LORENZO ZACCARELLA
Heysel, una partita da non
giocare
A distanza di 24 anni,
desideravo riportare la mia testimonianza di quella tragica
serata
Tornare
a quel giorno di 24 anni fa, mi mette ancora i brividi sulla
pelle. Dopo la gioia di Basilea, decisi di andare anche a
Bruxelles, questa volta solo, non avendo avuto la disponibilità
degli amici che mi accompagnarono l'anno prima. Acquistai il
biglietto presso un'agenzia di viaggi attivamente tranquilla, ed
a parte qualche tafferuglio alla Gran Place e alcuni tifosi
inglesi, alticci, nei pressi dello stadio prima dell'ingresso,
il tutto si era svolto nei limiti dell'accettabilità. Ero nel
settore M, nella curva opposta a quella dove vi era il settore
Z. Si era nella stragrande maggioranza di Torino, anche se
ricordo che vicino a me vi era una ragazza che veniva da
Salerno. Lo stadio mi fece subito una pessima impressione,
gradinate vecchie, mi sembravano di terra battuta, più che di
cemento, assolutamente inadeguate per una finale, ma la tensione
per la partita ed il tifo bianconero ci allontanarono da questi
pensieri. La curva di fronte aveva un divisorio, circa a metà,
per dividere le tifoserie, la tranquilla bianconera, da quella
che si rivelò barbara, inglese. Attorno alle 19,30, ricordo, che
in quella curva dal settore inglese, iniziarono a lanciare
oggetti verso quello italiano, dapprima con distacco, poi sempre
più con maggiore continuità. Ad un certo momento, si iniziò a
vedere che la parete divisoria traballava, sotto la spinta, che
con il passare dei minuti diventava sempre più pressante da
parte degli inglesi. La polizia non interveniva e si iniziava a
capire che quella barriera aveva i minuti contati. Difatti di lì
a poco crollò, lasciando via libera alle orde dei tifosi inglesi
di attaccare i tifosi bianconeri che non erano riusciti a
riparare sul terreno di gioco e si erano concentrati nell'angolo
in alto del settore Z. Dalla nostra curva non capimmo molto di
quello che si andava consumando, si vedeva solo gente che
correva sul terreno di gioco per potersi sottrarre a quanto
stava accadendo. Ricordo che la polizia piuttosto che
intervenire in quel settore si preoccupò di mantenere a debita
distanza gli ultras bianconeri che nel frattempo erano entrati
in campo ed attraverso la pista di atletica cercavano di
raggiungere il settore opposto per difendere i nostri tifosi.
Sappiamo tutti come andò a finire, anche se in curva almeno dove
ero io non si percepì mai davvero la dimensione dell'accaduto.
Al termine della partita vennero dapprima alcuni dei nostri
calciatori sotto la curva con in mano una zebra in segno di
vittoria e questo ci fece pensare che doveva essere accaduto
qualcosa di grave, visto che non ci consegnavano la coppa, poi
successivamente, ricomparvero i nostri calciatori con la Coppa e
questo
ci fece credere che forse quanto accaduto potesse essere meno
grave del previsto. Poi tutti velocemente in pullman e via verso
Torino. Solo al mattino in un autogrill francese, leggendo i
giornali ci rendemmo conto dell'immane tragedia e da quel
momento ci fu la corsa ai telefoni per contattare casa, dove
attendevano con grande ansia nostre notizie. Su quanto detto e
scritto da televisione e stampa dopo forse è meglio non
parlarne. Credo come dice qualcuno che se al posto della Juve ci
fosse stata un'altra squadra le polemiche sarebbero state di
altro tono, ma si sa sulla Juve qualsiasi argomento è motivo per
denigrarla.
Certo a mio parere la società non si è comportata
come noi tifosi avremmo desiderato, sempre troppo distaccata
dall'evento e questo, reputo, sia per sempre una grande
incancellabile mancanza. Per il resto dico che spesso ho pensato
a quella sera e sono sempre più convinto a differenza di tanti
altri tifosi che la partita non si sarebbe dovuta giocare o
almeno non si sarebbe dovuta giocare in quel contesto. I tifosi
bianconeri erano ben disposti verso la partita ed erano
soprattutto consapevoli che l'impegno era difficile e che si
sarebbe potuto benissimo perdere. Fossero stati consapevoli
dell'accaduto avrebbero accettato di lasciare lo stadio e
tornare a casa. Penso che le forze dell'ordine avrebbero dovuto
e potuto fare uscire dallo stadio i tifosi della Juve, che erano
in stragrande maggioranza e tenere all'interno dello stesso gli
inglesi. Sono convinto che sarebbe stato possibile, anche perché
mi pare che gli stessi inglesi forse consapevoli di quanto
avevano causato, si fossero lasciati dietro quei momenti di
pazzia e si fossero quasi inaspettatamente frenati dal
proseguire dal loro intento. L'Heysel, resta la pagina più
triste della nostra storia, una pagina che non si può chiudere
come quando si gira quella di un libro. Non possiamo e non
dobbiamo dimenticare. Non dimenticare è un dovere non solo di
tutti gli uomini di sport, ma di tutte quelle persone che
credono negli uomini.
4 giugno 2009
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
FABIO
ZAGARI
HEYSEL - Per non dimenticare
mai
Mio
padre, che oggi non c'è più, era Juventino. La passione per il
calcio nacque da lui. Con lui ho girato l'Europa a vedere
partite di calcio, le partite della Juventus. In quegli anni,
quando ero ancora un bambino, seguivo il calcio inglese. Amavo
il calcio inglese. Prima Telecapodistria, poi Telemontecarlo, mi
rendevano i sabati pomeriggio un evento. C'era Sandro Piccinini
a commentare. Amavo tutto di quel football. Stadi, giocatori,
passione. Il Subbuteo mi faceva rivivere quegli eventi,
quell'atmosfera. Ricordo come se fosse oggi il primo match in
cui vidi l'Arsenal. Era un NLD. Poi arrivò Bruxelles, ed il
trauma fu forte. Ma non mi arresi... La notte precedente la
partita non chiusi occhio. L'orario del treno che ci avrebbe
portato nella capitale belga era previsto per le 5 del mattino,
e l'unico mio pensiero era quello di non dimenticare nulla:
sciarpa, maglietta "Ariston" con il numero 10 sulla schiena,
bandierone donatomi un anno prima da un amico di mio padre
assiduo frequentatore della curva Filadelfia. Quando il treno si
mosse dalla stazione avevo solo 13 anni (14 da compiere) e dopo
la cocente sconfitta di soli 24 mesi prima ad Atene, alla quale
presenziai insieme a mio padre, ero più che mai convinto che la
"mia" Juventus mi avrebbe regalato la gioia più bella,
nonostante i soliti "rosiconi" compagni di scuola mi avessero
"augurato" nel modo più sarcastico possibile una buona partita.
Giungemmo finalmente a Bruxelles nel mezzo pomeriggio, e la
prima tappa fu la Grand Place, ritrovo principale nel centro
cittadino. Da buon adolescente ero rapito da un luogo
completamente nuovo ai soliti canoni della piccola città di
provincia in cui abitavo, e feci fatica a capire in quale
situazione gravavano le centinaia di tifosi inglesi riversi sul
ciottolato, ricordo però oggi come allora la "pila" di lattine e
di bottiglie che giacevano in mezzo alla piazza, inevitabilmente
vuote. Ci spostammo in direzione ovest, per raggiungere il
ristorante di una famiglia di emigranti pugliesi parenti di un
nostro compagno di viaggio a depositare le valige e gli oggetti
personali. Lungo la strada i segni evidenti del passaggio degli
inglesi era sotto gli occhi di tutti: vetrine spaccate, bidoni
della nettezza urbana scoperchiati e buttati a terra, e come
cornice a tutto questo scempio nemmeno un agente delle forze
dell'ordine. Posati i bagagli ci accingemmo verso lo stadio.
Saliti sul tram che ci avrebbe portato verso l'impianto
sportivo, i "grandi" cominciarono a consigliare a tutti,
soprattutto a noi giovani, di togliere sciarpe e qualunque
vessillo che facesse capire i colori di appartenenza. Rimasi
quasi incredulo a tale richiesta, soprattutto quando mio padre
mi disse di togliermi sciarpa e cappello e di metterli subito
all'interno del piccolo zainetto che conteneva qualche panino e
una bottiglietta d'acqua.
Il dialogo
tra i compagni di viaggio assunse in me un timore sempre più
forte quando la lingua parlata divenne il francese, un metodo
che consentì di mischiarsi tra la gente del luogo senza dar modo
agli inglesi che man mano salivano sul mezzo pubblico di inveire
contro tifosi della fazione opposta. Giunti in prossimità dello
stadio la polvere che si alzava dal movimento degli zoccoli dei
cavalli era inverosimile, la temperatura aveva sopravanzato i 25
gradi, e i pochi agenti a cavallo sparsi lungo gli ingressi
avevano un'aria incredula nel vedere giungere una così vasta
mole di persone, quasi come se non fossero pronti ad un simile
scenario. Finalmente dentro, dentro lo stadio. Nella curva
opposta a quella tribuna "Z" che da lì a poco sarebbe diventata
un inferno. Ma in quel momento tutte le paure avute prima e
durante il tragitto erano scomparse, ero tornato bambino, con la
mia sciarpa al collo, il mio cappellino e quegli occhi grandi di
chi, da adolescente, vede e dovrebbe vedere il mondo,
soprattutto quello sportivo, come qualcosa in cui credere, per
cui gioire, da raccontare per tutta la propria esistenza prima
agli amici, poi ai figli e infine anche ai nipotini. Ma... Ad un
certo punto, saranno state le 19:30 minuto più minuto meno,
cominciai a vedere nella curva opposta un fitto lancio di
qualcosa che non riuscivo a definire, forse bottigliette vuote,
e in un primo momento pensai a qualcosa di divertente, qualcosa
che intratteneva il pubblico pagante ad un'ora dall'inizio
dell'incontro. I miei occhi non riuscivano a distogliere lo
sguardo da quel settore, nonostante la "nostra" curva fosse un
tripudio di cori e colori. Nel momento in cui cominciai a vedere
un continuo movimento ondulatorio da parte della gente qualcosa
in me comincio a non quadrare, così chiesi a mio padre che cosa
stesse accadendo. Lui, esperto, maturo e sicuramente più
consapevole di me, mi disse di non preoccuparmi, che non stava
succedendo nulla, ma così non era. Un boato scosse quella parte
di stadio. Crollò quel muro. Un rumore che oggi è diventato
inevitabilmente sordo, ma che mi porto ancora dietro. Nella
"nostra" curva i più si accorsero della tragedia che si stava
consumando, e i più esagitati cominciarono a sfondare le reti di
recinzione per riversarsi ad aiutare i nostri connazionali, la
paura a quel punto prese inevitabilmente il sopravvento.
Di quei momenti ricordo solo
una cosa: dissi a mio padre "andiamo via" ! Se ci ripenso oggi a
quella frase trovo quasi irreale che un bambino di 13 anni, dopo
essere giunto in una città straniera a vedere i suoi idoli
giocarsi la finale di una Coppa dei Campioni, abbia voglia di
andare via, scappare. Ma è altresì vero che quel bambino, in
quel luogo, in quella circostanza, aveva perso tutti i punti di
orientamento, tutti i motivi per cui era arrivato lì. Quel
bambino di 13 anni voleva vedere una partita, voleva vedere
Platini, Boniek, Tardelli, Cabrini, voleva gioire per una
vittoria e probabilmente anche piangere per una sconfitta, ma
mai e poi mai avrebbe voluto vedere la paura, lo sgomento, la
urla, il dolore per una "semplice" partita di calcio. Usciti
dallo stadio il fuggi fuggi era generale. Gente che scappava in
ogni direzione, il servizio d'ordine fuori controllo, se mai un
controllo lo avesse avuto. Ho visto persone lanciarsi dentro ai
tram in corsa pur di andare via, ho visto coloro che vendevano
bandiere e sciarpe chiudere di corsa le bancarelle e scomparire.
Ho visto cose che mai avrei voluto
vedere. Giungemmo finalmente in quel ristorante di emigranti
pugliesi. La partita era già cominciata, mio padre per non darmi
ancora preoccupazioni mi disse di sedermi a guardare la "mia"
Juventus. Ma il mio primo pensiero fu rivolto a mia madre.
Volevo sentire la mamma, volevo parlare con lei, volevo dirgli
che io e papà stavamo bene. Le notizie erano già di pubblico
dominio. Ricordo adesso come ieri i volti di quei signori che ci
ospitarono, ricordo i loro occhi mentre guardavano noi bambini.
Non c'erano i cellulari e le linee erano intasate. Non si
riusciva a chiamare casa. Mio padre riuscii a parlare con suo
fratello, rassicurandolo che stavamo bene, che eravamo al
sicuro. Gli disse di chiamare immediatamente casa per
rassicurare mamma. Mia madre, in seguito, mi raccontò che non
credette ad una sola parola di mio zio, pensando invece che
fosse successo qualcosa, che era impossibile che eravamo
riusciti a parlare con lui e non con lei. Mi racconto che dopo
aver sentito Bruno Pizzul dare quelle notizie iniziò a piangere,
senza riuscire più a parlare. Le ultime immagini che ricordo di
quel giorno sono quelle della stazione dei treni. Ricordo
inglesi ubriachi con la testa piena di sangue giungere alla
spicciolata ad aspettare un treno che li avrebbe riportati a
casa, ricordo mio padre e con lui altri compagni di viaggio fare
da protezione a noi bambini per proteggerci da qualunque tipo di
aggressione che si sarebbe potuta ancora consumare. Ricordo che
arrivò un treno, ricordo che ci salii sopra, ricordo che ero
stanco, tanto stanco. Ricordo che mi addormentai, credendo di
lasciarmi alle spalle una giornata che invece non potrò mai
dimenticare. Arrivammo a casa. Alla stazione di Ventimiglia
c'erano i giornalisti del Secolo XIX che ci aspettavano, per
domandarci notizie, impressioni, come stavamo e cosa avevamo
visto. Nessuno parlò, nessuno ebbe voglia di spiccicare parola.
Il venerdì quando tornai a scuola compagni e maestra mi
accolsero quasi come un reduce di guerra. Mi rimarranno impressi
per sempre i loro volti, mi rimarrà impressa per sempre quella
mattinata a parlare di cosa accadde, di vedere la mia foto,
quella di mio padre, e di molti altri compagni di avventura
impresse sul giornale. Non misi piede in uno stadio di calcio
per oltre un anno. Quel giorno in me morirono 39 persone e con
loro morì anche la mia voglia di un certo calcio. Quello delle
radioline, quello dei mercoledì sera per la Coppa dei Campioni.
Quel calcio che un adolescente vive nella sua vita una volta
sola, quel calcio che in quel maledetto 29 maggio ha tolto la
semplicità e lo stupore di una partita di pallone ad un bambino
di 13 anni. Ora mi è scesa una lacrima, quella lacrima che per
sempre accompagnerà il ricordo. I nomi delle persone cadute a
Bruxelles, i tifosi che volevano festeggiare una partita di
calcio. (Omissis lista caduti).
29 maggio 2014
Fonte:
Jucirdanro.blogspot.it
A-Z |
ERIK
ZAMPIERI
"Heysel: come un friulano di 17
anni riuscì a sopravvivere alla tragedia
di Nicola Angeli
Il pasianese Erik Zampieri la
sera del 29 maggio 1985 si trovava nel famigerato settore "Z",
che venne preso d'assalto dai tifosi del Liverpool. Il suo
ricordo, a 30 anni dalla strage, è più vivo che mai.
"All’inizio
avevo avuto l’idea di andare a vedere la semifinale d’andata con
il Bordeaux, a Torino, ma i biglietti andarono esauriti in
pochissimo tempo. Così mi rifeci con l’acquisto del tagliando
per la finale: viaggio, pernotto e ingresso allo stadio, per un
totale di 190mila lire. Al vecchio "Comunale" ero già andato
alcune volte, ma quella sarebbe stata la prima che seguivo la
Juve in Europa". Nel momento in cui il pasianese Erik Zampieri -
all’epoca 17enne - stava comprando il "pacchetto" per la
famigerata sera dell’Heysel, al club "Stella d’oro" di
Campoformido, non sapeva che quella sarebbe stata anche la sua
ultima trasferta per la squadra amata. La passione è rimasta
intatta - si definisce ancora un grande tifoso della Vecchia
Signora - ma il tragico evento non lo ha di certo stimolato per
altri viaggi continentali. A distanza di 30 anni dalla serata
dell’Heysel ci ha raccontato la sua storia, di come abbia
evitato per poco una fine che per 39 persone è stata
inesorabile. Quello che oggi è lo stadio "Re Baldovino" vene
raggiunto da Erik in corriera, dopo un viaggio di 23 ore, una
notte ad Anversa e un paio di giri turistici tra Waterloo e la
capitale belga. Dall’approccio "cittadino" con i tifosi Reds non
si sarebbe mai aspettato quanto accaduto poche ore dopo:
"C’erano ovviamente molti supporter avversari in giro per la
città, che se la spassavano in allegria. Ho assistito a scambi
di sciarpe, bevute collettive e grandi cantate nelle strade e
nelle piazze. Nulla faceva presagire qualcosa di sinistro".
L’ARRIVO ALLO STADIO - Le prime avvisaglie negative sono invece
arrivate al momento dell’arrivo allo stadio: "Vidi una distesa
enorme di bottiglie e lattine a terra. Coprivano completamente
tutta la zona circostante l’impianto. Mentre ci avvicinavamo i
tifosi inglesi ci insultavano, prendevano a pugni la nostra
corriera e inneggiavano alla Roma, all’epoca la rivale
principale della Juve. Una volta scesi ci dirigemmo verso il
nostro settore, lo "Z". All’ingresso ci furono controlli molto
blandi, tanto è vero che passò di certo della gente senza nessun
titolo. Eravamo sistemati accanto al tifo del Liverpool, con un
gruppetto sparuto di poliziotti - saranno stati al massimo
cinque - a tenere a bada la situazione. Ci divideva una rete che
oggi non andrebbe bene nemmeno per un pollaio".
L’INIZIO DELLA
FINE - In poco tempo la situazione assunse una piega traumatica:
"A pochi minuti dal nostro insediamento, saranno state le 19:30,
gli inglesi iniziarono a tirarci delle pietre, recuperate dai
ruderi dello stadio che era in condizioni impensabili per gli
standard moderni. Successivamente abbassarono la rete e
iniziarono una carica verso di noi. Ormai non esistevano più
decisioni autonome, ma era la forza della folla a decidere per
te. Io venni spinto in alto, fortunatamente, e riuscii a
guadagnare l’uscita. Altri in basso, verso la parte che poi
sarebbe crollata, con il destino che tutti conosciamo".
INFORMAZIONI CONFUSE
- Oggi una situazione del genere sarebbe
impensabile per la velocità con cui viaggiano le informazioni,
ma 30 anni fa le cose erano nettamente diverse. Il paradosso
volle che chi stesse seguendo il match in televisione fosse più
informato su quello che stava accadendo che i diretti, e
involontari, protagonisti. "Non mi rendevo davvero conto di
quanto stesse accadendo - racconta Erik. Una volta spinto fuori
mi misi a girare attorno all’impianto per rientrare da qualche
parte. Ci tenevo talmente tanto che non mi sarei mai voluto
perdere il match. Mentre giravo vedevo che arrivavano delle
ambulanze, con delle persone che venivano portate via.
Raccontare la vicenda freddamente assume un significato, ma
viverla in maniera diretta aveva un qualcosa di talmente
alienante che non ti permetteva di ragionare con lucidità.
Continuando a camminare guadagnai un ingresso e, in maniera
casuale, riuscii ad arrivare alla curva occupata interamente dal
tifo juventino, il settore opposto a quello in cui stavo
all’inizio". LE TRISTI CERTEZZE - A quel punto le cose
iniziarono a farsi più chiare per Erik: "Saranno state le 21
circa, la partita ancora non era iniziata. La voce che ci
fossero dei morti ormai si era diffusa, e la parte più calda del
tifo si stava già organizzando per operare una vendetta. Per
fortuna, mentre si stavano per muovere in massa, iniziarono a
giocare. L’incontro venne seguito in maniera relativa, ma il
fatto che solo ci fosse distrasse per un po’ la gente. Alla fine
i giocatori della Juventus vennero sotto gli spalti. A più
riprese la cosa è stata criticata, come se in quel modo si
volesse infangare la memoria dei morti, ma credo che
strategicamente sia stata la cosa migliore. L’attenzione dei
tifosi che meditavano la caccia all’inglese venne infatti
distolta, e una volta finite le "celebrazioni" dall’altra parte
non c’era più ombra di nessun tifoso avversario".
IL RITORNO A
CASA - "Una volta in albergo telefonai ai miei genitori, che si
tranquillizzarono per il fatto che stessi bene. Ero talmente
sconvolto che non chiesi nulla a loro e mi misi a dormire.
Quello che accadde veramente, in quelle proporzioni, lo scoprii
leggendo i giornali i giorni dopo. In corriera con noi ci fu
solo un signore che rimediò la rottura dei legamenti del
ginocchio, ma per il resto nessuno si fece male". Con Erik, e i
suoi compagni di viaggio, il destino fu clemente. Lo stesso non
avvenne per altre 39 persone, che videro sacrificare la loro
vita per una partita di calcio.
29 maggio 2015
Fonte: Udinetoday.it
A-Z |
MARIO
ZANNI
Io c'ero
Io
c'ero. Allora giovane tifoso oggi quasi cinquantenne, ma per
sempre ricorderò quel pomeriggio e quella notte. Ricordo una
ragazza sarda che mi diede dell'acqua, ricordo le immagini
dell'altra parte e di come cresceva la rabbia per non poter far
nulla, ricordo di come seppi tutta la verità da una ragazza
italiana appoggiata a un balcone di una casa a Bruxelles
affacciata su una strada nera come la morte. Tutte le luci
pubbliche erano state spente, forse per aumentare la nostra
paura. Ricordo Gaetano Scirea che ci disse "sarete aiutati dalle
forze di polizia dentro e fuori lo stadio", ricordo anche quando
chiesi a un gendarme su un pulmino vuoto di accompagnarmi alla
macchina come rispose: "N'est pas possible!" Ora posso solo
ricordare chi a casa non è tornato, e chi non avrà più vicino i
suoi cari grazie all'incompetenza di persone che ora certamente
hanno già dimenticato. Voglio terminare con le parole di Michel
Platini:
"Quella sera non è mai
finita, è rimasta nella nostra vita... E ci resterà per sempre".
Certo, quella sera resterà per sempre nella mia vita, la prima
(e anche ultima partita vista in uno stadio) finale cercata con
tutte le forze di ventitreenne Juventino, e da allora portata
nel cuore solo per onorare il ricordo di trentanove Martiri.
Mario Zanni, Cannero
Riviera (VB)
17 novembre 2012
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
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