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4 Tifosi Cabiatesi
Curva Settore Z
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4 Tifosi Cremonesi
Curva Settore Z
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Giorgio Calvaresi
Curva Settore Z
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Alberto Capella
Curva Settore Z
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Gianni Carpitelli
Curva Settore Z
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Luigi Carriera
Curva Settore Z
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Valerio Cavagnetto
Tribuna 2
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Battista Cenere
Curva Settore Z
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Claudio Chiarini
Curva Settore Z
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Evelina Christillin
Tribuna d'Onore
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Ugo Cignoli
Curva Settore Z
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Giovanni Cisco
Curva Settore Z
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Alessandro Colombo
Curva Settore Z
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Luca Conforti
Curva Settore
M-N-O
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Gaetano Conte
Curva Settore Z
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Alfonso Corradini
Curva Settore Z
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Maurizio Crosetti
Tribuna Stampa
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"Heysel, serata
maledetta"
I ricordi di quattro cabiatesi
L’anniversario. A Bruxelles 33 anni fa persero
la vita 39 tifosi della Juventus. "Dentro il caos, fuori
la fuga dagli hooligan. E senza potere chiamare a casa".
Di solito i "vecchi amici" si
ritrovano per ricordare un momento felice. Bartolo
Longo, Davide Galli, Massimo Mauri e Maurizio Cazzaniga,
hanno fatto una rimpatriata, 33 anni dopo la finale di
Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. I quattro
super tifosi cabiatesi, erano presenti, il 29 maggio
1985, sulle tribune dello stadio Heysel a Bruxelles, per
quella tragica finale. Gli attacchi di alcuni tifosi dei
Reds, provocarono la caduta di un muro del vecchio
impianto belga. Nella calca, morirono 39 persone, nella
stragrande maggioranza italiani. "Aspettavamo quella
partita da settimane" - ricorda Maurizio Cazzaniga. "Lo
Juventus Club Cabiate era riuscito ad organizzare la
trasferta. A Bruxelles siamo andati in pullman". I
cabiatesi, per fortuna, non erano nel settore dove si
sono verificati gli incidenti. "Abbiamo visto il fuggi
fuggi ma non sapevamo minimamente cosa fosse realmente
successo" - prosegue Cazzaniga. "Abbiamo iniziato ad
allarmarci quando i due capitani, per la Juventus il
compianto Scirea, hanno letto un appello, sottolineando
che la partita si sarebbe giocata, per motivi di ordine
pubblico". E quando sono arrivati in Francia non gli
hanno neppure permesso di cambiare i soldi per fare una
telefonata a casa.
Fonte: Laprovinciadicomo.it © 30 maggio 2018
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Mezzogiorno © Repubblica.it ©
Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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"Noi, scampati
all’Heysel"
Quattro cremonesi erano nel Settore Z e
raccontano la tragedia del 29 maggio 1985.
"Questo
biglietto era il regalo per i miei 25 anni". Mario
Padroni leva il tagliando un po' ingiallito dal
taschino. "Stade du Heysel 29/5/85". Era costato 300
franchi belgi. Tre lettere stampate cubitali: X e Y,
cancellate a pennarello (lì andavano i tifosi inglesi),
e la l. "Era il settore riservato ad una parte di tifosi
juventini. C'erano famiglie, bambini e gruppi di amici.
Come noi". Mario Pedroni, Ivano Corradi, Luigi Dassi e
Luigi Tamagnini salgono sul pullman a Cremona. Poi in
treno: Milano-Bruxelles. "Avevo detto a mia mamma
ricorda Mario, oggi titolare di un’azienda di grafica e,
in qualità di delegato provinciale Fidai, organizzatore
della Maratonina di Cremona, di guardare bene in tv.
Ricordati di fare attenzione quando inquadrano il
settore Z. Magari mi vedi". Il pre-partita non lascia
presagire quello che sta per succedere: "Nel piazzale
dello stadio eravamo mischiati con i tifosi del
Liverpool. Scambiavamo magliette, sciarpe, scattavamo
foto. Abbiamo persino improvvisato una partita a
calcetto nel parcheggio". Anche dentro lo stadio tutto
fila liscio. Finché ci siamo accorti che nel settore
vicino stavano arrivando gruppi di ultras inglesi,
probabilmente senza biglietto". Il settore non li
contiene: "Lo stadio - ricorda Dassi - era fatiscente,
il cemento si sgretolava sotto i piedi. E la sicurezza
quasi inesistente". La folla fuori controllo preme
contro la rete sottilissima che divide le tifoserie. E
sfonda. "Sono iniziati ad arrivare nel nostro settore
razzi ad altezza uomo. Ero terrorizzato". L’orda
hooligan sconfina nel settore Z e preme. Un casco da
poliziotto rotola fino ai piedi di Luigi. I quattro
amici cremonesi si perdono subito. "Sopra di noi pioveva
di tutto - racconta Mario. File di lattine di birra
ancora piene e pezzi di cemento staccati dalle
gradinate". Ma lì non ci si muove. "Non potevo alzare le
braccia per proteggermi da quello che veniva lanciato.
Più volte me la sono vista brutta. Mancava l'aria,
ricordo le labbra secche, disidratate. E le scene di
panico". Gigi Dassi riesce a entrare in campo nonostante
la polizia belga, impreparata e completamente
disorientata, a cavallo, cercasse a manganellate di far
tornare in curva chi, scendendo in campo cercava di
mettersi in salvo: "Ho scavalcato il tunnel degli
spogliatoi, sopra le teste dei giocatori che da là sotto
non vedevano nulla e sono salito in tribuna". Dei
quattro è stato l'unico a vedere la partita: "In tribuna
non arrivavano notizie precise sui morti. Perciò anche
la partita non mi sembrò strana. Solo mi chiesi come mai
il settore Z aveva iniziato a svuotarsi cinque minuti
prima della fine". Lui uscendo, non sa ancora nulla dei
39 morti, raccoglie anche qualche autografo. Poi ritrova
Ivano Corra. Con lo zio belga aveva cercato gli amici
fuori dall'Heysel per quasi tre ore. "Mi raccontò -
spiega Dessi - che nella calca guardava le scarpe di
tutti sperando di riconoscere quelle di Mario o Luigi.
Me lo disse piangendo". Pedroni e Tamagnini avevano
scavalcato la parete di cinta: "C'era del filo spinato -
descrive il delegato Fidai - e ci siamo tagliati". Così,
con graffi su braccia e gambe i due amici si ritrovano
fuori: "Vedevamo passare le barelle con le persone senza
vita portate via". Come molti altri vengono spinti quasi
a forza su un'ambulanza. "Mi sono ritrovato all'ospedale
e lì c'era il mondo: gente con gambe e braccia spezzate,
persone che stavano davvero male. Io me ne sono andato
subito". Con l'autostop tornano all'albergo, una
trentina di chilometri fuori città. "Non avevamo notizie
degli altri due. Quando, molto dopo la mezzanotte, anche
loro sono rientrati in albergo ci siamo abbracciati. E'
stato un momento di grande commozione". Nessuna festa
per la Coppa della Juve. L'unico ricordo è questo
biglietto. E una videocassetta: "L'ho rivista solo una
volta dice Pedroni, dopo il rientro in Italia. Ma poi è
rimasta a prendere polvere. Risentire la voce di Pizzul,
con quel tono surreale, mi provoca brutte sensazioni".
E' uno sportivo, ogni anno porta in città migliaia di
persone per la Maratonina: "E' un'altra mentalità. A me
piace tutto lo sport, vado allo Zini e al PalaRadi. A
vedere la Pomì o la Vanoli c'è un clima diverso, è una
festa". Nel calcio, invece... "Qualche giorno fa a Roma
ci sono stati due accoltellati per il derby. Dall'Heysel
sono passati 30 anni ma ancora si assiste ad episodi di
violenza". Per questo è giusto ricordare la tragedia e
le vittime di quel giorno. "Ma ancora più giusto -
aggiunge lui - sarebbe impedire che certe cose si
ripetano". (F.G.)
Fonte: Mondo
Padano
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Calvaresi: "Io e la
strage dell'Heysel: ero lì, scene da incubo"
di Mauro Nardi
A ricordare quel drammatico avvenimento è
Giorgio Calvaresi, nativo di Monte Urano, oggi
recanatese, che quel 29 maggio 1985 era allo stadio di
Bruxelles.
"E'
stata una vera tragedia, attimi che non dimenticherò
mai. Ancora oggi quando mi capita di andare allo stadio,
al palazzetto o assistere a qualche assemblea o incontro
pubblico mi posiziono sempre vicino all'uscita". E' la
testimonianza di chi ha vissuto sulla propria pelle la
strage dell'Heysel dove persero la vita 39 persone in
quella che doveva essere una bella giornata di sport con
la finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool. A
ricordare quel drammatico avvenimento è Giorgio
Calvaresi (foto), nativo di Monte Urano e oggi
recanatese d'adozione che quel 29 maggio 1985 si trovava
a Bruxelles in compagnia di alcuni amici e dello storico
presidente della Monturanese. "La nostra fortuna è stata
quella di essere arrivati con ritardo allo stadio e aver
trovato posto nella parte alta della famigerata curva Z.
Questo ci ha consentito di trovare subito la via
d'uscita quando la situazione ha iniziato a farsi
drammatica" - racconta Calvaresi, da sempre uomo di
sport prima come segretario della Monturanese ed oggi
addetto stampa del Basket Recanati che milita in A2
Unica. "Abbiamo raggiunto il Belgio con un volo charter
partito da Falconara e appena sbarcati ci siamo accorti
che la situazione non era tranquilla, come
testimoniavano le strade intorno allo stadio disseminate
di bottiglie vuote. Quando siamo arrivati gli scontri
erano già iniziati e abbiamo assistito alla tragedia che
si compieva sotto ai nostri occhi. La polizia era
inadeguata e insufficiente a gestire la situazione e gli
hooligans rimasti senza biglietto continuavano ad
entrare nello stadio scavalcando i muretti di
recinzione. Eravamo consapevoli che sotto di noi
qualcuno stava perdendo la vita e non potevamo far nulla
per evitarlo". Quella dell'Heysel è stata una strage
annunciata proprio a causa dell'inadeguatezza delle
forze dell'ordine, delle scarse misure di sicurezza
dello stadio ma soprattutto della stupidità e violenza
degli hooligans. "L'unica cosa che hanno azzeccato in
quella tragica giornata è stata la decisione di far
disputare la partita, ancora oggi oggetto di tante
discussioni" - dice Calvaresi. "E' stata comunque una
strage annunciata. Ad un servizio d'ordine insufficiente
si è aggiunta anche l'inadeguatezza dello stadio.
Ricordo ancora le gradinate in terra e erba e le reti
che ci dividevano dagli inglesi. Sembravano quelle che
utilizzano i contadini nei pollai. Ad un certo punto gli
hooligans sono arrivati a dieci metri da noi, dei
potenti razzi sono volati sopra la nostra testa
schiantandosi sulle colonne. A quel punto me ne sono
andato. La voglia di assistere alla partita non c'era
più, nonostante le 300 mila lire pagate per viaggio e
biglietto. La priorità a quel punto era restare vivo.
Anche fuori dallo stadio la situazione non era delle
migliori. Il caos regnava sovrano e ho raggiunto l'
aeroporto chiedendo un passaggio a dei tifosi juventini
di Udine". Al dramma di chi è stato testimone oculare di
una delle pagine più drammatiche del calcio mondiale si
è sovrapposto anche quello di coloro che assistevano
alle scene davanti alla tv con l'apprensione crescente
nei confronti dei propri cari in trasferta a Bruxelles.
"Ovviamente all'epoca non esistevano i cellulari" -
conclude Calvaresi. "Sapevo che a casa erano preoccupati
per me. Mia moglie e mia figlia probabilmente erano
davanti alla tv. Solo dopo alcune ore sono riuscito a
tranquillizzarle con una breve telefonata. La partita
l'ho ascoltata alla radio ma non c'era proprio niente da
festeggiare. Solo quando sono tornato a casa ho
realizzato di avere la maglietta insanguinata, perché
durante la fuga avevo aiutato qualche tifoso ferito a
raggiungere un punto di medicazione. Quelle macchie
sintetizzano alla perfezione la tragedia che si è
vissuta all'Heysel. Per cinque anni non sono andato più
allo stadio, gli incubi hanno rovinato molte ore di
sonno e ancora oggi quando vado in posti affollati cerco
sempre un posto vicino all'uscita".
Fonte:
Marcheingol.it
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29 Maggio
Ore
16: dopo una breve gita ad Anversa, l’autobus ci riporta
in albergo a Mechelen. Carichiamo quelli che erano
rimasti lì e partiamo verso lo stadio. Sul pullman ci
vengono dati i biglietti della partita. Faccio notare a
mio padre una stranezza: il settore indicato sembrerebbe
posizionato nella stessa curva nella quale i giornali
collocavano i tifosi inglesi. Probabilmente i giornali
sbagliavano… Ore 17: arriviamo allo Stadio. Non sembra
di essere nel Nord Europa. Lo stadio è una struttura
fatiscente, scalcinata e arrugginita. Il recinto esterno
è costituito da un reticolato ossidato e bucherellato
ovunque e la zona interna al recinto è piena di erbacce,
come fosse abbandonata da anni. Non c’è nemmeno un
cartello ad indicarci il settore e solo seguendo il
flusso di chi si era informato col passaparola arriviamo
di fronte ad un ingresso sul quale si intuisce che un
tempo vi fosse scritto: "Settore X-Y-Z". In breve siamo
dentro ma c’è qualcosa che non va: attorno a noi ci sono
troppe facce e bandiere inglesi per tranquillizzarci.
Capiamo che il nostro settore non è quello ma bensì
quello al di là della rete da pollaio che divide in due
la curva. I più rapidi scavalcano la rete. Diceva De
André: "Si sa che gli sbirri e i carabinieri spesso al
loro dovere vengono meno" aggiungerei io "tranne che
quando sarebbe opportuno farlo" e infatti una gendarme
belga, dotata di cane al seguito, dimostrando un
quoziente intellettivo rasoterra, blocca tutti gli altri
votandoci al linciaggio. Mio padre nel suo discreto
francese spiega alla gendarme la situazione: che cioè
non ci è più possibile rientrare perché ci hanno già
strappato i biglietti e che non ci è nemmeno possibile
vedere la partita lì per ovvi motivi. La gendarme è
comprensiva e simpatetica quanto un parchimetro rotto.
Decidiamo di uscire comunque, avremmo poi deciso come
fare. Troviamo un serpentone formatosi nel frattempo che
decidiamo essere la coda del nostro settore e ci
posizioniamo lì. Ore 18.30: dopo circa un’ora di coda
arriviamo all’ingresso che è una porticina larga quanto
una persona. C’è una fortissima compressione, il
serpentone si fa piccolo per entrare in quella porticina
e alla fine si entra trascinati dalla folla. Lo
strappatore di biglietti ne controlla uno ogni tanto. Io
e mio padre lo ignoriamo e siamo dentro. Il settore Z è
strapieno. Anche all’interno lo stadio è completamente
in rovina. Le gradinate in cemento sono ovunque rotte e
crepate. Siamo stipati come bestie al macello, tanto che
il tizio francese o belga di fianco a me mi spintona
ogni volta che si gira. Il tifo organizzato bianconero è
nell’altra curva, attorno a noi famiglie, gruppi di
signori di mezza età: apparentemente i gruppi delle
agenzie turistiche. Ore 19: Una comparsata delle squadre
in campo ha scatenato i primi cori e la prima
adrenalina. Guardiamo con crescente preoccupazione al
settore inglese che sembra in ebollizione. Ore 19.15:
Parte il primo bengala, basso, ad altezza d’uomo, per
colpire. Rimaniamo sbigottiti, si levano proteste e
fischi ma dopo pochi secondi parte un secondo razzo e
poi un terzo e poi altri ad intervalli regolari. Non
sembra più solo la stupidità di un singolo, inizia a
serpeggiare la paura, ci si inizia a sentire come
bersagli.
Passano
pochi minuti e la rete da pollaio di cui sopra viene
divelta. I primi inglesi scavalcano ed attaccano il
settore italiano, inizia la mattanza. Come pervasi da
una follia omicida quelli iniziano a menare fendenti a
chi incontrano, a raccogliere i calcinacci che si
staccano dalle gradinate ed a lanciarle sulla folla
inerme, uno di quei calcinacci spacca la testa di un
tizio di fianco a mio padre che quando si gira vedo
macchiato del sangue di costui. La folla arretra, si
crea una ressa insostenibile, mi sento comprimere il
petto. Non capisco dove stiamo andando ma non c’è modo
di fare scelte. Poi improvvisamente la ressa si
alleggerisce, è successo qualcosa, non so che cosa. Gli
inglesi sono sempre là anche se pare che l’assalto si
sia fermato, ma mi accorgo che qualcuno ha superato le
transenne per cercare salvezza nel campo di gioco dove è
accolto con il manganello da altri gendarmi che il
destino non ha dotato di facoltà intellettive. Penso ci
sia modo di seguirli, urlo a mio padre che si può
scendere e scendo di qualche gradino verso il basso. No…
Rimango impietrito, attonito. Davanti a me c’è una
distesa di corpi, non ci posso credere, non ci voglio
credere. Mentre piovono ancora bottigliette un ragazzo
sta facendo il massaggio cardiaco ad un ragazza. Vorrei
piangere, vorrei urlare, vorrei fare qualcosa ma è
dannatamente troppo tardi. Digrigno i denti. "Vorrei
ammazzarli tutti quei cazzo di inglesi, ammazzarli
tutti, cazzo !!!". Puoi leggere e guardare tutto ciò che
vuoi sulla guerra ma solo quando ci affondi dentro, solo
quando vedi accanto a te dei corpi cadere, capisci
quando è facile reagire alla violenza con violenza,
quanto è facile farsi trascinare nella spirale. Dalle
mie spalle sento la voce di mio padre. "C’è l’uscita,
c’è l’uscita. E’ libera". Quella porticina, da cui pochi
minuti prima erano entrate le persone che erano lì
distese, adesso è là, libera, non c’è nessun maledetto
inglese tra noi ed essa. Urlo a mio padre: "E’ morta
della gente. E’ morta". Mio padre mi trascina via, sento
che qualcuno dietro di noi è stato ancora colpito da
qualcosa. Imbocchiamo la porticina, siamo fuori. Fuori
però c’è ancora il recinto e l’uscita è davanti al
settore inglese, ma fortunatamente quella vecchia
recinzione arrugginita è piena di buche, forziamo una di
quelle e siamo fuori. Andando verso il parcheggio degli
autobus incontriamo una famiglia inglese, padre, madre e
figlio. Ho una rabbia folle dentro di me che non riesco
a controllare e la faccia mi si contrae in una smorfia
che da quel giorno accompagna tutti i miei momenti di
grande rabbia. Il bambino mi guarda spaventato. Chissà
se quel bambino si è mai domandato perché avessi quella
faccia quel giorno… Ore 20.15: Siamo al parcheggio degli
autobus e cerchiamo di capire cosa è successo, perché,
come. Vediamo arrivare piano piano gli altri della
comitiva. Intanto la radio e la televisione diffondono
le prime notizie. Ore 22: L’autobus si avvia verso
Mechelen. Non ci sono tutti. Facciamo il conto di chi
manca come chi conta i suoi caduti. Ore 23: Arriviamo in
albergo. Qualcuno accende la televisione. Stanno
giocando. Guardo come fossero fantasmi gli eroi per i
quali eravamo venuti fin quassù, eravamo venuti pensando
a tante cose ma mai alla morte. Ricordo ancora gli occhi
spiritati di Tacconi in un ricordo liquido come quello
di un incubo. Ore 24: Usciamo a mangiare qualcosa. Una
signora belga, dalla finestra, in un ottimo italiano, ci
esprime solidarietà. Mi commuovo. Solo e soltanto in
quel momento mi sembra di essere tornato sulla terra che
conoscevo.
Fonte:
Ejoujo.eu/ilcoloredelgrano
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TESTIMONIANZA
Buonasera,
mi chiamo Gianni Carpitelli ho 48 anni e scrivo da
Castelfiorentino (Fi). Quella sera avevo 17 anni e
accompagnato da mio fratello che di anni ne aveva 19,
avendo trovato i biglietti dell'Uefa all'ultimo minuto,
decidemmo di partire con il pullman da Firenze (nella
nostra comitiva trovò la morte Bruno Balli cameriere di
Prato) verso Bruxelles. Vi risparmio l'ingresso allo
stadio che fu già traumatico nel vedere migliaia di
inglesi fuori già ubriachi. Saliva la preoccupazione ma
anche la voglia di far festa. Dopo poco tempo
dall'ingresso su quelle maledette gradinate che si
spezzavano con il niente, iniziò ad arrivare di tutto
dalla nostra parte, i poliziotti presenti erano 3 e
stavano a debita distanza dalla situazione, quando le
reti vennero divelte e gli hooligans iniziarono a
entrare nella nostra parte di curva, mi sentii sollevato
da migliaia di persone e praticamente andavi dove la
massa ti portava: fortuna volle che fui tra gli unici
15/20 che incanalato verso il basso passò dalla
porticina per entrare nella pista d'atletica (che la
polizia cercava di chiudere). Gli altri ebbero la
freddezza di rifugiarsi sotto la tribuna centrale, verso
gli spogliatoi, io invece mi diressi sotto la curva
degli juventini. Mi misi a chiedere aiuto e a un certo
punto mi presero per il braccio da dietro e facendomi
strusciare in terra mi portarono fuori dallo stadio,
arrivati alla camionetta mi misero le manette e insieme
a due inglesi partimmo a tutta velocità verso la
Gendarmerie. Lì rinchiuso in cella ignaro dello sviluppo
della situazione, rimasi fino al processo verbale che mi
fecero alle 2 la notte per poi sbattermi fuori verso le
tre e mezzo. Cercai da solo la strada per la stazione
dove arrivato oltre a trovarla chiusa, davanti c'erano
500 inglesi circa a bivaccare e dormire, feci 2 passi
indietro per buttare via le sciarpe ed entrai nel mezzo
alla piazzetta, sentii parlare italiano e chiesi aiuto,
i documenti ce l'aveva mio fratello in quanto
maggiorenne, un giornalista della stampa e un ragazzo
siciliano mi rifocillarono raccontandomi a grandi linee
ciò che era accaduto, mi pagarono il biglietto fino al
Lussemburgo da dove in mattinata riuscii a mettermi in
contatto con una persona che i miei genitori avevano
lasciato a casa, stavano andando a Pisa a prendere
l'aereo convinti ormai di riportarmi a casa morto,
perché nel frattempo mio fratello insieme al padre di
Roberto Lorentini di Arezzo, deceduto anch'esso, portati
all'ambasciata italiana dopo aver alzato tutti i morti
perché non si capacitava di dove potessi essere finito,
non aveva il coraggio di chiamare i miei per dirgli che
non mi trovava più. Io da quel tragico Mercoledì sono
tornato il Venerdì mattina in treno, Enrico, mio
fratello il giovedì in aereo, i miei genitori furono
avvertiti della mia salute poco prima dell'imbarco. Io
ho fatto migliaia di km per vedere tutte le finali
seguenti, mio fratello è andato in terapia e non può
affrontare file di persone di nessun tipo… Stiamo bene e
ci pensiamo sempre. Grazie, saluti.
Gianni
Carpitelli
Fonte:
Facebook (Pagina Comitato Heysel Reggio Emilia)
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Un testimone racconta
la tragedia dell'Heysel 30 anni dopo
Gianni Carpitelli
sfuggì per caso alla morte nello stadio della finale di
Champions fra Juventus e Liverpool.
di Irene Puccioni
Castelfiorentino,
29 maggio 2015 - Un viaggio all’inferno, andata e
ritorno. Sono passati trenta anni e l’Heysel è ancora un
incubo che tormenta i sonni di Gianni Carpitelli, oggi
48enne, padre di due figli, che nonostante tutto
continua ad amare il calcio e la sua Signora. Il 29
maggio 1985 anche lui era nella Z, la curva dove
morirono 39 persone poco prima della finale di Coppa dei
Campioni tra Juventus e Liverpool. "Avevo 17 anni -
ricorda Gianni - e con mio fratello Enrico, di due anni
più grande, avevamo trovato all’ultimo minuto i
biglietti per la finale. Quando arrivammo all’ingresso
dello stadio ci trovammo di fronte migliaia di inglesi
già ubriachi. Prendemmo posto sulle gradinate che già si
spezzavano sotto il nostro peso. Tirammo fuori sciarpe e
bandiere e cominciammo a sventolarle. All’improvviso
cominciò a piovere di tutto: pezzi di gradinate,
bottiglie rotte. I tifosi inglesi avanzavano verso il
nostro settore, spingevano sulla rete, finché non
cedette". Era la fine della festa e l’inizio della
tragedia. I tifosi si ritrovarono ammassati al muro, che
ad un certo punto crollò. Moltissime persone rimasero
schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa
verso una via d’uscita. "Io - continua Gianni - fui
sollevato dalla massa di persone. Andavo dove la folla
mi portava. Fui tra i pochi che si trovarono incanalati
verso il basso e passando dalla porticina d’ingresso
della pista d’atletica, che la polizia cercava di
chiudere, mi ritrovai in campo. Spaesato e senza più
Enrico al mio fianco, mi diressi sotto la curva degli
juventini e cominciai a chiedere aiuto. Un poliziotto mi
afferrò e mi trascinò fuori dallo stadio, mi ammanettò e
mi buttò su una camionetta insieme a due inglesi.
Trascorsi sette ore in prigione, ignaro dello sviluppo
della situazione. Non avevo documenti con me, li aveva
Enrico, che non aveva la minima idea di dove fossi
finito. Rimasi in cella fino al processo verbale a cui
fui sottoposto alle 2. In qualche modo spiegai chi ero e
le mie intenzioni. Mi rilasciarono". "Mi ritrovai per
strada a Bruxelles nel cuore della notte, senza un soldo
né documenti. Un taxista mi indicò la strada per la
stazione. All’ingresso mi trovai di fronte un tappeto di
almeno 500 inglesi che bivaccavano e dormivano. Feci due
passi indietro per buttare via le sciarpe della mia
squadra. Sentii parlare italiano e chiesi aiuto". "Un
giornalista de La Stampa e un ragazzo siciliano mi
rifocillarono e informarono di ciò che era accaduto. Mi
pagarono il biglietto fino al Lussemburgo da dove in
mattinata riuscii a mettermi in contatto con la mia
famiglia". "I miei erano già all’aeroporto di Pisa per
prendere il primo aereo convinti, ormai, di riportarmi a
casa morto. Le loro speranze si erano ridotte al
lumicino, perché nel frattempo mio fratello,
dall’ambasciata italiana, era riuscito a contattarli e
dire loro che non sapeva dove fossi finito. Prima di
lasciare lo stadio, Enrico era venuto anche a cercarmi
tra i morti. I miei furono avvertiti che ero vivo prima
di partire per il Belgio. Da quel tragico mercoledì
riuscii a tornato a casa in treno il venerdì mattina.
Enrico arrivò il giorno prima in aereo, convinto di
avermi perso per sempre. Lo riabbracciai all’alba di due
giorni dopo a Castelfiorentino". A quella tragica
esperienza i fratelli Carpitelli hanno reagito in modo
diverso. Gianni ha continuato a farsi migliaia di
chilometri per assistere a tutte le finali della sua
Juve; Enrico, invece, non riesce più ad affrontare code
di alcun tipo. Gianni il prossimo 6 giugno a Berlino per
la finale di Champions contro il Barcellona non ci sarà,
ma solo perché non è riuscito a trovare i biglietti. "La
guarderò in tv - dice - Come ogni finale l’aspetto con
gioia e trepidazione, ma con il pensiero rivolto a
quelle 39 vittime e alle loro famiglie".
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Il racconto di Luigi
Carriera, superstite dell’Heysel
"Quella tragica serata
nella curva Z"
di Antonio Lo Vecchio
29 maggio 1985, una data che cambiò il calcio.
Una notte che doveva essere di festa per l’Italia
bianconera. Una notte che invece fu di sangue e morte.
Stadio
Heysel di Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni tra la
Juventus del Trap e di Platini, e i campioni in carica
del Liverpool. Una partita attesa come non mai dai
tifosi bianconeri, dopo la delusione di Atene di due
anni prima. Come allora furono tanti i tifosi partiti da
tutto lo stivale per il Belgio, per assistere alla
finalissima della loro squadra del cuore. Tra questi
Luigi Carriera, infermiere professionale della Casa
Sollievo della Sofferenza, 35 anni, sposato con due
bambini in tenera età. C’era anche lui ad Atene, due
anni prima. Quel 25 maggio 1983 un gol di Magath fece
sprofondare nella disperazione sportiva i tifosi della
Vecchia Signora. Gino, tifosissimo bianconero fin da
bambino, decide di tornare a vedere la sua Juventus in
finale, nella speranza di un esito diverso. Parte da San
Giovanni Rotondo assieme ad un collega, Andrea, anche
lui sangiovannese e tifoso bianconero, che, come molti
italiani, aveva un fratello emigrato in Belgio, che è
riuscito ad avere dei biglietti per la finale del 29
maggio. Quel giorno Gino, assieme al compagno di
avventura Andrea e altri due parenti di quest’ultimo,
partono così in auto da Frameries, paesino poco distante
da Mons, in direzione Bruxelles. Arrivati nei pressi
dello stadio Heysel parcheggiano l’auto e si incamminano
verso lo stadio. Qui inizia il racconto di Gino:
"Arrivati nei pressi dello stadio, avevo come la
percezione che qualcosa sarebbe andato storto. La zona
antistante l’Heysel era già un tappeto di bottiglie di
birra e di alcool. I tifosi del Liverpool erano già su
di giri, per non dire ubriachi. Attorno alle 18
decidiamo di entrare allo stadio. Ci fecero entrare in
una piccola porticina assieme ai tifosi del Liverpool.
Entrati in curva ci siamo accorti di essere nel settore
dei tifosi Reds, per questo scavalchiamo la rete,
definita da molti come la rete del "pollaio" e entriamo
nel famigerato settore Z della curva, riservata ai
tifosi bianconeri. Un settore non destinato alle
tifoserie organizzate. In gran parte erano famiglie,
ragazzi, donne e bambini. Gente semplice, magari molti
emigrati italiani in Belgio che volevano semplicemente
seguire e tifare la loro squadra del cuore. Noi quattro
ci posizioniamo giusto al centro del settore. Eravamo
appiccicati l’un l’altro come sardine, non avevo nemmeno
lo spazio per poter prendere le sigarette dal taschino.
Lo stadio era un colabrodo, bastava battere un po’ col
piede sulle gradinate per far staccare pietre e sassi.
Un impianto totalmente inadeguato per un evento del
genere. La sicurezza inesistente, solo qualche agente
della gendarmeria a cavallo. Due anni prima ad Atene
tutto funzionò alla perfezione. Già da quello che stavo
vedendo avevo degli strani sentori. Ad un certo punto
vediamo che i tifosi del Liverpool, posizionati a pochi
metri da noi, divisi solo dalla retina del "pollaio"
danno fuoco ad una bandiera dell’Italia. Da quel momento
capimmo che non sarebbe stata una tranquilla serata di
sport. Gli hooligans sfondarono con disarmante facilità
quella retina e si riversarono con tutta la loro furia
sul nostro settore. Noi eravamo al centro della curva Z
e fummo sommersi dall’ondata rossa. Io e i miei amici
finimmo schiacciati da altre persone sotto la spinta
degli inglesi. Tra me e me pensai "E’ la fine, qui
moriamo tutti". E il mio primo pensiero fu verso mia
figlia che aveva solo due anni all’epoca. Ad un certo
punto, quando già non riuscivo e respirare, qualcuno,
non ricordo chi, mi prese dalle braccia e mi tirò fuori
da quell’inferno di corpi ammassati gettandomi giù dalla
gradinata. Mi ritrovai così nella confusione di nuovo in
piedi. Scappai verso il campo e una volta sul prato vidi
la curva ondeggiare come quando il vento soffia su un
campo di grano. Scappai sul terreno di gioco ma fui
fermato da un poliziotto: cercavo di spiegare, non
sapevo la lingua e ad un certo punto svenni per la
fatica. Il gendarme ricordo che chiamò i soccorsi ma ben
presto mi risvegliai e stordito com’ero riuscii a
trovare un’uscita. In pochi attimi mi ritrovai vivo e
fuori dallo stadio. Non avevo però più notizie dei miei
tre amici.
Fuori
dallo stadio, pieno di sangue e coi vestiti strappati,
cercai un po’ di acqua. Una gentile signora mi diede una
bella caraffa che bevvi in pochi secondi. Anche fuori
stava succedendo di tutto: risse, ambulanze, gendarmerie
in totale confusione. Insomma delle scene apocalittiche.
Mi diressi verso la macchina per vedere se gli altri
miei compagni fossero lì. Aspettai un altro po’ poi, non
vedendoli arrivare, chiesi informazioni per andare alla
stazione e prendere il treno per Mons. Una vecchietta
vedendomi in difficoltà mi aiutò: mi fece telefonare a
casa per avvisare i miei cari che ero vivo. Poi mi
comprò il biglietto del treno per farmi arrivare a Mons.
Alla stazione vidi in tv che la partita era iniziata
nonostante tutto. Arrivato a Mons telefonai al casa del
fratello di Andrea per farmi venire a prendere da
Frameries da qualcuno. Una volta a casa del fratello di
Andrea tutti mi chiesero che fine avessero fatto gli
altri tre miei amici. Io raccontai la mia versione
dicendo che non sapevo nulla di loro. A questo punto un
parente del fratello di Andrea che sapeva la lingua mi
disse "Gino, dobbiamo tornare a Bruxelles in auto,
dobbiamo riportare gli altri tre a casa". Stremato
com’ero ci mettemmo in macchina alla volta di Bruxelles
per cercare notizie su Andrea, il fratello e l’altro
amico. Intanto la partita era finita. Ma cosa assai più
importante è che il bilancio di quella notte folle era
di 39 vittime. Arrivammo nel punto dove avevamo lasciato
la macchina parcheggiata e non trovammo né loro, né
l’auto. Non sapevamo se l’avevano, rubata, rimossa,
incendiata oppure era un segnale che l’avevano ripresa
ed erano sani e salvi. Chiedemmo alla gendarmerie ma
nulla. Lasciammo alla polizia anche la carta di identità
di Andrea che avevo io in tasca per vedere se era tra le
vittime di quel massacro. Fortunatamente no e dopo aver
rilasciato delle dichiarazioni a caldo alla polizia e a
qualche giornalista tornammo verso Frameries, a notte
fonda ormai, nella speranza di ritrovarli a casa sani e
salvi. E così fu: i tre si erano messi in salvo e ironia
della sorte cercavano proprio me, temendo che potessi
essere tra le vittime. Fu così che scoppiammo in un
pianto e abbraccio liberatorio, pensando alla fortuna di
essere ancora vivi. Tornai a casa dopo due settimane
perché oltre allo shock, non ero nelle condizioni di
guidare e ritornare a San Giovanni. Feci degli esami al
torace perché avevo difficoltà nella respirazione e dopo
quindici giorni di riposo rientrai a casa a
riabbracciare la mia famiglia. A distanza di 30 anni
sono sempre più convinto che fu un bene giocare quelle
partita. Altrimenti altro che 39 morti, avremmo
assistito ad una vera e propria carneficina. Da quel
giorno non misi più piede in uno stadio di calcio.
Addirittura nei primi giorni dopo il mio rientro,
ricordo che c’erano le elezioni a San Giovanni: avevo
paura a stare in mezzo alla gente. Mi mancava l’aria e
mi sentivo soffocare nel ricordo di quella sera. Una
sera che a distanza di 30 anni ho deciso di rivivere,
per la prima volta, in questa mia testimonianza. Dopo 30
anni da quella maledetta notte, la mia Juventus è di
nuovo in una finale di Coppa di Campioni. Non so se sia
un segno del destino. Dico solo che sarebbe bellissimo
vincere la coppa e dedicarla a quelle 39 persone che in
quella sera dell’85 volevano solamente vedere la propria
squadra alzare la coppa al cielo". Grazie Gino per la
tua toccante testimonianza.
Fonte:
Sanmarcoinlamis.eu
© 30 maggio 2015
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"Solo di fronte alle
lacrime di mia figlia e mia moglie la gravità della
tragedia"
Vent'anni dopo, Dave Murphy e Valerio Cavagnetto
rievocano la notte di Bruxelles mentre nella sede della
Juve è stato inaugurato un cippo bianconero.
"No, quella dell'Heysel non è
stata l'ultima volta che sono andato allo stadio.
L'ultima è l'incontro Argentina-Brasile, durante i
Mondiali di Italia 90. Ma l'atmosfera di quella partita
era ben diversa da quella di Juventus e Liverpool".
Sessantotto anni, ex direttore dell'Assindustria di
Ivrea, tifoso bianconero doc, Valerio Cavagnetto quel
maggio di 20 anni fa era andato in Belgio con un gruppo
di amici. E di quella trasferta ancora oggi ha in mente
tutti i particolari, i dettagli anche quelli che in
apparenza sono i più insignificanti. Si ricorda il
tappeto di bottigliette di birra poco lontano dal catino
dello stadio, si ricorda la polizia, "poca", e nelle
narici ha ancora il forte fetore di alcool che si
respirava negli spazi chiusi dell'Heysel. Nella memoria,
invece, ha le scene di violenza gratuita che le tv di
tutto il mondo hanno trasmesso decine, centinaia di
volte da quella notte maledetta. "I miei amici ed io
eravamo seduti in tribuna, la partita non cominciava
mai. C'erano i cori, le grida, le invasioni di campo. E
noi eravamo quasi irritati per tutto ciò che stava
capitando sugli spalti, dall'altra parte dello stadio.
Irritati con gli juventini, ovviamente: non potevamo
capire, non potevamo sapere". E poi non dimentica le tre
cariche, che provocarono le fughe, il crollo del muro,
che causarono i morti. "Furono tre ondate di attacco.
Tre ondate violentissime" ripete Cavagnetto. "La prima
più in alto e poi sempre più giù, fino al primo livello.
C'era gente che scappava, che cercava di scavalcare la
rete e di rifugiarsi nel terreno di gioco. Scappavano
dalla violenza degli hooligan e venivano caricati dalla
polizia a cavallo. Una follia totale, senza senso. Poi
un uomo, o un ragazzo è riuscito a superare la linea dei
poliziotti e ad urlare "hanno ammazzato un italiano...".
Di più, però, quella sera non riuscimmo a realizzare".
Valerio Cavagnetto ed i suoi amici seppero cos'era
accaduto soltanto all'uscita dallo stadio. Qualcuno gli
disse che c'erano stati dei morti. Vent'anni fa non
c'erano ancora i telefoni cellulari, non poté contattare
i familiari, avvisare che stava bene, non poté parlare
con nessuno per informarsi un poco di più. "Rientrai ad
Ivrea verso le 4 del mattino e trovai mia moglie e mia
figlia disperate, in lacrime. Soltanto allora mi fu
tutto chiaro, compresi fino in fondo che cosa era
accaduto" racconta. Soltanto allora elaborò immagini ed
impressioni registrate ma non comprese. Come quella
"modesta rete che separava i tifosi italiani dai
supporters inglesi", come "l'esiguo numero dei
poliziotti impegnati a tener lontane le due tifoserie:
non erano più di otto o dieci". Come le cariche contro
chi cercava salvezza sul terreno di gioco e veniva
respinto nella bolgia. "Per tutto il tempo che sono
stato allo stadio desideravo bere un bicchiere d'acqua.
Non avevo franchi belgi un tasca e l'avrei pagata anche
5 o 10 mila lire. Ma al bar dello stadio non me la
diedero: niente soldi locali niente acqua. Ho bevuto
quando sono tornato ad Ivrea". Se dovesse sintetizzare
quella notte, Cavagnetto, la sintetizzerebbe così:
"Urla, grida disperate, e poi la polizia che respingeva
chi cercava salvezza".
Fonte: La
Stampa
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Il fantasma
dell'Heysel
di Alessandro Tich
"E'
stato evitato un nuovo Heysel". Così il Ministro
dell'Interno, Roberto Maroni, sul comportamento delle
forze di sicurezza allo Stadio di Genova, nella folle
notte di Italia - Serbia messa a ferro e fuoco dagli
scalmanati ultras serbi. Una notte di incidenti e di
tensioni che ha rievocato il ricordo di una delle più
grandi tragedie mai accadute in uno stadio di calcio: 29
maggio 1985, stadio Heysel di Bruxelles, finale di Coppa
dei Campioni tra Juventus e Liverpool, 39 morti - di cui
32 italiani - nella gigantesca calca provocata dagli
hooligans inglesi nella famigerata curva del settore Z.
Due delle vittime erano di Bassano del Grappa: Mario
Ronchi e Amedeo Spolaore. Erano partiti da Bassano,
assieme ad altre 14 persone, per assistere alla finale
della Juve. Di quel gruppo, nella curva Z, faceva parte
anche Battista "Titta" Cenere, noto commerciante
bassanese di abbigliamento, scampato alla bolgia della
morte gettandosi dal muro dello stadio. Di quella
tragedia di 25 anni fa conserva ancora in negozio i
ritagli di giornale, e i biglietti dell'aereo e della
partita - incorniciati in un quadro - a futura memoria
di quella notte d'inferno, diventata la pietra di
paragone per la sicurezza negli stadi e il cui fantasma,
di fronte a scene come quelle viste l'altro ieri in
televisione, riappare inevitabilmente. Battista Cenere,
che cosa ricorda di quella notte maledetta all'Heysel ?
"Noi non dovevamo trovarci nel settore Z, dove è
accaduta tutta la tragedia. Avevamo infatti prenotato le
poltronissime numerate centrali. Siamo saliti in aereo
all'aeroporto di Venezia e solo dopo il decollo chi
aveva organizzato la trasferta ci ha consegnato i
biglietti: al posto della tribuna centrale i biglietti
erano tutti per la curva del settore Z, e non potevamo
più tornare indietro. Allo stadio siamo quindi andati in
curva: da una parte c'eravamo noi, e dall'altra gli
hooligans inglesi. Ci divideva soltanto una rete
plastificata tenuta su con dei paletti. Alla prima
carica degli hooligans, siamo arretrati. Alla seconda
carica ci siamo già trovati addosso al muro, il famoso
muro dell'Heysel. Io ero teso, avevo paura di una terza
carica, sono salito sul muro dello stadio, sono andato
al di là del muro, mi sono allungato con le braccia e mi
sono lasciato andare giù con un salto di vari metri. In
curva, in quel momento, era iniziata la terza carica,
che è stata una carica di massa. Io sono scappato nel
pullman. C'erano sirene, polizia, croce rossa, pompieri.
Dopo mezz'ora sono rientrato nello stadio, da un altro
ingresso, e da una transenna vedevo una strada esterna
dove giacevano i corpi delle vittime. Una di queste, lo
avevo riconosciuto, era Spolaore. Il peggio è accaduto
nel volo di rientro, perché nel nostro gruppo oltre a
Spolaore e Ronchi mancavano altre tre persone di cui non
avevamo più notizie, e che invece, ma lo abbiamo saputo
solo a Bassano, erano riuscite a salvarsi". Ma quanto è
successo l'Heysel e quanto poteva succedere allo stadio
di Genova sono situazioni paragonabili ? "Non sono
paragonabili, perché all'Heysel c'è stato uno scontro
fra hooligans e spettatori, uno scontro diretto fra
persone preparate per far del male e uccidere e noi,
persone disarmate. Ci è mancato poco, però, che gli
ultras serbi oltrepassassero il loro settore, forse la
presenza della polizia italiana li ha fermati. Ma la
polizia italiana doveva intervenire". Che impressioni ha
avuto, guardando alla Tv le scene di Genova ? "E' una
cosa che fa pensare ai parenti e agli amici morti. E
quello che è accaduto a Genova si poteva evitare, perché
è assolutamente impossibile che la polizia italiana e la
polizia serba non fossero state a conoscenza di che
personaggi avevano per le mani. La polizia italiana
doveva colpire, così come colpiscono loro". Ma la
tragedia dell'Heysel, a 25 anni di distanza, ha
insegnato qualcosa o può ancora insegnare qualcosa a chi
è tenuto a garantire la sicurezza negli stadi ?
"Dovrebbe far pensare e riflettere i responsabili della
nostra difesa e della nostra incolumità, per non
trovarci in seguito ancora scoperti". Dopo l'Heysel, lei
è più tornato in uno stadio ? "No. Mai più. Ero un
tifoso, ero juventino. Da allora ho lasciato il calcio e
non ho più patito l'assenza di questo sport. La Gazzetta
dello Sport per me è una nausea, con quei titoli che
ingrandiscono ancora di più i fatti e degradano
l'Italia".
Fonte:
Bassanonet.it
© 14 ottobre 2010 (Testo
© Fotografia)
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Chiarini: "Juve, porta
a Berlino noi sopravvissuti dell'Heysel"
Claudio
Chiarini aveva 32 anni nel 1985 e la Juventus, "tifoso
bianconero fino alla morte", l’aveva vista ovunque.
"Oggi me la guardo a casa. Da solo. Io dentro uno stadio
non ci torno più". L’ultimo che ha visto si chiama
Heysel. L’ultimo settore dove si è seduto la Curva Z.
Claudio Chiarini è un sopravvissuto dell’inferno. C’era
anche lui quel maledetto 29 maggio 1985. "Mi sono
salvato solo grazie alla mia esperienza. Sono riuscito a
raggiungere il muro, quel muro che poi crollò ed a
scavalcarlo. Feci una specie di paracadute con la
bandiera e mi lanciai fuori dallo stadio". Pausa. E’
dura raccontare. Respira Claudio - che nonostante tutto,
il calcio ha continuato a seguirlo, è allenatore ed è
stato direttore generale della squadra femminile Stella
Azzurra - e ricomincia. Dall’inizio. 28 maggio 1985: la
partenza. "Il viaggio venne organizzato da un’agenzia in
piazza Guido Monaco. Partimmo con diversi pullman da
Arezzo per andare a Bruxelles a vedere la finale di
Coppa Campioni con il Liverpool. Per me non era la prima
volta. La Juve l’avevo seguita ovunque. Perfino a
Belgrado nel 1973. Ovunque". Claudio riesce a convincere
anche alcuni suoi amici. "Tutti avevamo il biglietto per
il settore Z. Nessuno di noi conosceva lo stadio.
Internet non c’era, ma sono partito tranquillo, perché
una partita così importante, doveva giocarsi in uno
stadio adeguato. La Uefa mica avrebbe messo in pericolo
la vita delle persone pur sapendo che si giocava contro
il Liverpool degli Hooligans". In pullman Claudio
comincia a guardarsi intorno e nota: "Famiglie, donne e
bambini. Tutti col biglietto per la Curva Z. E allora mi
chiesi che forse questo settore era stato destinato
proprio alle famiglie". Non era proprio così, ma
successivamente si seppe che in quel settore dovevano
trovare posto le scuole calcio locali, poi la richiesta
dei biglietti fu tale che la Uefa decise di destinare la
Curva Z ai tifosi soprattutto juventini. Ma non solo.
29
maggio: ore 15. Arrivo all’Heysel. "Intorno alle 15
eravamo allo stadio. C’era un parcheggio enorme dove
abbiamo lasciato i pullman. E ci siamo incamminati verso
l’entrata". Lì arriva il primo allarme. "Per entrare nel
nostro settore c’era un porticina minuscola. Sarà stata
due metri per due. Mi dissi: se succede qualcosa da dove
usciamo ?". Il secondo allarme subito dopo l’ingresso
nella Curva Z. "C’erano tutti i gradoni, tipo la nostra
Maratona. Mi accorsi che erano sfaldati. Le pietre per
terra. Chiunque poteva raccoglierle e lanciarle. E in
più dietro la Curva c’era un cantiere". Poi arrivarono.
I tifosi inglesi. "Non dimenticherò mai ciò che vidi.
Molti di loro erano sopra il tetto dei pullman. Già
ubriachi. Iniziarono ad entrare dalla stessa porticina.
Portavano casse di birra sulle spalle. Si sistemarono
praticamente accanto a noi. A dividerci dagli hooligans
c’era una rete da pollaio. Fatta di corda". Viene subito
da chiedere e le Forze dell’Ordine ? "Pochissime. Fuori
dallo stadio ricordo di avere visto 5 poliziotti 3 dei
quali erano ragazze e dentro lo stadio praticamente non
c’era polizia. Sì, fu una strage annunciata". Ore 17:
cominciano i lanci di pietre. Claudio si sistema più
dalla parte dei tifosi inglesi. "Volevo tenerli
d’occhio. Erano ubriachi e sotto quel sole hanno
cominciato ad insultarci. Ma chi di noi poteva
contrastare quegli pseudo tifosi ? In quel settore
c’erano solo famiglie. Il vero zoccolo duro del tifo
bianconero era dalla parte opposta dello stadio. Ho
cominciato a preoccuparmi e al mio amico che era con me,
vista la mia esperienza, lo aveva avvisato: se ti dico
di seguirmi, non fare domande: fallo e basta". Ore 18:
la fuga e l’assalto. "Finite le pietre hanno cominciato
a lanciarci le lattine di birra vuote riempite con la
terra. La situazione degenerava, poliziotti non ce
n’erano. Ho iniziato a guardarmi intorno: non c’erano
vie di fuga. E allora sono andato verso il muro, quello
che poi è crollato e mi sono issato fino in cima.
Questione di attimi, la carica era già iniziata". "Sotto
di me ho afferrato la mano di qualcuno e ho cercato di
tirarlo su. Ma non ci riuscivo e ho dovuto lasciarla".
Beve un bicchiere d’acqua, Claudio. Le parole si
strozzano in gola. "E’ dura ricordare. E’ dura. Ho visto
bambini che venivano lanciati dai genitori dall’altra
parte della rete verso il campo da gioco, perché si
salvassero da quella calca. Ho visto scene che
preferisco non raccontare".
Ore
19.30: fuori dallo stadio. La bandiera della Juve che
sarebbe dovuta servire per fare festa in quel momento
diventa una sorta di paracadute. "L’ho presa e
praticamente mi sono buttato giù dal muro. Non mi ero
fatto niente in confronto a ciò che stava succedendo là
dentro. A quel punto mi sono diretto al parcheggio dei
pullman, schivando però altri tifosi inglesi, ubriachi
che erano fuori dall’Heysel e non erano riusciti ad
entrare. Ho preso un bastone ho forzato la porta del
pullman e poi hanno iniziato a venire tutti gli altri".
Negli occhi di ognuno scene raccapriccianti e la
sensazione che già i morti non fossero pochi. "Abbiamo
cominciato a contarci. Qualcuno di noi mancava. E’ stato
un momento terribile". Ore 21: la partita. Intanto
dentro l’Heysel la partita con un’ora di ritardo inizia.
"Dovevano giocarla. Altrimenti avrebbero dovuto chiamare
l’esercito per fermare quelle bestie. Se i giocatori
sapevano ? Immagino che sapessero quanto era accaduto.
C’erano feriti, barelle in campo, morti. Ma la partita
doveva giocarsi". Ciò che però Claudio condanna è il
giro di campo finale con la Coppa: "Quello no. Quello
gli juventini non dovevano farlo. Dovevano solo fare il
segno della Croce davanti a quella Curva Z". Ore 23:
all’Ambasciata. Ma la notte è solo all’inizio. "Abbiamo
cominciato a fare il giro degli ospedali per vedere se
c’erano feriti e poi ci siamo diretti all’Ambasciata.
Dovevamo chiamare casa". Ma nel tragitto succede
qualcosa: "Abbiamo incontrato un gruppo di tifosi
inglesi che ci ha insultato. Uno che era sul pullman ha
chiesto all’autista di rallentare. Volevamo scendere. A
quel punto dopo quello che avevano fatto eravamo pronti
a tutto. Poi abbiamo chiesto all’autista di proseguire.
E ce ne siamo andati". L’ambasciata apre le porte ai
tifosi italiani, ma chiede anche che vengano fatte
telefonate ad una persona che poi avverta gli altri
familiari. "Ovviamente le famiglie che non erano state
raggiunte direttamente al telefono, ma solo tramite
terzi, pensavano al peggio. In Italia già si sapeva".
30
maggio 1985: il ritorno. "Straziante. Ma eravamo vivi.
Poi arrivò la notizia di Roberto Lorentini e Giuseppina
Conti e tutti pensammo la stessa cosa. Ognuno di noi
avrebbe potuto essere il numero 40". A Berlino con la
Juve. Oggi, trent’anni dopo, Claudio Chiarini fa una
proposta, attraverso il Corriere di Arezzo, direttamente
alla Juve. "Mi piacerebbe che a Berlino ci fosse anche
una rappresentanza di noi sopravvissuti dell’Heysel. La
Juve la tragedia e la Coppa, le ha vissute sempre con
disagio, forse è arrivato il momento di riscattare la
propria immagine e il miglior modo è farlo trent’anni
dopo, a Berlino. Ma guarda te il destino". Mai più
dentro uno stadio. Dal 29 maggio 1985 Claudio Chiarini
non è più rientrato dentro uno stadio. "Faccio fatica
ancora oggi quando sono in mezzo alla gente. Mi guardo
intorno. Cerco possibili vie di fuga. Dentro uno stadio,
a parte quello di Arezzo, non ci sono più tornato".
Soprattutto è stata una scelta. "Una scelta e una forma
di rispetto verso chi non c’è più e anche verso la mia
famiglia. Le partite me le guardo in televisione e da
solo". Continuerò ad amare il calcio. "La mia vita è
cambiata. L’inferno dell’Heysel mi ha fortificato. Ma
non odio il pallone. Assolutamente. Sarebbe assurdo.
Sono nato juventino e morirò juventino. Il 6 giugno sarò
davanti al televisore. Lassù 39 tifosi. Finalmente in
tribuna d’onore".
Fonte:
Corrierediarezzo.corr.it
© 20 maggio 2015
Video: TSD Arezzo ©
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La testimonianza di
Evelina Christillin
"L’Avvocato lo disse
subito, questa partita non si deve giocare"
di Maurizio Assalto
"Questa
partita non si deve assolutamente giocare". L’Avvocato,
quello che si scrive con la maiuscola, Gianni Agnelli,
lo aveva detto chiaro a un altro avvocato, il fido
Vittorio Chiusano, allora vicepresidente della Juventus,
prima di lasciare l’Heysel. Lo racconta Evelina
Christillin, oggi presidente del Museo Egizio e del
Teatro Stabile di Torino, allora giovane tifosa che in
compagnia dell’Avvocato non si perdeva una partita: "Ci
univa la passione sciistica. Io ero stata nella
nazionale femminile e lui si divertiva a sciare con me e
mio padre, che era suo amico. La domenica mattina
andavamo in elicottero a Sestriere, poi nel pomeriggio
allo stadio". Quel 29 maggio erano arrivati a Bruxelles
con un aereo privato, con Cesare Romiti, Francesco Paolo
Mattioli e altri manager della Fiat, e subito si erano
diretti allo stadio. "Sugli spalti si vedevano dei
movimenti, gente che si picchiava. Si capiva che c’era
una grandissima disorganizzazione, sul campo gli agenti
della polizia a cavallo si aggiravano come anime in
pena. L’Avvocato era contrariato, faceva amari
commenti". Poi il crollo della tribuna nel settore Z.
"Ma da noi non si vedeva bene, non si capiva. Non
c’erano ancora i telefonini, Internet...". Si capì di
colpo quando arrivò un funzionario del ministero
dell’Interno. "Lo vidi parlare con l’Avvocato, e vidi
che lui faceva una faccia strana. A me accennò soltanto
che c’erano dei feriti, forse dei morti. Disse che
dovevamo andare via, che il ministero aveva mandato una
vettura per portarci all’aeroporto". Un ultimo flash,
come in un’allucinazione, corpi allineati a terra lungo
il muro di cinta dello stadio, un viso insanguinato
impresso nella memoria. "Per tutto il percorso in
macchina, e poi in volo, restammo in silenzio". A
Caselle, allo scalo dove atterrano i voli privati, la
sorpresa. Quando arrivava l’Avvocato c’erano sempre ad
attenderlo molti addetti. Quella volta, nessuno. "Lui si
stupì, chiese informazioni. Gli risposero: "Avvocato,
sono tutti a vedere la partita". "La partita... ?!". Al
telefono, Boniperti gli spiegò che erano state le
autorità belghe a imporlo, per ragioni di sicurezza. Lui
non disse più nulla. Anche in seguito non parlammo mai
più di quel match. Era come se l’avesse rimosso. E
quella coppa non l’ha mai annoverata tra i trofei
vinti".
Fonte: La
Stampa
© 29 maggio 2015
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Il mio Heysel
di Ugo Cignoli
Da
quando incominciai a capire qualcosa dei gesti di quei
signori che in mutande rincorrevano una sfera di cuoio e
mi resi automaticamente conto di quale senso avesse il
tatuaggio a strisce verticali bianconere idealmente
inciso sul mio cuore, ho sempre ritenuto che il vero,
unico traguardo a cui la Juventus dovesse ambire era
quello della Coppa dei Campioni. Di scudetti ce n’erano
fin troppi in bacheca, di Coppe Italia certamente a
sufficienza. Quello che mancava era lei: la coppa dalle
lunghe orecchie simbolo di primato europeo. Era già
sfuggita alle legittime brame per ben due volte e sempre
con il medesimo risultato di vantaggio minimo per i
nostri avversari: la prima nella primavera del 1973 a
beneficio dell’Ajax, la seconda nella sciagurata serata
del 25 maggio 1983 per la gioia dell’Amburgo e di Felix
Magath (nonché di tutti i tifosi non juventini). Quella
del 29 maggio 1985 era la terza occasione. Nella testa
rimbombava come un ordigno nucleare il proverbiale
adagio "non c’è due senza tre" che i gufi canticchiavano
con beffardi sorrisini che in realtà mal celavano la
consapevolezza che stavolta la Juve poteva davvero
vincere: aveva gli uomini, il carattere ed aveva
ricevuto il "battesimo" della maturità l’anno prima a
Basilea quando si alzò al cielo la Coppa delle Coppe. Fu
così, che vissi i giorni che anticiparono quel 29 maggio
1985 combattuto tra speranze e paure ma accompagnato da
una certezza: ci sarei stato all’Heysel, e sì, ci sarei
stato, papà me lo aveva promesso ! Partii però solo, con
la sfacciataggine dei miei sedici anni e con
l’equipaggiamento d’ordinanza: sciarpa dei Fighters,
cuffia bianconera ben assestata e maglia di Michel sotto
il giubbotto. Era una giornata limpida, tiepida, di
inoltrata primavera e niente, proprio niente faceva
presagire quell’assurda tragedia che si sarebbe
consumata qualche ora dopo. Avevo un biglietto di curva,
settore "Z", un settore riservato nelle intenzioni
dell’UEFA ai tifosi non appartenenti alle compagini in
lizza ma i cui tagliandi, come prevedibile, furono preda
dei tifosi juventini. Non era un problema, io volevo
vivere la partita, altro non mi interessava.
Giunsi
allo stadio intorno alle 18.00, tardi per i miei gusti,
e notai subito qualche stranezza: c’era un unico accesso
alla gradinata di curva attraverso una porta molto
piccola al cui fianco svettava un cancello ben più
grande, tenuto curiosamente chiuso, nessun controllo
significativo, gli inglesi, accatastati e già ululanti
nel settore contiguo, entravano introducendo senza
problemi casse di birra (sì, casse). Appena entrato la
perplessità si tramutò in disagio: alla mia sinistra si
muoveva una massa informe di colore rosso sangue che
gridava ed emanava un fortissimo odore di alcool; la
cosa sconcertante era che a dividermi da quella massa
c’era una doppia rete metallica ad intrecci esagonali,
tipo quelle dei pollai… Preferii, quindi, appostarmi
verso le gradinate più alte della curva, meno affollate
in quanto più lontane dal campo: si vedeva un po’ peggio
ma si stava comodi, magari più tardi sarei sceso di
qualche gradinata per avvicinarmi al campo. Iniziò una
partita disputata da dei ragazzini tanto per ingannare
l’attesa spasmodica, sembrava tutto abbastanza
tranquillo, i tifosi organizzati della Juve erano
nell’opposta curva; il settore "Z" dove ero io ed il
settore "X" erano sì feudi bianconeri ma frequentati da
tifosi più tranquilli ed assolutamente non organizzati.
La gente, intanto, continuava ad affluire e la curva
conseguentemente a riempirsi. Il termine della partita
di intrattenimento, purtroppo, aveva lasciato i nostri
vicini in rosso nella disperazione più nera, non
sapevano più che fare per ingannare l’attesa e
continuare a bere non era più sufficiente, che fare
allora ? Qualcuno si accorse che le gradinate
dell’Heysel se colpite con sufficiente forza mediante il
tacco della scarpa si sbriciolavano morbidamente come
una bella forma di Grana Padano e allora che cosa c’era
di meglio da fare se non raccattare quei bei pezzi di
cemento ed iniziare a lanciarli verso i tifosi vicini ?
Iniziò una sassaiola incredibile verso di noi. Non ci
pensai due volte, mi girai, in dieci secondi percorsi le
gradinate alle mie spalle ed imboccai quella porticina
da dove qualche tempo prima entrai.
Mi
ritrovai fuori dallo stadio, a venti metri da quella mia
via di fuga e potevo scorgere da sopra il muro di cinta
delle gradinate un gran polverone che si alzava, poi
grida, urla, gente che usciva spruzzando sangue dal
cranio. Dio mio, ma che stava succedendo ? Rientrai non
so quanto tempo dopo, sembrava ci fosse stato un
terremoto: borse, portafogli, indumenti, scarpe,
bandiere, sciarpe giacevano sugli spalti e loro, le
bestie rosse, ricacciate nel loro settore, continuavano
ad ululare ed ondeggiare, qualcuno iniziava quella
becera abitudine tipica degli eventi disastrosi, lo
sciacallaggio. Il muretto alla mia destra, verso la
parte bassa della curva, era crollato. Scesi verso il
campo, le transenne erano state abbattute, mi ritrovai
in una bolgia. I poliziotti a cavallo, giravano per il
campo, ridevano non rendendosi conto dell’entità della
tragedia che si era consumata. Cominciai a capire cosa
era realmente successo quando mi avvicinai al muro
crollato, costeggiato da una stradina di servizio: vi
erano accalcati almeno venti corpi e li vidi tutti.
Tutti fermi, immobili, neri, morti. Non sapevo che fare,
non sapevo che dire. Risalii in curva, eravamo rimasti
in pochissimi. La partita. Boh. Sarebbe mai iniziata ? I
giocatori scesero finalmente in campo, andarono sotto la
curva opposta alla mia, per calmare gli animi: i nostri
minacciavano un’invasione di campo, il regolamento dei
conti era il chiaro intento. I giocatori riuscirono a
ristabilire una calma irreale. E poi, ancora attesa,
interrotta dall’inizio della gara. Seguii la partita, di
cui ricordo, peraltro, pochissimo ma nitidamente la
lentezza e la totale assenza di emozioni, fino al rigore
su Zibì che Michel insaccò. Alzai le braccia al cielo,
sì, ma non proferii parola. Al fischio finale attesi,
invano, che qualcuno portasse anche a noi, "in prima
linea" quella coppa finalmente vinta. Uscimmo dallo
stadio a testa bassa ed alle prime luci dell’alba trovai
mio padre all’aeroporto a riabbracciarmi come se fossi
reduce. Solo dopo, qualche ora dopo, il ricordo di quel
che avevo visto mi fece realizzare che cosa avevo
realmente vissuto ed a cosa ero sopravvissuto. Ancora
oggi, ventidue anni dopo, la ferita nel mio cuore è
ancora aperta e mi fa male sentire parlare di "coppa
insanguinata" di "coppa sporca", di "vittoria regalata",
di "rigore inventato". La Juve quella coppa l’ha vinta,
insieme ai suoi tifosi, pagandola un prezzo altissimo.
Chi dice che quella partita non si sarebbe dovuta
disputare non era là e non può nemmeno immaginare cosa
sarebbe accaduto se quei ventidue uomini non fossero
scesi in campo. Tanta amarezza e tanto dolore si
affievoliscono quando alla mente mi ritorna nitidamente
la voce calma, rassicurante e gentile che il nostro
capitano Gaetano proferì dagli altoparlanti in quei
terribili momenti: "… non rispondete alle provocazioni.
Giochiamo per voi".
Fonte:
Magazine Bianconero
© 22 marzo 2007
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Lettera del tifoso
Cipriano: "Heysel, la mia testimonianza"
"Leggendo
alcune testimonianze di persone che hanno vissuto la
tragedia dell’Heysel, ho sentito il desiderio di far
conoscere anche la mia, e sono idealmente vicino a
quanti non ci sono più ed ai loro famigliari che tanto
hanno sofferto e soffrono per quanto avvenuto 30 anni
fa. Per quanto mi riguarda da quel giorno sono stato 18
anni senza tornare allo stadio, e solo da quando c’è lo
"Stadium" ho ripreso a tornarci qualche volta con la
famiglia. Stamane in occasione del 30° anniversario, con
la moglie ci siamo uniti idealmente a tutti coloro che
commemorano le vittime di quell’assurda tragedia,
assistendo in forma privata alla Santa Messa in un
Santuario Mariano. Ricordo perfettamente tutto come
fosse oggi, perché per me il tempo è come sia fermo a
quei momenti. Siamo partiti in 35 dal Friuli, e dopo 30
ore di viaggio, all’esterno dello stadio abbiamo intuito
la situazione: inglesi ubriachi, a petto nudo, distesi a
terra sotto il sole del pomeriggio e bottiglie vuote
ovunque. Per entrare allo stadio siamo passati tra gli
inglesi, prestando attenzione a non toccare
involontariamente quelli stesi a terra ubriachi. Il
nostro ingresso (e usciata) era una vecchia porta
fatiscente in legno e larga meno di un metro, e mentre
attendavamo di entrare, la polizia a cavallo passava in
mezzo a noi per controllare i nostri oggetti, mentre gli
inglesi erano incontrollati ed indisturbati. Una volta
entrati nel settore "Z", abbiamo notato che le gradinate
erano costituite da terrapieni, il cui terreno friabile
era tenuto compatto da dei lingotti in porfido che
poggiavano sopra dei tondini per getti in cemento
armato, e che la curva era stata divisa da una rete
metallica come quella che si adopera per recintare gli
animali da cortile: da una parte noi con i belgi e
dall’altra gli inglesi. Non so attraverso quali canali
hanno acquistato i biglietti dei belgi chi ha
organizzato la trasferta. Gli inglesi seduti sopra le
mura di cinta alle spalle della curva, con il
"passamano" facevano entrare bottiglie di birra in
quantità, oltre ad altri oggetti di vario genere, senza
che alcun poliziotto intervenisse: quelli presenti sul
terreno di gioco in prossimità della curva erano poche
unità, e due che hanno cercato di intervenire hanno
dovuto fuggire per evitare di essere malmenati dagli
hooligans. Hanno iniziato a tirarci un po’ di tutto:
anche con i lanciarazzi ad altezza d’uomo, del tutto
indisturbati. Dopo di che aprono un varco nella
recinzione divisoria e si posizionano lungo la stessa
dalla nostra parte, provocando l’arretramento dei nostri
e formando una "calca umana" per la riduzione dello
spazio: poi parte l’attacco e tutti noi correndo
parallelamente al terreno di gioco andiamo verso la
parte opposta agli inglesi, ma io fortunatamente mi sono
fermato quasi subito perché mi sono reso conto che
andavo a accalcarmi con la massa, e fortunatamente
nessuno di quelli che mi seguivano mi ha travolto ! Mi
sono comunque trovato in mezzo alla "calca" e nel tempo
che sono rimasto in balia degli eventi ho sempre pensato
di non farmi trascinare verso quel muro che poi è
crollato, cercando sempre di non perdere contatto con il
terreno, perché diverse volte non riuscivo a toccare
terra perché venivo alzato dalla "calca umana", e
durante questo tempo interminabile talvolta sentivo
qualcosa sotto i piedi senza sapere se erano persone o
zaini, e cercavo di evitare le transenne metalliche che
in quella situazione sono state per qualcuno delle vere
trappole.
Dopo
un tempo interminabile, sono arrivato vicino al campo
dove la recinzione dietro la porta era crollata: ero
fuori dalla "calca" di qualche metro e mi sono trovato
faccia a faccia con alcuni inglesi che mi aspettavano
impugnando cocci di bottiglia, e fra me ed il campo
c’erano distese a terra diverse persone… Non me la
sentivo di passarci sopra e così in un attimo mi sono
gettato "a pesce", cadendo con il busto oltre la muretta
ed ho visto sfilare l’orologio dal polso ma non mi sono
fermato a raccoglierlo… Mi sono rialzato e un poliziotto
in tenuta antisommossa ha alzato il braccio verso di me
per colpirmi con il manganello. Avevo lottato per
portarmi in salvo, ed in quel momento non avevo energie
fisiche e mentali… Ho guardato il poliziotto allargando
le braccia con lo sguardo perso nel vuoto… E mi ha
lasciato andare per la pista, sotto la tribuna, in
campo: ovunque ero solo, e mi si avvicina un signore
italiano ed incomincia a parlarmi chiedendomi com’è
successo e chiedendomi di me, ed io senza rendermene
conto ho rilasciato una breve intervista pubblicata
sulla "Gazzetta dello Sport" del giorno dopo, provocando
un sovraffollamento di telefonate a casa dei miei da
parte di chi mi conosceva. Successivamente, ci siamo
ricongiunti in 5 del nostro pullman, e nel frattempo
abbiamo visto degli inglesi inneggiare ed espletare i
loro fabbisogni fisiologici nel nostro settore, dopo di
che ci siamo recati all’esterno degli spogliatoi dove
abbiamo parlato con alcuni giocatori invitandoli a non
giocare la partita. Nel frattempo la polizia a cavallo
minacciandoci coi manganelli ci ha fatto abbandonare lo
stadio, ed uscendo purtroppo ci siamo imbattuti in
coloro che avevano perso la vita, posizionati
nell’antistadio. Abbiamo girovagato attorno allo stadio
e per le vie di Bruxelles alla ricerca di una cabina
telefonica per avvisare casa, ma non riuscivamo a
connetterci, così dopo essere tornati al pullman
attraverso un boschetto e con il timore di incontrare
inglesi a caccia di juventini, quando eravamo tutti
presenti ci siamo recati in un ospedale perché avevamo
fra noi alcuni feriti, fortunatamente non in gravi
condizioni. Al mattino verso le ore 6 sono riuscito a
parlare con mia madre, ed in quel momento ho scaricato
tutta la tensione accumulata in un pianto dirotto.
Vorrei tanto che lo stadio fosse un luogo di
divertimento e socializzazione".
Cipriano
Fonte:Fonte:
Tuttojuve.com
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Il miracolato
Quando
il caso ti salva la vita, quando la decisione di un
attimo ti permette di tornare sano e salvo dai tuoi
cari. Momenti scolpiti nella memoria, anche a 30 anni di
distanza. Giovanni Cisco, imprenditore di Arzignano,
aveva 17 anni quando, diventato tifoso della Juve dopo
essersi innamorato delle gesta di Paolo Rossi in
biancorosso e in bianconero, raggiunse Bruxelles in
aereo assieme allo zio Pietro Zini, al cugino Luca Zini
e all'amico di famiglia Paolo Bagni. "Prima di
raggiungere lo stadio - ricorda - abbiamo passato una
giornata stupenda visitando Bruxelles e incontrando
addirittura Bruno Pizzul all'interno di un ristorante.
Numerosi i tifosi del Liverpool che giravano ubriachi
per la città, ma tutto sommato risultavano simpatici.
Eravamo convinti che con il biglietto in nostro possesso
saremmo andati in tribuna e invece, quando alle 18 siamo
entrati allo stadio, ci siamo ritrovati nel settore Z,
quello destinato ai tifosi locali e al tifo non
organizzato. Entrati da una porticina posta nel punto
superiore del settore, ci siamo diretti subito verso il
muro esterno della curva, ma ci siamo rimasti solo 5
minuti ed è stato il primo colpo di fortuna, perché poi
in quel punto si sarebbero ammassati i tifosi in fuga e
poi quel muro sarebbe crollato. Abbiamo deciso di
spostarci più vicino alla rete che ci divideva dagli
inglesi: secondo colpo di fortuna, perché poco dopo
dalla curva del Liverpool sono cominciati a volare
bottiglie, sassi e pietre, che ci scavalcavano. Se
fossimo stati più distanti dalla rete forse ci avrebbero
colpiti. Quando la rete è stata sfondata ricordo gli
hooligans che mi correvano davanti per raggiungere il
folto del gruppo italiano. Paolo Bagni ha gridato
"Andiamo via che ci uccidono !" e a quel punto siamo
corsi verso la stessa porticina da cui eravamo entrati.
E‘ stato il panico ! Abbiamo impiegato 15 minuti per
uscire, ho rischiato di rimanere sepolto dagli altri che
spingevano, mio cugino mi ha tirato su di forza. Una
volta fuori, ho visto un uomo che grondava sangue dalla
testa, ho visto polizia, ambulanze e pompieri che
accorrevano, ma non sapevamo cosa in realtà stava
accadendo all'interno. Dopo 40 minuti mio zio è
rientrato per vedere se la situazione si era calmata.
Tornò indietro dicendo che si parlava di alcuni morti,
ma che tutto ora sembrava tornato alla normalità. Quando
siamo rientrati ricordo che il settore sembrava un campo
di battaglia: scarpe, maglioni, portafogli, giornali,
giacche e altri oggetti ricoprivano completamente gli
spalti. Vedevo gente a terra sulla pista di atletica e
persone che venivano portate via utilizzando transenne
come barelle, ma non ci si rendeva conto della gravità
dell'accaduto. Quando la Juve segnò, abbiamo
esultato...". I contorni della tragedia divennero più
chiari al ritorno in aeroporto, quando Paolo Bagni
telefonò alla moglie e colse dalle sue parole la
disperazione per le immagini viste in televisione.
Tornato ad Arzignano a notte fonda, prima di andare a
letto Giovanni Cisco vide con il padre la registrazione
della diretta Rai: "A quel punto ho capito tutto, solo
allora mi sono realmente reso conto della tragedia che
si era consumata sotto i miei occhi". Giovanni Cisco per
5 anni non fu più in grado di frequentare luoghi
affollati. Ancora oggi, quelle poche volte che va allo
stadio sceglie un posto in tribuna, ed evita di andare
ai concerti. Il giorno del trentesimo anniversario
dell'Heysel il figlio di 9 anni gli ha chiesto di
raccontare. "Abbiamo guardato insieme i video su YouTube...
Dopo 5 minuti sono stato male, ho dovuto spegnere il
computer...".
Fonte:
Corriere Vicentino
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Heysel, 35 anni dopo la strage.
Alessandro: "sopravvissuto
affrontando i tifosi inglesi"
di Alessio Colombo
29 maggio 1985. Trentacinque anni
fa la notte più buia della storia del calcio allo stadio
Heysel di Bruxelles. Nel maledetto settore Z, in cui
persero la vita trentanove persone - trentadue delle
quali italiane - c’era anche Alessandro Colombo:
tradatese all’epoca 21enne tifoso bianconero, riuscì a
sopravvivere a una delle tragedie umane più terribili,
consumatasi negli attimi immediatamente precedenti la
finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool. Da
quel giorno, per lui come per migliaia di altri
appassionati, assistere ad una partita non è stata più
la stessa cosa. "Siamo arrivati a Bruxelles nel
pomeriggio e ci siamo diretti subito allo stadio -
racconta Alessandro, giornalista responsabile della
comunicazione di un ente pubblico, già collaboratore di
diverse testate locali e nazionali, che di quella serata
conserva ancora il biglietto. Uno stadio vecchio con le
gradinate tutte rotte, sassi e pietre a terra ovunque.
Abbiamo atteso nel prato davanti all’ingresso sotto il
sole assieme agli Inglesi che arrivavano con casse di
birra e bevevano. Quando siamo entrati allo stadio erano
già ubriachi". Le condizioni per garantire sicurezza
sugli spalti erano del tutto inesistenti: una piccola e
fragile rete non è bastata a dividere le ordinate
famiglie e i giovani faziosi della Signora posizionati
nel maledetto settore Z dagli irrequieti supporters dei
Reds. "Io, già reduce dalle trasferte di Atene, finale
di Coppa Campioni 1983 persa (0-1) con l’Amburgo, e di
Basilea, finale di Coppa delle Coppe 1984 vinta con il
Porto (2-1), ero arrivato a Bruxelles in pullman da
Tradate assieme ad altre 50 persone. Dodici ore di
viaggio", di speranza perché quella per i tifosi
juventini poteva essere la serata del riscatto. Perché
quella era la Juve più forte di tutte, incoronata dai
tifosi stessi, allenata da Giovanni Trapattoni, appesa
alle prodezze di Michel Platini che di fatto quella
serata la deciderà, con un rigore che spiazzò Bruce
Grobbelaar, il portiere giocoliere che non avrebbe
faticato ad ammettere l’innocente imbarazzo di quei
novanta minuti, tutt’altro che una finale. Fu piuttosto
un atto di estrema carità verso dei propri tifosi.
"Giochiamo per voi", scandì Gaetano Scirea, capitano
della Juventus, prima del match, prima di prendersi la
responsabilità di sollevare il trofeo più pesante di
tutti, mentre la passione di migliaia di tifosi,
travolta dall’irreparabile, giaceva al suolo indifesa.
"Un’ora prima dell’inizio della partita - il calcio
d’inizio era stato fissato per le 20.15 - gli Inglesi
hanno cominciato a lanciare verso di noi bottigliette di
vetro piene di terra e sassi ad altezza uomo. La folla
impaurita non ha reagito ma ha cominciato ad
indietreggiare". Quasi un invito per gli hooligans che
in un tragico delirio di onnipotenza prendevano coraggio
per caricare nuovamente. "Tutti si sono ammassati verso
il basso della curva creando una calca tremenda e
schiacciando le persone. Io sono rimasto verso l’alto
della tribuna e ho cercato di scavalcare il piccolo
muretto per uscire dallo stadio. Ovviamente la folla era
tanta e ti tiravano giù per poter salire loro e
scappare". È quello il momento in cui l’istinto di
sopravvivenza, innato nell’essere umano, fa brillare
nella mente sconvolta di Alessandro un ultimo lampo di
astuzia. "Non riuscendo a scavalcare ho deciso di
provare ad uscire dalla porticina d’ingresso - continua
lui - Mi sono liberato della sciarpa che avevo al collo
e per raggiungere la porta d’uscita sono andato verso
gli Inglesi che avanzano. Non so come e non so perché ma
sono passato in mezzo a loro senza che nessuno mi
toccasse. Così ho raggiunto la porta d’uscita dove nel
frattempo stavano entrando i poliziotti a cavallo". Un
dettaglio che pare quasi anacronistico, anche a distanza
di anni, ma che dipinge con realistica precisione un
ritratto di perversa assurdità. La sconfitta del genere
umano trasmessa in mondo visione. Scorre di fronte ai
suoi occhi la materializzazione di un incubo che nulla
ha a che fare con il calcio. E nella confusione di
istanti interminabili c’è solo una cosa da fare: salvare
la pelle e cercare di informare i propri cari, che
verranno raggiunti dalla notizia con inevitabile
ritardo. "Una volta fuori dallo stadio sul prato c’era
gente insanguinata, gente che piangeva e gente che
vagava senza sapere dove andare. Ho ritrovato alcuni
miei amici e insieme ci siamo recati verso il pullman,
siamo saliti e abbiamo aspettato fino a dopo mezzanotte
prima di poter ripartire verso casa. Quattro ore in
pullman sentendo la radio che annunciava i morti e
aspettando la fine della partita e l’uscita dei tifosi
inglesi prima di poter ripartire. Altre dodici ore di
viaggio in assoluto silenzio. Con tanta paura ma una
consapevolezza: in fondo - riflette Alessandro - noi
c’eravamo salvati tutti".
Fonte: Varesesport.com
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E se fosse meglio
così...???
"Non
prendetela come una provocazione, o peggio come una
mancanza di rispetto, ma solo per quello che è... Cioè
una riflessione, un pensiero personale. In questi giorni
da parte di noi gobbi, si è fatta forte la richiesta
affinché la Juventus F.C. si faccia carico della
promessa riguardo la realizzazione nel nuovo stadio,
della Sala della Memoria per i 39 morti dell'Heysel.
Raccolta di firme, di richieste, questa volta anche da
parte di alcune famiglie delle vittime. Invio di
raccomandate, blog in tilt, e decine di post su FB,
tutto rivolto a questa richiesta. Premesso che anche io
ho aderito, oggi mi è venuto un dubbio, spinto da un
moto di orgoglio... Rabbia... Che sicuramente ci
accomuna tutti. E se fosse meglio così...??? E se in
fondo fosse meglio che la Juventus F.C rimanesse nel
vergognoso silenzio e fastidio per la vicenda che
l'accompagna da quella sera...?? Noi e solo noi, li
abbiamo nel cuore e nella mente da quella sera, per chi
era là… Per chi l'ha vista alla tv, per chi troppo
giovane ne ha solo sentito parlare, per chi da quel
giorno è diventato più doloroso e difficile mettere
piede in uno stadio, forse non serve una Sala della
Memoria elemosinata seppur a ragione alla Juventus F.C.
A noi che avremmo voluto fosse dedicata a loro ogni
vittoria da quel giorno... A noi che con mille
striscioni li ricordiamo sempre... A noi che per anni
andando al Delle Alpi passando per "Viale Caduti di
Superga", ci chiedevamo perché nessun viale limitrofo
portasse il nome dei 39 angeli... A noi che avremmo
voluto che a Roma dalle mani di Vialli la coppa passasse
in quella dei loro cari dedicandogliela... A noi che ci
mangiamo il fegato guardando come sono ricordati sul
sito del Liverpool... O dentro l'Anfield… A noi che
andremo al "Conad Stadium"... A noi che ci tocca leggere
sul sito della Juventus F.C. che quella "è la coppa più
bella... nella serata più tragica"... A noi che moriamo
di rabbia quando in ogni stadio ce li insultano, senza
che nessuno mai senta e abbia nulla da ridire... Ecco
forse a noi basta ciò che sentiamo per loro, senza voler
a tutti i costi che la Juventus F.C. ci dia, o meglio
dia ai 39 angeli ciò che gli spetterebbe di diritto.
Forse li ricordiamo meglio nel nostro modo più puro...
Più forte... Più vero... Più dolce... Senza condividerle
con chi da quella sera è assente... Silenzioso...
Infastidito... Con chi nemmeno è stato capace di
commemorarli insieme a noi lo scorso anno, ma lo ha
fatto di nascosto come fosse una riunione massonica.
Ecco personalmente ho il dubbio di non volere nulla da
questa gente, capace magari di pretendere un biglietto o
una member per visitarla. La Sala della Memoria è dentro
ognuno di noi lo abbiamo capito... Dimostrato... Vissuto
in tutti questi anni, forse è meglio lasciare gli
indegni fuori dal tempio. E poi personalmente non credo
proverei un’emozione maggiore di quella che provo ogni
volta che visito il sito creato da Domenico Laudadio.
Ogni volta mi assale un dolore... Un’angoscia... Sentire
quella musica... Insieme a un silenzio tutto intorno da
far tremare la mano nel far scorrere piano il resto
della pagina. Quella è la mia Sala della Memoria...
Fatta col cuore... Con amore... Con rabbia... Tra mille
difficoltà... Grazie Domenico. Noi milioni di gobbi da
quella sera, portiamo quella stanza dentro di noi... In
giro per l'Italia e nel mondo. La Juventus F.C. da
Galleria San Federico... Da P.za Crimea... A C.so Galfer...
Da Boniperti… Alla Triade... Per finire agli indegni...
Porta a spasso la propria stanza del silenzio e della
vergogna"... Luca
Conforti
(NdR: Luca Conforti era presente il
29.05.1985 a Bruxelles ed ha personalmente scoperto
tutti i teli che ricoprivano i cadaveri distesi sul
piazzale dell'antistadio dell'Heysel in cerca di suo
padre, il quale fortunatamente non era fra quei morti.
Quando si vive una esperienza drammatica di tale portata
è comprensibile e giusto raccogliere tutte le parole da
chi l’ha patita frutto del dolore e della rabbia)
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
© 29 maggio 2011
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Trent’anni fa la
tragica finale Juventus - Liverpool. Parla il tarantino
che si salvò per miracolo.
Sono stato all’inferno
Gaetano Conte: "All’Heysel sono morto un po’
anch’io".
di Francesco Casula
TARANTO
- La partita non l’ha mai vista. Nemmeno in tv. "Mi
ricordo tutto. Tutto, tranne cinque minuti in cui sono
morto. Perché io sono morto in quella curva Z: da allora
non ho mai più messo piede in uno stadio e non ho mai
voluto rivedere quella partita". Gaetano Conte,
tarantino classe 1940, di quella finale insanguinata
all’Heysel conserva solo il tragico ricordo. Non ha
visto il rigore di Platini e nemmeno l’esultanza che
scatenò le polemiche. Non ha mai nemmeno sentito il
commento "più asettico e imparziale possibile" di Bruno
Pizzul. E mentre qualcuno a Torino festeggiava la
vittoria dei bianconeri sul Liverpool, lui era in
ospedale: "Venne un infermiere e in francese mi disse
che avevamo vinto per 1 a 0. Pensai che almeno qualcosa
la portavamo a casa". Quel 29 maggio di trent’anni fa
partii con tre amici e un ragazzo disabile che sognava
di vedere la finale della Juve: "Portai con me un
ragazzo disabile. Aveva 15 anni e per fargli vedere la
partita qualche settimana prima andai al Comune e lo
feci inserire sul mio stato di famiglia. In quella
bolgia è stato il mio unico pensiero: quando riuscii a
metterlo in salvo caddi per lo sfinimento. Lì cominciò
l’inferno. La folla mi travolse e persi i sensi. Quando
pochi minuti dopo mi risvegliai avevo le gambe bloccate
dalle macerie e davanti a me c’era un uomo con la
telecamera. Ricordo di aver letto "Italia" sulla
macchina da presa e iniziai a urlargli di aiutarmi, ma
lui continuava a riprendere. Gli dicevo di tirarmi fuori
dalle macerie, ma quello continuava a girare. Qualche
tempo dopo mi dissero che aveva vinto anche un premio.
Ci pensa ? Io stavo morendo e lui aveva vinto un
premio". Lo calpestarono così tanto che oggi le sue
gambe sono livide e per sopportare il dolore deve
prendere due pillole al giorno. Ma non è quello fisico
il peso maggiore da sopportare. "Quando riuscirono a
tirarmi fuori mi sistemarono su una barella di fortuna.
Accanto a me c’era il corpo di una bambina. Avrà avuto
14 o 15 anni: aveva la gola tagliata. Ho passato tre
giorni e tre notti a piangere". Non l’ha mai
dimenticata. Come non ha dimenticato i dettagli che
hanno preceduto l’inferno: "Mi ricordo gli inglesi che
bevevano: forse mettevano la cenere delle sigarette
nella birra e pochi minuti dopo diventavano cavalli in
battaglia". Non ha parole di rancore per nessuno. Anzi.
Ha rotto il silenzio a distanza di tre decenni per
continuare e proclamare l’amore per i suoi colori.
"L’amore per mia moglie è cambiato, ma non per la Juve"
afferma sorridendo. Gli occhi scuri, la barba bianca e
rada, le mani forti di chi ha trascorso una vita a
contatto con il mare: "Fino a quel giorno ho seguito la
Juve e il Taranto ovunque: ai giocatori rossoblu davo il
pesce buono e loro mi regalavano i biglietti per lo
stadio. Ma dopo quel giorno tutto è cambiato: ho
lasciato il calcio. Qualche tempo fa ho pensato di
tornare allo stadio: volevo vedere la Juve che sollevava
la coppa e così ho chiesto ai miei figli di inviare una
mail alla società: ho detto chi ero, quello che avevo
passato e ho chiesto due biglietti per Berlino. Mi hanno
risposto che i biglietti sono numerati e nominativi e
che dovevo accontentarmi di vedere Juve-Napoli. Mi sento
un po’ tradito, ma solo perché in questi 30 anni non ho
mai chiesto nulla alla società. Per curare le
conseguenze di quella finale: ho girato l’Italia, ma non
c’è niente da fare, mi devo tenere il dolore. Pensavo
solo di ricominciare da dove avevo lasciato e invece la
dovrò guardare in tv. Peccato. Però vinciamo noi, ho
giocato un biglietto con il risultato finale". Apre il
portafogli e mostra il tagliando di una scommessa:
"Questo è il risultato finale. Sicuro". E così mentre il
mondo commenta l’inchiesta del Fbi sulla Fifa, Gaetano
sogna ancora di vedere la sua Juve che alza al cielo la
coppa dalle lunghe orecchie. Quella coppa di trent’anni
fa, ma senza il sangue di quella bambina.
Fonte: La Gazzetta
del Mezzogiorno
©
29 maggio 2015 (Testo
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Non si può morire per
una partita di pallone
Io, quel pomeriggio, ero nel
settore "Z" di quel maledetto stadio. Gli inglesi furono
la mano, ma quella mano fu armata dai responsabili
dell'ordine pubblico e dall'UEFA.
Quella
curva era divisa in due settori, un settore fu venduto
ai club della tifoseria del Liverpool, l'altro settore,
il settore Z, fu venduto in Belgio, e quei biglietti
furono comperati da emigranti italiani, e belgi che
volevano solo guardare una partita. Noi eravamo in
quattro, ed un nostro amico, residente in Belgio ci
prese i biglietti. Arrivammo allo stadio il pomeriggio
ed il clima era buono, ma quando ci avvicinammo ai
cancelli subito si capì che le cose prendevano una
brutta piega. Dalla parte inglese la pressione della
folla aveva messo in fuga gli addetti ai cancelli di
tutta la curva. Noi siamo entrati senza che nessuno ci
avesse strappato il biglietto e tanto meno controllato.
Dalla parte del Liverpool entravano tutti e di tutto
senza alcun controllo. Entrarono il doppio di persone
che il settore poteva contenere; l'alcool scorreva a
fiumi, la recinzione era sfondata. Verso le 17.00
arrivarono due poliziotti a cavallo; scapparono con
affanno per non essere divorati, loro ed i cavalli,
dalla folla inglese... Eravamo entrati presto e ci
eravamo posizionati quasi al centro della curva, vicino
al divisorio dei due settori. La divisione dei settori
era fatta da due reti metalliche molto leggere, simili a
quelle che si usano per i pollai, con in mezzo un
piccolo corridoio. Ad un certo punto gli hooligans
cominciarono a premere sulla prima rete lasciando
intuire quanto fosse insussistente quella protezione.
Uno di noi quattro: Renato, che aveva conosciuto la
violenza degli inglesi in una semifinale con il
Manchester United a Torino, fu preda di una sana paura e
ci costrinse a spostarci verso lo spigolo alto della
curva. Io ero contrario, non volevo lasciare quel posto
ottimale per andare in un punto dalla visuale limitata,
ma Renato, con la sua determinazione, ci salvò la vita.
Quando gli hooligans cominciarono a bucare la prima
recinzione intervennero nel corridoio quattro
poliziotti, questo fece imbestialire ancora di più gli
inglesi che incominciarono una prima, corta, sassaiola.
I quattro poliziotti scapparono a gambe levate
precipitandosi a sprangare un cancelletto che si trovava
nel vertice basso del settore "Z"; era l'unica via di
fuga verso il campo del settore. I quattro poliziotti ed
i due precedenti a cavallo, sono stati i soli
rappresentanti dell'ordine pubblico che quel giorno ho
visto nello stadio. Le reti che dividevano i settori
vennero giù come le foglie al vento autunnale.
Incominciò l'inferno... Sulle nostre teste piovevano
oggetti come fosse un temporale d'Agosto, ma al posto
delle gocce d'acqua cadevano pietre, sassi, bottiglie,
lattine, razzi e petardi di ogni genere. Da una parte
c'erano ultras abituati alla violenza, violenza di cui
si nutrivano abitualmente negli stadi, dall'altra gente
normale che voleva solo vedere una partita, persone, che
come me, non avevano mai sferrato un pugno in tutta la
loro vita. Sotto la pressione della ferocia inglese il
settore fu preda del panico più assoluto. La folla si
ritirò verso la parte sinistra della fine della curva,
contro quel famoso muro, fino a farlo crollare.
Le
39 vittime morirono schiacciate, l'una contro l'altra,
compresse da una forza indescrivibile: la forza
sprigionata da una folla in preda al panico più totale.
Noi quattro ci eravamo spostati nello spigolo alto del
settore, a 5 o 6 metri da un chioschetto che vendeva
gelati, in quella ressa impiegammo 15 minuti a fare quei
5 o 6 mt. fino al chiosco; una volta raggiunto saltai
sul tetto come un gatto, aiutato da un uomo che era già
sopra, nell'85 avevo 22 anni. Mi fermai sul tetto ad
aiutare a salire 4-5 forse 6 persone, fino a che montò
su un ragazzo che aveva più o meno la mia età, questi mi
disse: "SALTA ! Ora mi fermo io ad aiutare gli altri".
Alzai lo sguardo, ed ho un solo ricordo: una ragazza che
inciampa nella terra di nessuno, rotola, e viene
fagocitata dalla massa rossa che avanza. Mi arrampico
sul muro della recinzione alta della curva, oltre un
volo di 5 o 6 metri verso la scarpata di terra esterna
che conteneva la struttura. Saltammo e nessuno di noi si
fece male. Eravamo fuori, salvi ed illesi; lassù
qualcuno ci aveva preso per mano. Passammo vicino al
varco carrabile d'ingresso allo stadio, dove era già
caduto il muro, e c'erano una o due ambulanze con medici
e paramedici che avevano steso tre corpi sull'asfalto.
Mi avvicinai ad uno di loro e chiesi, in francese, se ci
fosse stato bisogno di aiuto, mi rispose che erano in
arrivo altre ambulanze e gli illesi era meglio si
fossero allontanati per non intralciare i soccorsi.
Obbedì. Nel frattempo, da una cabina, Renato riuscì a
telefonare alla madre; poche parole: "siamo fuori dallo
stadio e stiamo bene, qualsiasi cosa tu veda in TV noi
quattro siamo fuori e stiamo tutti bene. Avverti le
altre famiglie". Solo il giorno dopo riuscimmo a
ricontattare l'Italia a causa della congestione delle
linee. Ci mettemmo in macchina verso Hasselt, luogo dove
il nostro amico ci ospitava. Quel viaggio fu pervaso da
un silenzio surreale, parole gelate in gola che uscirono
solo a distanza di mesi, forse anni. Quando in TV vedo
immagini di repertorio che fanno vedere tutti quei
poliziotti intorno al campo da gioco mi ribolle il
sangue. Era sufficiente che un decimo di quelle forze
dell'ordine fossero presenti il pomeriggio per evitare
la strage. Se penso a chi ha deciso di far disputare
quella finale in un vecchio stadio fatiscente come
l'Heysel, ed ha avuto la brillante idea di vendere i
settori Y e X agli hooligans e lo Z in Belgio, terra di
migranti italiani, rifletto sull'infinita stupidità
umana. Non si può morire per una partita di pallone.
Alfonso
Corradini
Fonte:
Facebook (Gruppo Io non dimentico Heysel)
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"Guarda, attaccano".
l’Heysel trent’anni dopo.
Gli hooligans e la
Coppa come una partita diventò una tragedia.
La notte del calcio
di Maurizio Crosetti
29 maggio 1985 Il tramonto,
il presagio, l’attesa: poi l’invasione del settore Z in
cui si trovavano le famiglie italiane.
Juventus-Liverpool doveva essere la sfida più bella.
Finì con trentanove vittime.
La
ragazzina aveva piccole labbra rosse di sugo, come se
avesse mangiato marmellata di fragole e poi si fosse
addormentata. Il cielo era invece di un rosso più tenue,
soffuso e morbido, voleva prendersi tutta l’aria. I
tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico
molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli
italiani, forse dipendeva proprio dal colore dominante.
I muri di pietra della città avevano, infine, un tono
rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni parevano
croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una
specie di minaccia impossibile da chiamare per nome.
Trent’anni sono un tempo definito, esatto. I figli
riescono a trovare un lavoro e magari sposarsi, un mutuo
si estingue finalmente, e una carriera lavorativa si
completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre
quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in
disordine ma anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel
giorno. La città era lurida, la percorrevano ruscelletti
di birra e piscio. Alle dieci di mattina, la Grand Place
era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi
ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le
teste appoggiate a cartoni di bottiglie usate come
cuscini. A un certo punto, da una finestra d’improvviso
spalancata volò un oggetto di cristallo, una specie di
centrotavola scagliato per disperazione contro la marea
urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si
rischiava di ferirsi anche solo passeggiando,
nell’attesa della partita. Ed era un giorno tiepido,
dolcissimo. Arrivammo allo stadio Heysel su un autobus
con sopra scritto "Italian press", non proprio
un’ideona: un gruppo di rossi feroci si accostò
ululando, e quando scendemmo ci vomitarono addosso gli
aliti alcolici. Era dunque questa, la partita più bella
del mondo ? Saranno state le sei del pomeriggio, salimmo
subito in tribuna.
Il
tramonto era meraviglioso, proprio dietro la curva alla
nostra sinistra, quella del settore Z e della tragedia.
Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i
grandi eventi sportivi, l’appassionato respira tutto,
ricorderà tutto, figurarsi l’inviato giovane alla prima
trasferta vera. Non c’erano telefonini, si scattavano
foto con gli occhi. Poi, di colpo, verso le 19.20 la
curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare
assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da
sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si
spostavano compatti. "Guarda, attaccano !", disse
qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi
(la maggioranza stava nella curva opposta: chi era
capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti,
si può morire anche per distrazione) presero a
indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò
spazio e salvezza verso il prato, da dove però i
gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i
manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi
tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi
calpestati, schiacciati, soffocati. Dalla tribuna si
capiva e non si capiva. "Ci sono dei morti", disse una
voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso
l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque,
otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno
accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro
venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava
avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando
bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora
meno. C’era morte dappertutto. Trent’anni sono un tempo
lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello
c’è solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì
dentro, chi sceglie, chi scarta. Malinconia per le
nostre vite intatte. Nel ricordo c’è l’uomo con la
pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella
collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è
il ragazzo con la gola tagliata, è una tracheotomia:
morirà entro pochi istanti. C’è un silenzio assurdo. C’è
la ragazzina con la marmellata sulle labbra piccole.
Porta scarpette bianche e blu. Persone attorno, tante.
Ora sale anche il rumore.
La
gente italiana vede i pass che penzolano al collo dei
giornalisti, allunga mani, porge foglietti con numeri di
telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma che
sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet
in quella preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi
di Tuttosport avevamo un telefono a disco di bachelite
nera e sì, qualcuno di quei numeri ignoti lo componemmo
ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare i pezzi a
braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle
Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un
disperato racconto nel buio, una pioggia di parole
intrise di sangue. Non si poteva comprendere, c’era solo
da guardare, salire e scendere scale, descrivere come
meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso di
inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla
vergogna di prendere appunti. Eravamo bimbi tra i lupi.
Il resto lo sanno tutti. Gli appelli dei capitani di
Juve e Liverpool, la voce del povero Scirea (è ancora
viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza, il
sussurro di un uomo buono, "restate calmi, giochiamo per
voi"), la partita che comincia alle 21.40 invece che
alle 20.15 (allora le finali iniziavano alle otto e un
quarto e c’era solo la Rai, solo la cadenza sbigottita e
impotente di Bruno Pizzul). I rossi e i bianconeri, il
fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro dà
il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia
roteando il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa,
irreale, e la gara non fasulla perché c’è qualcosa di
diabolico e disperato nella resistenza umana. Vince la
Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio,
un collega più anziano, piange accanto al cronista
ragazzino, e ripete "è finita, adesso è finita". Saranno
trentanove, i morti, in fondo a quella fine che invece
ricomincia ad ora incerta, almeno una volta all’anno
ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari
tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei
parenti come Otello Lorentini che li rappresentava
tutti, e adesso anche lui se n’è andato. La fine
ricomincia nell’imboscata di certi sogni, o nella
memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi,
passione, pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine,
stanchezza, viaggi, città, parole. E sempre ritornano
quelle labbra piccole, rosse, che non avranno baci, mai
più.
Fonte: La Repubblica
© 26 maggio 2015
Fotografie:
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