4 CABIATESI
"Heysel, serata maledetta"
I ricordi di quattro cabiatesi
L’anniversario. A Bruxelles 33 anni fa persero la vita 39 tifosi
della Juventus. "Dentro il caos, fuori la fuga dagli hooligan. E
senza potere chiamare a casa".
Di solito i "vecchi amici" si ritrovano
per ricordare un momento felice. Bartolo Longo, Davide Galli,
Massimo Mauri e Maurizio Cazzaniga, hanno fatto una rimpatriata,
33 anni dopo la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e
Liverpool. I quattro super tifosi cabiatesi, erano presenti, il
29 maggio 1985, sulle tribune dello stadio Heysel a Bruxelles,
per quella tragica finale. Gli attacchi di alcuni tifosi dei
Reds, provocarono la caduta di un muro del vecchio impianto
belga. Nella calca, morirono 39 persone, nella stragrande
maggioranza italiani. "Aspettavamo quella partita da settimane"
- ricorda Maurizio Cazzaniga. "Lo Juventus Club Cabiate era
riuscito ad organizzare la trasferta. A Bruxelles siamo andati
in pullman". I cabiatesi, per fortuna, non erano nel settore
dove si sono verificati gli incidenti. "Abbiamo visto il fuggi
fuggi ma non sapevamo minimamente cosa fosse realmente successo"
- prosegue Cazzaniga. "Abbiamo iniziato ad allarmarci quando i
due capitani, per la Juventus il compianto Scirea, hanno letto
un appello, sottolineando che la partita si sarebbe giocata, per
motivi di ordine pubblico". E quando sono arrivati in Francia
non gli hanno neppure permesso di cambiare i soldi per fare una
telefonata a casa.
30 maggio 2018
Fonte: Laprovinciadicomo.it
A-Z |
4
CREMONESI
"Noi, scampati all’Heysel"
Quattro cremonesi erano nel Settore
Z e raccontano la tragedia del 29 maggio 1985
"Questo
biglietto era il regalo per i miei 25 anni". Mario Padroni leva
il tagliando un po' ingiallito dal taschino. "Stade du Heysel 29/5/85".
Era costato 300 franchi belgi. Tre lettere stampate cubitali: X
e Y, cancellate a pennarello (lì andavano i tifosi inglesi), e la
l. "Era il settore riservato ad una parte di tifosi juventini. C'erano
famiglie, bambini e gruppi di amici. Come noi". Mario Pedroni, Ivano
Corradi, Luigi Dassi e Luigi Tamagnini salgono sul pullman a Cremona.
Poi in treno: Milano-Bruxelles. "Avevo detto a mia mamma ricorda
Mario, oggi titolare di una azienda di grafica e, in qualità di
delegato provinciale Fidai, organizzatore della Maratonina di Cremona,
di guardare bene in tv. Ricordati di fare attenzione quando inquadrano
il settore Z. Magari mi vedi". Il pre-partita non lascia presagire
quello che sta per succedere: "Nel piazzale dello stadio eravamo
mischiati con i tifosi del Liverpool. Scambiavamo magliette, sciarpe,
scattavamo foto. Abbiamo persino improvvisato una partita a calcetto
nel parcheggio". Anche dentro lo stadio tutto fila liscio. Finché
ci siamo accorti che nel settore vicino stavano arrivando gruppi
di ultras inglesi, probabilmente senza biglietto". Il settore non
li contiene: "Lo stadio - ricorda Dassi - era fatiscente, il cemento
si sgretolava sotto i piedi. E la sicurezza quasi inesistente".
La folla fuori controllo preme contro la rete sottilissima che divide
le tifoserie. E sfonda. "Sono iniziati ad arrivare nel nostro settore
razzi ad altezza uomo. Ero terrorizzato". L’orda hoolingan sconfina
nel settore Z e preme. Un casco da poliziotto rotola fino ai piedi
di Luigi. I quattro amici cremonesi si perdono subito. "Sopra di
noi pioveva di tutto - racconta Mario. File di lattine di birra
ancora piene e pezzi di cemento staccati dalle gradinate". Ma lì
non ci si muove. "Non potevo
alzare le braccia per proteggermi da quello che veniva lanciato.
Più volte me la sono vista brutta. Mancava l'aria, ricordo le labbra
secche, disidratate. E le scene di panico". Gigi Dassi riesce a
entrare in campo nonostante la polizia belga, impreparata e completamente
disorientata, a cavallo, cercasse a manganellate di far tornare
in curva chi, scendendo in campo cercava di mettersi in salvo: "Ho
scavalcato il tunnel degli spogliatoi, sopra le teste dei giocatori
che da là sotto non vedevano nulla e sono salito in tribuna". Dei
quattro è stato l'unico a vedere la partita: "In tribuna non arrivavano
notizie precise sui morti. Perciò anche la partita non mi sembrò
strana. Solo mi chiesi come mai il settore Z aveva iniziato a svuotarsi
cinque minuti prima della fine". Lui uscendo, non sa ancora nulla
dei 39 morti, raccoglie anche qualche autografo. Poi ritrova Ivano
Corra. Con lo zio belga aveva cercato gli amici fuori dall'Heysel
per quasi tre ore. "Mi raccontò - spiega Dessi - che
nella calca
guardava le scarpe di tutti sperando di riconoscere quelle di Mario
o Luigi. Me lo disse piangendo". Pedroni e Tamagnini avevano scavalcato
la parete di cinta: "C'era del filo spinato - descrive il delegato
Fidai - e ci siamo tagliati". Così, con graffi su braccia e gambe
i due amici si ritrovano fuori: "Vedevamo passare le barelle con
le persone senza vita portate via". Come molti altri vengono spinti
quasi a forza su un'ambulanza. "Mi sono ritrovato all'ospedale e
lì c'era il mondo: gente con gambe e braccia spezzate, persone che
stavano davvero male. Io me ne sono andato subito". Con l'autostop
tornano all'albergo, una trentina di chilometri fuori città. "Non
avevamo notizie degli altri due. Quando, molto dopo la mezzanotte,
anche loro sono rientrati in albergo ci siamo abbracciati. E' stato
un momento di grande commozione". Nessuna festa per la Coppa della
Juve. L'unico ricordo è questo biglietto. E una videocassetta: "L'ho
rivista solo una volta dice Pedroni, dopo il rientro in Italia.
Ma poi è rimasta a prendere polvere. Risentire la voce di Pizzul,
con quel tono surreale, mi provoca brutte sensazioni". E' uno sportivo,
ogni anno porta in città migliaia di persone per la Maratonina:
"E' un'altra mentalità. A me piace tutto lo sport, vado allo Zini
e al PalaRadi. A vedere la Pomì o la Vanoli c'è un clima diverso,
è una festa". Nel calcio, invece... "Qualche giorno fa a Roma ci
sono stati due accoltellati per il derby. Dall'Heysel sono passati
30 anni ma ancora si assiste ad episodi di violenza". Per questo
è giusto ricordare la tragedia e le vittime di quel giorno. "Ma
ancora più giusto - aggiunge lui - sarebbe impedire che certe cose
si ripetano". (f g.)
29 maggio 2015
Fonte: Mondo Padano
A-Z |
GIORGIO
CALVARESI
Calvaresi: "Io e la strage dell'Heysel:
ero lì, scene da incubo"
di Mauro Nardi
A ricordare quel drammatico avvenimento
è Giorgio Calvaresi, nativo di Monte Urano, oggi recanatese, che
quel 29 maggio 1985 era allo stadio di Bruxelles.
"E'
stata una vera tragedia, attimi che non dimenticherò mai. Ancora
oggi quando mi capita di andare allo stadio, al palazzetto o assistere
a qualche assemblea o incontro pubblico mi posiziono sempre vicino
all'uscita". E' la testimonianza di chi ha vissuto sulla propria
pelle la strage dell'Heysel dove persero la vita 39 persone in quella
che doveva essere una bella giornata di sport con la finale di Coppa
Campioni tra Juventus e Liverpool. A ricordare quel drammatico avvenimento
è Giorgio Calvaresi (foto), nativo di Monte Urano e oggi recanatese
d'adozione che quel 29 maggio 1985 si trovava a Bruxelles in compagnia
di alcuni amici e dello storico presidente della Monturanese. "La
nostra fortuna è stata quella di essere arrivati con ritardo allo
stadio e aver trovato posto nella parte alta della famigerata curva
Z. Questo ci ha consentito di trovare subito la via d'uscita quando
la situazione ha iniziato a farsi drammatica" - racconta Calvaresi,
da sempre uomo di sport prima come segretario della Monturanese
ed oggi addetto stampa del Basket Recanati che milita in A2 Unica.
"Abbiamo raggiunto il Belgio con un volo charter partito da Falconara
e appena sbarcati ci siamo accorti che la situazione non era tranquilla,
come testimoniavano le strade intorno allo stadio disseminate di
bottiglie vuote. Quando siamo arrivati gli scontri erano già iniziati
e abbiamo assistito alla tragedia che si compieva sotto ai nostri
occhi. La polizia era inadeguata e insufficiente a gestire la situazione
e gli hooligans rimasti senza biglietto continuavano ad entrare
nello stadio scavalcando i muretti di recinzione. Eravamo consapevoli
che sotto di noi qualcuno stava perdendo la vita e non potevamo
far nulla per evitarlo". Quella dell'Heysel è stata una strage annunciata
proprio a causa dell'inadeguatezza delle forze dell'ordine, delle
scarse misure di sicurezza dello stadio ma soprattutto della stupidità
e violenza degli hooligans. "L'unica cosa che hanno azzeccato in
quella tragica giornata è stata la decisione di far disputare la
partita, ancora oggi oggetto di tante discussioni" - dice Calvaresi.
"E' stata comunque una strage annunciata. Ad un servizio d'ordine
insufficiente si è aggiunta anche l'inadeguatezza dello stadio.
Ricordo ancora le gradinate in terra e erba e le reti che ci dividevano
dagli inglesi. Sembravano quelle che utilizzano i contadini nei
pollai. Ad un certo punto gli hooligans sono arrivati a dieci metri
da noi, dei potenti razzi sono volati sopra la nostra testa schiantandosi
sulle colonne. A quel punto me ne sono andato. La voglia di assistere
alla partita non c'era più, nonostante le 300 mila lire pagate per
viaggio e biglietto. La priorità a quel punto era restare vivo.
Anche fuori dallo stadio la situazione non era delle migliori. Il
caos regnava sovrano e ho raggiunto l' aeroporto chiedendo un passaggio
a dei tifosi juventini di Udine". Al dramma di chi è stato testimone
oculare di una delle pagine più drammatiche del calcio mondiale
si è sovrapposto anche quello di coloro che assistevano alle scene
davanti alla tv con l'apprensione crescente nei confronti dei propri
cari in trasferta a Bruxelles. "Ovviamente all'epoca non esistevano
i cellulari" - conclude Calvaresi. "Sapevo che a casa erano preoccupati
per me. Mia moglie e mia figlia probabilmente erano davanti alla
tv. Solo dopo alcune ore sono riuscito a tranquillizzarle con una
breve telefonata. La partita l'ho ascoltata alla radio ma non c'era
proprio niente da festeggiare. Solo quando sono tornato a casa ho
realizzato di avere la maglietta insanguinata, perché durante la
fuga avevo aiutato qualche tifoso ferito a raggiungere un punto
di medicazione. Quelle macchie sintetizzano alla perfezione la tragedia
che si è vissuta all'Heysel. Per cinque anni non sono andato più
allo stadio, gli incubi hanno rovinato molte ore di sonno e ancora
oggi quando vado in posti affollati cerco sempre un posto vicino
all'uscita".
30 maggio 2015
Fonte:
Marcheingol.it
A-Z |
ALBERTO
CAPELLA
29 Maggio
Ore
16: dopo una breve gita ad Anversa, l’autobus ci riporta in albergo
a Mechelen. Carichiamo quelli che erano rimasti lì e partiamo verso
lo stadio. Sul pullman ci vengono dati i biglietti della partita.
Faccio notare a mio padre una stranezza: il settore indicato sembrerebbe
posizionato nella stessa curva nella quale i giornali collocavano
i tifosi inglesi. Probabilmente i giornali sbagliavano… Ore 17:
arriviamo allo Stadio. Non sembra di essere nel Nord Europa. Lo
stadio è una struttura fatiscente, scalcinata e arrugginita. Il
recinto esterno è costituito da un reticolato ossidato e bucherellato
ovunque e la zona interna al recinto è piena di erbacce, come fosse
abbandonata da anni. Non c’è nemmeno un cartello ad indicarci il
settore e solo seguendo il flusso di chi si era informato col passaparola
arriviamo di fronte ad un ingresso sul quale si intuisce che un
tempo vi fosse scritto: "Settore X-Y-Z". In breve siamo dentro ma
c’è qualcosa che non va: attorno a noi ci sono troppe facce e bandiere
inglesi per tranquillizzarci. Capiamo che il nostro settore non
è quello ma bensì quello al di là della rete da pollaio che divide
in due la curva. I più rapidi scavalcano la rete. Diceva De André:
"Si sa che gli sbirri e i carabinieri spesso al loro dovere vengono
meno" aggiungerei io "tranne che quando sarebbe opportuno farlo"
e infatti una gendarme belga, dotata di cane al seguito, dimostrando
un quoziente intellettivo rasoterra, blocca tutti gli altri votandoci
al linciaggio. Mio padre nel suo discreto francese spiega alla gendarme
la situazione: che cioè non ci è più possibile rientrare perché
ci hanno già strappato i biglietti e che non ci è nemmeno possibile
vedere la partita lì per ovvi motivi. La gendarme è comprensiva
e simpatetica quanto un parchimetro rotto. Decidiamo di uscire comunque,
avremmo poi deciso come fare. Troviamo un serpentone formatosi nel
frattempo che decidiamo essere la coda del nostro settore e ci posizioniamo
lì. Ore 18.30: dopo circa un’ora di coda arriviamo all’ingresso
che è una porticina larga quanto una persona. C’è una fortissima
compressione, il serpentone si fa piccolo per entrare in quella
porticina e alla fine si entra trascinati dalla folla. Lo strappatore
di biglietti ne controlla uno ogni tanto. Io e mio padre lo ignoriamo
e siamo dentro. Il settore Z è strapieno. Anche all’interno lo stadio
è completamente in rovina. Le gradinate in cemento sono ovunque
rotte e crepate. Siamo stipati come bestie al macello, tanto che
il tizio francese o belga di fianco a me mi spintona ogni volta
che si gira. Il tifo organizzato bianconero è nell’altra curva,
attorno a noi famiglie, gruppi di signori di mezza età: apparentemente
i gruppi delle agenzie turistiche. Ore 19: Una comparsata delle
squadre in campo ha scatenato i primi cori e la prima adrenalina.
Guardiamo con crescente preoccupazione al settore inglese che sembra
in ebollizione. Ore 19.15: Parte il primo bengala, basso, ad altezza
d’uomo, per colpire. Rimaniamo sbigottiti, si levano proteste e
fischi ma dopo pochi secondi parte un secondo razzo e poi un terzo
e poi altri ad intervalli regolari. Non sembra più solo la stupidità
di un singolo, inizia a serpeggiare la paura, ci si inizia a sentire
come bersagli.
Passano pochi minuti e la rete da pollaio
di cui sopra viene divelta. I primi inglesi scavalcano ed attaccano
il settore italiano, inizia la mattanza. Come pervasi da una follia
omicida quelli iniziano a menare fendenti a chi incontrano, a raccogliere
i calcinacci che si staccano dalle gradinate ed a lanciarle sulla
folla inerme, uno di quei calcinacci spacca la testa di un tizio
di fianco a mio padre che quando si gira vedo macchiato del sangue
di costui. La folla arretra, si crea una ressa insostenibile, mi
sento comprimere il petto. Non capisco dove stiamo andando ma non
c’è modo di fare scelte. Poi improvvisamente la ressa si alleggerisce,
è successo qualcosa, non so che cosa. Gli inglesi sono sempre là
anche se pare che l’assalto si sia fermato, ma mi accorgo che qualcuno
ha superato le transenne per cercare salvezza nel campo di gioco
dove è accolto con il manganello da altri gendarmi che il destino
non ha dotato di facoltà intellettive. Penso ci sia modo di seguirli,
urlo a mio padre che si può scendere e scendo di qualche gradino
verso il basso. No… Rimango impietrito, attonito. Davanti a me c’è
una distesa di corpi, non ci posso credere, non ci voglio credere.
Mentre piovono ancora bottigliette un ragazzo sta facendo il massaggio
cardiaco ad un ragazza. Vorrei piangere, vorrei urlare, vorrei fare
qualcosa ma è dannatamente troppo tardi. Digrigno i denti. "Vorrei
ammazzarli tutti quei cazzo di inglesi, ammazzarli tutti, cazzo
!!!". Puoi leggere e guardare tutto ciò che vuoi sulla guerra ma
solo quando ci affondi dentro, solo quando vedi accanto a te dei
corpi cadere, capisci quando è facile reagire alla violenza con
violenza, quanto è facile farsi trascinare nella spirale. Dalle
mie spalle sento la voce di mio padre. "C’è l’uscita, c’è l’uscita.
E’ libera". Quella porticina, da cui pochi minuti prima erano entrate
le persone che erano lì distese, adesso è là, libera, non c’è nessun
maledetto inglese tra noi ed essa. Urlo a mio padre: "E’ morta della
gente. E’ morta". Mio padre mi trascina via, sento che qualcuno
dietro di noi è stato ancora colpito da qualcosa. Imbocchiamo la
porticina, siamo fuori. Fuori però c’è ancora il recinto e l’uscita
è davanti al settore inglese, ma fortunatamente quella vecchia recinzione
arrugginita è piena di buche, forziamo una di quelle e siamo fuori.
Andando verso il parcheggio degli autobus incontriamo una famiglia
inglese, padre, madre e figlio. Ho una rabbia folle dentro di me
che non riesco a controllare e la faccia mi si contrae in una smorfia
che da quel giorno accompagna tutti i miei momenti di grande rabbia.
Il bambino mi guarda spaventato. Chissà se quel bambino si è mai
domandato perché avessi quella faccia quel giorno… Ore 20.15: Siamo
al parcheggio degli autobus e cerchiamo di capire cosa è successo,
perché, come. Vediamo arrivare piano piano gli altri della comitiva.
Intanto la radio e la televisione diffondono le prime notizie. Ore
22: L’autobus si avvia verso Mechelen. Non ci sono tutti. Facciamo
il conto di chi manca come chi conta i suoi caduti. Ore 23: Arriviamo
in albergo. Qualcuno accende la televisione. Stanno giocando. Guardo
come fossero fantasmi gli eroi per i quali eravamo venuti fin quassù,
eravamo venuti pensando a tante cose ma mai alla morte. Ricordo
ancora gli occhi spiritati di Tacconi in un ricordo liquido come
quello di un incubo. Ore 24: Usciamo a mangiare qualcosa. Una signora
belga, dalla finestra, in un ottimo italiano, ci esprime solidarietà.
Mi commuovo. Solo e soltanto in quel momento mi sembra di essere
tornato sulla terra che conoscevo.
29 maggio 2015
Fonte: Ejoujo.eu/ilcoloredelgrano
A-Z |
GIANNI
CARPITELLI
Parla Carpitelli,
sopravvissuto all’Heysel: "Non ho mai voluto vedere nulla
di quella notte prima di
7-8 anni. Mio fratello mi cercava tra i cadaveri"
di Fabio Marzano
Gianni Carpitelli, tifoso juventino e
sopravvissuto all’inferno dell’Heysel, ha
rilasciato delle dichiarazioni in esclusiva alla
nostra redazione.
TORINO - Sono trascorsi quasi 35 anni da quando
è stata scritta una delle più brutte pagine
della storia del calcio, quando il 29 maggio del
1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, perdevano
la vita 39 persone, in occasione della finale di
Champions League tra Juventus e Liverpool.
Ancora oggi però, quella drammatica e tragica
notte non viene mai dimenticata e anzi, ogni
anno viene commemorata dai parenti delle vittime
e da tutto il popolo bianconero. A tenere vivo
il ricordo è stato un tifosissimo della Vecchia
Signora, Gianni Carpitelli che quella serata
infernale l’ha vissuta sulla sua pelle,
riuscendo però a salvarla e a tornare in Italia
da solo, quando era ancora un minorenne.
Cosa rappresenta la Juve per lei ?
"La Juventus per me è la vita. A livello
sportivo ha sempre rappresentato qualcosa che va
oltre il tifo. È la mia seconda pelle, va al di
là di una partita di calcio. L’ho sempre sentita
in maniera particolare, quando ero giovane
chiaramente molto di più, ora tra lavoro e
famiglia sono un po’ limitato ma è sempre al
centro dei miei pensieri".
Questo senso di appartenenza ai colori
bianconeri, è incrementato dopo quella tragica
notte ?
"No. Io avendola vissuta in prima persona e
avendo rischiato di non tornare quella notte
sono rimasto un po’ deluso da tutto l’ambiente
circostante, politica compresa. Per quanto
riguarda la squadra, io quella partita non l’ho
vissuta perché, fortunatamente mi trovavo in
tutt’altro posto dallo stadio nel momento in cui
stavano giocando. Non ho mai voluto vedere
niente di quella notte prima dei 7-8 anni, non
ci riuscivo. Però non ho mai avuto un distacco
dalla squadra dal punto di vista sportivo anche
se per me quella Coppa non esiste. Per quanto
riguarda quella serata e quella partita ho
rimosso tutto, però l’attaccamento alla squadra
e ai colori è rimasto tale. Ho rivisto tutte le
finali negli anni successivi, sia in tv che
andando allo stadio. L’unico momento in cui ho
avuto veramente paura quella notte è stato
quando mi hanno trascinato fuori lo stadio e mi
hanno caricato su una camionetta insieme a due
tifosi inglesi. Mi hanno messo le manette e
siamo partiti a 200 all’ora. Io ho avuto paura
perché non conoscendo le leggi del Belgio e non
sapendo perché ero finito lì, facevo anche
pensieri folli del tipo: "Ora ci portano in un
campo e ci sparano", in quei frangenti pensi a
tutto. Poi fortunatamente, avendo studiato
francese a scuola, sono riuscito a cavarmela e
la notte mi hanno rilasciato".
Che atmosfera si respirava prima del
match ? Temevate gli inglesi o pensavate di
passare una serata di sport ?
"Noi siamo partiti con il pullman da Firenze e
abbiamo saputo che qualcosa non andava con i
biglietti solamente a Strasburgo. Ci siamo
fermati lì la notte a mangiare una cosa e a bere
una birra insieme agli altri tifosi. Ci hanno
voluto dare gli ultimi biglietti rimasti che
erano quelli per la curva Z e solo allora
abbiamo appreso che si trattava del settore
accanto ai tifosi inglesi. Però lì per lì
l’abbiamo presa in maniera molto tranquilla,
senza neanche pensarci troppo. Poi la mattina
successiva abbiamo saputo che ci furono alcuni
incidenti e tafferugli nella piazza centrale di
Bruxelles. Io mi ricordo benissimo che feci una
battuta del tipo: "Si dovrebbe restare qui a
guardarla in tv", pensandoci dopo con il senno
di poi, ti rendi conto che era destino. Arrivati
fuori dallo stadio si vedeva già che c’erano dei
casini, con gente sdraiata a terra. Prima della
partita in quella situazione li, speri di non
pensarci e vai dentro, poi però una volta
entrato, quando mi sono reso conto delle
condizioni che c’erano all’interno, con una rete
da pollaio che divideva noi dai tifosi inglesi e
con soli 3 poliziotti, ti accorgi in che
situazione delicata ti trovi.
Io sono stato fortunato perché sono
riuscito a farmi trascinare verso il basso, dove
c’era una porticina che affacciava sulla pista
di atletica, dove inizialmente i poliziotti non
facevano neanche passare e provavano a chiudere,
siamo riusciti a passare in circa 20 persone e
io sarò stato il 19esimo, un vero colpo di
fortuna. Solo che a differenza degli altri che
sono andati tutti sotto la tribuna dei
giornalisti, dove c’erano le ambulanze per farsi
medicare, io sono andato dalla parte opposta
della curva. Questo perché due anni prima ero ad
Atene e avevo conosciuto 3 ragazzi di un fan
club della Juve che erano lì anche loro e
speravo che magari vedendomi mi riconoscessero,
ma era una follia. Era un’atmosfera da
guerriglia, sapevamo degli Hooligans, però
cerchi sempre di non pensarci finché non lo
provi realmente. Le gradinate si rompevano come
fossero pezzi di carta, credo non ci sia stato
neanche il momento di pensare più a niente, se
non il fatto di indietreggiare e cercare di
ripararsi. Nella mischia ho perso anche mio
fratello e l’ho ritrovato dopo due giorni a
casa, per farti capire in che clima eravamo,
ognuno pensava a salvare sé stesso".
Cosa è accaduto realmente all’interno
del settore Z ?
"Mi ricordo vagamente alcune cose. Mi ricordo
che siamo entrati dentro lo stadio ed è accaduto
poco tempo dopo che noi eravamo li. Loro
iniziarono prima a fare dei cori, poi secondo
me, quando la curva era completamente piena,
quando anche l’alcool era risalito bene e noi
invece eravamo ancora pochi tifosi, con molti
spazi vuoti, li è successo il vero dramma. Credo
mancasse circa un’ora e mezzo prima che la gara
iniziasse. Dopo un po’ abbiamo iniziato a vedere
questo lancio di oggetti di qualsiasi tipo che
ci sfioravano le teste, poi dalla parte alta
dello stadio ci siamo accorti che gli inglesi
avevano iniziato a sfondare la rete e a passare
nel nostro settore, con sassi, bottiglie rotte,
aste delle bandiere e da lì sinceramente non ho
più visto nulla, se non in televisione. Mi sono
ritrovato in questa ondata di gente, saremo
state circa 5000 persone e non potevi andare
dove ti pareva, ma venivi trascinato dalla
folla, questo era testimoniato dal fatto che
altrimenti anche le 39 vittime sarebbero volute
andare in tutt’altro posto. La mia salvezza è
stata il fatto che io sono stato spinto verso il
basso, vicino alla porta della pista di atletica
dalla quale sono riuscito ad uscire. Altri
invece si sono buttati verso l’alto dove erano
gli inglesi e si sono salvati. Diciamo che
ognuno ha usato la sua tattica per mettersi in
salvo, ma chi era veramente al centro di quel
settore, ha passato l’inferno. Poteva andare
peggio ma poteva andare anche molto molto
meglio".
Lei una volta arrivato sulla pista di
atletica, si è accorto subito della situazione o
pensava che ci fossero solo dei feriti ?
"No, io in teoria ero convinto non ci fossero
neanche i feriti. In quel momento pensavo a
salvarmi, ho detto tra me e me vado di là per
via dei ragazzi di Atene che dicevo prima, ma è
stato un gesto stupido se ci penso ora. Se fossi
andato sotto la tribuna magari mi sarei reso
conto più da vicino cosa fosse realmente
accaduto, o per lo meno sarei riuscito a
mettermi in contatto con mio fratello e i miei
genitori e forse sarebbe andata meglio. Io non
mi sono reso conto di nulla all’inizio. Durante
la notte però, ho visto che arrivavano in
continuazione a portare dei sacchi neri vicino
alla cella dove ero io, tutti contenenti abiti
insanguinati. Chiesi gentilmente cosa fosse
successo a un gendarme e lui mi rispose in
maniera squallida: "Ci sono stati degli
incidenti, ci sono stati dei morti", poi fece
una battuta e disse: "Cosa te ne frega tanto
avete vinto". Me lo ricordo molto bene perché se
potessi tornare indietro lo prenderei a calci.
Avevo solo 17 anni, stavo passando una notte da
incubo ma sapevo che prima o poi mi avrebbero
rilasciato perché non avevo fatto nulla".
Da tifoso juventino e avendo vissuto
quella serata, lei condanna o giustifica il
gesto di Platini ?
"Sono molto combattuto su questa cosa. Avendo
vissuto la serata e se non ci fosse stato quello
che è accaduto, da sportivo dico che è un gesto
che chiunque farebbe se segna un gol in finale
di Champions, da quel punto di vista posso anche
capire. Riportando il nastro indietro però penso
che quella partita non l’avrei mai fatta
giocare. C’è stata veramente mancanza di ordine
pubblico, lo stadio crollava a pezzi, non
c’erano poliziotti, è stato sottovalutato
veramente tutto, compreso il fatto di mettere
gli italiani accanto agli inglesi. Per quanto
riguarda l’esultanza in sé per sé ti ci devi
trovare, perché per uno sportivo segnare un gol
così importante può essere comprensibile che
reagisca cosi. Certo però, mi sarei risparmiato
di scendere all’aeroporto di Torino con la Coppa
in mano. Sinceramente io l’avrei lasciata nella
stiva dell’aereo".
Molti giocatori hanno sempre dichiarato
di non essersi accorti di nulla, pensi che sia
possibile ?
"Io non credo proprio. Chiunque potesse
interessarsi dell’accaduto si sarebbe reso conto
che fosse accaduto qualcosa, magari non capivi
se ci fossero stati morti, però che fosse
successo qualcosa di serio era inevitabile
capirlo. Un conto poi è essere protagonisti in
curva e un conto è esserlo all’interno, dove hai
tutti gli occhi del mondo addosso e i vertici
dell’UEFA presenti, che ti pressano per far sì
che la partita venga giocata, è sempre tutto da
valutare. Documentandomi poi posso dirti che non
mi è piaciuto anche il gesto dello stesso
Boniperti".
Come è riuscito poi a tornare in Italia
?
"Io sono riuscito perché la mattina successiva
alla stazione di Bruxelles, ho sentito due
persone parlare italiano, un giornalista de La
Stampa e un padre con il figlio. Mi hanno
prestato i soldi per arrivare in Lussemburgo,
altrimenti poi non li avrebbero avuti per
tornare loro. A me bastava uscire dal Belgio,
potevano mandarmi anche in Finlandia basta che
uscissi da lì, era il mio unico desiderio. A
Lussemburgo alcuni poliziotti del posto mi
comprarono il biglietto e riuscii a tornare in
Italia. Nel frattempo i miei genitori erano già
all’aeroporto di Pisa per andare a Bruxelles,
convinti di venirmi a prendere in una bara
perché non avevano più notizie mie di nessun
tipo, né dai morti, né dai feriti gravi, mio
fratello non riusciva a dargli spiegazioni. Io
sono riuscito ad avvisare a casa, a una nostra
amica di famiglia che era rimasta lì a prendere
le telefonate. Di conseguenza avvisò la polizia
italiana della mia chiamata e riuscii poi a
ritrovare la mia famiglia. Dal mercoledì sera io
sono tornato di sabato mattina alle 4″.
Gli eventi di quella notte hanno poi
causato degli effetti collaterali sulla vita
quotidiana ?
"Io forse no. Poi ognuno di noi pensa di essere
sempre invincibile, comunque a livello pratico
non ne ho risentito in maniera particolare. Io
dopo quella partita sono andato da solo a Monaco
in treno, a vedere la partita contro il
Borussia, sono andato a Manchester da solo a
vedere quella con il Milan, insomma ho sempre
continuato ad andare allo stadio e a fare le mie
cose. ho partecipato a manifestazioni di ogni
tipo e posso dire che l’ho catalogato come un
incidente di percorso. Mio fratello invece è
rimasto segnato, va ancora in cura dallo
psicologo, lui poi ha trascorso il tempo a
sollevare i cadaveri per vedere se mi trovava in
mezzo ai corpi delle persone morte e questo
credo lo abbia traumatizzato. Non riesce più a
fare la fila neanche per andare a fare la spesa,
poi ha un carattere spigoloso e differente dal
mio. Forse alcune cose che io non ho visto a lui
hanno cambiato il corso delle cose".
Ringraziamo cortesemente Gianni
Carpitelli per la disponibilità.
15 luglio 2019
Fonte:
Juvenews.eu
... GIANNI CARPITELLI
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TESTIMONIANZA
Buonasera, mi chiamo Gianni Carpitelli
ho 48 anni e scrivo da Castelfiorentino (Fi). Quella sera avevo
17 anni e accompagnato da mio fratello che di anni ne aveva 19,
avendo trovato i biglietti dell'Uefa all'ultimo minuto, decidemmo
di partire con il pullman da Firenze (nella nostra comitiva trovò
la morte Bruno Balli cameriere di Prato) verso Bruxelles. Vi risparmio
l'ingresso allo stadio che fu già traumatico nel vedere migliaia
di inglesi fuori già ubriachi. Saliva la preoccupazione ma
anche la voglia di far festa. Dopo poco tempo dall'ingresso su quelle
maledette gradinate che si spezzavano con il niente, iniziò ad arrivare
di tutto dalla nostra parte, i poliziotti presenti erano 3 e stavano
a debita distanza dalla situazione, quando le reti vennero divelte
e gli hooligans iniziarono a entrare nella nostra parte di curva,
mi sentii sollevato da migliaia di persone e praticamente andavi
dove la massa ti portava: fortuna volle che fui tra gli unici 15/20
che incanalato verso il basso passò dalla porticina per entrare
nella pista d'atletica (che la polizia cercava di chiudere). Gli
altri ebbero la freddezza di rifugiarsi sotto la tribuna centrale,
verso gli spogliatoi, io invece mi diressi sotto la curva degli
juventini. Mi misi a chiedere aiuto e a un certo punto mi presero
per il braccio da dietro e facendomi strusciare in terra mi portarono
fuori dallo stadio, arrivati alla camionetta mi misero le manette
e insieme a due inglesi partimmo a tutta velocità verso la Gendarmerie.
Lì rinchiuso in cella ignaro dello sviluppo della situazione, rimasi
fino al processo verbale che mi fecero alle 2 la notte per poi sbattermi
fuori verso le tre e mezzo. Cercai da solo la strada per la stazione
dove arrivato oltre a trovarla chiusa, davanti c'erano 500 inglesi
circa a bivaccare e dormire, feci 2 passi indietro per buttare via
le sciarpe ed entrai nel mezzo alla piazzetta, sentii parlare italiano
e chiesi aiuto, i documenti ce l'aveva mio fratello in quanto maggiorenne,
un giornalista della stampa e un ragazzo siciliano mi rifocillarono
raccontandomi a grandi linee ciò che era accaduto, mi pagarono il
biglietto fino al Lussemburgo da dove in mattinata riuscii a mettermi
in contatto con una persona che i miei genitori avevano lasciato
a casa, stavano andando a Pisa a prendere l'aereo convinti ormai
di riportarmi a casa morto, perché nel frattempo mio fratello insieme
al padre di Roberto Lorentini di Arezzo, deceduto anch'esso, portati
all'ambasciata italiana dopo aver alzato tutti i morti perché non
si capacitava di dove potessi essere finito, non aveva il coraggio
di chiamare i miei per dirgli che non mi trovava più. Io da quel
tragico Mercoledì sono tornato il Venerdì mattina in treno, Enrico,
mio fratello il giovedì in aereo, i miei genitori furono avvertiti
della mia salute poco prima dell'imbarco. Io ho fatto migliaia di
km per vedere tutte le finali seguenti, mio fratello è andato in
terapia e non può affrontare file di persone di nessun tipo… Stiamo
bene e ci pensiamo sempre. Grazie, saluti.
30 maggio 2016
Fonte: Facebook (Pagina
Comitato Heysel)
A-Z |
... GIANNI CARPITELLI
... |
Un testimone racconta
la tragedia dell'Heysel 30 anni dopo
Gianni Carpitelli sfuggì per caso alla
morte nello stadio della finale di Champions fra Juventus e Liverpool
Castelfiorentino,
29 maggio 2015 - Un viaggio all’inferno, andata e ritorno. Sono
passati trenta anni e l’Heysel è ancora un incubo che tormenta i
sonni di Gianni Carpitelli, oggi 48enne, padre di due figli, che
nonostante tutto continua ad amare il calcio e la sua Signora. Il
29 maggio 1985 anche lui era nella Z, la curva dove morirono 39
persone poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus
e Liverpool. "Avevo 17 anni - ricorda Gianni - e con mio fratello
Enrico, di due anni più grande, avevamo trovato all’ultimo minuto
i biglietti per la finale. Quando arrivammo all’ingresso dello stadio
ci trovammo di fronte migliaia di inglesi già ubriachi. Prendemmo
posto sulle gradinate che già si spezzavano sotto il nostro peso.
Tirammo fuori sciarpe e bandiere e cominciammo a sventolarle. All’improvviso
cominciò a piovere di tutto: pezzi di gradinate, bottiglie rotte.
I tifosi inglesi avanzavano verso il nostro settore, spingevano
sulla rete, finché non cedette". Era la fine della festa e l’inizio
della tragedia. I tifosi si ritrovarono ammassati al muro, che ad
un certo punto crollò. Moltissime persone rimasero schiacciate,
calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita.
"Io - continua Gianni - fui sollevato dalla massa di persone. Andavo
dove la folla mi portava. Fui tra i pochi che si trovarono incanalati
verso il basso e passando dalla porticina d’ingresso della pista
d’atletica, che la polizia cercava di chiudere, mi ritrovai in campo.
Spaesato e senza più Enrico al mio fianco, mi diressi sotto la curva
degli juventini e cominciai a chiedere aiuto. Un poliziotto mi afferrò
e mi trascinò fuori dallo stadio, mi ammanettò e mi buttò su una
camionetta insieme a due inglesi. Trascorsi sette ore in prigione,
ignaro dello sviluppo della situazione. Non avevo documenti con
me, li aveva Enrico, che non aveva la minima idea di dove fossi
finito. Rimasi in cella fino al processo verbale a cui fui sottoposto
alle 2. In qualche modo spiegai chi ero e le mie intenzioni. Mi
rilasciarono". "Mi ritrovai per strada a Bruxelles nel cuore della
notte, senza un soldo né documenti. Un taxista mi indicò la strada
per la stazione. All’ingresso mi trovai di fronte un tappeto di
almeno 500 inglesi che bivaccavano e dormivano. Feci due passi indietro
per buttare via le sciarpe della mia squadra. Sentii parlare italiano
e chiesi aiuto". "Un giornalista de La Stampa e un ragazzo siciliano
mi rifocillarono e informarono di ciò che era accaduto. Mi pagarono
il biglietto fino al Lussemburgo da dove in mattinata riuscii a
mettermi in contatto con la mia famiglia". "I miei erano già all’aeroporto
di Pisa per prendere il primo aereo convinti, ormai, di riportarmi
a casa morto. Le loro speranze si erano ridotte al lumicino, perché
nel frattempo mio fratello, dall’ambasciata italiana, era riuscito
a contattarli e dire loro che non sapeva dove fossi finito. Prima
di lasciare lo stadio, Enrico era venuto anche a cercarmi tra i
morti. I miei furono avvertiti che ero vivo prima di partire per
il Belgio. Da quel tragico mercoledì riuscii a tornato a casa in
treno il venerdì mattina. Enrico arrivò il giorno prima in aereo,
convinto di avermi perso per sempre. Lo riabbracciai all’alba di
due giorni dopo a Castelfiorentino". A quella tragica esperienza
i fratelli Carpitelli hanno reagito in modo diverso. Gianni ha continuato
a farsi migliaia di chilometri per assistere a tutte le finali della
sua Juve; Enrico, invece, non riesce più ad affrontare code di alcun
tipo. Gianni il prossimo 6 giugno a Berlino per la finale di Champions
contro il Barcellona non ci sarà, ma solo perché non è riuscito
a trovare i biglietti. "La guarderò in tv - dice - Come ogni finale
l’aspetto con gioia e trepidazione, ma con il pensiero rivolto a
quelle 39 vittime e alle loro famiglie".
29 maggio 2015
Fonte: Lanazione.it
A-Z |
LUIGI
CARRIERA
Il racconto di Luigi Carriera,
superstite dell’Heysel
"Quella tragica serata nella
curva Z"
di Antonio Lo Vecchio
29 maggio 1985, una data che cambiò
il calcio. Una notte che doveva essere di festa per l’Italia bianconera.
Una notte che invece fu di sangue e morte.
Stadio
Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus
del Trap e di Platini, e i campioni in carica del Liverpool. Una
partita attesa come non mai dai tifosi bianconeri, dopo la delusione
di Atene di due anni prima. Come allora furono tanti i tifosi partiti
da tutto lo stivale per il Belgio, per assistere alla finalissima
della loro squadra del cuore. Tra questi Luigi Carriera, infermiere
professionale della Casa Sollievo della Sofferenza, 35 anni, sposato
con due bambini in tenera età. C’era anche lui ad Atene, due anni
prima. Quel 25 maggio 1983 un gol di Magath fece sprofondare nella
disperazione sportiva i tifosi della Vecchia Signora. Gino, tifosissimo
bianconero fin da bambino, decide di tornare a vedere la sua Juventus
in finale, nella speranza di un esito diverso. Parte da San Giovanni
Rotondo assieme ad un collega, Andrea, anche lui sangiovannese e
tifoso bianconero, che, come molti italiani, aveva un fratello emigrato
in Belgio, che è riuscito ad avere dei biglietti per la finale del
29 maggio. Quel giorno Gino, assieme al compagno di avventura Andrea
e altri due parenti di quest’ultimo, partono così in auto da Frameries,
paesino poco distante da Mons, in direzione Bruxelles. Arrivati
nei pressi dello stadio Heysel parcheggiano l’auto e si incamminano
verso lo stadio. Qui inizia il racconto di Gino: "Arrivati nei pressi
dello stadio, avevo come la percezione che qualcosa sarebbe andato
storto. La zona antistante l’Heysel era già un tappeto di bottiglie
di birra e di alcool. I tifosi del Liverpool erano già su di giri,
per non dire ubriachi. Attorno alle 18 decidiamo di entrare allo
stadio. Ci fecero entrare in una piccola porticina assieme ai tifosi
del Liverpool. Entrati in curva ci siamo accorti di essere nel settore
dei tifosi Reds, per questo scavalchiamo la rete, definita da molti
come la rete del "pollaio" e entriamo nel famigerato settore Z della
curva, riservata ai tifosi bianconeri. Un settore non destinato
alle tifoserie organizzate. In gran parte erano famiglie, ragazzi,
donne e bambini. Gente semplice, magari molti emigrati italiani
in Belgio che volevano semplicemente seguire e tifare la loro squadra
del cuore. Noi quattro ci posizioniamo giusto al centro del settore.
Eravamo appiccicati l’un l’altro come sardine, non avevo nemmeno
lo spazio per poter prendere le sigarette dal taschino. Lo stadio
era un colabrodo, bastava battere un po’ col piede sulle gradinate
per far staccare pietre e sassi. Un impianto totalmente inadeguato
per un evento del genere. La sicurezza inesistente, solo qualche
agente della gendarmeria a cavallo. Due anni prima ad Atene tutto
funzionò alla perfezione. Già da quello che stavo vedendo avevo
degli strani sentori. Ad un certo punto vediamo che i tifosi del
Liverpool, posizionati a pochi metri da noi, divisi solo dalla retina
del "pollaio" danno fuoco ad una bandiera dell’Italia. Da quel momento
capimmo che non sarebbe stata una tranquilla serata di sport. Gli
hooligans sfondarono con disarmante facilità quella retina e si
riversarono con tutta la loro furia sul nostro settore. Noi eravamo
al centro della curva Z e fummo sommersi dall’ondata rossa. Io e
i miei amici finimmo schiacciati da altre persone sotto la spinta
degli inglesi. Tra me e me pensai "E’ la fine, qui moriamo tutti".
E il mio primo pensiero fu verso mia figlia che aveva solo due anni
all’epoca. Ad un certo punto, quando già non riuscivo e respirare,
qualcuno, non ricordo chi, mi prese dalle braccia e mi tirò fuori
da quell’inferno di corpi ammassati gettandomi giù dalla gradinata.
Mi ritrovai così nella confusione di nuovo in piedi. Scappai verso
il campo e una
volta
sul prato vidi la curva ondeggiare come quando il vento soffia su
un campo di grano. Scappai sul terreno di gioco ma fui fermato da
un poliziotto: cercavo di spiegare, non sapevo la lingua e ad un
certo punto svenni per la fatica. Il gendarme ricordo che chiamò
i soccorsi ma ben presto mi risvegliai e stordito com’ero riuscii
a trovare un’uscita. In pochi attimi mi ritrovai vivo e fuori dallo
stadio. Non avevo però più notizie dei miei tre amici. Fuori dallo
stadio, pieno di sangue e coi vestiti strappati, cercai un po’ di
acqua. Una gentile signora mi diede una bella caraffa che bevvi
in pochi secondi. Anche fuori stava succedendo di tutto: risse,
ambulanze, gendarmerie in totale confusione. Insomma delle scene
apocalittiche. Mi diressi verso la macchina per vedere se gli altri
miei compagni fossero lì. Aspettai un altro po’ poi, non vedendoli
arrivare, chiesi informazioni per andare alla stazione e prendere
il treno per Mons. Una vecchietta vedendomi in difficoltà mi aiutò:
mi fece telefonare a casa per avvisare i miei cari che ero vivo.
Poi mi comprò il biglietto del treno per farmi arrivare a Mons.
Alla stazione vidi in tv che la partita era iniziata nonostante
tutto. Arrivato a Mons telefonai al casa del fratello di Andrea
per farmi venire a prendere da Frameries da qualcuno. Una volta
a casa del fratello di Andrea tutti mi chiesero che fine avessero
fatto gli altri tre miei amici. Io raccontai la mia versione dicendo
che non sapevo nulla di loro. A questo punto un parente del fratello
di Andrea che sapeva la lingua mi disse "Gino, dobbiamo tornare
a Bruxelles in auto, dobbiamo riportare gli altri tre a casa". Stremato
com’ero ci mettemmo in macchina alla volta di Bruxelles per cercare
notizie su Andrea, il fratello e l’altro amico. Intanto la partita
era finita. Ma cosa assai più importante è che il bilancio di quella
notte folle era di 39 vittime. Arrivammo nel punto dove avevamo
lasciato la macchina parcheggiata e non trovammo né loro, né l’auto.
Non sapevamo se l’avevano, rubata, rimossa, incendiata oppure era
un segnale che l’avevano ripresa ed erano sani e salvi. Chiedemmo
alla gendarmerie ma nulla. Lasciammo alla polizia anche la carta
di identità di Andrea che avevo io in tasca per vedere se era tra
le vittime di quel massacro. Fortunatamente no e dopo aver rilasciato
delle dichiarazioni a caldo alla polizia e a qualche giornalista
tornammo verso Frameries, a notte fonda ormai, nella speranza di
ritrovarli a casa sani e salvi. E così fu: i tre si erano messi
in salvo e ironia della sorte cercavano proprio me, temendo che
potessi essere tra le vittime. Fu così che scoppiammo in un pianto
e abbraccio liberatorio, pensando alla fortuna di essere ancora
vivi. Tornai a casa dopo due settimane perché oltre allo shock,
non ero nelle condizioni di guidare e ritornare a San Giovanni.
Feci degli esami al torace perché avevo difficoltà nella respirazione
e dopo quindici giorni di riposo rientrai a casa a riabbracciare
la mia famiglia. A distanza di 30 anni sono sempre più convinto
che fu un bene giocare quelle partita. Altrimenti altro che 39 morti,
avremmo assistito ad una vera e propria carneficina. Da quel giorno
non misi più piede in uno stadio di calcio. Addirittura nei primi
giorni dopo il mio rientro, ricordo che c’erano le elezioni a San
Giovanni: avevo paura a stare in mezzo alla gente. Mi mancava l’aria
e mi sentivo soffocare nel ricordo di quella sera. Una sera che
a distanza di 30 anni ho deciso di rivivere, per la prima volta,
in questa mia testimonianza. Dopo 30 anni da quella maledetta notte,
la mia Juventus è di nuovo in una finale di Coppa di Campioni. Non
so se sia un segno del destino. Dico solo che sarebbe bellissimo
vincere la coppa e dedicarla a quelle 39 persone che in quella sera
dell’85 volevano solamente vedere la propria squadra alzare la coppa
al cielo". Grazie Gino per la tua toccante testimonianza.
30 maggio 2015
Fonte: Sanmarcoinlamis.eu
A-Z |
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"Solo di fronte alle lacrime
di mia figlia e mia moglie la gravità della tragedia"
Vent'anni dopo, Dave Murphy
e Valerio Cavagnetto rievocano la notte di Bruxelles mentre
nella sede della Juve è stato inaugurato un cippo bianconero.
"No, quella dell'HEYSEL non è stata
l'ultima volta che sono andato allo stadio. L'ultima è l'incontro
Argentina-Brasile, durante i Mondiali di Italia 90. Ma l'atmosfera
di quella partita era ben diversa da quella di JUVENTUS e LIVERPOOL".
Sessantotto anni, ex direttore dell'Assindustria di Ivrea, tifoso
bianconero doc, Valerio Cavagnetto quel maggio di 20 anni fa
era andato in Belgio con un gruppo di amici. E di quella trasferta
ancora oggi ha in mente tutti i particolari, i dettagli anche
quelli che in apparenza sono i più insignificanti. Si ricorda
il tappeto di bottigliette di birra poco lontano dal catino
dello stadio, si ricorda la polizia, "poca", e nelle narici
ha ancora il forte fetore di alcool che si respirava negli spazi
chiusi dell'HEYSEL. Nella memoria, invece, ha le scene di violenza
gratuita che le tv di tutto il mondo hanno trasmesso decine,
centinaia di volte da quella notte maledetta. "I miei amici
ed io eravamo seduti in tribuna, la partita non cominciava mai.
C'erano i cori, le grida, le invasioni di campo. E noi eravamo
quasi irritati per tutto ciò che stava capitando sugli spalti,
dall'altra parte dello stadio. Irritati con gli juventini, ovviamente:
non potevamo capire, non potevamo sapere". E poi non dimentica
le tre cariche, che provocarono le fughe, il crollo del muro,
che causarono i morti. "Furono tre ondate di attacco. Tre ondate
violentissime" ripete Cavagnetto. "La prima più in alto e poi
sempre più giù, fino al primo livello. C'era gente che scappava,
che cercava di scavalcare la rete e di rifugiarsi nel terreno
di gioco. Scappavano dalla violenza degli hooligan e venivano
caricati dalla polizia a cavallo. Una follia totale, senza senso.
Poi un uomo, o un ragazzo è riuscito a superare la linea dei
poliziotti e ad urlare "hanno ammazzato un italiano...". Di
più, però, quella sera non riuscimmo a realizzare". Valerio
Cavagnetto ed i suoi amici seppero cos'era accaduto soltanto
all'uscita dallo stadio. Qualcuno gli disse che c'erano stati
dei morti. Vent'anni fa non c'erano ancora i telefoni cellulari,
non poté contattare i familiari, avvisare che stava bene, non
poté parlare con nessuno per informarsi un poco di più. "Rientrai
ad Ivrea verso le 4 del mattino e trovai mia moglie e mia figlia
disperate, in lacrime. Soltanto allora mi fu tutto chiaro, compresi
fino in fondo che cosa era accaduto" racconta. Soltanto allora
elaborò immagini ed impressioni registrate ma non comprese.
Come quella "modesta rete che separava i tifosi italiani dai
supporters inglesi", come "l'esiguo numero dei poliziotti impegnati
a tener lontane le due tifoserie: non erano più di otto o dieci".
Come le cariche contro chi cercava salvezza sul terreno di gioco
e veniva respinto nella bolgia. "Per tutto il tempo che sono
stato allo stadio desideravo bere un bicchiere d'acqua. Non
avevo franchi belgi un tasca e l'avrei pagata anche 5 o 10 mila
lire. Ma al bar dello stadio non me la diedero: niente soldi
locali niente acqua. Ho bevuto quando sono tornato ad Ivrea".
Se dovesse sintetizzare quella notte, Cavagnetto, la sintetizzerebbe
così: "Urla, grida disperate, e poi la polizia che respingeva
chi cercava salvezza".
13 aprile 2005
Fonte: La Stampa
A-Z |
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BATTISTA
CENERE
Il fantasma dell'Heysel
di Alessandro Tich
"E'
stato evitato un nuovo Heysel". Così il Ministro dell'Interno, Roberto
Maroni, sul comportamento delle forze di sicurezza allo Stadio di
Genova, nella folle notte di Italia - Serbia messa a ferro e fuoco
dagli scalmanati ultras serbi. Una notte di incidenti e di tensioni
che ha rievocato il ricordo di una delle più grandi tragedie mai
accadute in uno stadio di calcio: 29 maggio 1985, stadio Heysel
di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool,
39 morti - di cui 32 italiani - nella gigantesca calca provocata
dagli hooligans inglesi nella famigerata curva del settore Z. Due
delle vittime erano di Bassano del Grappa: Mario Ronchi e Amedeo
Spolaore. Erano partiti da Bassano, assieme ad altre 14 persone,
per assistere alla finale della Juve. Di quel gruppo, nella curva
Z, faceva parte anche Battista "Titta" Cenere, noto commerciante
bassanese di abbigliamento, scampato alla bolgia della morte gettandosi
dal muro dello stadio. Di quella tragedia di 25 anni fa conserva
ancora in negozio i ritagli di giornale, e i biglietti dell'aereo
e della partita - incorniciati in un quadro - a futura memoria di
quella notte d'inferno, diventata la pietra di paragone per la sicurezza
negli stadi e il cui fantasma, di fronte a scene come quelle viste
l'altro ieri in televisione, riappare inevitabilmente. Battista
Cenere, che cosa ricorda di quella notte maledetta all'Heysel ?
"Noi non dovevamo trovarci nel settore Z, dove è accaduta tutta
la tragedia. Avevamo infatti prenotato le poltronissime numerate
centrali. Siamo saliti in aereo all'aeroporto di Venezia e solo
dopo il decollo chi aveva organizzato la trasferta ci ha consegnato
i biglietti: al posto della tribuna centrale i biglietti erano tutti
per la curva del settore Z, e non potevamo più tornare indietro.
Allo stadio siamo quindi andati in curva: da una parte c'eravamo
noi, e dall'altra gli hooligans inglesi. Ci divideva soltanto una
rete plastificata tenuta su con dei paletti. Alla prima carica degli
hooligans, siamo arretrati. Alla seconda carica ci siamo già trovati
addosso al muro, il famoso muro dell'Heysel. Io ero teso, avevo
paura di una terza carica, sono salito sul muro dello stadio, sono
andato al di là del muro, mi sono allungato con le braccia e mi
sono lasciato andare giù con un salto di vari metri. In curva, in
quel momento, era iniziata la terza carica, che è stata una carica
di massa. Io sono scappato nel pullman. C'erano sirene, polizia,
croce rossa, pompieri. Dopo mezz'ora sono rientrato nello stadio,
da un altro ingresso, e da una transenna vedevo una strada esterna
dove giacevano i corpi delle vittime. Una di queste, lo avevo riconosciuto,
era Spolaore. Il peggio è accaduto nel volo di rientro, perché nel
nostro gruppo oltre a Spolaore e Ronchi mancavano altre tre persone
di cui non avevamo più notizie, e che invece, ma lo abbiamo saputo
solo a Bassano, erano riuscite a salvarsi". Ma quanto è successo
l'Heysel e quanto poteva succedere allo stadio di Genova sono situazioni
paragonabili ? "Non sono paragonabili, perché all'Heysel c'è stato
uno scontro fra hooligans e spettatori, uno scontro diretto fra
persone preparate per far del male e uccidere e noi, persone disarmate.
Ci è mancato poco, però, che gli ultras serbi oltrepassassero il
loro settore, forse la presenza della polizia italiana li ha fermati.
Ma la polizia italiana doveva intervenire". Che impressioni ha avuto,
guardando alla Tv le scene di Genova ? "E' una cosa che fa pensare
ai parenti e agli amici morti. E quello che è accaduto a Genova
si poteva evitare, perché è assolutamente impossibile che la polizia
italiana e la polizia serba non fossero state a conoscenza di che
personaggi avevano per le mani. La polizia italiana doveva colpire,
così come colpiscono loro". Ma la tragedia dell'Heysel, a 25 anni
di distanza, ha insegnato qualcosa o può ancora insegnare qualcosa
a chi è tenuto a garantire la sicurezza negli stadi ? "Dovrebbe
far pensare e riflettere i responsabili della nostra difesa e della
nostra incolumità, per non trovarci in seguito ancora scoperti".
Dopo l'Heysel, lei è più tornato in uno stadio ? "No. Mai più. Ero
un tifoso, ero juventino. Da allora ho lasciato il calcio e non
ho più patito l'assenza di questo sport. La Gazzetta dello Sport
per me è una nausea, con quei titoli che ingrandiscono ancora di
più i fatti e degradano l'Italia".
14 ottobre 2010
Fonte: Bassanonet.it
A-Z |
CLAUDIO
CHIARINI
Chiarini: "Juve, porta a Berlino
noi sopravvissuti dell'Heysel"
Claudio
Chiarini aveva 32 anni nel 1985 e la Juventus, "tifoso bianconero
fino alla morte", l’aveva vista ovunque. "Oggi me la guardo a casa.
Da solo. Io dentro uno stadio non ci torno più". L’ultimo che ha
visto si chiama Heysel. L’ultimo settore dove si è seduto la Curva
Z. Claudio Chiarini è un sopravvissuto dell’inferno. C’era anche
lui quel maledetto 29 maggio 1985. "Mi sono salvato solo grazie
alla mia esperienza. Sono riuscito a raggiungere il muro, quel muro
che poi crollò ed a scavalcarlo. Feci una specie di paracadute con
la bandiera e mi lanciai fuori dallo stadio". Pausa. E’ dura raccontare.
Respira Claudio - che nonostante tutto, il calcio ha continuato
a seguirlo, è allenatore ed è stato direttore generale della squadra
femminile Stella Azzurra - e ricomincia. Dall’inizio. 28 maggio
1985: la partenza. "Il viaggio venne organizzato da un’agenzia in
piazza Guido Monaco. Partimmo con diversi pullman da Arezzo per
andare a Bruxelles a vedere la finale di Coppa Campioni con il Liverpool.
Per me non era la prima volta. La Juve l’avevo seguita ovunque.
Perfino a Belgrado nel 1973. Ovunque". Claudio riesce a convincere
anche alcuni suoi amici. "Tutti avevamo il biglietto per il settore
Z. Nessuno di noi conosceva lo stadio. Internet non c’era, ma sono
partito tranquillo, perché una partita così importante, doveva giocarsi
in uno stadio adeguato. La Uefa mica avrebbe messo in pericolo la
vita delle persone pur sapendo che si giocava contro il Liverpool
degli Hooligans". In pullman Claudio comincia a guardarsi intorno
e nota: "Famiglie, donne e bambini. Tutti col biglietto per la Curva
Z. E allora mi chiesi che forse questo settore era stato destinato
proprio alle famiglie". Non era proprio così, ma successivamente
si seppe che in quel settore dovevano trovare posto le scuole calcio
locali, poi la richiesta dei biglietti fu tale che la Uefa decise
di destinare la Curva Z ai tifosi soprattutto juventini. Ma non
solo. 29 maggio: ore 15. Arrivo all’Heysel. "Intorno alle
15 eravamo allo stadio. C’era un parcheggio enorme dove abbiamo
lasciato i pullman. E ci siamo incamminati verso l’entrata". Lì
arriva il primo allarme. "Per entrare nel nostro settore c’era un
porticina minuscola. Sarà stata due metri per due. Mi dissi: se
succede qualcosa da dove usciamo ?". Il secondo allarme subito dopo
l’ingresso nella Curva Z. "C’erano tutti i gradoni, tipo la nostra
Maratona. Mi accorsi che erano sfaldati. Le pietre per terra. Chiunque
poteva raccoglierle e lanciarle. E in più dietro la Curva c’era
un cantiere". Poi arrivarono. I tifosi inglesi. "Non dimenticherò
mai ciò che vidi. Molti di loro erano sopra il tetto dei pullman.
Già ubriachi. Iniziarono ad entrare dalla stessa porticina. Portavano
casse di birra sulle spalle. Si sistemarono praticamente accanto
a noi. A dividerci dagli hooligans c’era una rete da pollaio. Fatta
di corda". Viene subito da chiedere e le Forze dell’Ordine ? "Pochissime.
Fuori dallo stadio ricordo di avere visto 5 poliziotti 3 dei quali
erano ragazze e dentro lo stadio praticamente non c’era polizia.
Sì, fu una strage annunciata". Ore 17: cominciano i lanci di pietre.
Claudio si sistema più dalla parte dei tifosi inglesi. "Volevo tenerli
d’occhio. Erano ubriachi e sotto quel sole hanno cominciato ad insultarci.
Ma chi di noi poteva contrastare quegli pseudo tifosi ? In quel
settore c’erano solo famiglie. Il vero zoccolo duro del tifo bianconero
era dalla parte opposta dello stadio. Ho cominciato a preoccuparmi
e al mio amico che era con me, vista la mia esperienza, lo aveva
avvisato: se ti dico di seguirmi, non fare domande: fallo e basta".
Ore 18: la fuga e l’assalto. "Finite le pietre hanno cominciato
a lanciarci le lattine di birra vuote riempite con la terra. La
situazione degenerava, poliziotti non ce n’erano. Ho iniziato a
guardarmi intorno: non c’erano vie di fuga. E allora sono andato
verso il muro, quello che poi è crollato e mi sono issato fino in
cima. Questione di attimi, la carica era già iniziata". "Sotto di
me ho afferrato la mano di qualcuno e ho cercato di tirarlo su.
Ma non ci riuscivo e ho dovuto lasciarla". Beve un bicchiere d’acqua,
Claudio. Le parole si strozzano in gola. "E’ dura ricordare. E’
dura. Ho visto bambini che venivano lanciati dai genitori dall’altra
parte della rete verso il campo da gioco, perché si salvassero da
quella calca. Ho visto scene che preferisco non raccontare". Ore
19.30: fuori dallo stadio. La bandiera della Juve che sarebbe dovuta
servire per fare festa in quel momento diventa una sorta di paracadute.
"L’ho presa e praticamente mi sono buttato giù dal muro.
Non
mi ero fatto niente in confronto a ciò che stava succedendo là dentro.
A quel punto mi sono diretto al parcheggio dei pullman, schivando
però altri tifosi inglesi, ubriachi che erano fuori dall’Heysel
e non erano riusciti ad entrare. Ho preso un bastone ho forzato
la porta del pullman e poi hanno iniziato a venire tutti gli altri".
Negli occhi di ognuno scene raccapriccianti e la sensazione che
già i morti non fossero pochi. "Abbiamo cominciato a contarci. Qualcuno
di noi mancava. E’ stato un momento terribile". Ore 21: la partita.
Intanto dentro l’Heysel la partita con un’ora di ritardo inizia.
"Dovevano giocarla. Altrimenti avrebbero dovuto chiamare l’esercito
per fermare quelle bestie. Se i giocatori sapevano ? Immagino che
sapessero quanto era accaduto. C’erano feriti, barelle in campo,
morti. Ma la partita doveva giocarsi". Ciò che però Claudio condanna
è il giro di campo finale con la Coppa: "Quello no. Quello gli juventini
non dovevano farlo. Dovevano solo fare il segno della Croce davanti
a quella Curva Z". Ore 23: all’Ambasciata. Ma la notte è solo all’inizio.
"Abbiamo cominciato a fare il giro degli ospedali per vedere se
c’erano feriti e poi ci siamo diretti all’Ambasciata. Dovevamo chiamare
casa". Ma nel tragitto succede qualcosa: "Abbiamo incontrato un
gruppo di tifosi inglesi che ci ha insultato. Uno che era sul pullman
ha chiesto all’autista di rallentare. Volevamo scendere. A quel
punto dopo quello che avevano fatto eravamo pronti a tutto. Poi
abbiamo chiesto all’autista di proseguire. E ce ne siamo andati".
L’ambasciata apre le porte ai tifosi italiani, ma chiede anche che
vengano fatte telefonate ad una persona che poi avverta gli altri
familiari. "Ovviamente le famiglie che non erano state raggiunte
direttamente al telefono, ma solo tramite terzi, pensavano al peggio.
In Italia già si sapeva". 30 maggio 1985: il ritorno. "Straziante.
Ma eravamo vivi. Poi arrivò la notizia di Roberto Lorentini e Giuseppina
Conti e tutti pensammo la stessa cosa. Ognuno di noi avrebbe potuto
essere il numero 40". A Berlino con la Juve. Oggi, trent’anni dopo,
Claudio Chiarini fa una proposta, attraverso il Corriere di Arezzo,
direttamente alla Juve. "Mi piacerebbe che a Berlino ci fosse anche
una rappresentanza di noi sopravvissuti dell’Heysel. La Juve la
tragedia e la Coppa, le ha vissute sempre con disagio, forse è arrivato
il momento di riscattare la propria immagine e il miglior modo è
farlo trent’anni dopo, a Berlino. Ma guarda te il destino". Mai
più dentro uno stadio. Dal 29 maggio 1985 Claudio Chiarini non è
più rientrato dentro uno stadio. "Faccio fatica ancora oggi quando
sono in mezzo alla gente. Mi guardo intorno. Cerco possibili vie
di fuga. Dentro uno stadio, a parte quello di Arezzo, non ci sono
più tornato". Soprattutto è stata una scelta. "Una scelta e una
forma di rispetto verso chi non c’è più e anche verso la mia famiglia.
Le partite me le guardo in televisione e da solo". Continuerò ad
amare il calcio. "La mia vita è cambiata. L’inferno dell’Heysel
mi ha fortificato. Ma non odio il pallone. Assolutamente. Sarebbe
assurdo. Sono nato juventino e morirò juventino. Il 6 giugno sarò
davanti al televisore. Lassù 39 tifosi. Finalmente in tribuna d’onore".
20 maggio 2015
Fonte: Corrierediarezzo.corr.it
A-Z |
EVELINA
CHRISTILLIN
La testimonianza di Evelina Christillin
"L’Avvocato lo disse subito,
questa partita non si deve giocare"
di Maurizio Assalto
"Questa
partita non si deve assolutamente giocare". L’Avvocato, quello che
si scrive con la maiuscola, Gianni Agnelli, lo aveva detto chiaro
a un altro avvocato, il fido Vittorio Chiusano, allora vicepresidente
della Juventus, prima di lasciare l’Heysel. Lo racconta Evelina
Christillin, oggi presidente del Museo Egizio e del Teatro Stabile
di Torino, allora giovane tifosa che in compagnia dell’Avvocato
non si perdeva una partita: "Ci univa la passione sciistica. Io
ero stata nella nazionale femminile e lui si divertiva a sciare
con me e mio padre, che era suo amico. La domenica mattina andavamo
in elicottero a Sestriere, poi nel pomeriggio allo stadio". Quel
29 maggio erano arrivati a Bruxelles con un aereo privato, con Cesare
Romiti, Francesco Paolo Mattioli e altri manager della Fiat, e subito
si erano diretti allo stadio. "Sugli spalti si vedevano dei movimenti,
gente che si picchiava. Si capiva che c’era una grandissima disorganizzazione,
sul campo gli agenti della polizia a cavallo si aggiravano come
anime in pena. L’Avvocato era contrariato, faceva amari commenti".
Poi il crollo della tribuna nel settore Z. "Ma da noi non
si vedeva bene, non si capiva. Non c’erano ancora i telefonini,
Internet...". Si capì di colpo quando arrivò un funzionario del
ministero dell’Interno. "Lo vidi parlare con l’Avvocato, e vidi
che lui faceva una faccia strana. A me accennò soltanto che c’erano
dei feriti, forse dei morti. Disse che dovevamo andare via, che
il ministero aveva mandato una vettura per portarci all’aeroporto".
Un ultimo flash, come in un’allucinazione, corpi allineati a terra
lungo il muro di cinta dello stadio, un viso insanguinato impresso
nella memoria. "Per tutto il percorso in macchina, e poi in volo,
restammo in silenzio". A Caselle, allo scalo dove atterrano i voli
privati, la sorpresa. Quando arrivava l’Avvocato c’erano sempre
ad attenderlo molti addetti. Quella volta, nessuno. "Lui si stupì,
chiese informazioni. Gli risposero: "Avvocato, sono tutti a vedere
la partita". "La partita... ?!". Al telefono, Boniperti gli spiegò
che erano state le autorità belghe a imporlo, per ragioni di sicurezza.
Lui non disse più nulla. Anche in seguito non parlammo mai più di
quel match. Era come se l’avesse rimosso. E quella coppa non l’ha
mai annoverata tra i trofei vinti".
29 maggio 2015
Fonte: La Stampa
A-Z |
UGO CIGNOLI
Il mio Heysel
di Ugo Cignoli
Da
quando incominciai a capire qualcosa dei gesti di quei signori che
in mutande rincorrevano una sfera di cuoio e mi resi automaticamente
conto di quale senso avesse il tatuaggio a strisce verticali bianconere
idealmente inciso sul mio cuore, ho sempre ritenuto che il vero,
unico traguardo a cui la Juventus dovesse ambire era quello della
Coppa dei Campioni. Di scudetti ce n’erano fin troppi in bacheca,
di Coppe Italia certamente a sufficienza. Quello che mancava era
lei: la coppa dalle lunghe orecchie simbolo di primato europeo.
Era già sfuggita alle legittime brame per ben due volte e sempre
con il medesimo risultato di vantaggio minimo per i nostri avversari:
la prima nella primavera del 1973 a beneficio dell’Ajax, la seconda
nella sciagurata serata del 25 maggio 1983 per la gioia dell’Amburgo
e di Felix Magath (nonché di tutti i tifosi non juventini). Quella
del 29 maggio 1985 era la terza occasione. Nella testa rimbombava
come un ordigno nucleare il proverbiale adagio "non c’è due senza
tre" che i gufi canticchiavano con beffardi sorrisini che in realtà
mal celavano la consapevolezza che stavolta la Juve poteva davvero
vincere: aveva gli uomini, il carattere ed aveva ricevuto il "battesimo"
della maturità l’anno prima a Basilea quando si alzò al cielo la
Coppa delle Coppe. Fu così, che vissi i giorni che anticiparono
quel 29 maggio 1985 combattuto tra speranze e paure ma accompagnato
da una certezza: ci sarei stato all’Heysel, e sì, ci sarei stato,
papà me lo aveva promesso ! Partii però solo, con la sfacciataggine
dei miei sedici anni e con l’equipaggiamento d’ordinanza: sciarpa
dei Fighters, cuffia bianconera ben assestata e maglia di Michel
sotto il giubbotto. Era una giornata limpida, tiepida, di inoltrata
primavera e niente, proprio niente faceva presagire quell’assurda
tragedia che si sarebbe consumata qualche ora dopo. Avevo un biglietto
di curva, settore "Z", un settore riservato nelle intenzioni dell’UEFA
ai tifosi non appartenenti alle compagini in lizza ma i cui tagliandi,
come prevedibile, furono preda dei tifosi juventini. Non era un
problema, io volevo vivere la partita, altro non mi interessava.
Giunsi allo stadio intorno alle 18.00, tardi per i miei gusti, e
notai subito qualche stranezza: c’era un unico accesso alla gradinata
di curva attraverso una porta molto piccola al cui fianco svettava
un cancello ben più grande, tenuto curiosamente chiuso, nessun controllo
significativo, gli inglesi, accatastati e già ululanti nel settore
contiguo, entravano introducendo senza problemi casse di birra (sì,
casse). Appena entrato la perplessità si tramutò in disagio: alla
mia sinistra si muoveva una massa informe di colore rosso sangue
che gridava ed emanava un fortissimo odore di alcool; la cosa sconcertante
era che a dividermi da quella massa c’era una doppia rete metallica
ad intrecci esagonali, tipo quelle dei pollai… Preferii, quindi,
appostarmi verso le gradinate più alte della curva, meno affollate
in quanto più lontane dal campo: si vedeva un po’ peggio ma si stava
comodi, magari più tardi sarei sceso di qualche gradinata per avvicinarmi
al campo. Iniziò una partita disputata da dei ragazzini tanto per
ingannare l’attesa spasmodica, sembrava tutto abbastanza tranquillo,
i tifosi organizzati della Juve erano nell’opposta curva; il settore
"Z" dove ero io ed il settore "X" erano sì feudi bianconeri ma frequentati
da tifosi più tranquilli ed assolutamente non organizzati. La gente,
intanto, continuava ad affluire e la curva conseguentemente a riempirsi.
Il termine della partita di intrattenimento, purtroppo, aveva lasciato
i nostri vicini in rosso nella disperazione più nera, non sapevano
più che fare per ingannare l’attesa e continuare a bere non era
più sufficiente, che fare allora ? Qualcuno si accorse che le gradinate
dell’Heysel se colpite con sufficiente forza mediante il tacco della
scarpa si sbriciolavano morbidamente come una bella forma di Grana
Padano e allora che cosa c’era di meglio da fare se non raccattare
quei bei pezzi di cemento ed iniziare a lanciarli verso i tifosi
vicini ?
Iniziò una sassaiola incredibile verso
di noi. Non ci pensai due volte, mi girai, in dieci secondi percorsi
le gradinate alle mie spalle ed imboccai quella porticina da dove
qualche tempo prima entrai. Mi ritrovai fuori dallo stadio, a venti
metri da quella mia via di fuga e potevo scorgere da sopra il muro
di cinta delle gradinate un gran polverone che si alzava, poi grida,
urla, gente che usciva spruzzando sangue dal cranio. Dio mio, ma
che stava succedendo ? Rientrai non so quanto tempo dopo, sembrava
ci fosse stato un terremoto: borse, portafogli, indumenti, scarpe,
bandiere, sciarpe giacevano sugli spalti e loro, le bestie rosse,
ricacciate nel loro settore, continuavano ad ululare ed ondeggiare,
qualcuno iniziava quella becera abitudine tipica degli eventi disastrosi,
lo sciacallaggio. Il muretto alla mia destra, verso la parte bassa
della curva, era crollato. Scesi verso il campo, le transenne erano
state abbattute, mi ritrovai in una bolgia. I poliziotti a cavallo,
giravano per il campo, ridevano non rendendosi conto dell’entità
della tragedia che si era consumata. Cominciai a capire cosa era
realmente successo quando mi avvicinai al muro crollato, costeggiato
da una stradina di servizio: vi erano accalcati almeno venti corpi
e li vidi tutti. Tutti fermi, immobili, neri, morti. Non sapevo
che fare, non sapevo che dire. Risalii in curva, eravamo rimasti
in pochissimi. La partita. Boh. Sarebbe mai iniziata ? I giocatori
scesero finalmente in campo, andarono sotto la curva opposta alla
mia, per calmare gli animi: i nostri minacciavano un’invasione di
campo, il regolamento dei conti era il chiaro intento. I giocatori
riuscirono a ristabilire una calma irreale. E poi, ancora attesa,
interrotta dall’inizio della gara. Seguii la partita, di cui ricordo,
peraltro, pochissimo ma nitidamente la lentezza e la totale assenza
di emozioni, fino al rigore su Zibì che Michel insaccò. Alzai le
braccia al cielo, sì, ma non proferii parola. Al fischio finale
attesi, invano, che qualcuno portasse anche a noi, "in prima linea"
quella coppa finalmente vinta. Uscimmo dallo stadio a testa bassa
ed alle prime luci dell’alba trovai mio padre all’aeroporto a riabbracciarmi
come se fossi reduce. Solo dopo, qualche ora dopo, il ricordo di
quel che avevo visto mi fece realizzare che cosa avevo realmente
vissuto ed a cosa ero sopravvissuto. Ancora oggi, ventidue anni
dopo, la ferita nel mio cuore è ancora aperta e mi fa male sentire
parlare di "coppa insanguinata" di "coppa sporca", di "vittoria
regalata", di "rigore inventato". La Juve quella coppa l’ha vinta,
insieme ai suoi tifosi, pagandola un prezzo altissimo. Chi dice
che quella partita non si sarebbe dovuta disputare non era là e
non può nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto se quei ventidue
uomini non fossero scesi in campo. Tanta amarezza e tanto dolore
si affievoliscono quando alla mente mi ritorna nitidamente la voce
calma, rassicurante e gentile che il nostro capitano Gaetano proferì
dagli altoparlanti in quei terribili momenti: "… non rispondete
alle provocazioni. Giochiamo per voi".
22 marzo 2007
Fonte: Magazine Bianconero
A-Z |
CIPRIANO
Lettera del tifoso Cipriano: "Heysel,
la mia testimonianza"
"Leggendo alcune
testimonianze di persone che hanno vissuto la tragedia dell’Heysel,
ho sentito il desiderio di far conoscere anche la mia, e sono idealmente
vicino a quanti non ci sono più ed ai loro famigliari che tanto
hanno sofferto e soffrono per quanto avvenuto 30 anni fa. Per quanto
mi riguarda da quel giorno sono stato 18 anni senza tornare allo
stadio, e solo da quando c’è lo "Stadium" ho ripreso a tornarci
qualche volta con la famiglia. Stamane in occasione del 30° anniversario,
con la moglie ci siamo uniti idealmente a tutti coloro che commemorano
le vittime di quell’assurda tragedia, assistendo in forma privata
alla Santa Messa in un Santuario Mariano. Ricordo perfettamente
tutto come fosse oggi, perché per me il tempo è come sia fermo a
quei momenti. Siamo partiti in 35 dal Friuli, e dopo 30 ore di viaggio,
all’esterno dello stadio abbiamo intuito la situazione: inglesi
ubriachi, a petto nudo, distesi a terra sotto il sole del pomeriggio
e bottiglie vuote ovunque. Per entrare allo stadio siamo passati
tra gli inglesi, prestando attenzione a non toccare involontariamente
quelli stesi a terra ubriachi. Il nostro ingresso (e usciata) era
una vecchia porta fatiscente in legno e larga meno di un metro,
e mentre attendavamo di entrare, la polizia a cavallo passava in
mezzo a noi per controllare i nostri oggetti, mentre gli inglesi
erano incontrollati ed indisturbati. Una volta entrati nel settore
"Z", abbiamo notato che le gradinate erano costituite da terrapieni,
il cui terreno friabile era tenuto compatto da dei lingotti in porfido
che poggiavano sopra dei tondini per getti in cemento armato, e
che la curva era stata divisa da una rete metallica come quella
che si adopera per recintare gli animali da cortile: da una parte
noi con i belgi e dall’altra gli inglesi. Non so attraverso quali
canali hanno acquistato i biglietti dei belgi chi ha organizzato
la trasferta. Gli inglesi seduti sopra le mura di cinta alle spalle
della curva, con il "passamano" facevano entrare bottiglie di birra
in quantità, oltre ad altri oggetti di vario genere, senza che alcun
poliziotto intervenisse: quelli presenti sul terreno di gioco in
prossimità della curva erano poche unità, e due che hanno cercato
di intervenire hanno dovuto fuggire per evitare di essere malmenati
dagli hooligans. Hanno iniziato a tirarci un po’ di tutto: anche
con i lanciarazzi ad altezza d’uomo, del tutto indisturbati. Dopo
di che aprono un varco nella recinzione divisoria e si posizionano
lungo la stessa dalla nostra parte, provocando l’arretramento dei
nostri e formando una "calca umana" per la riduzione dello spazio:
poi parte l’attacco e tutti noi correndo parallelamente al terreno
di gioco andiamo verso la parte opposta agli inglesi, ma io fortunatamente
mi sono fermato quasi subito perché mi sono reso conto che andavo
a accalcarmi con la massa, e fortunatamente nessuno di quelli che
mi seguivano mi ha travolto ! Mi sono comunque trovato in mezzo
alla "calca" e nel tempo che sono rimasto in balia degli eventi
ho sempre pensato di non farmi trascinare verso quel muro che poi
è crollato, cercando sempre di non perdere contatto con il terreno,
perché diverse volte non riuscivo a toccare terra perché venivo alzato
dalla "calca umana", e durante questo tempo interminabile talvolta
sentivo qualcosa sotto i piedi senza sapere se erano persone o zaini,
e cercavo di evitare le transenne metalliche che in quella situazione
sono state per qualcuno delle vere trappole. Dopo un tempo interminabile,
sono arrivato vicino al campo dove la recinzione dietro la porta
era
crollata: ero fuori dalla "calca" di qualche metro e mi sono trovato
faccia a faccia con alcuni inglesi che mi aspettavano impugnando
cocci di bottiglia, e fra me ed il campo c’erano distese a terra
diverse persone… Non me la sentivo di passarci sopra e così in un
attimo mi sono gettato "a pesce", cadendo con il busto oltre la
muretta ed ho visto sfilare l’orologio dal polso ma non mi sono
fermato a raccoglierlo… Mi sono rialzato e un poliziotto in tenuta
antisommossa ha alzato il braccio verso di me per colpirmi con il
manganello. Avevo lottato per portarmi in salvo, ed in quel momento
non avevo energie fisiche e mentali… Ho guardato il poliziotto allargando
le braccia con lo sguardo perso nel vuoto… E mi ha lasciato andare
per la pista, sotto la tribuna, in campo: ovunque ero solo, e mi
si avvicina un signore italiano ed incomincia a parlarmi chiedendomi
com’è successo e chiedendomi di me, ed io senza rendermene conto
ho rilasciato una breve intervista pubblicata sulla "Gazzetta dello
Sport" del giorno dopo, provocando un sovraffollamento di telefonate
a casa dei miei da parte di chi mi conosceva. Successivamente, ci
siamo ricongiunti in 5 del nostro pullman, e nel frattempo abbiamo
visto degli inglesi inneggiare ed espletare i loro fabbisogni fisiologici
nel nostro settore, dopo di che ci siamo recati all’esterno degli
spogliatoi dove abbiamo parlato con alcuni giocatori invitandoli
a non giocare la partita. Nel frattempo la polizia a cavallo minacciandoci
coi manganelli ci ha fatto abbandonare lo stadio, ed uscendo purtroppo
ci siamo imbattuti in coloro che avevano perso la vita, posizionati
nell’antistadio. Abbiamo girovagato attorno allo stadio e per le
vie di Bruxelles alla ricerca di una cabina telefonica per avvisare
casa, ma non riuscivamo a connetterci, così dopo essere tornati
al pullman attraverso un boschetto e con il timore di incontrare
inglesi a caccia di juventini, quando eravamo tutti presenti ci
siamo recati in un ospedale perché avevamo fra noi alcuni feriti,
fortunatamente non in gravi condizioni. Al mattino verso le ore
6 sono riuscito a parlare con mia madre, ed in quel momento ho scaricato
tutta la tensione accumulata in un pianto dirotto. Vorrei tanto
che lo stadio fosse un luogo di divertimento e socializzazione".
Cipriano
30 maggio 2015
Fonte: Tuttojuve.com
A-Z |
GIOVANNI
CISCO
Il miracolato
Quando
il caso ti salva la vita, quando la decisione di un attimo ti permette
di tornare sano e salvo dai tuoi cari. Momenti scolpiti nella memoria,
anche a 30 anni di distanza. Giovanni Cisco, imprenditore di Arzignano,
aveva 17 anni quando, diventato tifoso della Juve dopo essersi innamorato
delle gesta di Paolo Rossi in biancorosso e in bianconero, raggiunse
Bruxelles in aereo assieme allo zio Pietro Zini, al cugino Luca
Zini e all'amico di famiglia Paolo Bagni. "Prima di raggiungere
lo stadio - ricorda - abbiamo passato una giornata stupenda visitando
Bruxelles e incontrando addirittura Bruno Pizzul all'interno di
un ristorante. Numerosi i tifosi del Liverpool che giravano ubriachi
per la città, ma tutto sommato risultavano simpatici. Eravamo convinti
che con il biglietto in nostro possesso saremmo andati in tribuna
e invece, quando alle 18 siamo entrati allo stadio, ci siamo ritrovati
nel settore Z, quello destinato ai tifosi locali e al tifo non organizzato.
Entrati da una porticina posta nel punto superiore del settore,
ci siamo diretti subito verso il muro esterno della curva, ma ci
siamo rimasti solo 5 minuti ed è stato il primo colpo di fortuna,
perché poi in quel punto si sarebbero ammassati i tifosi in fuga
e poi quel muro sarebbe crollato. Abbiamo deciso di spostarci più
vicino alla rete che ci divideva dagli inglesi: secondo colpo di
fortuna, perché poco dopo dalla curva del Liverpool sono cominciati
a volare bottiglie, sassi e pietre, che ci scavalcavano. Se fossimo
stati più distanti dalla rete forse ci avrebbero colpiti. Quando
la rete è stata sfondata ricordo gli hooligans che mi correvano
davanti per raggiungere il folto del gruppo italiano. Paolo Bagni
ha gridato "Andiamo via che ci uccidono !" e a quel punto siamo
corsi verso la stessa porticina da cui eravamo entrati. E‘ stato
il panico ! Abbiamo impiegato 15 minuti per uscire, ho rischiato
di rimanere sepolto dagli altri che spingevano, mio cugino mi ha
tirato su di forza. Una volta fuori, ho visto un uomo che grondava
sangue dalla testa, ho visto polizia, ambulanze e pompieri che accorrevano,
ma non sapevamo cosa in realtà stava accadendo all'interno. Dopo
40 minuti mio zio è rientrato per vedere se la situazione si era
calmata. Tornò indietro dicendo che si parlava di alcuni morti,
ma che tutto ora sembrava tornato alla normalità. Quando siamo rientrati
ricordo che il settore sembrava un campo di battaglia: scarpe, maglioni,
portafogli, giornali, giacche e altri oggetti ricoprivano completamente
gli spalti. Vedevo gente a terra sulla pista di atletica e persone
che venivano portate via utilizzando transenne come barelle, ma
non ci si rendeva conto della gravità dell'accaduto. Quando la Juve
segnò, abbiamo esultato...". I contorni della tragedia divennero
più chiari al ritorno in aeroporto, quando Paolo Bagni telefonò
alla moglie e colse dalle sue parole la disperazione per le immagini
viste in televisione. Tornato ad Arzignano a notte fonda, prima
di andare a letto Giovanni Cisco vide con il padre la registrazione
della diretta Rai: "A quel punto ho capito tutto, solo allora mi
sono realmente reso conto della tragedia che si era consumata sotto
i miei occhi". Giovanni Cisco per 5 anni non fu più in grado di
frequentare luoghi affollati. Ancora oggi, quelle poche volte che
va allo stadio sceglie un posto in tribuna, ed evita di andare ai
concerti. Il giorno del trentesimo anniversario dell'Heysel il figlio
di 9 anni gli ha chiesto di raccontare. "Abbiamo guardato insieme
i video su YouTube... Dopo 5 minuti sono stato male, ho dovuto spegnere
il computer... " .
Giugno-Luglio 2015
Fonte: Corriere Vicentino
A-Z |
ALESSANDRO COLOMBO
Heysel, 35 anni dopo la
strage.
Alessandro: "sopravvissuto
affrontando i tifosi inglesi"
di Alessio Colombo
29
maggio 1985. Trentacinque anni fa la notte più buia della storia
del calcio allo stadio Heysel di Bruxelles. Nel maledetto
settore Z, in cui persero la vita trentanove persone - trentadue
delle quali italiane - c’era anche Alessandro Colombo: tradatese
all’epoca 21enne tifoso bianconero, riuscì a sopravvivere a una
delle tragedie umane più terribili, consumatasi negli attimi
immediatamente precedenti la finale di Coppa Campioni tra
Juventus e Liverpool. Da quel giorno, per lui come per migliaia
di altri appassionati, assistere ad una partita non è stata più
la stessa cosa. "Siamo arrivati a Bruxelles nel pomeriggio e ci
siamo diretti subito allo stadio - racconta Alessandro,
giornalista responsabile della comunicazione di un ente
pubblico, già collaboratore di diverse testate locali e
nazionali, che di quella serata conserva ancora il biglietto.
Uno stadio vecchio con le gradinate tutte rotte, sassi e pietre
a terra ovunque. Abbiamo atteso nel prato davanti all’ingresso
sotto il sole assieme agli Inglesi che arrivavano con casse di
birra e bevevano. Quando siamo entrati allo stadio erano già
ubriachi". Le condizioni per garantire sicurezza sugli spalti
erano del tutto inesistenti: una piccola e fragile rete non è
bastata a dividere le ordinate famiglie e i giovani faziosi
della Signora posizionati nel maledetto settore Z dagli
irrequieti supporters dei Reds. "Io, già reduce dalle trasferte
di Atene, finale di Coppa Campioni 1983 persa (0-1) con
l’Amburgo, e di Basilea, finale di Coppa delle Coppe 1984 vinta
con il Porto (2-1), ero arrivato a Bruxelles in pullman da
Tradate assieme ad altre 50 persone. Dodici ore di viaggio", di
speranza perché quella per i tifosi juventini poteva essere la
serata del riscatto. Perché quella era la Juve più forte di
tutte, incoronata dai tifosi stessi, allenata da Giovanni
Trapattoni, appesa alle prodezze di Michel Platini che di fatto
quella serata la deciderà, con un rigore che spiazzò Bruce
Grobbelaar, il portiere giocoliere che non avrebbe faticato ad
ammettere l’innocente imbarazzo di quei novanta minuti,
tutt’altro che una finale. Fu piuttosto un atto di estrema
carità verso dei propri tifosi. "Giochiamo per voi", scandì
Gaetano Scirea, capitano della Juventus, prima del match, prima
di prendersi la responsabilità di sollevare il trofeo più
pesante di tutti, mentre la passione di migliaia di tifosi,
travolta dall’irreparabile, giaceva al suolo indifesa. "Un’ora
prima dell’inizio della partita - il calcio d’inizio era stato
fissato per le 20.15 - gli Inglesi hanno cominciato a lanciare
verso di noi bottigliette di vetro piene di terra e sassi ad
altezza uomo. La folla impaurita non ha reagito ma ha cominciato
ad indietreggiare". Quasi un invito per gli hooligans che in un
tragico delirio di onnipotenza prendevano coraggio per caricare
nuovamente. "Tutti si sono ammassati verso il basso della curva
creando una calca tremenda e schiacciando le persone. Io sono
rimasto verso l’alto della tribuna e ho cercato di scavalcare il
piccolo muretto per uscire dallo stadio. Ovviamente la folla era
tanta e ti tiravano giù per poter salire loro e scappare". È
quello il momento in cui l’istinto di sopravvivenza, innato
nell’essere umano, fa brillare nella mente sconvolta di
Alessandro un ultimo lampo di astuzia. "Non riuscendo a
scavalcare ho deciso di provare ad uscire dalla porticina
d’ingresso - continua lui - Mi sono liberato della sciarpa che
avevo al collo e per raggiungere la porta d’uscita sono andato
verso gli Inglesi che avanzano. Non so come e non so perché ma
sono passato in mezzo a loro senza che nessuno mi toccasse. Così
ho raggiunto la porta d’uscita dove nel frattempo stavano
entrando i poliziotti a cavallo". Un dettaglio che pare quasi
anacronistico, anche a distanza di anni, ma che dipinge con
realistica precisione un ritratto di perversa assurdità. La
sconfitta del genere umano trasmessa in mondo visione. Scorre di
fronte ai suoi occhi la materializzazione di un incubo che nulla
ha a che fare con il calcio. E nella confusione di istanti
interminabili c’è solo una cosa da fare: salvare la pelle e
cercare di informare i propri cari, che verranno raggiunti dalla
notizia con inevitabile ritardo. "Una volta fuori dallo stadio
sul prato c’era gente insanguinata, gente che piangeva e gente
che vagava senza sapere dove andare. Ho ritrovato alcuni miei
amici e insieme ci siamo recati verso il pullman, siamo saliti e
abbiamo aspettato fino a dopo mezzanotte prima di poter
ripartire verso casa. Quattro ore in pullman sentendo la radio
che annunciava i morti e aspettando la fine della partita e
l’uscita dei tifosi inglesi prima di poter ripartire. Altre
dodici ore di viaggio in assoluto silenzio. Con tanta paura ma
una consapevolezza: in fondo - riflette Alessandro - noi
c’eravamo salvati tutti".
29 maggio 2020
Fonte: Varesesport.com
A-Z |
LUCA CONFORTI
E se fosse meglio così...???
"Non
prendetela come una provocazione, o peggio come una mancanza di
rispetto, ma solo per quello che è... Cioè una riflessione, un pensiero
personale. In questi giorni da parte di noi gobbi, si è fatta forte
la richiesta affinché la Juventus F.C. si faccia carico della promessa
riguardo la realizzazione nel nuovo stadio, della Sala della Memoria
per i 39 morti dell'Heysel. Raccolta di firme, di richieste, questa
volta anche da parte di alcune famiglie delle vittime. Invio di
raccomandate, blog in tilt, e decine di post su FB, tutto rivolto
a questa richiesta. Premesso che anche io ho aderito, oggi mi è
venuto un dubbio, spinto da un moto di orgoglio... Rabbia... Che
sicuramente ci accomuna tutti. E se fosse meglio così...??? E se
in fondo fosse meglio che la Juventus F.C rimanesse nel vergognoso
silenzio e fastidio per la vicenda che l'accompagna da quella sera...??
Noi e solo noi, li abbiamo nel cuore e nella mente da quella sera,
per chi era là… Per chi l'ha vista alla tv, per chi troppo giovane
ne ha solo sentito parlare, per chi da quel giorno è diventato più
doloroso e difficile mettere piede in uno stadio, forse non serve
una Sala della Memoria elemosinata seppur a ragione alla Juventus
F.C. A noi che avremmo voluto fosse dedicata a loro ogni vittoria
da quel giorno... A noi che con mille striscioni li ricordiamo sempre...
A noi che per anni andando al Delle Alpi passando per "Viale Caduti
di Superga", ci chiedevamo perché nessun viale limitrofo portasse
il nome dei 39 angeli... A noi che avremmo voluto che a Roma dalle
mani di Vialli la coppa passasse in quella dei loro cari dedicandogliela...
A noi che ci mangiamo il fegato guardando come sono ricordati sul
sito del Liverpool... O dentro l'Anfield… A noi che andremo al "Conad
Stadium"... A noi che ci tocca leggere sul sito della Juventus F.C.
che quella "è la coppa più bella... nella serata più tragica"...
A noi che moriamo di rabbia quando in ogni stadio ce li insultano,
senza che nessuno mai senta e abbia nulla da ridire... Ecco forse
a noi basta ciò che sentiamo per loro, senza voler a tutti i costi
che la Juventus F.C. ci dia, o meglio dia ai 39 angeli ciò che gli
spetterebbe di diritto. Forse li ricordiamo meglio nel nostro modo
più puro... Più forte... Più vero... Più dolce... Senza condividerle
con chi da quella sera è assente... Silenzioso... Infastidito...
Con chi nemmeno è stato capace di commemorarli insieme a noi lo
scorso anno, ma lo ha fatto di nascosto come fosse una riunione
massonica. Ecco personalmente ho il dubbio di non volere nulla da
questa gente, capace magari di pretendere un biglietto o una member
per visitarla. La Sala della Memoria è dentro ognuno di noi lo abbiamo
capito... Dimostrato... Vissuto in tutti questi anni, forse è meglio
lasciare gli indegni fuori dal tempio. E poi personalmente non credo
proverei un’emozione maggiore di quella che provo ogni volta che
visito il sito creato da Domenico Laudadio. Ogni volta mi assale
un dolore... Un’angoscia... Sentire quella musica... Insieme a un
silenzio tutto intorno da far tremare la mano nel far scorrere piano
il resto della pagina. Quella è la mia Sala della Memoria... Fatta
col cuore... Con amore... Con rabbia... Tra mille difficoltà...
Grazie Domenico. Noi milioni di gobbi da quella sera, portiamo quella
stanza dentro di noi... In giro per l'Italia e nel mondo. La Juventus
F.C. da Galleria San Federico... Da P.za Crimea... A C.so Galfer...
Da Boniperti… Alla Triade... Per finire agli indegni... Porta a
spasso la propria stanza del silenzio e della vergogna"...
Luca Conforti
29 maggio 2011
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
N.D.R. Luca Conforti era presente il 29.05.1985
a Bruxelles ed ha personalmente scoperto tutti i teli che ricoprivano
i cadaveri distesi sul piazzale dell'antistadio dell'Heysel in cerca
di suo padre, il quale fortunatamente non era fra quei morti. Quando
si vive una esperienza drammatica di tale portata è comprensibile
e giusto raccogliere tutte le parole da chi l’ha patita frutto del
dolore e della rabbia.
A-Z |
GAETANO CONTE
Sono stato all’inferno.
Gaetano Conte:
"All’Heysel sono morto un po’ anch’io"
di Francesco Casula
Trent’anni fa la tragica finale
Juventus - Liverpool. Parla il tarantino che si salvò per miracolo
TARANTO
- La partita non l’ha mai vista. Nemmeno in tv. "Mi ricordo tutto.
Tutto, tranne cinque minuti in cui sono morto. Perché io sono morto
in quella curva Z: da allora non ho mai più messo piede in uno stadio
e non ho mai voluto rivedere quella partita". Gaetano Conte, tarantino
classe 1940, di quella finale insanguinata all’Heysel conserva solo
il tragico ricordo. Non ha visto il rigore di Platini e nemmeno
l’esultanza che scatenò le polemiche. Non ha mai nemmeno sentito
il commento "più asettico e imparziale possibile" di Bruno Pizzul.
E mentre qualcuno a Torino festeggiava la vittoria dei bianconeri
sul Liverpool, lui era in ospedale: "Venne un infermiere e in francese
mi disse che avevamo vinto per 1 a 0. Pensai che almeno qualcosa
la portavamo a casa". Quel 29 maggio di trent’anni fa partii con
tre amici e un ragazzo disabile che sognava di vedere la finale
della Juve: "Portai con me un ragazzo disabile. Aveva 15 anni e
per fargli vedere la partita qualche settimana prima andai al Comune
e lo feci inserire sul mio stato di famiglia. In quella bolgia è
stato il mio unico pensiero: quando riuscii a metterlo in salvo
caddi per lo sfinimento. Lì cominciò l’inferno. La folla mi travolse
e persi i sensi. Quando pochi minuti dopo mi risvegliai avevo le
gambe bloccate dalle macerie e davanti a me c’era un uomo con la
telecamera. Ricordo di aver letto "Italia" sulla macchina da presa
e iniziai a urlargli di aiutarmi, ma lui continuava a riprendere.
Gli dicevo di tirarmi fuori dalle macerie, ma quello continuava
a girare. Qualche tempo dopo mi dissero che aveva vinto anche un
premio. Ci pensa ? Io stavo morendo e lui aveva vinto un premio".
Lo calpestarono così tanto che oggi le sue gambe sono livide e per
sopportare il dolore deve prendere due pillole al giorno. Ma non è quello fisico il peso
maggiore da sopportare.
"Quando riuscirono a tirarmi fuori mi sistemarono
su una barella di fortuna. Accanto a me c’era il corpo di una bambina.
Avrà avuto 14 o 15 anni: aveva la gola tagliata. Ho passato tre
giorni e tre notti a piangere". Non l’ha mai dimenticata. Come non
ha dimenticato i dettagli che hanno preceduto l’inferno: "Mi ricordo
gli inglesi che bevevano: forse mettevano la cenere delle sigarette
nella birra e pochi minuti dopo diventavano cavalli in battaglia".
Non ha parole di rancore per nessuno. Anzi. Ha rotto il silenzio
a distanza di tre decenni per continuare e proclamare l’amore per
i suoi colori. "L’amore per mia moglie è cambiato, ma non per la
Juve" afferma sorridendo. Gli occhi scuri, la barba bianca e rada,
le mani forti di chi ha trascorso una vita a contatto con il mare:
"Fino a quel giorno ho seguito la Juve e il Taranto ovunque: ai
giocatori rossoblu davo il pesce
buono e loro mi regalavano i biglietti
per lo stadio. Ma dopo quel giorno tutto è cambiato: ho lasciato
il calcio. Qualche tempo fa ho pensato di tornare allo stadio: volevo
vedere la Juve che sollevava la coppa e così ho chiesto ai miei
figli di inviare una mail alla società: ho detto chi ero, quello
che avevo passato e ho chiesto due biglietti per Berlino. Mi hanno
risposto che i biglietti sono numerati e nominativi e che dovevo
accontentarmi di vedere Juve-Napoli. Mi sento un po’ tradito, ma
solo perché in questi 30 anni non ho mai chiesto nulla alla società.
Per curare le conseguenze di quella finale: ho girato l’Italia,
ma non c’è niente da fare, mi devo tenere il dolore. Pensavo solo
di ricominciare da dove avevo lasciato e invece la dovrò guardare
in tv. Peccato. Però vinciamo noi, ho giocato un biglietto con il
risultato finale". Apre il portafogli e mostra il tagliando di una
scommessa: "Questo è il risultato finale. Sicuro". E così mentre
il mondo commenta l’inchiesta dell’Fbi sulla Fifa, Gaetano sogna
ancora di vedere la sua Juve che alza al cielo la coppa dalle lunghe
orecchie. Quella coppa di trent’anni fa, ma senza il sangue di quella
bambina.
29 maggio 2015
Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno
A-Z |
ALFONSO CORRADINI
Non si può morire per una
partita di pallone
Io, quel pomeriggio, ero nel
settore "Z" di quel maledetto stadio. Gli inglesi furono la
mano, ma quella mano fu armata dai responsabili dell'ordine
pubblico e dall'UEFA.
Quella
curva era divisa in due settori, un settore fu venduto ai club
della tifoseria del Liverpool, l'altro settore, il settore Z, fu
venduto in Belgio, e quei biglietti furono comperati da
emigranti italiani, e belgi che volevano solo guardare una
partita. Noi eravamo in quattro, ed un nostro amico, residente
in Belgio ci prese i biglietti. Arrivammo allo stadio il
pomeriggio ed il clima era buono, ma quando ci avvicinammo ai
cancelli subito si capì che le cose prendevano una brutta piega.
Dalla parte inglese la pressione della folla aveva messo in fuga
gli addetti ai cancelli di tutta la curva. Noi siamo entrati
senza che nessuno ci avesse strappato il biglietto e tanto meno
controllato. Dalla parte del Liverpool entravano tutti e di
tutto senza alcun controllo. Entrarono il doppio di persone che
il settore poteva contenere; l'alcool scorreva a fiumi, la
recinzione era sfondata. Verso le 17.00 arrivarono due
poliziotti a cavallo; scapparono con affanno per non essere
divorati, loro ed i cavalli, dalla folla inglese...
Eravamo entrati presto e ci eravamo posizionati quasi al centro
della curva, vicino al divisorio dei due settori. La divisione
dei settori era fatta da due reti metalliche molto leggere,
simili a quelle che si usano per i pollai, con in mezzo un
piccolo corridoio. Ad un certo punto gli hooligans cominciarono
a premere sulla prima rete lasciando intuire quanto fosse
insussistente quella protezione. Uno di noi quattro: Renato, che
aveva conosciuto la violenza degli inglesi in una semifinale con
il Manchester United a Torino, fu preda di una sana paura e ci
costrinse a spostarci verso lo spigolo alto della curva. Io ero
contrario, non volevo lasciare quel posto ottimale per andare in
un punto dalla visuale limitata, ma Renato, con la sua
determinazione, ci salvò la vita. Quando gli hooligans
cominciarono a bucare la prima recinzione intervennero nel
corridoio quattro poliziotti, questo fece imbestialire ancora di
più gli inglesi che incominciarono una prima, corta, sassaiola.
I quattro poliziotti scapparono a gambe levate precipitandosi a
sprangare un cancelletto che si trovava nel vertice basso del
settore "Z"; era l'unica via di fuga verso il campo del settore.
I quattro poliziotti ed i due precedenti a cavallo, sono stati i
soli rappresentanti dell'ordine pubblico che quel giorno ho
visto nello stadio. Le reti che dividevano i settori vennero giù
come le foglie al vento autunnale. Incominciò l'inferno...
Sulle nostre teste piovevano oggetti come fosse un temporale
d'Agosto, ma al posto delle gocce d'acqua cadevano pietre,
sassi, bottiglie, lattine, razzi e petardi di ogni genere. Da
una parte c'erano ultras abituati alla violenza, violenza di cui
si nutrivano abitualmente negli stadi, dall'altra gente normale
che voleva solo vedere una partita, persone, che come me, non
avevano mai sferrato un pugno in tutta la loro vita. Sotto la
pressione della ferocia inglese il settore fu preda del panico
più assoluto. La folla si ritirò verso la parte sinistra della
fine della curva, contro quel famoso muro, fino a farlo
crollare.
Le 39 vittime morirono schiacciate, l'una contro
l'altra, compresse da una forza indescrivibile: la forza
sprigionata da una folla in preda al panico più totale. Noi
quattro ci eravamo spostati nello spigolo alto del settore, a 5
o 6 metri da un chioschetto che vendeva gelati, in quella ressa
impiegammo 15 minuti a fare quei 5 o 6 mt. fino al chiosco; una
volta raggiunto saltai sul tetto come un gatto, aiutato da un
uomo che era già sopra, nell'85 avevo 22 anni. Mi fermai sul
tetto ad aiutare a salire 4-5 forse 6 persone, fino a che montò
su un ragazzo che aveva più o meno la mia età, questi mi disse:
"SALTA ! Ora mi fermo io ad aiutare gli altri". Alzai lo
sguardo, ed ho un solo ricordo: una ragazza che inciampa nella
terra di nessuno, rotola, e viene fagocitata dalla massa rossa
che avanza. Mi arrampico sul muro della recinzione alta della
curva, oltre un volo di 5 o 6 metri verso la scarpata di terra
esterna che conteneva la struttura. Saltammo e nessuno di noi si
fece male. Eravamo fuori, salvi ed illesi; lassù qualcuno ci
aveva preso per mano. Passammo vicino al varco carrabile
d'ingresso allo stadio, dove era già caduto il muro, e c'erano
una o due ambulanze con medici e paramedici che avevano steso
tre corpi sull'asfalto. Mi avvicinai ad uno di loro e chiesi, in
francese, se ci fosse stato bisogno di aiuto, mi rispose che
erano in arrivo altre ambulanze e gli illesi era meglio si
fossero allontanati per non intralciare i soccorsi. Obbedì. Nel
frattempo, da una cabina, Renato riuscì a telefonare alla madre;
poche parole: "siamo fuori dallo stadio e stiamo bene, qualsiasi
cosa tu veda in TV noi quattro siamo fuori e stiamo tutti bene.
Avverti le altre famiglie". Solo il giorno dopo riuscimmo a
ricontattare l'Italia a causa della congestione delle linee. Ci
mettemmo in macchina verso Hasselt, luogo dove il nostro amico
ci ospitava. Quel viaggio fu pervaso da un silenzio surreale,
parole gelate in gola che uscirono solo a distanza di mesi,
forse anni. Quando in TV vedo immagini di repertorio che fanno
vedere tutti quei poliziotti intorno al campo da gioco mi
ribolle il sangue. Era sufficiente che un decimo di quelle forze
dell'ordine fossero presenti il pomeriggio per evitare la
strage. Se penso a chi ha deciso di far disputare quella finale
in un vecchio stadio fatiscente come l'Heysel, ed ha avuto la
brillante idea di vendere i settori Y e X agli hooligans e lo Z
in Belgio, terra di migranti italiani, rifletto sull'infinita
stupidità umana. Non si può morire per una partita di pallone.
2 agosto 2016
Fonte: Facebook
(Gruppo
Io non
dimentico Heysel)
A-Z |
"Guarda, attaccano". l’Heysel trent’anni
dopo.
Gli hooligans e la Coppa come una
partita diventò una tragedia.
La notte del calcio
di Maurizio Crosetti
29 maggio 1985 Il tramonto, il
presagio, l’attesa: poi l’invasione del settore Z in cui si trovavano
le famiglie italiane. Juventus-Liverpool doveva essere la sfida
più bella. Finì con trentanove vittime.
La
ragazzina aveva piccole labbra rosse di sugo, come se avesse mangiato
marmellata di fragole e poi si fosse addormentata. Il cielo era
invece di un rosso più tenue, soffuso e morbido, voleva prendersi
tutta l’aria. I tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico
molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli italiani, forse
dipendeva proprio dal colore dominante. I muri di pietra della città
avevano, infine, un tono rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni
parevano croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una
specie di minaccia impossibile da chiamare per nome. Trent’anni
sono un tempo definito, esatto. I figli riescono a trovare un lavoro
e magari sposarsi, un mutuo si estingue finalmente, e una carriera
lavorativa si completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre
quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in disordine ma
anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel giorno.
La città era lurida,
la percorrevano ruscelletti di birra e piscio. Alle dieci di mattina,
la Grand Place era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi
ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le teste appoggiate
a cartoni di bottiglie usate come cuscini. A un certo punto, da
una finestra d’improvviso spalancata volò un oggetto di cristallo,
una specie di centrotavola scagliato per disperazione contro la
marea urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si rischiava
di ferirsi anche solo passeggiando, nell’attesa della partita. Ed
era un giorno tiepido, dolcissimo. Arrivammo allo stadio Heysel
su un autobus con sopra scritto "Italian press", non proprio un’ideona:
un gruppo di rossi feroci si accostò ululando, e quando scendemmo
ci vomitarono addosso gli aliti alcolici. Era dunque questa, la
partita più bella del mondo ? Saranno state le sei del pomeriggio,
salimmo subito in tribuna. Il tramonto era meraviglioso, proprio
dietro la curva alla nostra sinistra, quella del settore Z e della
tragedia. Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i grandi
eventi sportivi, l’appassionato respira tutto, ricorderà tutto,
figurarsi l’inviato giovane alla prima trasferta vera. Non c’erano
telefonini, si scattavano foto con gli occhi.
Poi, di colpo, verso
le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un
mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra
verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. "Guarda, attaccano !", disse
qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza
stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando
da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero
a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio
e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano
a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio
cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi
calpestati, schiacciati, soffocati. Dalla tribuna si capiva e non
si capiva. "Ci sono dei morti", disse una voce, e subito ci precipitammo
giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati,
cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto.
Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come
barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando
nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e
medici, ancora meno. C’era morte dappertutto. Trent’anni sono un
tempo lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello c’è
solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì dentro, chi sceglie,
chi scarta. Malinconia per le nostre vite intatte. Nel ricordo c’è
l’uomo con la pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella
collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è il ragazzo
con la gola tagliata, è una tracheotomia: morirà entro pochi istanti.
C’è un silenzio assurdo. C’è la ragazzina con la marmellata sulle
labbra piccole. Porta scarpette bianche e blu. Persone attorno,
tante. Ora sale anche il rumore. La gente italiana vede i pass che
penzolano al collo dei giornalisti, allunga mani, porge foglietti
con numeri di telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma
che sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet in quella
preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi di Tuttosport avevamo
un telefono a disco di bachelite nera e sì, qualcuno di quei numeri
ignoti lo componemmo ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare
i pezzi a braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle
Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un disperato
racconto nel buio, una pioggia di parole intrise di sangue. Non
si poteva comprendere, c’era solo da guardare, salire e scendere
scale, descrivere come meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso
di inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla vergogna
di prendere appunti. Eravamo bimbi tra i lupi.
Il resto lo sanno tutti.
Gli appelli dei capitani di Juve e Liverpool, la voce del povero
Scirea (è ancora viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza,
il sussurro di un uomo buono, "restate calmi, giochiamo per voi"),
la partita che comincia alle 21.40 invece che alle 20.15 (allora
le finali iniziavano alle otto e un quarto e c’era solo la Rai,
solo la cadenza sbigottita e impotente di Bruno Pizzul). I rossi
e i bianconeri, il fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro
dà il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia roteando
il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa, irreale, e la gara
non fasulla perché c’è qualcosa di diabolico e disperato nella resistenza
umana. Vince la Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio,
un collega più anziano, piange accanto al cronista ragazzino, e
ripete "è finita, adesso è finita". Saranno trentanove, i morti,
in fondo a quella fine che invece ricomincia ad ora incerta, almeno
una volta all’anno ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari
tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei parenti come
Otello Lorentini che li rappresentava tutti, e adesso anche lui
se n’è andato. La fine ricomincia nell’imboscata di certi sogni,
o nella memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi, passione,
pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine, stanchezza, viaggi,
città, parole. E sempre ritornano quelle labbra piccole, rosse,
che non avranno baci, mai più.
26 maggio 2015
Fonte: La Repubblica
A-Z |
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