la visita alla capitale
in un clima di civiltà che non faceva
presagire ciò che poi si sarebbe verificato.
Infatti nel suo archivio ci sono foto di
scambi di gagliardetti e sciarpe anche con
gli inglesi. Era felicissimo di quel
momento. Nel primo pomeriggio si avviarono
verso lo stadio e lì l’amara sorpresa.
"L’impianto destò in me una bruttissima
impressione, sembrava più un campo di
periferia che altro". I biglietti che il
gruppo si era procurato erano per il settore
Z. Il tempo di capire dove era l’ingresso e
via cominciò ad incamminarsi.
DAVANTI
ALLO STADIO PRIMA DELLA STRAGE DELL’HEYSEL
- "Chiedemmo informazioni e ci dissero
eccolo l’ingresso. Non ti dico che
sensazione di disagio ebbi. La porta di
accesso era strettissima ed il famoso
settore "Z" in cui si sistemarono famiglie
con bambini e club di tifosi della Juve lo
battezzai subito "sittamundi ndi stu
iaddinaru". Dopo meno di un’ora cominciai a
vedere che vicino a noi, divisi soltanto da
una misera rete per giardinaggio, stavano
entrando i famigerati hooligans inglesi.
Qualche poliziotto a ridosso di questa
recinzione e nulla più. Appena scesero in
campo le squadre per il riscaldamento
cominciarono le prime avvisaglie. I tifosi
(Tifosi?) inglesi, ormai quasi tutti
sbronzi, a ridosso del nostro settore
cominciarono a lanciare verso di noi
bottiglie di birra vuote miste a pietre che
era facile procurarsi in quanto,
incredibilmente, a portata di mano nel loro
settore. Cominciai a provare una sensazione
di smarrimento che mai fino ad allora avevo
provato, nonostante avessi frequentato
spesso gli stadi in quegli anni. Mi
chiedevo: ma è una finale di Coppa Campioni
o la partita di Prima Categoria ? Poi arrivò
il panico più totale quando vidi quei pochi
poliziotti indietreggiare. In un battibaleno
mi ritrovai schiacciato verso il "famoso e
maledetto" muro dell’Heysel. E sotto di me
si trovavano i miei cognati che cercavo di
tenere con la testa in su per farli
respirare. Non so come mi ritrovai sul
terreno di gioco. Ma non potevo scappare,
dovevo recuperare i miei parenti e grazie a
Dio lo feci. L’unico mio pensiero era da
quel momento in poi scappare da
quell’inferno perché pensavamo che da lì a
breve sarebbe successa una guerra. Io
assieme ad Emma ed Enzo ed un gruppo del
Club ci accorgemmo che avevano aperto i
cancelli e riuscimmo ad uscire e finalmente,
nel frattempo, arrivò la polizia a cavallo".
STRAGE
DELL’HEYSEL: L’INCUBO CONTINUA
– "Appena fuori dallo stadio, pensammo di
andare immediatamente in stazione per
prendere un treno e andare via dalla città
il più presto possibile o a rifugiarci in
qualche hotel. Non dimenticherò mai che
nessun taxi volle fermarsi e nessun belga
nelle vicinanze ci aprì anche solo per fare
una telefonata. Attimi di terrore e di
assoluto panico che porterò come ferita nel
cuore. Ore di apprensione che mi sembrarono
secoli (piange). Ritornati psicologicamente
in noi saggiamente tornammo al parcheggio
dove avevamo lasciato il bus in mattinata.
Intanto in città era ritornata in qualche
modo, se così possiamo chiamarla, la legge.
Saliti sul bus l’organizzatore cominciò a
fare l’appello. Del gruppo mancava una
persona. Scendemmo e a scaglioni cominciammo
a girare per i vari ospedali e gendarmerie
per chiedere informazioni. Ripeto non
avevamo i telefonini. Si scoprì che oltre a
qualche associato ricoverato in ospedale non
tornò a casa neanche il Sig. Venturin. Era
morto per una partita di calcio, lui ed
altre 38 persone".
LA
PARTENZA VERSO CASA – "Con
la strage dell’Heysel alle spalle, e con la
morte nel cuore, l’unica cosa da fare era
cercare di ripartire. Ripartimmo verso le 5
di mattina, all’alba del giorno dopo con la
morte nel cuore. Il viaggio è ancora oggi
per me il più brutto della mia vita ed il
più silenzioso. Nessuno aveva voglia di
raccontare, tutti eravamo sotto shock.
Riuscimmo a telefonare da un’area di
servizio in Lussemburgo. I nostri parenti in
Italia vissero la nottata in bianco, già
organizzati per venire in Belgio a capire
cosa ci fosse successo. Appena entrati in
Italia fummo assaliti, se così si può dire,
da migliaia di giornalisti. Pochi, però,
avevano voglia di parlare e vidi la mia foto
sul giornale. Piansi ed ancora oggi lo
faccio. Avevo convinto io i miei cognati a
venire in quel disastro e meno male sono
riuscito a riportarli a casa. In caso
contrario non credo me lo sarei mai più
perdonato. Per almeno un anno ogni notte mi
svegliavo con gli incubi e quel grido
"Liverpool, Liverpool" in testa. Ancora oggi
mi capita ogni tanto, anche a distanza di 35
anni. Una giornata che non doveva finire
così e che mi fece capire che l’uomo non
sempre è migliore delle bestie".
31 maggio 2020
Fonte: Ntacalabria.it
A-Z |
CARLA GONNELLI
"Il cuore è bianconero"
La testimonianza di Carla Gonnelli,
ferita gravemente all'Heysel con il padre Giancarlo, una delle 39
vittime.
Prima
di tutto vorrei ringraziare tutti coloro che su questo forum hanno
dedicato almeno un momento della loro vita a coloro che in vita
non ci sono più. Io ci sono perché un angelo inglese mi ha dato
"un alito di vita" nel vero senso della parola mentre altri demoni
l'hanno tolta a mio padre e ad altri 38 esseri umani... Perché di
questi fondamentalmente si trattava... Esseri umani... Al di là
delle tifoserie. Quella finale era il regalo per il mio 18° compleanno
ed il "battesimo dell'aria" per me e mio padre, ma quella sera nessuno
dei due è tornato a casa, da mia madre. Quello che è accaduto lo
sapete tutti... Forse lo sapete meglio di me che fino ad un momento
ben preciso ero seduta su quei maledetti gradini scalcinati di uno
stadio (?) accanto a mio padre e con altri amici e un momento dopo
ero ad un passo dalla morte... Adesso mi fermo per un momento e
se qualcuno vuole saperne di più, sono qua. Poi andrò avanti, altrimenti
scrivo un libro ! (omissis) Mio padre è Giancarlo Gonnelli. Ti posso
assicurare che in quel settore eravamo tutti tranquilli, famiglie
e ragazzi giovani... Abbiamo fatto la coda tra le transenne per
ritrovarci in un "pollaio" con semplici reti "da polli" a dividerci
da quelli là... Quando siamo entrati ci guardavano come gli schiavi
che entravano nel Colosseo in attesa di essere massacrati... Mi
vennero i brividi ma era la prima volta che entravo in uno stadio
e non sapevo che atmosfera avrei trovato. Sicuramente non ero a
mio agio, ma ero con babbo e nulla sarebbe potuto accadere. Ci sedemmo
su quegli spalti (non saprei che termine dispregiativo potrei utilizzare
e quindi lasciamo così) tutti rotti, i cordoli di cemento che si
spezzavano con la pressione di un dito (e che sono diventati oggetto
di lancio nei nostri confronti... Senza offesa per nessuno, ma i
campetti cittadini dove giocano i ragazzi sono un fiore rispetto
a quello !) Ricordo che dissi a mio padre di sedersi più lontano
possibile dalla ridicola rete che ci separava da quelli. Avevo seguito
qualche finale in tv e mi resi conto che di polizia non c'era neanche
l'ombra e mi chiesi se fosse al riparo da qualche parte o cosa...
Forse sarebbero comparsi con l'inizio della partita… La verità è
che non c'erano proprio... Forse solo 6 in tutto lo stadio ! Guardai
l'uscita come certe volte capita entrando in un luogo chiuso (es.
un cinema) come per essere pronta a sapere dove dovevo andare...
Probabilmente ero spaventata più di quanto non trasparisse. Avevo
proprio idea di essere una gallina in un pollaio, ma piccolo però
e le volpi erano già assetate di sangue e non di altro perché di
birra e alcool era già pieni ! Ricordo che quando eravamo in fila
per entrare notai (purtroppo con ilarità) passare dei reds con cassette
piene di bottiglie di birra ed entrare tranquillamente. Qualcuna
di quelle, rotta, è servita per sgozzare un loro simile... Un essere
umano... (N.d.R. Carla probabilmente fa riferimento all’italiano
Mario Ronchi, ma dalle autopsie frettolose e sommarie dei medici
militari belgi non risultano ufficialmente cause di morte per taglio
di lame o altro). Certo, la maggior parte se ne è andata così ma
su alcuni corpi sono state riscontrate altri tipi di ferite. E'
brutto a dirsi, ma loro quando ci hanno aggrediti lo hanno fatto
con intenzione di farci male ! Ad Arezzo è morto un giovane dottore
che stava prestando soccorso ai feriti e che è rimasto ucciso da
una seconda ondata di assalto ! Se non ci fosse stata intenzionalità,
una volta innescato il meccanismo della paura, del terrore e della
fuga ci avrebbero lasciati stare, ma non è andata così ! Una volta
divelta la rete si sono scagliati su di noi con cattiveria... Ricorda
che la maggior parte erano ubriachi e quindi trai le conclusioni...
Mio padre, mi ha raccontato il cugino che ha fatto il riconoscimento
prima dell'autopsia, aveva degli strani segni intorno al collo,
come se qualcuno gli ci avesse messo le mani... Per stringere ?
...Chissà. Loro erano partiti intenzionati ad assalirci e quando
si sono accorti che ne avevano piene possibilità perché niente polizia
e nessuna barriera hanno iniziato la macabra danza... Quando gli
inglesi ci hanno caricato l'istinto è stato quello di fuggire verso
le uscite, ma purtroppo ce ne era una sola, in alto e molto piccola…
L'altra via di scampo era il prato ma, come ho già detto, quei pochi
agenti presenti
hanno
scambiato il tutto per un'invasione di campo ed hanno fatto di tutto
per non far defluire le persone... Sulla destra c'era un muro e
sotto mi pare niente ed è chiaro che le persone che sono fuggite
verso quel punto sono rimaste schiacciate dalle persone che arrivavano
da dietro, rincorse da quelli. Probabilmente Boniperti e gli altri
non sono venuti nel nostro settore, ma sono andati in quello dove
non era accaduto nulla (dalla parte opposta) perché si erano resi
conto che era successo qualcosa di grave. Il fatto che la tribuna
abbia ceduto è stata la salvezza di molti e non la causa ! La maggior
parte dei morti era alla base del muro della tribuna, schiacciati
da quelli che arrivavano da dietro per scappare a quelli che ci
assalivano ! Quando alcuni hanno cercato rifugio in campo quei pochi,
ma dementi agenti della polizia l'hanno scambiata per una invasione
di campo e non li hanno fatti scappare facendo così aumentare la
calca di persone... E di morti. Quando il muro ha ceduto è stata
una via di uscita... Dalle tue domande mi rendo conto quante cazzate
sono state raccontate ! In mezzo a quei demoni c'era anche qualche
angelo e grazie a lui sono qua. E' un ragazzo di Liverpool che era
andato alla partita con un cugino e che si era ritrovato insieme
a quelli...
Quando si è reso conto di cosa era successo si è prodigato
per dare una mano e aiutando le persone a terra ha notato un braccio
esile che spuntava da sotto ben 8 morti... Avevo una fedina al dito
che le ha ricordato sua moglie a casa, in attesa di due gemellini
ed ha iniziato a togliermi le persone sopra. Si è accorto che stavo
male, ma ero ancora viva e mi ha fatto la respirazione artificiale;
grazie a lui, anche se già in coma, sono qua. Non mi ha lasciata
un momento fino a che i medici non mi hanno portata via. L'ho conosciuto
l'anno seguente perché voleva notizie di me e si è rivolto alla
Rai, ad Alberto Castagna. Mi hanno ritrovata e mi hanno raccontato
la storia. Siamo rimasti in contatto per un po’ e poi è scomparso
e non sono più riuscita ad avere sue notizie. Sono stata tre giorni
in coma e quando mi sono risvegliata mi hanno detto di mio padre
e, con molta cautela, mi hanno detto quello che era successo...
Mi sembrava impossibile, ma appena sono riuscita a camminare (anche
se piena di aghi da tutte le parti) ho iniziato a far visita a tutti
gli altri feriti e mi sono resa conto... Non è una sensazione che
si può descrivere... Non ero ancora fuori pericolo di vita, mio
padre era morto e non mi capacitavo della situazione... Volevo sapere
a tutti i costi... Il resto è una storia lunga, fatta per lo più
di rabbia e delusione. Ho ricevuto, in ospedale, la visita di alcuni
giocatori e niente più. A Boniperti davamo fastidio... Lui doveva
festeggiare solo la coppa; i morti e i feriti erano (e sono) una
palla al piede... Non ci ha aiutato nessuno... Per i familiari delle
vittime furono messi a disposizione dalle autorità militari degli
aerei, gli stessi con le quali rientrarono le bare. Personalmente
sono rientrata in Italia, dopo le dimissioni dall'ospedale e con
altri feriti, con un aereo ambulanza della Croce Rossa che però
non è atterrato più vicino possibile alle nostre residenze (per
me Pisa sarebbe stata vicinissima a casa come altri aeroporti per
altri feriti) ma è atterrato a Perugia e poi ogni ferito è stato
portato agli Ospedali "competenti" con una ambulanza. Per chi come
me sarebbe arrivato in 10 minuti e 20 km di strada invece si è fatto
ore e kilometri di strada (per me 200 circa)... Ma eravamo o no
feriti + o – gravi ? Comunque non credo che per tutti sia stato
uguale e forse qualcuno ha dovuto pagarsi pure il viaggio di rientro...
Negli ospedali hanno salvato molte vite, compreso la mia... Hanno
fatto l'impossibile dato anche il numero impressionante dei feriti
che c'erano ! Però il Belgio avrebbe voluto incassare tanti dindini
per le nostre degenze (Vergogna ! Proprio loro !), ma solo grazie
ad una convenzione internazionale, almeno io, non ho dato loro niente.
Chissà però se tutti erano al corrente di questo. Purtroppo quando
accadono queste cose vengono dette tante di quelle cose !! Quello
che mi fa più male è che la morte di queste persone, ma anche quella
di qualsiasi altro tifoso, ben inteso, non è servita a molto e poi
di che ti meravigli se a partire da Boniperti ogni volta che gli
veniva chiesto qualcosa ci snobbava o quasi ironizzava ! Si dice
che il male non lo si augura neppure agli animali, ma in certi casi...
E lo Stato Italiano dov'era ? Pensate che qualcuno ci abbia aiutato
? Gli altri tifosi ? Al passo appenninico del Muraglione ha troneggiato
per anni la scritta "39 gobbi di meno" ! Forse è ancora là ! Vergogna
è proprio la parola giusta... Personalmente delle ricorrenze non
mi importa un granché, perché per noi mancano tutti i giorni e sapere
che c'è qualcuno come voi non può che far piacere… Degli inglesi
penso che non sono tutti come quelli di quella sera, ma con questo
non li giustifico e non li perdono. Non è retorica quando viene
detto che allo stadio dovremmo andare per divertirci e passare un
pomeriggio di divertimento facendo del sano tifo, ma ormai questa
concezione è svanita... E pensare che effetto fa entrare in queste
grandi arene stracolme di persone, di colore e di voci... Del tifo
organizzato... Se è "sano" ben venga, ma lo è ?
Allo stadio, a veder una vera partita,
sono tornata proprio a Torino nell'agosto 2008 a vedere la Juve
nei preliminari di Champions... All'inizio sembravo un cane nell'anticamera
del veterinario, avete presente ? Ero con mio marito e con Cinzia
(omissis) e mentre ci avvicinavamo allo stadio ero quasi in preda
al panico, ma mi son ben guardata da farlo notare... Che sofferenza
!! In mezzo a tutta quella gente, in fila... Ecco che si ripeteva
come allora... Ho chiuso gli occhi e credo di aver stritolato il
braccio di Giancarlo. Quando sono entrata è stato emozionante...
Ero di nuovo là a vedere la Juve !! Solo quando mi sono seduta in
gradinata, circondata da tutta quella gente, mi è mancato il fiato
ma, in silenzio e autoconvincendomi che non dovevo aver paura, pian
piano è passata. Mi piacerebbe andare a vedere una partita di campionato,
ma quando mio marito mi dice "allora andiamo ? Cerco i biglietti
? Mi si drizza il pelo come nei gatti... La partita era proprio
quella e sono andata perché la Juve è la mia squadra come lo è sempre
stata per mio padre... Non capisco molto di calcio, ma il cuore
è bianconero. Per quanto riguarda i giocatori non ho memoria di
quello che fu detto, ma non credo che non sapessero che c'erano
dei morti e comunque torno a ribadire che se quella partita non
fosse stata giocata la tragedia sarebbe peggiorata dentro e fuori
dallo stadio. La Coppa è nostra, ma non per merito sportivo, ma
in memoria di chi per quella coppa ha perso la vita. Qualcuno ha
detto che questo evento viene rammentato pochissimo (ed è vero),
ma figuratevi se la coppa non fosse stata assegnata ! Tutto nel
dimenticatoio... E’ macchiata di sangue, ma deve stare nella bacheca
della Juventus e ben in vista perché chi la guarda deve per forza
ricordare. A Boniperti ne andrebbe inviata una per ogni stanza che
compone la sua abitazione, cesso compreso, così che in ogni istante
del giorno e della notte possa vivere con gli incubi di coloro che
non ci sono più e che lui farebbe di tutto per nascondere !! Lo
Stato italiano è stato inesistente, figurarsi gli altri !! Non si
possono perdonare quelli che quel giorno hanno fatto quello che
sappiamo ma non possiamo fare di tutta l'erba un fascio altrimenti
la tifoseria, quella vera, sana, ce la possiamo scordare !! Credimi,
la rabbia è tanta ma se rispondiamo con la stessa moneta è la fine
! Guarda cosa hanno fatto i fiorentini (concedetemelo) cercando
di gemellarsi con i reds !! Non è questo lo spirito del vero tifoso
! Quella coppa non è la Coppa dei Campioni, ma una specie di "monumento
ai caduti per quella coppa"... Almeno per me è così, ma rispetto
le opinioni di tutti e concordo che la coppa è una sola. Grazie
per il tuo pensiero... Per quanto riguarda il discorso dei viola
ed altri con bandiere inneggianti all'Heysel, semplicemente basterebbe
non permettere che entrassero nello stadio e fuori dal suo perimetro
o che nel momento che "escono" venissero tolte e buttati fuori coloro
che le esponevano, semplice no ! Ma chissà perché non succede e
torniamo sempre all'argomento del vero e sano tifo... Non conosco
questo gruppo e se mi dici come si chiama mi farebbe piacere. Dopo
l'incidente, grazie al padre del medico morto al quale ho fatto
riferimento in un post, ci siamo uniti in Associazione, ma solo
per portare avanti un ridicolissimo processo (l'unione fa la forza)
durato anni e al termine del quale l'Associazione si è sciolta anche
se tra noi ogni tanto ci sentiamo. Posso chiedere a mia madre perché
io sono un po’ restia sia a "rappresentare" che per tenere contatti
per queste cose, ma non per "tirarmela" sia chiaro, ma perché sono
stata "usata" nei peggiori modi "pur di parlarne"... Avevo 18 anni
e non mi rendevo conto di quello che succedeva intorno a me... Per
"l'uso" se vuoi posso anche parlarne, ma è più una cosa dovuta al
mio Comune di residenza di allora e di una Cooperativa nazionale
che hanno usato la mia immagine ed i miei problemi per farsi pubblicità
e lucrare con la mia storia... Purtroppo ho dovuto subire anche
questo, come se il resto non bastasse... Quando sono arrivata a
casa ho dovuto iniziare un percorso medico e psichico che, in parte,
non è ancora finito... Libri su questa tragedia ne sono stati pubblicati
molti, ma sinceramente non riesco a leggerli... Ho avuto modo di
ascoltare la presentazione di quello di Veltroni perché è venuto
a Firenze e poi volevo conoscere Caremani, un giornalista toscano
con il quale mia madre è spesso in contatto... Ma non riesco a leggere
neppure quello... E’ più forte di me... La coppa non l'ho mai vista
dal vivo e non mi sono mai chiesta se desidero vederla... Non saprei...
Però sono certa a chi la sbatterei in faccia...
29 Maggio 2010
Fonte: Juveforum.it
A-Z |
FILIPPO
GRASSIA
Io che ero là. Il ricordo dell’inviato
del Giornale
"Quando mi accorsi che sotto il
telo c’era un ragazzo ancora vivo..."
di Filippo Grassia
Non dimenticherò mai quel momento:
"Respira !". E chiamai i poliziotti belgi che parevano inebetiti.
"Chissà
mai cosa potranno rivelare quei mattoni rossi e smussati che, rovinando
sulla pista d'atletica, hanno firmato la condanna di tanta gente":
a distanza di 30 anni ricordo ancora come cominciai l'articolo che
uscì su Il Giornale Nuovo all'indomani della strage dell'Heysel
dove fui testimone smarrito e furente d'una carneficina folle, diabolica,
eppure prevedibile. Il dramma si consumò alle 19.32 di quel maledetto
29 maggio 1985 quando il muro e la recinzione del settore Z della
curva nord si sbriciolarono sotto il peso dei tifosi juventini che
cercavano disperatamente di sottrarsi alla furia assassina degli
hooligans inglesi, in preda all'alcool e alle droghe. Un macello.
Zeta come l'ultima lettera dell’alfabeto e della vita. Mai potrò
dimenticare quei due giovani che spirarono sotto il mio sguardo
con le labbra spalancate in cerca d'ossigeno e l'addome rigonfio
per il peso sopportato. Uno dietro l'altro. E porterò sempre con
me il ricordo di quel ragazzo con la maglietta a righe orizzontali
bianche e blu, dato per morto, ricoperto con un panno grigio, e
che invece sussultava. "Questo è vivo, questo è vivo", urlai a un
poliziotto che girava a vuoto, intontito pure lui. Di medici neanche
l'ombra. Un paio di giorni dopo seppi che quel tifoso juventino
era arrivato da Pontedera o Ponsacco. Più il tempo passava e più
aumentavano i morti posti sulle barelle dietro la tribuna. Tutti
con i ventri dilatati, abnormi. La mattina dopo, sotto la curva
della morte, erano evidenti i segni della tragedia. Accanto a qualche
fiore, c'erano brandelli di stoffa, bandiere inanimate, sciarpe,
scarpe. Più di ogni altra cosa mi colpirono queste, forse perché
collegai quelle immagini a una foto di un campo di sterminio sotto
il nazismo. Anche all'Heysel fu omicidio di massa. C'era pure, lì
per terra, un libro giallo dal titolo che mi procurò una sferzata
di adrenalina: "I muri parlano". Solo una combinazione ? A un paio
di gendarmi che mi volevano allontanare, vomitai addosso tutto il
risentimento che mi portavo dentro dalla sera precedente. C'erano
solo due porte in quel settore Z: l'una d'un metro, l'altra più
piccola se possibile. E fuori da quei due cunicoli, l'unica via
di fuga possibile, i poliziotti manganellarono quanti cercavano
scampo verso l'esterno, verso la vita. Già i poliziotti. Erano pochi
a quell'ora. La gran parte, e lo dico da testimone, era intenta
a mettere qualcosa sotto i denti. I rinforzi arrivarono in colpevole
ritardo. Il ministro degli interni Nothomb e il borgomastro Brouhon
affermarono che c'erano mille agenti pronti a intervenire. Non è
vero. Eppure nel corso del tragitto in pullman dall'albergo allo
stadio non facemmo altro che vedere gruppi di tifosi inglesi ubriachi
fradici con le strade, i marciapiedi e le piazze assurti a letamaio
di vomito, piscio e bottiglie di birra. Un tappeto di bottiglie.
All'inizio dello scempio s'era capito poco dalla tribuna stampa.
Allora chiesi a un collega francese di prestarmi il cannocchiale
e capii. La partita ? Chissenefrega. L'Inghilterra non fece sconti
e debellò con metodi durissimi gli hooligans. In Italia, a 30 anni
di distanza, il derby di Roma ha messo per l'ennesima volta a ferro
e fuoco la capitale. Poveri noi.
29 maggio 2015
Fonte:
Il Giornale
A-Z |
CARLO GRIFONI
TESTIMONIANZA
Ogni
volta che la mia Juventus gioca una partita di coppa, ogni
volta che ci si avvicina ad una ipotetica finale, ma
soprattutto ogni volta che arriva Maggio, il 29 Maggio, io
non posso che ricordare quella sera all’Heysel. Non dovevo
andare a vedere quella partita perché il mio club ci aveva
abbinato una gita di cinque, sei giorni e comunque ero stato
a Torino per la semifinale vinta 3 a 0 con il Bordeaux, ma
capitò l’occasione giusta, l’occasione della vita, c’erano
dei biglietti disponibili con viaggio di andata e ritorno,
non mi pareva vero, sarei potuto andare a vedere la finale e
così ne prenotai quattro. In quegli anni c’era il processo
del Lunedì condotto da Biscardi e mio padre che adesso
purtroppo non c’è più seguì quella trasmissione dove
parlavano di biglietti ritornati da Liverpool e rivenduti in
Italia, il famoso settore Z e dicevano che era
pericolosissimo perché le tifoserie sarebbero state a
contatto. Noi partimmo il Martedì mattina e lui mi si
raccomandò di non entrare se i nostri biglietti fossero
stati quelli del settore Z perché c’era il rischio di
disordini. Ci dettero i tagliandi a Firenze ed il settore
era quello. Io comunque non mi sentivo tranquillo, durante
la notte avevo fatto un sogno strano, avevo sognato che
tanta gente mi veniva addosso ed ero trascinato senza poter
opporre resistenza poi in lontananza ho visto mio nonno e la
gente è sparita. Mio nonno era morto la sera del 30 Maggio
1984. Quando il giorno dopo arrivammo a Bruxelles e poi nel
primo pomeriggio allo stadio, io cercai di cambiare i
biglietti ma riuscii a trovarne solo due e non li presi,
pensai, eravamo venuti in quattro ed in quattro saremmo
ritornati a casa. Entrai allo stadio con i miei amici, uno
stadio orrido, tra noi e gli inglesi una rete per polli due
o tre poliziotti ed un cane lupo. Ci fu una partita di
ragazzi, una squadra con le maglie bianche ed una con le
maglie rosse ed intanto la curva del Liverpool si andava
riempendo sempre di più. Cominciò il lancio di bengala, noi
non portavamo niente se non bandiere sciarpe e fazzoletti,
non eravamo ultras, poi il lancio di pezzi di cemento
staccati dai gradini degli spalti, incominciarono a spingere
la rete che divideva i settori e da una parte cedette, partì
la prima ondata che i poliziotti riuscirono a rimandare
indietro, io ero salito sopra ad una balaustra di ferro e
gridavo: "Non scappate, andiamogli addosso se no ci
ammazzano", ma inutilmente poi partì la seconda ondata vidi
tutto, fu come uno Tsunami, io mi tenevo per mano con
Roberto poi ci lasciammo, ero trasportato dalla gente senza
poter fare niente, ma non caddi, continuavano ad arrivare
pezzi di cemento e bengala mi riparai la testa con lo zaino
poi non ce la feci più, buttai via lo zaino, chiusi gli
occhi e chiamai mio nonno, in quel frangente un boato mi
fece riaprire gli occhi, ero libero, la gente davanti a me
non c’era più, ma dietro a me c’era una montagna di persone
intrappolate che spingevano e due miei amici, Vincenzo e
Alfonzino sotto. Piano piano riuscii a liberare i miei amici
e dopo essermi assicurato che stavano bene ritornai sulle
tribune, non riesco a dire quanto tempo era trascorso ma lì
trovai una ragazza con i capelli lisci e biondi, era tutta
nera in viso, con uno della croce rossa cercammo di
rianimarla, ma aveva la bocca piena di vomito non c’era più
niente da fare, io mi sentivo da impazzire e gridai davanti
alla faccia di quell’uomo : "Perché !! Perché !!" Mi
allontanai distrutto, più in là c’era una donna
con un vestito lungo
forse bianco sdraiata a bocca sotto, d’istinto la rigirai ma
non mi fermai, ritornai dove avevo lasciato i miei amici,
era rimasto solo Vincenzo e con lui andai verso le tribune,
già c’erano corpi coperti da teli bianchi. Alcuni giorni
dopo su una trasmissione, mi sembra Rete4 la sorella di
Simona Izzo disse di essere stata salvata all’Heysel da un
ragazzo che l’aveva girata facendogli riprendere aria per
poi allontanarsi, forse ero io ? Chissà. In tribuna ci siamo
ritrovati anche con Roberto per fortuna eravamo tutti salvi,
avevo fatto bene a non cambiare i biglietti. Intanto nella
curva della Juve c’erano disordini, io avevo visto tutto
soprattutto morti e volevo unirmi a loro per fare casino, ma
mentre mi avvicinavo vidi in lontananza i giocatori della
Juve, non mi pareva vero, poco dopo tra me e loro mi
divideva solo una grata, stavo vicino ai miei idoli. C’era
Tacconi, c’era Favero, Cabrini e Vignola, regalarono due
paia di scarpe da tennis a dei ragazzi che per fuggire le
avevano perse, ma soprattutto c’era il nostro capitano
Scirea. Noi raccontammo a loro dell’accaduto, della presenza
di morti ed ancora ricordo le parole di Gaetano:
"Ragazzi questa
partita non possiamo giocarla". Voglio chiudere questa
lettera con le parole di Scirea, avrei ancora tante altre
cose da dire ma preferirei dirtele a voce, mi piacerebbe
incontrarti, sai, scrivere questa lettera per me è stato
molto doloroso.
Carlo Grifoni
4 maggio 2017
Fonte: Mail inviata all’
Associazione fra i Familiari delle Vittime Heysel
NDR:
Pubblicazione Autorizzata
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