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ITALIA
15-08-1974
CAGLIARI
Anni 10
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ITALIA
20-12-1941
CAGLIARI
Anni 43
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La tragedia
dell'Heysel: ricordo di un incubo infinito
di Simone Arbus
Quasi quarant'anni sono trascorsi dalla notte del 29
maggio 1985, una data che riecheggia come un grido di
dolore e sconcerto nel mondo del calcio e non solo.
Quella notte, lo stadio Heysel di Bruxelles doveva
essere il teatro di una festa sportiva, la finale di
Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Invece, si
trasformò in un tragico campo di battaglia che lasciò
dietro di sé 39 vittime, di cui 32 italiani, e segni
indelebili nei cuori di chi visse quell'incubo. La
tragedia si consumò prima ancora che la partita
iniziasse. Un gruppo di hooligan inglesi sfondò le
barriere che li separavano dai tifosi italiani nel
settore Z dello stadio, causando un'ondata di panico. La
folla terrorizzata si ammassò contro un muro, che non
resse l'enorme pressione e crollò, schiacciando e
soffocando decine di persone. La sicurezza, mal
preparata e insufficiente, si rivelò impotente di fronte
al caos crescente. Tra le vittime, quattro erano sardi:
Andrea e Giovanni Casula, padre e figlio cagliaritani;
Mario Spanu, originario di Perfugas; e Barbara Lisci di
Domusnovas. Andrea Casula, un bambino di soli 11 anni,
aveva ottenuto il viaggio a Bruxelles come premio per i
suoi successi scolastici. Un'esperienza che doveva
essere indimenticabile per la gioia si trasformò in una
notte di terrore e morte. L'impreparazione e
l'incapacità delle autorità belghe di gestire la
situazione furono palesi. L'organizzazione dell'evento
fu criticata duramente, e l'inadeguatezza delle misure
di sicurezza sollevò interrogativi e accuse. La tragedia
dell'Heysel costrinse il calcio europeo a riflettere
seriamente sulla sicurezza negli stadi e portò a una
serie di riforme. La madre di Andrea, guardando la
televisione, inizialmente sperava che il marito e il
figlio avessero trovato posto nelle tribune, lontano
dagli scontri. Il nome di Andrea non figurava subito tra
le vittime, alimentando una speranza che si spense
dolorosamente all'arrivo a Bruxelles, dove la donna
scoprì la cruda realtà: tra i morti c'erano suo marito
Giovanni e il piccolo Andrea, che indossava ancora il
suo fazzoletto bianconero. La tragedia dell'Heysel non è
solo un capitolo doloroso nella storia della Juventus e
del calcio italiano, ma un monito costante
sull'importanza della sicurezza e del rispetto negli
eventi sportivi. Ogni anno, i tifosi ricordano le
vittime, non solo con dolore, ma con un impegno
rinnovato a prevenire che tali tragedie si ripetano. Il
ricordo di Andrea, Giovanni, Mario, Barbara e di tutte
le vittime dell'Heysel vive nelle commemorazioni e nei
cuori di chi, quel giorno, perse molto più di una
partita di calcio. La notte del 29 maggio 1985 rimarrà
per sempre impressa nella memoria collettiva come un
simbolo di come una festa sportiva possa trasformarsi in
tragedia per colpa della violenza e della
disorganizzazione. Il ricordo di quelle vite spezzate ci
invita a riflettere e a lavorare incessantemente
affinché lo sport rimanga un luogo di gioia e non di
dolore.
Fonte:
Gazzettasarda.com
© 3 luglio 2024
Fotografie: Gazzetta dello Sport © Vistanet.it ©
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Strage dell’Heysel, 29
maggio 1985: quanti morti nella finale di Coppa dei
Campioni tra Juve e Liverpool, chi erano le vittime ?
La commovente storia
di Andrea Casula e Roberto Lorentini
di Valentina Todaro
Ricorre oggi l’anniversario della strage
accaduta dentro lo stadio Heysel di Bruxelles il 29
maggio 1985 che ha causato 39 morti di cui 32 italiani.
Poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra
Juventus e Liverpool, 39 persone morirono a causa del
crollo del muro che delimitava il settore Z dello
stadio. Il crollo però non fu accidentale, bensì venne
causato dalla fuga di alcuni tifosi italiani assaliti
dagli hooligans inglesi.
STRAGE HEYSEL 1985 MORTI: COSA
È SUCCESSO - Quella sera allo stadio Heysel di Bruxelles
milioni di tifosi attendevano l’inizio della partita
prevista per le 20.15 tra Liverpool e Juventus. Circa
un’ora prima del fischio di inizio, intorno alle 19:20,
i cosiddetti hooligan, ovvero i tifosi inglesi più
accesi e violenti, cominciarono a spingersi verso il
settore Z dello stadio sfondando le reti divisorie. Gli
inglesi, dopo la strage, raccontarono di aver caricato
più volte i tifosi juventini e i semplici spettatori che
impauriti e senza aver ricevuto aiuto da parte delle
forze dell’ordine belghe arretrarono ammassandosi contro
il muro opposto al settore della curva occupato dai
sostenitori del Liverpool. Nella grande calca che in
pochissimo tempo si creò, alcuni di loro si lanciarono
nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati. Altri
cercarono di scavalcare gli ostacoli ed entrare nel
settore adiacente, altri ancora si ferirono contro le
recinzioni pur di mettersi in salvo. Il muro a un certo
punto però non resse più e crollò per il troppo peso e
così numerose persone rimasero schiacciate, calpestate
dalla folla e uccise nella corsa verso l’uscita dello
stadio. Solo dopo più di mezz’ora, una squadra mobile
della polizia belga, che inizialmente si trovava fuori
dallo stadio giunse al suo interno per ristabilire
l’ordine. La scena che si presentò davanti agli agenti
fu quella del caos più totale, con spalti invasi da
frange inferocite di tifoseria bianconera e persone in
fuga. In tutto si contarono 39 morti e oltre 600 feriti.
Le autorità e i dirigenti UEFA infatti decisero di far
giocare quella stessa sera le due squadre per evitare
enormi disagi pubblici e tensioni con un nuovo incontro
andando anche contro il parere della società torinese.
Le due squadre scesero infatti in campo intorno alle
21:40, circa un’ora e venticinque minuti dopo quello che
doveva essere l’orario stabilito. La partita terminò con
il risultato di 1-0 per la Juventus, che si laureò
campione d’Europa per la prima volta nella sua storia.
LA STORIA DI ANDREA CASULA E ROBERTO LORENTINI -
Tra le
vittime di quella tragica serata del 1985 c’era anche il
piccolo Andrea Casula, di 10 anni originario di Cagliari
e tifoso della Juventus. Nella calca della folla il
piccolo Andrea rimase schiacciato perdendo i sensi
mentre le persone continuavano a spingere e correre per
scappare da quello stadio. Il suo destino però ad un
certo punto si incrociò con quello di Roberto Lorentini
un medico originario di Arezzo che all’epoca aveva 31
anni e padre di due bambini. L’uomo era già salvo, ma
vedendo il piccolo Andrea inerme a terra e in difficoltà
decise di tornare indietro per cercare di salvarlo.
Proprio mentre il medico effettuava un massaggio
cardiaco al bambino i due vennero nuovamente calpestati.
Alla fine delle indagini e delle ricostruzioni di quella
terribile sera, 12 hooligan sono stati condannati al
carcere per i disordini allo stadio. La federazione
belga, la Uefa e il Belgio hanno risarcito le famiglie
delle vittime. Parte del risarcimento arrivò dallo stato
italiano e da quello inglese. Oggi, all’interno dello
stadio Heysel c’è una targa che ricorda le vittime della
tragedia del 29 maggio. Roberto Lorentini, invece, il
medico che tentò invano di rianimare Andrea Casula prima
di morire, ricevette la medaglia d’argento al valore
civile.
Fonte: Tag24.it © 29 maggio 2024
Fotografie: L'Unione Sarda © Famiglia Lorentini ©
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Andrea, il bimbo mai
tornato a casa
"Sparì in un attimo"
di Pierangelo Sapegno
Quel che resta di Andrea
Casula non è solo questa immagine da bambino, che guarda
il mare sorridendo. In quella giornata di sole del 29
maggio 1985, che lasciava spazio al cielo sopra di loro,
Andrea si portò dietro, come fanno gli angeli, anche
Roberto Lorentini, un medico di Arezzo, che aveva 31
anni, e che s’era già salvato, scappando da quella calca
urlante, schiacciata, corpo su corpo, sangue su sangue,
contro il muro del settore Z. Lorentini aveva due figli.
Deve aver pensato a loro, quando ha visto quel bambino
sepolto dentro a quella ressa terribile. Deve aver avuto
un morso al cuore quando ha deciso di tornare indietro
per salvarlo, lì, nel girone della morte. Andrea aveva
appena compiuto 11 anni proprio in quei giorni. Il suo
biglietto nel settore Z dell’Heysel per la finale di
Coppa dei Campioni era il regalo che gli avevano fatto.
Era partito con il papà Giovanni, dalla Sardegna, per
guardare dal vivo i suoi idoli: Platini e Scirea. Al
mattino, era andato nella Grand Place, a vedere i
monumenti, assieme al babbo. Poi si erano incamminati
verso l’Heysel, in quella coda infinita, davanti
all’unica porta che dava accesso allo stadio, custodita
da appena 5 gendarmi, come racconta Roberto Tarlasco,
regista teatrale che aveva preparato uno spettacolo
sulla tragedia di Andrea Casula. Per un bambino, però,
era tutta gioia: anche quell’attesa. Alla fine sono
entrati. Dice Tarlasco che il loro settore era quello
riservato agli handicappati, il più piccolo dello
stadio. Di fianco c’erano i tifosi del Liverpool, che
sventolavano in alto le bottiglie di birra. Erano divisi
da una semplice rete metallica, di quelle che si usano
negli orti. I gradini della curva erano molto bassi, e
malconci. Si staccavano i pezzi con le mani, e alcuni
tifosi inglesi li prendevano e li tiravano addosso agli
juventini. Poi cominciò tutto, quella marea buttò giù le
reti, costringendo i tifosi juventini a scappare
scacciando uno contro l’altro, mentre i poliziotti li
bastonavano pure, convinti che fosse tutta colpa loro.
In quella calca, Pierpaolo Filippi, uno dei
sopravvissuti, ricorda d’averlo visto, Andrea: "C’era un
bambino nella calca. Fu un attimo. Tempo di girare la
testa e non c’era più. Qualche giorno dopo lo rividi e
mi prese il magone. Era in una foto del giornale, sotto
l’elenco delle vittime". L’aveva visto anche Lorentini.
È tornato indietro perché i bambini possono meritare la
nostra vita. L’ha raggiunto e ha cominciato a fargli i
massaggi e la respirazione bocca a bocca per rianimarlo.
Non piangeva e non gridava. Stava facendo il suo lavoro.
Anche Andrea non piangeva e non gridava. Li hanno
travolti così. Non so se la morte le vede certe cose. Ma
c’era una gran luce e un bel sole. E c’era un mucchio di
spazio nel cielo.
Fonte: La Stampa © 29 maggio 2015
Fotografia: L'Unione Sarda ©
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La dolorosa tragedia
dell’Heysel
e la morte del piccolo Andrea
di Matteo Brancati
Il 29 maggio del 1985,
prima della finale di Coppa Campioni tra Juventus e
Liverpool, morirono 39 tifosi bianconeri.
"Papà, andiamo a vedere la
finale ?". "Certo che andiamo. Gioca la Juve". Un
dialogo che, da lì a poco, sarebbe stato uno degli
ultimi tra un padre e Andrea, un giovanotto di 11 anni,
in partenza per Bruxelles. Lì, nella popolosa cittadina
belga si disputava il 29 maggio del 1985 la finale di
Coppa dei Campioni tra Bianconeri e Liverpool. Due
squadre alla ricerca di una vittoria importante,
prestigiosa per rimpinguare il proprio palmarès.
L’attesa era spasmodica, si attendeva quell’ultimo atto
da giorni, con l’emozione che saliva ora dopo ora,
minuto dopo minuto. C’erano moltissimi tifosi allo
stadio "Heysel", con la presenza di famiglie e
sostenitori neutrali che erano andati ad ammirare le
gesta di Platini e compagni. Qualcosa, però, un’ora
prima del match non andò per il verso giusto. I
supporter più caldi della squadra inglese, i cosiddetti
"hooligan", tentarono il contatto con quelli bianconeri
sistemati dalla parte opposta dell’impianto sportivo,
senza riuscirci e causando una ressa infernale nella
quale molti tifosi italiani furono schiacciati al muro
apposto al settore occupato dai sostenitori britannici.
In quei frangenti regnava il caos, con alcune persone
che si lanciarono dagli spalti per scampare al pericolo,
mentre altri tentarono, invano, di scavalcare e
posizionarsi in un altro settore dello stadio. In tutto
questo il muro, tutto d’un tratto, crollò, causando la
morte di 39 persone che rimasero intrappolate e
schiacciate dalla folla che scappava impaurita. Furono
attimi tragici, dolorosi che, ancora oggi, nessuno può
dimenticare. Andrea era lì, voleva vedere la finale
della sua Juventus dal vivo, con felicità, gioia, voglia
di esultare al gol di un elemento bianconero. In quella
tragica notte, il ragazzo con addosso la casacca di
"Madama" perse la vita, a causa di un comportamento
inspiegabile da parte di qualcuno che si era recato in
Belgio solo per creare violenza, disordini. Adesso
Andrea, insieme agli altri 38 angeli bianconeri non c’è
più. Non ha visto il gol di Platini, la Champions League
vinta contro l’Ajax nel ’96, le tre finali perse contro
Borussia Dortmund, Real Madrid e Milan, i molti
Scudetti, la Serie B, la rinascita con Antonio Conte in
panchina. Siamo sicuri, però, che da lassù sarà fiero di
tutto questo e lui, ma non solo, non vorrà più vedere o
sentire tragedie immani come quelle dell’Heysel.
Fonte:
Blogdisport.it © 29 maggio 2014
Fotografia: L'Unione Sarda
©
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Strage stadio Heysel, 29 anni fa a
Bruxelles
la morte di Giovanni e Andrea
Casula
di Francesca Mulas
Andrea Casula aveva solo 11 anni
quando suo padre Giovanni lo portò a Bruxelles:
avrebbero visto insieme la squadra del cuore, la
Juventus, giocare la finale della Coppa dei Campioni con
il Liverpool. Un regalo inaspettato per il ragazzino
cagliaritano appassionato di calcio e soprattutto di
Juve, quella dei grandi Michel Platini, Paolo Rossi,
Marco Tardelli e Cesare Prandelli. Era il 29 maggio del
1985, 29 anni fa: padre e figlio furono tra le 32
vittime italiane di una delle più grandi tragedie del
calcio, la strage dello stadio Heysel di Bruxelles.
"Massacro per una coppa", titolava il Corriere della
Sera il giorno dopo: i disordini scatenati un’ora prima
del fischio di inizio sugli spalti dai temutissimi
hooligan inglesi al seguito del Liverpool provocarono il
caos totale. La polizia belga era del tutto impreparata
a gestire la situazione tra tifosi violenti e spettatori
che cercavano di fuggire, uno dei muri divisori degli
spalti non resse alle spinte e crollò, fu il delirio:
alcuni dalle tribune si lanciarono nel vuoto, altri si
ferirono scavalcando le recinzioni, in tanti finirono
calpestati dalla ressa impazzita. Morirono 39 persone,
32 venivano dall’Italia per seguire l’avventura
juventina. In tutto questo i giocatori italiani e
inglesi scesero in campo totalmente ignari di quanto era
accaduto nelle tribune dello stadio: novanta minuti di
gioco come se nulla fosse, mentre Rai Tre trasmetteva in
diretta la partita con un impietrito Bruno Pizzul che
commentava gelido. Dopo 29 anni dalla tragedia un
processo lungo sei anni ha assolto da qualsiasi
responsabilità il presidente della Uefa e gli
amministratori di Bruxelles, mentre 12 hooligan sono
stati condannati al carcere per i disordini allo stadio.
La federazione belga, la Uefa e il Belgio sono stati
costretti a risarcire le famiglie delle vittime che
hanno ricevuto somme anche dallo stato italiano e da
quello inglese oltre a Juventus Football Club, Fiat e
calciatori juventini. Oggi nello stadio Heysel c’è una
targa che ricorda le vittime della tragedia del 29
maggio. Roberto Lorentini, il medico di Arezzo che tentò
invano di rianimare il piccolo Andrea Casula prima di
morire, ha ricevuto la medaglia d’argento al valore
civile.
Fonte: Sardiniapost.it © 29 maggio
2014
Fotografia: Gazzetta dello Sport
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Lettera ad Andrea Casula
di Francesco Alessandrella
Ciao Andrea, mi perdonerai se oggi
ti chiederò di rimanere impigliato nei miei pensieri,
ancora qualche minuto. Sarà questo vento freddo che
viene dal mare, sarà che, avendo tu l’età di mio figlio,
ti sento un po’ di casa, ma è da qualche giorno che il
tuo pensiero non mi abbandona, piacevolmente. Sai, da
quando sei andato via le cose sono cambiate molto, qui
da noi. No, non la tua Juve. Quella era forte ed è
tornata ad esserlo. C’è Pirlo, al posto di Platini e Tevez al posto di Paolo Rossi. In porta c’era un numero
uno ed ancora c’è il più forte di tutti. E sulla
panchina, caro Andrea, sapessi: uno che ti sarebbe
piaciuto. No, non è quello. È cambiato tutto quello che
c’è intorno, sai ? Ed è tutto più brutto, credimi. Io
c’ero nel 1985, eravamo quasi coetanei, io solo un po’
più grande. E so che non era così. Non c’è più il
rispetto per la vita. E per la morte. La tua, quella di
tuo padre, quella di tanti altri che l’hanno legata, la
morte, ad una storia di sport. Che poi basterebbe poco,
sai, per fermarsi al punto giusto. Basterebbe che chi si
mette lì a scrivere lo striscione o a pensare ad un
coro, da esporre o cantare durante la partita, pensasse
per un solo istante, uno, uno solo, ai tuoi occhi. Agli
occhi di un bambino di 11 anni, innamorato della sua
squadra. Alle mani di un bambino che incolla le figurine
dei calciatori sull’album. Alla precisione con cui
attacca i poster nella sua cameretta. All’attenzione con
cui legge le formazioni sul giornale. Alla gioia di un
bambino di 11 anni quando il padre gli comunica che
andranno a vedere la finale di Coppa dei Campioni in
Belgio. Basterebbe poco, Andrea. Basterebbe che ogni
volta che qualcuno intona un coro, uno qualunque, di
quelli bastardi, fosse accompagnato a casa tua, a
respirare la tua aria, quella che ti sei portato con te
sull’aereo verso il Belgio, 29 anni fa. A respirare il
vuoto che hai lasciato. Basterebbe poco. Basterebbe
prendere quello striscione e chi l’ha scritto e portarli
sulla collina dove la nebbia impedì che ragazzi che
giocavano a pallone diventassero uomini e che gli uomini
che li accompagnavano potessero raccontare la tragedia.
E sentire il silenzio dell’addio e lo schianto che è
rimasto per sempre nell’eco. Ecco, Andrea, basterebbe
poco. Non so se siamo ancora in tempo per fermarci, ma
so che è necessario provarci. Per te. Per mio figlio che
ha la tua età, una squadra nel cuore, le figurine
sull’album e i poster nella cameretta. E che merita di
più di questo mondo bastardo nel quale siamo
precipitati. Ciao Andrea !
Fonte: Spaziojuve.it © 11 marzo
2014
Fotografia:
Gazzetta.it
©
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