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Lorenzo Zaccarella
Curva Settore Z
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Fabio Zagari
Curva Settore Z
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Erik Zampieri
Curva Settore Z
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Mario Zanni
Curva Settore Z
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Heysel, una partita da
non giocare
di Lorenzo Zaccarella
A distanza di 24 anni,
desideravo riportare la mia testimonianza di quella
tragica serata.
Tornare
a quel giorno di 24 anni fa, mi mette ancora i brividi
sulla pelle. Dopo la gioia di Basilea, decisi di andare
anche a Bruxelles, questa volta solo, non avendo avuto
la disponibilità degli amici che mi accompagnarono
l'anno prima. Acquistai il biglietto presso un'agenzia
di viaggi attivamente tranquilla, ed a parte qualche
tafferuglio alla Gran Place e alcuni tifosi inglesi,
alticci, nei pressi dello stadio prima dell'ingresso, il
tutto si era svolto nei limiti dell'accettabilità. Ero
nel settore M, nella curva opposta a quella dove vi era
il settore Z. Si era nella stragrande maggioranza di
Torino, anche se ricordo che vicino a me vi era una
ragazza che veniva da Salerno. Lo stadio mi fece subito
una pessima impressione, gradinate vecchie, mi
sembravano di terra battuta, più che di cemento,
assolutamente inadeguate per una finale, ma la tensione
per la partita ed il tifo bianconero ci allontanarono da
questi pensieri. La curva di fronte aveva un divisorio,
circa a metà, per dividere le tifoserie, la tranquilla
bianconera, da quella che si rivelò barbara, inglese.
Attorno alle 19,30, ricordo, che in quella curva dal
settore inglese, iniziarono a lanciare oggetti verso
quello italiano, dapprima con distacco, poi sempre più
con maggiore continuità. Ad un certo momento, si iniziò
a vedere che la parete divisoria traballava, sotto la
spinta, che con il passare dei minuti diventava sempre
più pressante da parte degli inglesi. La polizia non
interveniva e si iniziava a capire che quella barriera
aveva i minuti contati. Difatti di lì a poco crollò,
lasciando via libera alle orde dei tifosi inglesi di
attaccare i tifosi bianconeri che non erano riusciti a
riparare sul terreno di gioco e si erano concentrati
nell'angolo in alto del settore Z. Dalla nostra curva
non capimmo molto di quello che si andava consumando, si
vedeva solo gente che correva sul terreno di gioco per
potersi sottrarre a quanto stava accadendo. Ricordo che
la polizia piuttosto che intervenire in quel settore si
preoccupò di mantenere a debita distanza gli ultras
bianconeri che nel frattempo erano entrati in campo ed
attraverso la pista di atletica cercavano di raggiungere
il settore opposto per difendere i nostri tifosi.
Sappiamo
tutti come andò a finire, anche se in curva almeno dove
ero io non si percepì mai davvero la dimensione
dell'accaduto. Al termine della partita vennero dapprima
alcuni dei nostri calciatori sotto la curva con in mano
una zebra in segno di vittoria e questo ci fece pensare
che doveva essere accaduto qualcosa di grave, visto che
non ci consegnavano la coppa, poi successivamente,
ricomparvero i nostri calciatori con la Coppa e questo
ci fece credere che forse quanto accaduto potesse essere
meno grave del previsto. Poi tutti velocemente in
pullman e via verso Torino. Solo al mattino in un
autogrill francese, leggendo i giornali ci rendemmo
conto dell'immane tragedia e da quel momento ci fu la
corsa ai telefoni per contattare casa, dove attendevano
con grande ansia nostre notizie. Su quanto detto e
scritto da televisione e stampa dopo forse è meglio non
parlarne. Credo come dice qualcuno che se al posto della
Juve ci fosse stata un'altra squadra le polemiche
sarebbero state di altro tono, ma si sa sulla Juve
qualsiasi argomento è motivo per denigrarla. Certo a mio
parere la società non si è comportata come noi tifosi
avremmo desiderato, sempre troppo distaccata dall'evento
e questo, reputo, sia per sempre una grande
incancellabile mancanza. Per il resto dico che spesso ho
pensato a quella sera e sono sempre più convinto a
differenza di tanti altri tifosi che la partita non si
sarebbe dovuta giocare o almeno non si sarebbe dovuta
giocare in quel contesto. I tifosi bianconeri erano ben
disposti verso la partita ed erano soprattutto
consapevoli che l'impegno era difficile e che si sarebbe
potuto benissimo perdere. Fossero stati consapevoli
dell'accaduto avrebbero accettato di lasciare lo stadio
e tornare a casa. Penso che le forze dell'ordine
avrebbero dovuto e potuto fare uscire dallo stadio i
tifosi della Juve, che erano in stragrande maggioranza e
tenere all'interno dello stesso gli inglesi. Sono
convinto che sarebbe stato possibile, anche perché mi
pare che gli stessi inglesi forse consapevoli di quanto
avevano causato, si fossero lasciati dietro quei momenti
di pazzia e si fossero quasi inaspettatamente frenati
dal proseguire dal loro intento. L'Heysel, resta la
pagina più triste della nostra storia, una pagina che
non si può chiudere come quando si gira quella di un
libro. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare. Non
dimenticare è un dovere non solo di tutti gli uomini di
sport, ma di tutte quelle persone che credono negli
uomini.
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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HEYSEL - Per non
dimenticare mai
di Fabio Zagari
Mio
padre, che oggi non c'è più, era Juventino. La passione
per il calcio nacque da lui. Con lui ho girato l'Europa
a vedere partite di calcio, le partite della Juventus.
In quegli anni, quando ero ancora un bambino, seguivo il
calcio inglese. Amavo il calcio inglese. Prima
Telecapodistria, poi Telemontecarlo, mi rendevano i
sabati pomeriggio un evento. C'era Sandro Piccinini a
commentare. Amavo tutto di quel football. Stadi,
giocatori, passione. Il Subbuteo mi faceva rivivere
quegli eventi, quell'atmosfera. Ricordo come se fosse
oggi il primo match in cui vidi l'Arsenal. Era un NLD.
Poi arrivò Bruxelles, ed il trauma fu forte. Ma non mi
arresi... La notte precedente la partita non chiusi
occhio. L'orario del treno che ci avrebbe portato nella
capitale belga era previsto per le 5 del mattino, e
l'unico mio pensiero era quello di non dimenticare
nulla: sciarpa, maglietta "Ariston" con il numero 10
sulla schiena, bandierone donatomi un anno prima da un
amico di mio padre assiduo frequentatore della curva
Filadelfia. Quando il treno si mosse dalla stazione
avevo solo 13 anni (14 da compiere) e dopo la cocente
sconfitta di soli 24 mesi prima ad Atene, alla quale
presenziai insieme a mio padre, ero più che mai convinto
che la "mia" Juventus mi avrebbe regalato la gioia più
bella, nonostante i soliti "rosiconi" compagni di scuola
mi avessero "augurato" nel modo più sarcastico possibile
una buona partita. Giungemmo finalmente a Bruxelles nel
mezzo pomeriggio, e la prima tappa fu la Grand Place,
ritrovo principale nel centro cittadino. Da buon
adolescente ero rapito da un luogo completamente nuovo
ai soliti canoni della piccola città di provincia in cui
abitavo, e feci fatica a capire in quale situazione
gravavano le centinaia di tifosi inglesi riversi sul
ciottolato, ricordo però oggi come allora la "pila" di
lattine e di bottiglie che giacevano in mezzo alla
piazza, inevitabilmente vuote. Ci spostammo in direzione
ovest, per raggiungere il ristorante di una famiglia di
emigranti pugliesi parenti di un nostro compagno di
viaggio a depositare le valige e gli oggetti personali.
Lungo la strada i segni evidenti del passaggio degli
inglesi era sotto gli occhi di tutti: vetrine spaccate,
bidoni della nettezza urbana scoperchiati e buttati a
terra, e come cornice a tutto questo scempio nemmeno un
agente delle forze dell'ordine. Posati i bagagli ci
accingemmo verso lo stadio. Saliti sul tram che ci
avrebbe portato verso l'impianto sportivo, i "grandi"
cominciarono a consigliare a tutti, soprattutto a noi
giovani, di togliere sciarpe e qualunque vessillo che
facesse capire i colori di appartenenza. Rimasi quasi
incredulo a tale richiesta, soprattutto quando mio padre
mi disse di togliermi sciarpa e cappello e di metterli
subito all'interno del piccolo zainetto che conteneva
qualche panino e una bottiglietta d'acqua.
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Il
dialogo tra i compagni di viaggio assunse in me un
timore sempre più forte quando la lingua parlata divenne
il francese, un metodo che consentì di mischiarsi tra la
gente del luogo senza dar modo agli inglesi che man mano
salivano sul mezzo pubblico di inveire contro tifosi
della fazione opposta. Giunti in prossimità dello stadio
la polvere che si alzava dal movimento degli zoccoli dei
cavalli era inverosimile, la temperatura aveva
sopravanzato i 25 gradi, e i pochi agenti a cavallo
sparsi lungo gli ingressi avevano un'aria incredula nel
vedere giungere una così vasta mole di persone, quasi
come se non fossero pronti ad un simile scenario.
Finalmente dentro, dentro lo stadio. Nella curva opposta
a quella tribuna "Z" che da lì a poco sarebbe diventata
un inferno. Ma in quel momento tutte le paure avute
prima e durante il tragitto erano scomparse, ero tornato
bambino, con la mia sciarpa al collo, il mio cappellino
e quegli occhi grandi di chi, da adolescente, vede e
dovrebbe vedere il mondo, soprattutto quello sportivo,
come qualcosa in cui credere, per cui gioire, da
raccontare per tutta la propria esistenza prima agli
amici, poi ai figli e infine anche ai nipotini. Ma... Ad
un certo punto, saranno state le 19:30 minuto più minuto
meno, cominciai a vedere nella curva opposta un fitto
lancio di qualcosa che non riuscivo a definire, forse
bottigliette vuote, e in un primo momento pensai a
qualcosa di divertente, qualcosa che intratteneva il
pubblico pagante ad un'ora dall'inizio dell'incontro. I
miei occhi non riuscivano a distogliere lo sguardo da
quel settore, nonostante la "nostra" curva fosse un
tripudio di cori e colori. Nel momento in cui cominciai
a vedere un continuo movimento ondulatorio da parte
della gente qualcosa in me comincio a non quadrare, così
chiesi a mio padre che cosa stesse accadendo. Lui,
esperto, maturo e sicuramente più consapevole di me, mi
disse di non preoccuparmi, che non stava succedendo
nulla, ma così non era. Un boato scosse quella parte di
stadio. Crollò quel muro. Un rumore che oggi è diventato
inevitabilmente sordo, ma che mi porto ancora dietro.
Nella "nostra" curva i più si accorsero della tragedia
che si stava consumando, e i più esagitati cominciarono
a sfondare le reti di recinzione per riversarsi ad
aiutare i nostri connazionali, la paura a quel punto
prese inevitabilmente il sopravvento. Di quei momenti
ricordo solo una cosa: dissi a mio padre "andiamo via" !
Se ci ripenso oggi a quella frase trovo quasi irreale
che un bambino di 13 anni, dopo essere giunto in una
città straniera a vedere i suoi idoli giocarsi la finale
di una Coppa dei Campioni, abbia voglia di andare via,
scappare. Ma è altresì vero che quel bambino, in quel
luogo, in quella circostanza, aveva perso tutti i punti
di orientamento, tutti i motivi per cui era arrivato lì.
Quel bambino di 13 anni voleva vedere una partita,
voleva vedere Platini, Boniek, Tardelli, Cabrini, voleva
gioire per una vittoria e probabilmente anche piangere
per una sconfitta, ma mai e poi mai avrebbe voluto
vedere la paura, lo sgomento, la urla, il dolore per una
"semplice" partita di calcio. Usciti dallo stadio il
fuggi fuggi era generale. Gente che scappava in ogni
direzione, il servizio d'ordine fuori controllo, se mai
un controllo lo avesse avuto. Ho visto persone lanciarsi
dentro ai tram in corsa pur di andare via, ho visto
coloro che vendevano bandiere e sciarpe chiudere di
corsa le bancarelle e scomparire.
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Ho
visto cose che mai avrei voluto vedere. Giungemmo
finalmente in quel ristorante di emigranti pugliesi. La
partita era già cominciata, mio padre per non darmi
ancora preoccupazioni mi disse di sedermi a guardare la
"mia" Juventus. Ma il mio primo pensiero fu rivolto a
mia madre. Volevo sentire la mamma, volevo parlare con
lei, volevo dirgli che io e papà stavamo bene. Le
notizie erano già di pubblico dominio. Ricordo adesso
come ieri i volti di quei signori che ci ospitarono,
ricordo i loro occhi mentre guardavano noi bambini. Non
c'erano i cellulari e le linee erano intasate. Non si
riusciva a chiamare casa. Mio padre riuscii a parlare
con suo fratello, rassicurandolo che stavamo bene, che
eravamo al sicuro. Gli disse di chiamare immediatamente
casa per rassicurare mamma. Mia madre, in seguito, mi
raccontò che non credette ad una sola parola di mio zio,
pensando invece che fosse successo qualcosa, che era
impossibile che eravamo riusciti a parlare con lui e non
con lei. Mi racconto che dopo aver sentito Bruno Pizzul
dare quelle notizie iniziò a piangere, senza riuscire
più a parlare. Le ultime immagini che ricordo di quel
giorno sono quelle della stazione dei treni. Ricordo
inglesi ubriachi con la testa piena di sangue giungere
alla spicciolata ad aspettare un treno che li avrebbe
riportati a casa, ricordo mio padre e con lui altri
compagni di viaggio fare da protezione a noi bambini per
proteggerci da qualunque tipo di aggressione che si
sarebbe potuta ancora consumare. Ricordo che arrivò un
treno, ricordo che ci salii sopra, ricordo che ero
stanco, tanto stanco. Ricordo che mi addormentai,
credendo di lasciarmi alle spalle una giornata che
invece non potrò mai dimenticare. Arrivammo a casa. Alla
stazione di Ventimiglia c'erano i giornalisti del Secolo
XIX che ci aspettavano, per domandarci notizie,
impressioni, come stavamo e cosa avevamo visto. Nessuno
parlò, nessuno ebbe voglia di spiccicare parola. Il
venerdì quando tornai a scuola compagni e maestra mi
accolsero quasi come un reduce di guerra. Mi rimarranno
impressi per sempre i loro volti, mi rimarrà impressa
per sempre quella mattinata a parlare di cosa accadde,
di vedere la mia foto, quella di mio padre, e di molti
altri compagni di avventura impresse sul giornale. Non
misi piede in uno stadio di calcio per oltre un anno.
Quel giorno in me morirono 39 persone e con loro morì
anche la mia voglia di un certo calcio. Quello delle
radioline, quello dei mercoledì sera per la Coppa dei
Campioni. Quel calcio che un adolescente vive nella sua
vita una volta sola, quel calcio che in quel maledetto
29 maggio ha tolto la semplicità e lo stupore di una
partita di pallone ad un bambino di 13 anni. Ora mi è
scesa una lacrima, quella lacrima che per sempre
accompagnerà il ricordo. I nomi delle persone cadute a
Bruxelles, i tifosi che volevano festeggiare una partita
di calcio. (NdR:
omissis lista caduti)
Fonte:
Jucirdanro.blogspot.it
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Nicola Di Fazio
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Heysel: come un
friulano di 17 anni riuscì a sopravvivere alla tragedia
di Nicola Angeli
Il pasianese Erik
Zampieri la sera del 29 maggio 1985 si trovava nel
famigerato settore "Z", che venne preso d'assalto dai
tifosi del Liverpool. Il suo ricordo, a 30 anni dalla
strage, è più vivo che mai.
"All’inizio
avevo avuto l’idea di andare a vedere la semifinale
d’andata con il Bordeaux, a Torino, ma i biglietti
andarono esauriti in pochissimo tempo. Così mi rifeci
con l’acquisto del tagliando per la finale: viaggio,
pernotto e ingresso allo stadio, per un totale di
190mila lire. Al vecchio "Comunale" ero già andato
alcune volte, ma quella sarebbe stata la prima che
seguivo la Juve in Europa". Nel momento in cui il
pasianese Erik Zampieri - all’epoca 17enne - stava
comprando il "pacchetto" per la famigerata sera
dell’Heysel, al club "Stella d’oro" di Campoformido, non
sapeva che quella sarebbe stata anche la sua ultima
trasferta per la squadra amata. La passione è rimasta
intatta - si definisce ancora un grande tifoso della
Vecchia Signora - ma il tragico evento non lo ha di
certo stimolato per altri viaggi continentali. A
distanza di 30 anni dalla serata dell’Heysel ci ha
raccontato la sua storia, di come abbia evitato per poco
una fine che per 39 persone è stata inesorabile. Quello
che oggi è lo stadio "Re Baldovino" vene raggiunto da
Erik in corriera, dopo un viaggio di 23 ore, una notte
ad Anversa e un paio di giri turistici tra Waterloo e la
capitale belga. Dall’approccio "cittadino" con i tifosi
Reds non si sarebbe mai aspettato quanto accaduto poche
ore dopo: "C’erano ovviamente molti supporter avversari
in giro per la città, che se la spassavano in allegria.
Ho assistito a scambi di sciarpe, bevute collettive e
grandi cantate nelle strade e nelle piazze. Nulla faceva
presagire qualcosa di sinistro".
L’ARRIVO ALLO STADIO - Le prime
avvisaglie negative sono invece arrivate al momento
dell’arrivo allo stadio: "Vidi una distesa enorme di
bottiglie e lattine a terra. Coprivano completamente
tutta la zona circostante l’impianto. Mentre ci
avvicinavamo i tifosi inglesi ci insultavano, prendevano
a pugni la nostra corriera e inneggiavano alla Roma,
all’epoca la rivale principale della Juve. Una volta
scesi ci dirigemmo verso il nostro settore, lo "Z".
All’ingresso ci furono controlli molto blandi, tanto è
vero che passò di certo della gente senza nessun titolo.
Eravamo sistemati accanto al tifo del Liverpool, con un
gruppetto sparuto di poliziotti - saranno stati al
massimo cinque - a tenere a bada la situazione. Ci
divideva una rete che oggi non andrebbe bene nemmeno per
un pollaio".
L’INIZIO DELLA FINE - In poco
tempo la situazione assunse una piega traumatica: "A
pochi minuti dal nostro insediamento, saranno state le
19:30, gli inglesi iniziarono a tirarci delle pietre,
recuperate dai ruderi dello stadio che era in condizioni
impensabili per gli standard moderni. Successivamente
abbassarono la rete e iniziarono una carica verso di
noi. Ormai non esistevano più decisioni autonome, ma era
la forza della folla a decidere per te. Io venni spinto
in alto, fortunatamente, e riuscii a guadagnare
l’uscita. Altri in basso, verso la parte che poi sarebbe
crollata, con il destino che tutti conosciamo".
INFORMAZIONI CONFUSE - Oggi una
situazione del genere sarebbe impensabile per la
velocità con cui viaggiano le informazioni, ma 30 anni
fa le cose erano nettamente diverse. Il paradosso volle
che chi stesse seguendo il match in televisione fosse
più informato su quello che stava accadendo che i
diretti, e involontari, protagonisti. "Non mi rendevo
davvero conto di quanto stesse accadendo - racconta
Erik. Una volta spinto fuori mi misi a girare attorno
all’impianto per rientrare da qualche parte. Ci tenevo
talmente tanto che non mi sarei mai voluto perdere il
match. Mentre giravo vedevo che arrivavano delle
ambulanze, con delle persone che venivano portate via.
Raccontare la vicenda freddamente assume un significato,
ma viverla in maniera diretta aveva un qualcosa di
talmente alienante che non ti permetteva di ragionare
con lucidità. Continuando a camminare guadagnai un
ingresso e, in maniera casuale, riuscii ad arrivare alla
curva occupata interamente dal tifo juventino, il
settore opposto a quello in cui stavo all’inizio".
LE TRISTI CERTEZZE - A quel
punto le cose iniziarono a farsi più chiare per Erik:
"Saranno state le 21 circa, la partita ancora non era
iniziata. La voce che ci fossero dei morti ormai si era
diffusa, e la parte più calda del tifo si stava già
organizzando per operare una vendetta. Per fortuna,
mentre si stavano per muovere in massa, iniziarono a
giocare. L’incontro venne seguito in maniera relativa,
ma il fatto che solo ci fosse distrasse per un po’ la
gente. Alla fine i giocatori della Juventus vennero
sotto gli spalti. A più riprese la cosa è stata
criticata, come se in quel modo si volesse infangare la
memoria dei morti, ma credo che strategicamente sia
stata la cosa migliore. L’attenzione dei tifosi che
meditavano la caccia all’inglese venne infatti distolta,
e una volta finite le "celebrazioni" dall’altra parte
non c’era più ombra di nessun tifoso avversario".
IL RITORNO A CASA - "Una volta
in albergo telefonai ai miei genitori, che si
tranquillizzarono per il fatto che stessi bene. Ero
talmente sconvolto che non chiesi nulla a loro e mi misi
a dormire. Quello che accadde veramente, in quelle
proporzioni, lo scoprii leggendo i giornali i giorni
dopo. In corriera con noi ci fu solo un signore che
rimediò la rottura dei legamenti del ginocchio, ma per
il resto nessuno si fece male". Con Erik, e i suoi
compagni di viaggio, il destino fu clemente. Lo stesso
non avvenne per altre 39 persone, che videro sacrificare
la loro vita per una partita di calcio.
Fonte:
Udinetoday.it
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Io c'ero
Io c'ero. Allora giovane
tifoso oggi quasi cinquantenne, ma per sempre ricorderò
quel pomeriggio e quella notte. Ricordo una ragazza
sarda che mi diede dell'acqua, ricordo le immagini
dell'altra parte e di come cresceva la rabbia per non
poter far nulla, ricordo di come seppi tutta la verità
da una ragazza italiana appoggiata a un balcone di una
casa a Bruxelles affacciata su una strada nera come la
morte. Tutte le luci pubbliche erano state spente, forse
per aumentare la nostra paura. Ricordo Gaetano Scirea
che ci disse "sarete aiutati dalle forze di polizia
dentro e fuori lo stadio", ricordo anche quando chiesi a
un gendarme su un pulmino vuoto di accompagnarmi alla
macchina come rispose: "N'est pas possible!" Ora posso
solo ricordare chi a casa non è tornato, e chi non avrà
più vicino i suoi cari grazie all'incompetenza di
persone che ora certamente hanno già dimenticato. Voglio
terminare con le parole di Michel Platini: "Quella sera
non è mai finita, è rimasta nella nostra vita... E ci
resterà per sempre". Certo, quella sera resterà per
sempre nella mia vita, la prima (e anche ultima partita
vista in uno stadio) finale cercata con tutte le forze
di ventitreenne Juventino, e da allora portata nel cuore
solo per onorare il ricordo di trentanove Martiri.
Mario Zanni, Cannero
Riviera (VB)
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Saladellamemoriaheysel.it
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