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Sala della Memoria Heysel
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Fotografie
Heysel |
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"No, neanche
davanti a quei morti dimenticai di essere un
fotografo"
Undici mesi fa
la finale di Bruxelles tra Juventus e Liverpool.
Rivediamo le immagini della tragedia con il
commento in diretta del fotoreporter che le
realizzò.
Sembrano immagini di guerra, ma di una
guerra strana. Non ci sono ferite d'arma
da fuoco su quei corpi, e nemmeno le
piaghe devastanti di un'esplosione o di
un incendio. Sono corpi inerti e
accatastati, oppure allineati secondo un
ordine che rende quell'immobilità ancora
più innaturale. No, non vengono da
Beirut quelle fotografie, o da un altro
dei tanti terribili fronti di guerra. E
forse è proprio per questo che finiscono
per inorridirci ancora di più. Ma le
ricordiamo ancora quelle immagini ? Non
è una domanda retorica. Sono passati
appena undici mesi dalla tragica e
allucinante finale di Coppa dei Campioni
tra Juventus e Liverpool, eppure sembra
passato un secolo. Chi parla più quelle
39 vittime, della premeditata, cieca
violenza dei tifosi inglesi, della
colpevole inerzia della polizia belga ?
Sì, forse è di "cattivo gusto" ricordare
la serata del 29 maggio scorso allo
stadio di Bruxelles proprio alla vigilia
di una stagione calcistica come i
Mondiali del Messico: ma preferiamo
senz'altro mancare di stile, anziché
cullarci nell'ignoranza del ricordo.
Undici mesi fa quelle immagini ci
passarono sotto gli occhi ripetutamente.
Le vedemmo sugli schermi della
televisione, poi, qualche ora più tardi,
sulle pagine dei quotidiani. Provammo
orrore e raccapriccio ma non avemmo il
tempo per riflettere su ciò che esse
rappresentavano. Colpa nostra, certo,
della nostra voglia di rimuovere, di
dimenticare una storia che ci sembrava
troppo inaccettabile per essere
incasellata in qualche modo nella
memoria. Ma colpa anche di un malinteso
senso dell'attualità, che tutto brucia
nel giro di pochi giorni, a volte di
poche ore, che rende ogni notizia e ogni
immagine uguale alle altre, che ti vieta
di ragionare e di capire, di andare al
di là delle pur giuste e necessarie emozioni. E’ per questo che ora abbiamo
voluto di nuovo raccogliere le immagini
di Bruxelles, alcune inedite, e montarle
nella loro tragica successione, dando
cioè al reportage quell'unità e
continuità del racconto che invece
undici mesi fa giornali e riviste, non
ci offrirono. La scelta del bianconero
non è casuale; il colore non aggiunge
nulla alla cruda realtà di questo come
di altri avvenimenti, ma anzi rischia in
qualche modo di educarli, rendendo meno
scarno e stringente il messaggio
contenuto nelle immagini stesse. La
maggior parte delle foto che
pubblichiamo in queste pagine sono di
Claudio Papi (le altre sono di Sandro Falzone), un reporter che in quel giorno
tragico si trovava proprio della zona
dello stadio dove avvennero gli
incidenti e che quindi ebbe la
possibilità di seguirli attimo per
attimo.
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E’ una testimonianza importante
quella di Papi, se non altro perché
ripropone una questione centrale e
ricorrente nel lavoro del fotografo,
soprattutto del fotogiornalista, la
questione della sua doppia identità: da
una parte l'uomo che prova orrore o
pietà, che partecipa emotivamente,
comunque, agli avvenimenti che si
sviluppano davanti ai suoi occhi;
dall'altra il fotografo che prima di
tutto deve lavorare, far scattare
continuamente la sua macchina, senza
perdere tempo, senza distrazioni. E non
solo perché quelle immagini sono il suo
"guadagno", ma soprattutto perché esse
in quanto tali, sono proprio il suo
lavoro. "Raggiunta la curva "Z" con
altri colleghi, racconta Papi, cominciai
immediatamente a fotografare.
Certo,
forse in un simile momento avrei anche
potuto pormi altri problemi, ma fu
quella la molla che scattò in me:
fotografare tutto. D'altra parte questo
è il mio mestiere, e credo proprio che
difficilmente l'agenzia per cui lavoro
avrebbe potuto giustificare un "buco" in
un servizio tanto importante. Sì, debbo
confessarlo, di fronte alla morte io mi
sento prima di tutto fotografo, i miei
sentimenti di uomo passano in secondo
piano. Non è che scompaiano,
naturalmente, semplicemente io, per un
processo ormai quasi automatico, li
controllo, facendoli esplodere quel
tanto che mi è necessario per lavorare.
Ho fatto cronaca per troppi anni e
proprio quella scuola mi ha insegnato a
restare freddo anche di fronte alle
scene più drammatiche e coinvolgenti. A
Bruxelles ho lavorato con lo stesso
stato d'animo che mi accompagnò quando
accorsi al cinema Statuto di Torino,
dove decine di persone morirono
carbonizzate. Chissà, forse qualcuno può
accusarmi di cinismo, ma io invece
spesso ho il sospetto che la
professionalità, la mia professionalità,
alla fine non sia altro che un modo per
difendermi dalle atrocità alle quali
assisto, per resistere insomma. Che
questo "distacco" poi, dia anche dei
risultati, è un altro discorso. Ricordo
che a Bruxelles alcuni colleghi non
riuscirono a resistere davanti a certe
scene, molti di loro addirittura si
allontanarono, io no, rimasi e lavorai.
Ma cosa dovevo fare ? Mi chiedi se
economicamente quel servizio ha reso
molto. L'agenzia Olimpia, che
distribuisce le mie foto, ne ha vendute
abbastanza sia in Italia che in Francia
e in Germania. Ma non negli Stati Uniti.
Da New York ci arrivò una richiesta di
visionare il materiale, ma poi ci fu
rispedito indietro. Sì, quel servizio ha
"reso", ma non in proporzione
all'importanza dell'avvenimento. Ho
avuto paura ? No, mentre lavoravo no.
Ero tutto preso da quello che stavo
facendo e non pensavo ad altro. La paura
è venuta dopo, ma oramai era tutto
finito".
Fonte:
Mondopopolare.blogspot.it
©
(Tratto da: Helaberarda © 1986)
Fotografie: GETTY IMAGES
© (Not
for Commercial Use)
©
Salvatore Giglio
©
Audio:
RTBF ©
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Un fotografo ricorda l'Heysel:
"Giocare fu la soluzione migliore"
Nick Didlick, candidato al premio
Pulitzer per le sue foto della tragedia
dell'Heysel, prima della finale di Coppa
dei Campioni del 1985 tra Juventus e
Liverpool, è tornato a parlarne a
Gazzetta.it. Queste le sue parole: "Quel
che è successo quel giorno non potrò mai
dimenticarlo. Io ero in un punto
centrale dello stadio e ricordo una
scena che non avevo mai visto in vita
mia: due settori pieni di gente
allargati così completamente aperti.
Poco dopo capii che quel buco tra tifosi
inglesi e i tifosi della Juventus c'era
perché stava accadendo qualcosa nello
stadio che li spingeva. Ed era qualcosa
che spingeva gli italiani in uno
stretto, piccolo, angolo fino a
pressarli contro la recinzione. Quindi
ho iniziato a guardare in quella
direzione perché era davvero insolito
quando vedi una separazione di quel
tipo. E mi avvicinai, da dentro il campo
da gioco, fino a quando il muretto
collassò. Era un muretto non
particolarmente alto: 3 o 4 metri di
altezza, se ricordo bene. Ma quel
muretto cadde improvvisamente,
schiacciando i tifosi uno sopra l'altro.
Ricordo di aver pensato: "Non possono
credere che facciano giocare la partita.
La gente non sa quello che è successo
qui ?" Capisco adesso, col senno di poi,
che lo fecero perché non volevano che
gli inglesi potessero mischiarsi col
resto del pubblico. E probabilmente fu
la decisione migliore in quel momento,
perché ha consentito a più polizia di
entrare nello stadio ed essere preparata
per la fine della partita. E questo
almeno ha permesso di concludere
l'evento abbastanza bene alla fine,
proprio per merito di quella decisione
di giocare la partita".
Fonte:
Calciomercato.com
©
8 gennaio 2019
Video:
Gazzetta.it
©
Fotografia: GETTY IMAGES
©
(Not for Commercial Use)
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