Privacy Policy Cookie Policy
FOTOGRAFIE HEYSEL
www.saladellamemoriaheysel.it   Sala della Memoria Heysel   Museo Virtuale Multimediale
Fotografie Heysel
   In Arte, Heysel   Stadio Heysel   Audiovisivi   Numeri e Heysel   Tragedie Sorelle   


HEYSEL 29.05.1985: LA STORIA

    














"No, neanche davanti a quei morti dimenticai di essere un fotografo"

Undici mesi fa la finale di Bruxelles tra Juventus e Liverpool. Rivediamo le immagini della tragedia con il commento in diretta del fotoreporter che le realizzò.

Sembrano immagini di guerra, ma di una guerra strana. Non ci sono ferite d'arma da fuoco su quei corpi, e nemmeno le piaghe devastanti di un'esplosione o di un incendio. Sono corpi inerti e accatastati, oppure allineati secondo un ordine che rende quell'immobilità ancora più innaturale. No, non vengono da Beirut quelle fotografie, o da un altro dei tanti terribili fronti di guerra. E forse è proprio per questo che finiscono per inorridirci ancora di più. Ma le ricordiamo ancora quelle immagini ? Non è una domanda retorica. Sono passati appena undici mesi dalla tragica e allucinante finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, eppure sembra passato un secolo. Chi parla più quelle 39 vittime, della premeditata, cieca violenza dei tifosi inglesi, della colpevole inerzia della polizia belga ? Sì, forse è di "cattivo gusto" ricordare la serata del 29 maggio scorso allo stadio di Bruxelles proprio alla vigilia di una stagione calcistica come i Mondiali del Messico: ma preferiamo senz'altro mancare di stile, anziché cullarci nell'ignoranza del ricordo. Undici mesi fa quelle immagini ci passarono sotto gli occhi ripetutamente. Le vedemmo sugli schermi della televisione, poi, qualche ora più tardi, sulle pagine dei quotidiani. Provammo orrore e raccapriccio ma non avemmo il tempo per riflettere su ciò che esse rappresentavano. Colpa nostra, certo, della nostra voglia di rimuovere, di dimenticare una storia che ci sembrava troppo inaccettabile per essere incasellata in qualche modo nella memoria. Ma colpa anche di un malinteso senso dell'attualità, che tutto brucia nel giro di pochi giorni, a volte di poche ore, che rende ogni notizia e ogni immagine uguale alle altre, che ti vieta di ragionare e di capire, di andare al di là delle pur giuste e necessarie emozioni. E’ per questo che ora abbiamo voluto di nuovo raccogliere le immagini di Bruxelles, alcune inedite, e montarle nella loro tragica successione, dando cioè al reportage quell'unità e continuità del racconto che invece undici mesi fa giornali e riviste, non ci offrirono. La scelta del bianconero non è casuale; il colore non aggiunge nulla alla cruda realtà di questo come di altri avvenimenti, ma anzi rischia in qualche modo di educarli, rendendo meno scarno e stringente il messaggio contenuto nelle immagini stesse. La maggior parte delle foto che pubblichiamo in queste pagine sono di Claudio Papi (le altre sono di Sandro Falzone), un reporter che in quel giorno tragico si trovava proprio della zona dello stadio dove avvennero gli incidenti e che quindi ebbe la possibilità di seguirli attimo per attimo.

 

E’ una testimonianza importante quella di Papi, se non altro perché ripropone una questione centrale e ricorrente nel lavoro del fotografo, soprattutto del fotogiornalista, la questione della sua doppia identità: da una parte l'uomo che prova orrore o pietà, che partecipa emotivamente, comunque, agli avvenimenti che si sviluppano davanti ai suoi occhi; dall'altra il fotografo che prima di tutto deve lavorare, far scattare continuamente la sua macchina, senza perdere tempo, senza distrazioni. E non solo perché quelle immagini sono il suo "guadagno", ma soprattutto perché esse in quanto tali, sono proprio il suo lavoro. "Raggiunta la curva "Z" con altri colleghi, racconta Papi, cominciai immediatamente a fotografare. Certo, forse in un simile momento avrei anche potuto pormi altri problemi, ma fu quella la molla che scattò in me: fotografare tutto. D'altra parte questo è il mio mestiere, e credo proprio che difficilmente l'agenzia per cui lavoro avrebbe potuto giustificare un "buco" in un servizio tanto importante. Sì, debbo confessarlo, di fronte alla morte io mi sento prima di tutto fotografo, i miei sentimenti di uomo passano in secondo piano. Non è che scompaiano, naturalmente, semplicemente io, per un processo ormai quasi automatico, li controllo, facendoli esplodere quel tanto che mi è necessario per lavorare. Ho fatto cronaca per troppi anni e proprio quella scuola mi ha insegnato a restare freddo anche di fronte alle scene più drammatiche e coinvolgenti. A Bruxelles ho lavorato con lo stesso stato d'animo che mi accompagnò quando accorsi al cinema Statuto di Torino, dove decine di persone morirono carbonizzate. Chissà, forse qualcuno può accusarmi di cinismo, ma io invece spesso ho il sospetto che la professionalità, la mia professionalità, alla fine non sia altro che un modo per difendermi dalle atrocità alle quali assisto, per resistere insomma. Che questo "distacco" poi, dia anche dei risultati, è un altro discorso. Ricordo che a Bruxelles alcuni colleghi non riuscirono a resistere davanti a certe scene, molti di loro addirittura si allontanarono, io no, rimasi e lavorai. Ma cosa dovevo fare ? Mi chiedi se economicamente quel servizio ha reso molto. L'agenzia Olimpia, che distribuisce le mie foto, ne ha vendute abbastanza sia in Italia che in Francia e in Germania. Ma non negli Stati Uniti. Da New York ci arrivò una richiesta di visionare il materiale, ma poi ci fu rispedito indietro. Sì, quel servizio ha "reso", ma non in proporzione all'importanza dell'avvenimento. Ho avuto paura ? No, mentre lavoravo no. Ero tutto preso da quello che stavo facendo e non pensavo ad altro. La paura è venuta dopo, ma oramai era tutto finito". Fonte: Mondopopolare.blogspot.it © (Tratto da: Helaberarda © 1986) Fotografie: GETTY IMAGES © (Not for Commercial Use) © Salvatore Giglio © Audio: RTBF ©

Un fotografo ricorda l'Heysel:

"Giocare fu la soluzione migliore"

Nick Didlick, candidato al premio Pulitzer per le sue foto della tragedia dell'Heysel, prima della finale di Coppa dei Campioni del 1985 tra Juventus e Liverpool, è tornato a parlarne a Gazzetta.it. Queste le sue parole: "Quel che è successo quel giorno non potrò mai dimenticarlo. Io ero in un punto centrale dello stadio e ricordo una scena che non avevo mai visto in vita mia: due settori pieni di gente allargati così completamente aperti. Poco dopo capii che quel buco tra tifosi inglesi e i tifosi della Juventus c'era perché stava accadendo qualcosa nello stadio che li spingeva. Ed era qualcosa che spingeva gli italiani in uno stretto, piccolo, angolo fino a pressarli contro la recinzione. Quindi ho iniziato a guardare in quella direzione perché era davvero insolito quando vedi una separazione di quel tipo. E mi avvicinai, da dentro il campo da gioco, fino a quando il muretto collassò. Era un muretto non particolarmente alto: 3 o 4 metri di altezza, se ricordo bene. Ma quel muretto cadde improvvisamente, schiacciando i tifosi uno sopra l'altro. Ricordo di aver pensato: "Non possono credere che facciano giocare la partita. La gente non sa quello che è successo qui ?" Capisco adesso, col senno di poi, che lo fecero perché non volevano che gli inglesi potessero mischiarsi col resto del pubblico. E probabilmente fu la decisione migliore in quel momento, perché ha consentito a più polizia di entrare nello stadio ed essere preparata per la fine della partita. E questo almeno ha permesso di concludere l'evento abbastanza bene alla fine, proprio per merito di quella decisione di giocare la partita". Fonte: Calciomercato.com © 8 gennaio 2019 Video: Gazzetta.it © Fotografia: GETTY IMAGES © (Not for Commercial Use)

 Avviso Fotografie e Materiale Multimediale

Museo Virtuale Multimediale © Domenico Laudadio Copyrights 2009 (All rights reserved)