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ITALIA 21-10-1930
Bassano del Grappa (VI)
Anni 54
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Un torneo con 250 "pulcini"
per ricordare
Amedeo e Mario morti all’Heysel
BASSANO - Si commuove ancora, Alberta
Bizzotto Spolaore, ripensando a quel terribile 29 maggio 1985
quando il marito Amedeo perse la vita allo stadio Heysel di
Bruxelles, poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei
Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool. Il figlio Giuseppe,
allora ragazzo, rimase ferito, ma si salvò per la prontezza di
riflessi di un amico del padre che lo strappò dalla bolgia di
corpi in cui si trovava rischiando di soffocare. "Impossibile
dimenticare - osserva Alberta, già consigliere comunale e attiva
in diverse associazioni - ammiro mio figlio che è riuscito a
perdonare chi causò quella strage". Furono 32 gli italiani
che
persero la vita in quell’inferno su un totale di 39 vittime e
ben 600 i feriti. Oltre ad Amedeo Spolaore, noto dentista, morì
anche l’imprenditore bassanese Mario Ronchi che lasciò la moglie
Maria Teresa e il piccolo Alessandro di appena due anni. La
tragedia ha profondamente segnato Bassano, che a distanza di 33
anni non dimentica i suoi concittadini partiti assieme ad un
gruppo di amici per vedere dal vivo quella partita. A loro e
alle altre vittime, l’Asd San Vito Bassano dedica il torneo di
calcio "Per non dimenticare Heysel". Riservato alla categoria
pulcini, si disputerà domenica agli impianti di San Vito. Il
primo fischio d’inizio è fissato per le 9. "Sono più di 250 i
ragazzini, classe 2008, che parteciperanno alla sfida suddivisi
in 16 squadre di altrettante società
italiane, tra cui la
Juventus", spiega Giancarlo Tombolato, il presidente
dell’associazione promotrice. Oltre ai portacolori bianconeri,
ci saranno quelli dell’Hellas Verona, del Vicenza calcio, della
Bassano Virtus 55 soccer team, dell’As Cittadella, del
Pordenone, del Calcio Padova, dell’Alto Accademy Ssd, solo per
citare alcune significative presenze in campo. "Non sono
previsti vinti né vincitori - precisa Tombolato - ci sarà una
classifica ma senza podio perché a prevalere saranno lo spirito
sportivo e il ricordo". Entusiasta dell’iniziativa, Alberta
Bizzotto ne evidenzia il risvolto educativo: "Insegna ai bambini
a competere e a sfidarsi rispettandosi, a contrastare la
violenza in campo: è il modo più efficace per commemorare Amedeo
e Mario". Come ricordato dall’assessore allo Sport Oscar
Mazzocchin, la manifestazione apre il filone degli appuntamenti
dedicati ai bambini del programma "Bassano città europea dello
sport". R. F.
Fonte: Corriere del Veneto
(Vicenza e Bassano)
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20 aprile 2018
Fotografie:
Ilgazzettino.it ©
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L’ANNIVERSARIO
Heysel, 30 anni
dall’incubo
La vedova: il
calcio è malato. Parla l’amico che si salvò. Un
libro su Mario e Amedeo, vittime bassanesi.
BASSANO DEL GRAPPA
(Vicenza) - Ricordare l’Heysel "per far capire
ai giovani che il calcio è uno sport malato, da
abbandonare". Lo ribadisce Alberta Bizzotto
Spolaore, che il 29 maggio del 1985 perse nello
stadio di Bruxelles il marito Amedeo e rischiò
di perdere il figlio, di 15 anni, Giuseppe,
rimasto ferito. "Mi sono chiesta perché questo
grande interesse per i trent’anni da quella
tragedia commenta Alberta, riferendosi anche
alla presentazione in sala Chilesotti del libro
sull’Heysel dei giornalisti Domenico Lazzarotto,
e Luca Pozza, con l’ex arbitro Gigi Agnolin -
ebbene mi sono data una risposta: occorre
ricordare ai giovani con meno di 30 anni che
cosa è successo quella notte. Occorre ricordare
loro che il calcio è malato, è uno sport sporco
più di altri. Guardiamo quello che sta
succedendo adesso, con lo scandalo
internazionale della Fifa, che si aggiunge ai
tafferugli davanti agli stadi, alle risse, alle
morti".
La signora Spolaore in
questi giorni è stata avvicinata da diverse
persone : "Pensare a quella sera mi turba
sempre, mi fa male. Eppure la voglio ricordare
proprio per dire che il calcio andrebbe evitato,
anche se potrebbe essere uno sport bello.
Nessuno dei miei sette nipoti pratica il
calcio". In questi anni Alberta ha condiviso il
suo dolore con l’altra vedova bassanese, che
perse il marito Mario in quella serata, Maria
Teresa Dissegna Ronchi. "Ogni tanto ci sentiamo
- racconta Alberta - ed ogni anno, il 29 maggio,
assistiamo alla santa messa assieme. Andiamo
alle 19 alla chiesa di Sant’Eusebio, nelle
colline fuori Bassano, con don Giuseppe Nicolin,
amico di mio marito. Poi andiamo a cena da una
delle mie figlie. È una serata triste e ci
consoliamo con gli affetti familiari". Venerdì sera Alberta Spolaore incontrerà un altro bassanese che fece
il viaggio a Bruxelles con suo marito, il dottor
Giovanni Costacurta, oggi primario di ortopedia
all’ospedale di Asiago, rimasto ferito in quella
tragedia. "Ero coperto dalle persone, e mi sono
salvato perché sotto di me avevo una ragazza di
15 anni,- spiega-, i suoi genitori cercavano di
alzarmi per poterle permettere di respirare. Ci
siamo trovati poi all’ospedale, mi hanno anche
chiesto se potevano darmi un passaggio". Più
sentita quella ragazza? "No, so che era di
Vercelli, sono passati 30 anni. Ricordo poi una
emozione forte mentre ero "sotto" tanta gente:
il rischio di non poter più rivedere mio figlio
di 5 mesi". Accanto a questa emozione Costacurta
conserva anche un incubo. "Quello del manganello
di un poliziotto che voleva impedirmi di
scappare da dove ero per salvarmi. Me lo vedo
ancora davanti. I belgi erano proprio
impreparati. E pensare che era solo la seconda
partita della mia vita che andavo a vedere".
Alle 19.05 del 29
maggio 1985, il sogno di vedere sollevata dalla
Juventus la coppa dei campioni divenne un incubo
nello stadio di Heysel, trasformatosi
improvvisamente in un inferno. Tra i 32 italiani
morti schiacciati c’erano anche due bassanesi:
l’imprenditore Mario Ronchi e il dentista Amedeo
Spolaore. Non erano tifosi da "curva". Facevano
parte di una comitiva di amici, appassionati di
calcio, alcuni dei quali rimasero gravemente
feriti . Erano volati in Belgio per condividere
quella che poteva essere una grande emozione.
Dopo 30 anni, la città del Grappa ha ricordato
venerdì quella tragedia mai dimenticata, che ha
segnato per sempre la vita di alcune famiglie
bassanesi e più in generale del mondo del
calcio. Alle 19.05, in museo, con i familiari
delle vittime e diversi sopravvissuti, Bassano
si è stretta nel ricordo dei suoi concittadini,
a margine della presentazione del libro "1985
Heysel - 2015 Per non dimenticare...", scritto
da Domenico Lazzarotto, Luca Pozza e l’ex
arbitro Luigi Agnolin.
Fonte:
Corrieredelveneto.corriere.it
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29 maggio 2015
Fotografie: Ilgazzettino.it
© Nucleo 1985
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"Schiacciato
com'ero, ero certissimo di morire"
Spolaore
ricorda l'Heysel
di Paola Gonzo
Giuseppe aveva
14 anni, era col papà Amedeo che non tornò. "La
mamma Alberta si è impegnata per la città anche
per riempire il vuoto". "Io ho scelto
soprattutto il silenzio".
BASSANO - A trent'anni
esatti dalla strage dello stadio Heysel di
Bruxelles del 29 maggio 1985 il tragico evento
viene ricordato da tutti i media. Tra le 39
vittime anche due bassanesi, l'imprenditore
Mario Ronchi e il dentista Amedeo Spolaore,
quest'ultimo a Bruxelles in compagnia del figlio
Giuseppe il quale, miracolosamente scampato alla
strage di cui rimase invece vittima il padre,
riporta una viva testimonianza di quanto accadde
quella maledetta notte.
Lei era appena
quattordicenne quando si verificò la strage che
oggi riesce - quasi per miracolo - a raccontare.
Cosa ricorda di quella sera ?
"In realtà siamo in
molti ad essere tornati a casa e, quindi, se di
miracolo si vuol parlare, va detto che esso
coinvolse un gran numero di persone. Tutto
accadde molto in fretta, in maniera quasi
rocambolesca, e la consapevolezza del fatto che
stava capitando qualcosa fuori dall'ordinario
era vivissima. Ho pensato di morire: la
pressione della gente che mi sovrastava era
talmente forte da aver radicato in me la
certezza che non sarei sopravvissuto a lungo in
tali condizioni".
Poi, invece, è scampato
alla strage, al contrario di suo padre. Che
ricordo ha di lui e cosa ha raccontato ai suoi
figli e nipoti riguardo al nonno ?
"Mio padre era un gran
lavoratore, un uomo rigoroso ed intelligente,
nonché impegnatissimo a gestire i suoi tre studi
dentistici e, in generale, l'attività
professionale. I miei figli e quelli delle mie
sorelle, Elena e Francesca, sanno di avere un
nonno in meno, ma non abbiamo mai parlato di lui
in maniera particolare anche se, immagino, le
mie nipoti più grandi conosceranno la sua storia
per averla sentita raccontare".
Cosa pensa del fatto
che appena dopo la strage venne disputata la
partita, mentre ancora si lavorava a fare il
conto delle vittime ?
"All'inizio la cosa mi
fece molta impressione, anche se, per scelta,
non mi son mai preoccupato di approfondire la
vicenda. In seguito, sentendo dire che le
squadre avevano giocato per rispettare un codice
di sicurezza, ho realizzato che forse questa
poteva rivelarsi una giustificazione adeguata, e
ho quindi parzialmente cambiato la mia visione
delle cose".
Come ha reagito sua
madre, Alberta Bizzotto, alla tragedia che ha
colpito la vostra famiglia ?
"Mia madre è sempre
stata una donna estremamente vicina ai suoi
figli, nonché molto attiva sia in ambito
parrocchiale - era catechista nella parrocchia
di Santa Maria in Colle - sia nei vari organismi
rappresentativi, tra cui quello scolastico. Dopo
la morte di mio padre ha acquisito una nuova e
profonda consapevolezza di sé che l'ha portata
ad impegnarsi con totale dedizione anche in
ambito politico, forse proprio per riempire il
vuoto lasciato dalla scomparsa del marito. Credo
che, quindi, le sia venuto piuttosto naturale
accettare la richiesta di candidatura per
l'allora Dc, attivandosi pienamente anche dal
punto di vista civico".
Da sopravvissuto
dell'Heysel, qual è oggi il suo rapporto con lo
sport ? È mai più entrato in uno stadio ?
"Sono sempre stato un
grande appassionato di sport e, quindi, posso
dire di non essermi portato dietro dal 1985
particolari traumi se non quello di un certo
timore qualora mi salgano addosso delle persone,
situazione alla quale forse reagisco in maniera
più forte rispetto alla media. Allo stadio ci
son andato più volte, anche se all'Heysel non
son più tornato, e non per paura di risvegliare
ricordi dolorosi, ma solo perché non ne ho mai
avuto l'occasione".
Cosa pensa del fatto
che sia stato scritto un libro in memoria della
strage dell'Heysel e, quindi, anche di suo padre
?
"L'iniziativa,
chiaramente, fa piacere. Tuttavia, a dirla
tutta, io non ho mai parlato volentieri della
vicenda, ho sempre cercato il silenzio, forse
quale forma difensiva per quanto ci è successo.
Il ricordo è importante e lo valuto
positivamente, ma è senz'altro mia madre ad
esservi legata maggiormente e con più fervore".
Fonte:
Ilgazzettino.it
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28 maggio 2015
(Testo
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Fotografie)
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29 maggio 1985,
per non dimenticare
Intervista a
Giuseppe Spolaore
All’età di 14
anni era all’Heysel con il padre Amedeo che
purtroppo è una delle 39 vittime. Dialogo tratto
dal libro "Ho fatto piangere il Brasile" di
Paolo Rossi, edito da Limina nel 2001.
Giuseppe Spolaore era
un ragazzino gracile e introverso quando visse
quel dramma che gli segnò la vita. Per anni non
ne ha mai voluto parlare, troppo grande la
ferita, troppo cruda quella realtà segnata da un
dolore lacerante in ogni poro della pelle, in
ogni angolo del cuore. Tra il cemento rattoppato
della curva Z dello stadio Heysel perse per
sempre il padre Amedeo, e si salvò per caso dopo
aver visto la morte baciarlo in una stretta
avviluppante.
Giuseppe, in quei
momenti hai pensato che per te fosse finita ?
"Dopo l’incredulità e
il panico di chi si stava rendendo conto di ciò
che stava per accadere mi sono sentito travolto
da quell’onda umana che mi ha sbattuto lontano e
poi risucchiato. Non ho più visto mio padre, che
era accanto a me. Sono caduto come tanti,
schiacciato da una pressione così potente quanto
improvvisa. Avevo diverse persone sopra di me e
neanche un briciolo di forza per dimenarmi, per
difendermi. Ero terribilmente pigiato sotto la
folla. Mi sembrava che il torace fosse prossimo
a scoppiare. Non riuscivo più a respirare e cosi
è stato per un tempo che ora non riesco a
quantificare ma mi è sembrato lungo.
Lunghissimo. Parrà strano ma in quei momenti ero
invaso da una grande calma, probabilmente stavo
per svenire, non lo so, era una sensazione
dolce. Si dolce, sicuramente non sgradevole. E
cosi, in questo modo, mi piace pensare sia morto
mio padre".
Come sei riuscito a
cavartela ?
"Non lo so
sinceramente. Per motivi che sfuggono alla mia
comprensione, quando ormai avevo perso ogni
speranza, mi sono trovato sopra ad altri e
libero dalla morsa. Steso e stremato ho inalato
forte tutta l’aria che potevo e ho guardato il
cielo. Quel cielo roseo. Avevo già perso le
scarpe e subito una frattura piuttosto brutta.
Sapete una cosa ? Non sentivo alcun dolore".
E poi qual è stata la
tua reazione più immediata ?
"In qualche modo sono
riuscito a rialzarmi in questo groviglio umano,
e devo dire che, purtroppo, mi sembra di aver
calpestato persone su persone pur di scappare
verso il basso, verso una via di fuga. Sospetto
di aver fatto proprio cosi, non ricordo bene.
Forse l’ho rimosso, certo non ne vado fiero, ma
nello stato in cui ero è stata una reazione
istintiva. Anche se non credo di aver recato
danni agli altri, ero un adolescente magro,
esile e per di più scalzo. Mezzo rotolando,
mezzo strisciando sono arrivato giù, in basso,
dove c’era una rete metallica di protezione
completamente sfondata. Li ho visto cose che non
scorderò mai: cadaveri gonfi e sanguinanti come
fossero stati infilzati da più lame. Quando sono
riuscito ad arrivare in campo ho cominciato a
fare cose strane: camminavo intontito come un
ubriaco che aveva perso la strada di casa.
Girovagavo attorno pur avendo il femore
fratturato e i legamenti fuori posto ma era come
mi avessero anestetizzato. Guardavo tutto
d’intorno, e ciò che vedevo era indefinito, le
voci, i suoni, i colori, le immagini. Sinistre
sirene d’ambulanza, ronzii d’elicotteri, i
lamenti, le urla. Poi ricordo di essermi fermato
e seduto sull’erba accanto alla porta di gioco:
osservavo fisso quello strano, improbabile,
tappeto umano che copriva una parte di stadio.
Un patchwork di morte".
Hai più visto tuo padre
?
"Devo ammettere che ho
vissuto uno stato di trance, retrospettivamente
se penso a come mi sono comportato non riesco a
trovare un filo logico. Sicuramente ero poco
lucido. Ad essere razionale avrei dovuto
guardare, cercare mio papà, vedere se gli fosse
capitato qualcosa, soccorrerlo. Ma non ero
razionale. Sentivo d’essere impotente, debole,
come in un incubo quando vorresti scappare e
senti le gambe legate al suolo, pesanti come
macigni. Strana sensazione. Intimamente, però,
ero certo che lui se la fosse cavata come me,
anzi meglio di me. Non ho pensato neppure per un
attimo che potesse essere morto. Invece, se ne
era andato portando con sé un mistero. Avevo
un’età che proprio allora mi avrebbe consentito
di cominciare a conoscerlo. Con lui non ho mai
parlato da uomo a uomo: è questo il mio
rammarico più grande. L’ho perso quando stavo
per trovarlo".
Che ti viene spontaneo
di dire dopo tanti anni da quel 29 maggio del
1985 ?
"Devo essere sincero.
Ho deciso di parlarne perché probabilmente è
giunto il momento di rivisitare quei momenti,
con il sentimento di chi, ormai uomo maturo, non
sa darsi una ragione per ciò che è successo. Le
hanno date gli altri, ci sono stati processi e
tante interpretazioni, personalmente ho cercato
più di rimuovere che di analizzare. Anche se la
prima sensazione che mi viene in mente è quella
di classificare l’accaduto in qualcosa di molto
simile a una calamita naturale. Si sono
intrecciate e sovrapposte una serie di concause
talmente consequenziali e perverse nel loro
succedersi da rendere tutto follemente
dirompente. Sicuramente gli hoolingans sono
stati il fattore scatenante, ma anche l’assenza
di polizia, la struttura inadeguata dello
stadio, le uscite di sicurezza mancanti, la
tipologia di persone che come noi si trovavano
in quel pezzo di curva, l’organizzazione
carente, hanno fatto il resto. Personalmente non
ho più rivisto immagini televisive, né mi sono
documentato leggendo giornali: avevo già visto
abbastanza. Tutto ciò, forse per autodifesa,
forse per l’esigenza di cancellare in me una
cosa più grande di me".
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Quanti anni avevi ?
"Avevo quattrodici anni
e, fatalità, era la prima volta che andavo allo
stadio. Non ero mai stato un tifoso di quelli
sfegatati, anzi avevo cominciato da poco a
seguire il calcio con una certa passione.
Diciamo dal Mondiale dell’82. Quella squadra mi
aveva dato grandi emozioni: Pablito - Cabrini -
Tardelli - Scirea - Zoff… Quasi di conseguenza
sono diventato juventino. Ricordo che quando
perdemmo la finale di Coppa Campioni ad Atene
con l’Amburgo ci rimasi molto male".
Come avete deciso di
andare a Bruxelles ?
"Ci tenevo in modo
particolare, finalmente quel trofeo stregato era
a portata di mano, una rivincita dopo la
delusione patita nella finale precedente. Io,
quello smacco di Atene, con quel gol strano da
fuori di Magath, l’avevo vissuto davanti alla
televisione. Stavolta un gruppo di amici di mio
padre aveva comprato un pacchetto comprensivo
del volo speciale da Venezia e del biglietto
d’ingresso alla partita presso un’agenzia di
viaggi, mi sembra di Treviso. Siamo partiti
molto presto la mattina da Bassano del Grappa.
Ricordo che mia madre si affacciò alla finestra
e ci salutò. Sarà l’ultima che vedrà mio padre.
Già, e pensare che all’ultimo momento lui stava
per tirarsi indietro: aveva paura dell’aereo.
Pensa te il destino ! Tra l’altro, dimenticavo,
poco prima di imbarcarci ci dissero che per
problemi, non so di che tipo, il biglietto non
sarebbe stato del settore "distinti", come
previsto, ma di curva. Prendere o lasciare.
Figuriamoci, a quel punto, chi sarebbe rimasto a
casa. Io no di certo, potete immaginare
l’emozione, contavo i minuti, le ore che mi
dividevano dall’evento. Curva o non curva,
bastava esserci. Purtroppo".
Ma quando avete
cominciato a temere il peggio ?
"Tutto iniziò circa
un’ora prima dell’incontro con il lancio di
oggetti vari da parte dei tifosi inglesi dai
quali ci divideva solo una rete sottile e
instabile, insomma, praticamente inutile. Di là
teppisti, molti dei quali ubriachi, abituati
allo scontro, agli assalti. Cantavano a
squarciagola la loro triste ballata You’ll never
walk alone che risuonava minacciosa come un
tribale messaggio di guerra. Di qua noi, gente
normale, famiglie-bambini-persone di una certa
età, gente inerme, mite. E’ stato questo il
guaio. Rispetto a noi erano anche abbastanza
distanti, ma quando hanno cominciato ad
attaccare, a spingersi in avanti, a colpire
all’impazzata con le aste delle bandiere, con
lattine di birra, lamette e quant’altro, la
gente si è spaventata ritraendosi a fisarmonica.
Nessuno li ha affrontati a muso duro. In pochi
minuti, quella curva senza vie d’uscita si è
trasformata in una trappola per topi. Terribile.
Devo dire però che nonostante ciò non sono mai
riuscito a provare vero rancore nei confronti
degli hooligans. Sarebbe stato normale
coltivare, forse per anni, forse natural
durante, l’odio nei confronti di questa gente.
Non c’entra lo spirito cristiano, anche se io lo
sono, o la cultura del perdono. Probabilmente il
fatto di non aver nessun contatto diretto con
loro, nessun faccia a faccia, il fatto di non
averli mai visti negli occhi ha giocato la sua
parte. Non ho provato odio ma solo pena. Provo
pena per loro".
Cosa pensi del fatto
che sia stata disputata egualmente la partita, e
del famoso giro d’onore dei giocatori al termine
con la coppa ?
"Forse non sono la
persona più adatta a rispondere. Ho saputo, solo
qualche giorno dopo che la Juventus aveva vinto.
Io mentre giocavano mi trovavo all’ospedale di
Bruxelles. Poi tornato in Italia non ho più
voluto sapere nulla, mi sono isolato nel mio
letto dove sono rimasto per circa un mese
ingessato. Non conosco motivazioni,
giustificazioni o ipotesi. Come ho già detto
avevo visto fin troppo, perciò non ho letto
giornali, né riguardato immagini televisive di
quella sera. Comunque non mi è piaciuto il fatto
che abbiano giocato se è questo che volete
sapere. Non realizzo, mi risulta inconcepibile:
lì, a pochi metri dal campo, c’erano cadaveri da
spostare. Con quale spirito si può correre
dietro a un pallone come nulla fosse ? Spero
oggi ci sia più sensibilità, voglio credere che
l’Heysel i suoi morti, siano serviti almeno a
quello. Almeno".
Fonte:
Anglotedesco.myblog.it
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29 maggio 2009
Fotografie: Ilgazzettino.it
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Famiglia Spolaore
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