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Reduci Heysel S
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Testimonianze Reduci Heysel (S)
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ENZO SALDUTTI

Il mio sogno ormai incubo

Era una dolce serata primaverile, ero un giovane innamorato della Signora e nei miei sogni altro non vedevo che la Coppa dei Campioni, altro non vedevo che Platini e Boniek: il dolore di Atene mi tormentava ma sentivo la ferita non più dolente; per la prima volta con gioia incommensurabile entrai al Comunale: la vidi, li vidi; una gara memorabile: Juve 3 Bordeaux 0; nel mio cuore più che nella mente alberga quella fiaccolata illuminante il cielo di Torino, alberga quel movimento elegante e sinuoso di Michel che ignora alcuni compagni eludendoli uno per uno e involarsi onde abbracciare il bello di notte; tremavo di ebrezza perché in quel momento già vedevo qualcosa di più strabiliante: la finale con la più forte squadra di tutta Europa; alla radiolina l’annuncio era: Liverpool 4 Panathinaikos 0; già sapevo come ottenere il biglietto della partita gloriosa; pervenni in Belgio, era il 29 di maggio, il giorno moriva dolcemente, una brezza di vento appena udibile aleggiava rinfrancando la calura; lo stadio ricolmo contava le ore come gli antichi orologi: le ombre coprenti il prato verde poco alla volta; tutto, ogni minima cosa annotavo per raccontare quella dolcezza il giorno dopo; ma un evento sinistro e diabolico era in agguato per me, per noi ignari dell’imponderabile; di incanto: non bandiere, non più cori; grida orripilanti, volti impauriti, attoniti, stravolti, mi circondavano; di fronte e di lontano vedevo una travolgente onda e orda rossa che tumultuava come un turbinio infernale, abissale, dantesco; non comprendevo appieno però intuivo; vi era ancora luce, il tramonto pareva fermo, immobile; vidi e rammento due segni premonitori: una torma di cavalli lenti e vaganti circondare il campo, vidi Cabrini venire a noi, Platini e Tardelli più lontani; un evento crudele e terrificante era di già accaduto ma conoscevo poco, pochissimo, quasi nulla; la partita non cominciava: il mio sogno ormai incubo; ecco il tramonto, la notte e le voci di Neal e Scirea bilingue: non rispondete alle provocazioni, giochiamo per voi; dopo ciò: nulla più seppi; la mia agognata partita cominciò in un clima difficilmente spiegabile con le parole: erano solo e soltanto pure sensazioni convulse; più di questo non so che dire; or bene, una riflessione postuma; primariamente diciamo che Boniperti non volle in alcun modo disputare quella partita ma il dichiarato rifiuto non riuscì a convincere la dirigenza dell’Uefa la quale ordinò di giocarla in modo perentorio qualunque balordaggine lo scemo dica; quel giro di campo avvenne perché nello spogliatoio della Juve non era per nulla compresa quella tragedia nella vera entità; come opinare che tutto repentinamente si conoscesse con i mezzi comunicativi di allora ? In qual modo immaginare calciatori di quella professionalità e intelligenza riportare in campo il trofeo dopo un evento così drammatico ? E poiché esistono i cretini appare fatica ardua un colloquio di qualsivoglia natura: per il deficiente conta la coppa e poco importa il rimanente; la partita fu giocata con impegno da entrambe le squadre e l’azione del goal fu di una folgorante bellezza: un allungo di Platini parte fulmineo dalle vicinanze dell’area juventina e sorvola tutto il campo prima di lambire il polacco ormai solo e centrale dinanzi a Grobbelaar (due marcatori vanamente lo braccano e Gillespie ne aggancia il piede di appoggio mentre il bianconero allunga la traiettoria del pallone con un leggero colpo di testa a seguire); la fuga titanica di Boniek viene bloccata fuori area ma la caduta rovinosa lo conduce ben oltre il dischetto del rigore: che vede il direttore di gara stazionante ancora vicino all’area juventina proprio nella zona da cui era partito quel lancio fulmineo ? Che vede ? La zona precisa del fallo ? Come la vede l’idiota che parla da idiota e non se ne accorge ? Non vigeva allora la norma dell’ultimo uomo: altrimenti il Liverpool avrebbe dovuto giocare in 10 più di mezzora del secondo tempo ma ciò è un dettaglio come lo è il rifiuto della Supercoppa europea che i bianconeri avrebbero dovuto giocare con l’Everton; il trofeo venne ufficialmente assegnato alla Juve dall’Uefa ma vi fu il tenace diniego di Boniperti e comunque la deficiente ignoranza è la bestia selvaggia più difficile da trattare.

5 giugno 2014

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

 

ALBERTO SALVADORI

Alberto Salvadori, detto Bambara, sopravvissuto alla tragedia dell'Heysel

Un racconto per la nostra piccola storia

di Ivo Camerini

Tra i tifosi italiani al seguito della Juve nella famosa finale di Coppa dei Campioni allo Stadio Heysel di Bruxelles, c'era anche Alberto Salvadori, detto Bambara. In una veloce chiacchierata al  Circolo Bar Esso ci ha raccontato come si fosse salvato stando tra i morti per quasi un'ora mascherandosi con due sciarpe del Liverpool e come vide e visse i tre assalti dei tifosi inglesi che nell'ultimo depredarono i morti degli orologi e delle catenine d'oro. Un evento, una tragedia che vorrebbe raccontare nei dettagli e che ancor oggi al ricordo gli fa piangere il cuore.

22 gennaio 2017

Fonte: Letruria.it

A-Z

30 anni dopo l’Heysel: il ricordo di chi c’era

di Mattia Roseo

29 maggio 1985, Belgio, città di Bruxelles, Stadio Heysel, ore 19:20, mancava poco all’inizio della finale di Champions League tra Juventus e Liverpool. L’evento sportivo finisce qui per lasciar spazio alla tragedia, quando gli hooligans dei Reds cominciano la carica verso i sostenitori bianconeri nel settore adiacente.

Quello che accadde poi lo sappiamo tutti quanti, indifferentemente dalla fede calcistica, ma c’è una differenza sostanziale tra il sapere e il capire. Per capire fino in fondo la profondità di una tragedia del genere bisogna aver vissuto quei momenti in prima persona ed è proprio con una testimonianza inedita che vorremmo far capire a tutti cosa accadde perché, saperlo lo sappiamo tutti… A parlare è Marco Santucci, 46 enne di Ardea (Roma), impiegato, personal trainer e allenatore di pallavolo. Tifoso juventino da sempre ha trasmesso il suo credo anche alla sua famiglia: il calcio è uno sport e una passione, mentre per molti altri è solo odio, rancore, invidia, rabbia e frustrazione da sfogare. Lui quel 29 maggio 1985 si trovava allo Stadio Heysel e qui inizia il nostro viaggio nei suoi ricordi.

Quanti anni avevi all’epoca dei fatti, con che spirito sei andato alla partita e con chi ? Eri già un tifoso assiduo frequentatore di stadi o alle prime esperienze ?

"Ero alle prime esperienze, forse ero stato solo un paio di volte allo stadio qui a Roma. Avevo 15 anni e partii col cuore che impazziva dall’ emozione. Fu una sorpresa di mio padre: probabilmente per omaggiare un referente per la loro attività lavorativa, una piccola compagnia aerea di Milano gli offrì la possibilità di andare a Bruxelles con tanto di biglietto per il match. Partii dopo avere imbarcato un Club di Forlì non conoscendo nessuno".

Che sensazioni si respiravano in città ? C’era già aria di tensione ?

"Non direi, anche se gli inglesi avevano preso possesso del centro cittadino e della Grand Place in particolare, come loro uso e costume. E’ una mentalità anglosassone: la sera c’è la partita, ma di giorno io faccio il padrone a casa d’altri. Mi ricordo la Grand Place completamente ricoperta di casse da birra. Loro saranno stati tra i quindici e i ventimila, ognuno di loro si sarà bevuto una cassa, puoi immaginare lo scenario ! Però non c’erano avvisaglie di incidenti, anche se giravano voci di vendette da cercare dopo i pestaggi subiti a Roma l’anno prima nella finale vinta con la Roma".

Dove ti trovavi nel momento in cui si consumava la tragedia e come hai vissuto quei momenti ? Ti sei accorto subito della gravità della situazione ?

"Eravamo nella tribuna più lontana, non quella adiacente al settore Z, in pratica fronte telecamere. Non ci accorgemmo della gravità".

Come, tra voi tifosi, vi spiegavate quello che stava succedendo e che voci circolavano ?

"Più che pensare osservavamo: lo sfondamento degli inglesi, la reazione della curva juventina dal lato opposto e la tensione che era salita alle stelle. Che ci fossero stati guai seri era chiaro, ma io personalmente non ricordo che ci fosse una presa di coscienza chiara e dimensionata di ciò".

Secondo te le colpe sono da attribuirsi di più alla disorganizzazione delle forze dell’ordine locali o alla violenza incontrastabile degli hooligans inglesi ?

"Voglio essere molto franco: la colpa per me fu al 90% della disorganizzazione. Stadio decrepito, gestione della vendita dei biglietti assurda, forze dell’ordine inefficienti, disorganizzate e in numero esiguo. Eppure le abitudini degli inglesi erano note da almeno dieci anni in giro per l’Europa. Però, per assurdo, se avessero trovato di fronte a loro degli ultras, non ci sarebbe stato neanche un morto, perché non ci sarebbe stata una fuga disordinata di gente "normale" verso quel muro che poi è ceduto".

Come hai accolto la decisione di giocare comunque nonostante gli organi competenti fossero ovviamente al corrente dell’accaduto ?

"Come detto, lì per lì non avevo capito. A posteriori, col senno di poi, anche del Marco oggi quarantaseienne, secondo me hanno fatto bene dal loro punto di vista. Guadagnarono, infatti, due ore per salvare il salvabile in termini di organizzazione dell’ordine pubblico. Moralmente, però, è ovvio che hanno fatto malissimo, costringendo i giocatori ad una macabra recita".

Una volta abbandonato lo stadio che scenario ti sei trovato di fronte ? A quel punto era impossibile non capire cosa fosse accaduto ?

"Voci più precise furono proprio verso l’uscita che ci raggiunsero. Lo scenario era irreale: con tutto ciò che era accaduto, per raggiungere i pullman che ci avrebbero portati all’ aeroporto, percorrevamo un tragitto completamente mischiati ai tifosi inglesi. Dopo un centinaio di metri mi sentii quasi strozzare alla gola perché qualcuno da dietro aveva afferrato la mia sciarpa aggredendomi. Reagii a calci e pugni. Non so neanche dire quanti potevano essere: dieci, venti, forse di più. In pochi attimi finii a terra travolto da una valanga di calci. Durò pochi secondi, mi coprii bene la testa e me la cavai con un occhio nero. Mi rialzai da solo e sentii la voce del mio "accompagnatore" che mi chiamava da arrampicato sopra un albero. Alla faccia della promessa fatta a mio padre di badare a me, mettiamoci pure un pizzico di macabra ironia in questo triste ricordo…".

Cosa hai fatto quando ti sei reso totalmente conto della tragedia ? Fai parte di quelle persone che hanno cercato di mettersi in contatto telefonicamente con l’Italia tramite l’aiuto di giornalisti/abitanti della zona ?

"No, forse l’incoscienza di un ragazzo di 15 anni non mi fece subito capire l’importanza di dare mie notizie a casa al più presto. Telefonai solo all’arrivo in Italia. Mia madre era distrutta, aveva passato la notte a cercare mie notizie tramite amicizie "pesanti" in polizia, ma nulla da fare. Fui un po’ stronzo, in effetti…".

Come ha cambiato, se l’ha cambiata, questa tragedia la tua percezione delle cose ? Vivi il calcio sempre allo stesso modo o qualcosa in te è cambiato ?

"Io credo che solo chi ha perso qualcuno o si è trovato in quell’inferno di settore può avere subito un trauma tale da non volere neanche più sentire parlare di calcio. Negli anni ho sempre seguito con passione la Juventus, anche da abbonato a Torino, malgrado io viva a Roma. Sei-sette partite all’anno le faccio sempre in giro per l’Italia".

Cosa pensi di quelle tifoserie avverse che spesso e volentieri ancora oggi inneggiano all’Heysel per schernire gli juventini ?

"Penso sia meglio che non me ne capiti mai uno tra le mani. Penso che lo hanno fatto impunemente per troppi anni e in modo troppo sfacciato, penso che l’odio verso la Juventus e i suoi tifosi è inverosimile e che lo fomentano media indecorosi, che pur di vendere una copia in più perdono la dignità da più di trent’anni".

Pensi che tragedie del genere possano capitare ancora o ora gli stadi e la sicurezza sono migliorati ?

"Credo sia impossibile, almeno a livello di calcio internazionale e nazionale d’élite. La violenza in termini di scontri tra tifosi è un’altra cosa, con mille sfaccettature, e molto presto porterà a conseguenze davvero gravi, è solo questione di tempo".

Hai una frase o un pensiero da dedicare a quel giorno e a quelle 39 vittime ?

"Sì: continuerò sempre a difenderne la memoria non solo dai miserabili che la insultano, ma anche dai cialtroni che usano e strumentalizzano quella strage per gettare fango addosso alla Juventus e per togliersi la soddisfazione di dire "quella coppa non vale" ! Capito che ignobili ?! A milioni di finti moralisti non è mai interessato nulla di quei morti, anzi, a loro interessa solo screditare e anche di fronte ai morti sbavano rabbia e odio calcistico, usandoli persino".

Nel ringraziare ancora Marco per la sua disponibilità e collaborazione, speriamo con lui che il ricordo di questa tragedia nel suo trentesimo anniversario possa essere utile per porre fine alla strumentalizzazione ai danni dei caduti e della società Juventus, che si tratti di discorsi al bar o negli stadi. Nessun dramma dovrebbe confondersi con lo sport, dall’Heysel a Superga, impariamo a goderci il tifo in maniera sana e lasciamo odio e frustrazione fuori dal calcio per rispettare almeno la memoria di chi non c’è più.

28 maggio 2015

Fonte: Calciogazzetta.it

A-Z

LAURA SAU

"Quella notte all’Heysel eravamo convinte di morire"

di Filippo Rubertà

Nel 1985 a Bruxelles c’erano anche l’attuale assessore di Verbania Laura Sau e la sorella Silvia: "Da allora il calcio non lo guardiamo più nemmeno in tv".

Ancora adesso quando ci ritroviamo in situazioni di affollamento ci prende la paura". Nella notte dell’Heysel - quando il 29 maggio 1985 allo stadio di Bruxelles morirono 39 persone - c’erano anche l’attuale assessore all’Ambiente di Verbania Laura Sau e la sorella Silvia. Allora erano studentesse universitarie che lavoravano saltuariamente come accompagnatrici turistiche. Non erano appassionate di calcio, ma nel 1983 avevano accompagnato i tifosi juventini ad Atene per la finale di Coppa Campioni contro l’Amburgo ed erano rimaste colpite. Erano quindi partite tranquille per il match contro il Liverpool: Laura in pullman e Silvia in aereo.  "Il mio gruppo - racconta Laura - è stato sistemato nel settore Z proprio vicino agli inglesi dove si sono verificati gli scontri più duri. Stadio vecchio, con una rete inconsistente che divideva le due tifoserie, la polizia era inesistente. Ho intuito subito che l’atmosfera era pesante e appena la rete è stata abbattuta, dopo essere rimasta schiacciata, sono scappata".  Fuga senza scarpe - Laura Sau nel tentativo di guadagnare l’uscita, dopo aver scavalcato il muro di cinta, è rimasta imbrigliata nella recinzione di filo spinato: "Ero con una mia collega e ci siamo ferite un po’ dappertutto. Avevo anche perso le scarpe ma in quel momento nemmeno ci ho fatto caso, pensavo solo a mettermi in salvo". Laura Sau scoprì solo dopo che c’erano stati dei morti: "Ci siamo rifugiate a casa di una famiglia e lì guardando la tv abbiamo saputo. Tra i morti anche uno del nostro gruppo". Subito dopo chiama i genitori per tranquillizzarli, ma lei è inquieta perché non sa che fine abbia fatto la sorella. Alla famiglia non dice niente: "Silvia era arrivata in aereo ed io non l’avevo vista. Non c’erano ancora i telefonini e sono andata avanti tutta la notte e il giorno dopo a pensare al peggio. Non avevo il coraggio di telefonare a casa. Quando ho saputo da mio padre che lei si era già fatta sentire è finito l’incubo". Silvia, scavalcando il filo spinato, era riuscita ad allontanarsi: "Dove c’ero io è crollato un muro - racconta proprio Silvia. C’era un fronte di persone che spingeva e altre che erano calpestate. Mi sentivo soffocare, mentre in testa mi arrivavano sassi e petardi. Un’esperienza terribile, ho pensato che fosse la fine. Mi torna l’ansia ogni volta che sono in luoghi dove c’è tanta gente". A casa i genitori hanno vissuto momenti terribili: "Quando sono arrivata - dice Laura - mio papà mi ha abbracciato quasi fossi miracolata. Da allora non più voluto veder partite, nemmeno in tv". 

31 maggio 2015

Fonte: Lastampa.it

© Fotografia: Comune.verbania.it

A-Z

VINCENZO SCAFA 

Eravamo in quello stadio: ho visto gli hooligans uccidere

Vincenzo Scafa ci racconta la sua drammatica esperienza

di Andrea Fantucchio

Avellino. Dopo i fatti di Marsiglia che hanno riportato all'onore delle cronache mondiale il fenomeno degli hooligans, mostrandoci cosa il calcio e lo sport in generale non dovrebbero mai essere, vi riproponiamo un'intervista che facemmo a Vincenzo Scafa, mercoglianese che si trovava a Bruxelles quando andò in scena uno dei momenti più terribili che lo sport mondiale ricordi. La tragedia dell'Heysel. 

"L'ondata umana ruppe il silenzio che ancora avvolgeva lo stadio, oscillando da destra verso sinistra: una scossa tellurica che, fra gemiti e urla, annunciava l'inizio della fine. I tifosi juventini, spinti dagli inglesi che caricavano come un solo uomo, indietreggiavano fino a trovarsi con le spalle al muro. Fu allora che il panico s'impadronì della folla: in tanti si lanciavano nel vuoto cercando salvezza o camminando sui corpi caduti a terra, calpestando e scalciando fra urla di dolore e paura. Erano topi in gabbia: da un lato i tifosi inglesi che li incalzavano, dall'altro la rete di sicurezza che impediva loro ogni via d'uscita". A Parlare è Vincenzo Scafa, classe 1963, irpino che trent'anni fa si trovava a Bruxelles per seguire l'ultimo atto della Coppa dei Campioni 1985. La Juve avrebbe battuto il Liverpool 1-0 ma, quella sera, ad uscire sconfitto, era lo sport: con trentanove morti e più di seicento feriti, la tragedia dell’Heysel rappresenta una cicatrice indelebile che supera i confini dei campi di calcio. "La sera prima della gara - racconta Vincenzo - facemmo una passeggiata in centro e ci accorgemmo di come la situazione fra le due tifoserie si stesse surriscaldando: decine di inglesi ubriachi, distesi sui marciapiedi, intonavano cori spaventosi insultando i passanti. Poi, la mattina della partita, lungo lo stradone che conduceva allo stadio, la situazione degenerò ulteriormente: i tifosi del Liverpool cercavano in tutti i modi la provocazione spintonandoci e insultandoci. Noi ci facemmo valere rispondendo alle offese ricevute, ma non si andò oltre gli insulti goliardici e gli spintoni". "All'ingresso dello stadio - continua - poliziotti a cavallo imponevano alle file che erano in attesa ai tornelli di mantenersi ordinate. Passammo di fianco ad un cantiere abbandonato, poco distante dall'ingresso dell'Heysel, è lì che gli hooligans, nei momenti di follia collettiva, avrebbero reperito spranghe, mattoni e altri oggetti contundenti. Lo stato delle curve era indegno per una finale di Coppe dei Campioni: campi del genere, oggi, non potrebbero ospitare neanche una terza categoria. Ricordo bene le fila di mattoncini rossi che facevano da spalti, gli stessi mattoncini qualche ora dopo sarebbero stati divelti dalla folla inferocita per essere usati come armi". Vincenzo racconta che, un'ora prima dell'inizio della partita, il settore "Z" fu preso d'assalto dai tifosi inglesi. Dalla sua postazione la visuale non era chiara: vide solo una grande nuvola di polvere sollevarsi, ma intuì che qualcosa non andava. Continuava a scattare foto in direzione del polverone finché cominciarono a distinguersi le prime scene di violenza. Il settore dei tifosi juventini era stato invaso dalla marea urlante dei supporter inglesi e quel mare finì per sfondare tutti gli argini che trovava di fronte. "Fu allora che si rivelò fondamentale l'intervento di Michele Leo - racconta Vincenzo - che ci convinse ad andar via. Noi giovani volevamo restare ma Michele, padre di famiglia, era irremovibile. Quando giungemmo in albergo, stavano andando in onda i primi collegamenti televisivi. Sul campo nessuno si era reso accorto della gravità della situazione, non immaginavamo ci fossero tutti quei morti e quei feriti. Cercammo di rassicurare immediatamente le nostre famiglie ma non riuscivamo a comunicare con loro perché le linee telefoniche erano intasate. La partita, alla fine, la vedemmo in televisione anche se non importava a nessuno. Di quei giorni ci rimase la bella esperienza vissuta prima di quelle tragiche ore: il Belgio, per l'ordine e la pulizia delle città e l'educazione dei cittadini, ci era sembrato un autentico paradiso. Poi, la sera del 29 maggio 1985, il tempo si è fermato: dall'Heysel non siamo mai tornati indietro".

12 giugno 2016

Fonte: Ottopagine.it

A-Z

 

ETTORE SIMONCELLI

La testimonianza da Sanremo

Trent’anni fa la tragedia dell’Heysel

"Io, Ettore, tifoso bianconero ho vissuto quel dramma"

"Quando è iniziato il delirio mortale sono riuscito a scappare dallo stadio e sono subito andato alla prima cabina del telefono per rassicurare mia moglie e mio figlio".

Sanremo. "Quando ho visto un seggiolino colpire un poliziotto e i suoi colleghi caricati dagli hooligans, ho pensato che se attaccavano anche le forze dell’ordine, chissà cosa avrebbero fatto a noi": si legge ancora paura e rabbia negli occhi del sanremese Ettore Simoncelli, quando questo racconta della terribile esperienza vissuta oramai 30 anni fa, in un tremendo 29 maggio alla stadio Heysel di Bruxelles. Simoncelli, che all’epoca aveva 44 anni, era in Belgio per assistere, da tifoso juventino, alla finale di Coppa dei Campioni tra i bianconeri e gli inglesi del Liverpool. Era partito in pullman con altri tifosi dell’allora Sanremo Juventus Club. La partita si trasformò in una ecatombe, quella dei 34 morti - quasi tutti italiani - travolti dalla folla e dalla rabbia dei supporter albionici. "Già quando siamo arrivati in Belgio con il pullman - continua a spiegare Ettore - ci siamo resi conto che quel paese, almeno all’epoca, non era proprio ben disposto nei confronti degli italiani. Le guardie di confine si erano fatte regalare una bandiera della Juve, con molta insistenza quasi fosse un dazio. Poi, mentre partivamo, si sono messe a litigare violentemente per decidere chi avrebbe tenuto il vessillo. Un altro loro collega, mentre guardavamo la scena, ci ha anche fatto le corna". Ma i problemi grossi iniziano con l’arrivo allo stadio: "Quasi tutti i tifosi del Liverpool erano ubriachi marci - racconta il testimone - e nessun poliziotto si è azzardato a chiedere agli hooligans di non entrare con le casse di birra, delle quali erano fornitissimi. C’erano addirittura parecchi ragazzi inglesi che si iniettavano eroina in vena quando erano già sulle gradinate. Quando poi, prima dell’inizio del match - conclude Simoncelli - è iniziato il delirio mortale del settore inglese, per fortuna sono riuscito a scappare dallo stadio e sono subito andato alla prima cabina del telefono per rassicurare mia moglie e mio figlio, terrorizzati a casa che aspettavano mie notizie". Da quel giorno Simoncelli, che seguiva la Juventus nelle trasferte di mezza Europa, ha quasi smesso di andare allo stadio. Solo qualche partita di coppa a Torino, ma nulla più: troppa paura per quello che è successo.

23 Maggio 2015

Fonte: Riviera24.it

A-Z

 

FRANCO e REBECCA SPAGNUOLO

Heysel 29/05/1985

I ricordi indelebili di Franco Spagnuolo

Non so cosa e non so il perché, ma a distanza di più di 26 anni, anche io voglio dare la mia testimonianza su quello che è successo il fatidico giorno che mai più scorderò nella mia vita; il 29/05/1985. All’epoca avevo 22 anni.

Avevo già visto una finale di coppa di campioni della Juventus 2 anni prima ad Atene in compagnia del mio amico Paolo Lusetti. Volevo a tutti i costi vedere anche questa finale (l’anno precedente non avevo potuto assistere alla finale di coppa delle coppe perché stavo svolgendo il servizio militare) e quindi io e Mauro Lusetti (fratello di Paolo con cui avevo visto la finale di Atene) ci mettemmo alla ricerca dei fatidici biglietti. Avevo (ed ho tutt’ora) una sorella che lavorava all’agenzia viaggi Planetario di Reggio Emilia e incaricai lei di trovarmi un viaggio organizzato per vedere la partita. Rita, riuscì nell’impresa e Mauro ed io facemmo parte degli altri 48 tifosi che riempivano il pullman con destinazione Belgio, stadio Heysel. I nostri amici e fidanzate ci accompagnarono alla stazione centrale di Reggio Emilia dove era prevista per mezzanotte circa, la partenza del pullman. Eravamo carichi come delle molle, ma la mia gioia purtroppo si trasformò subito in dolore perché il giorno della partenza mi devitalizzarono un dente e il dentista (che odio tutt’ora con tutta l’anima) mi fece un male cane, nonostante le 4 punture anestetiche e proprio pochi minuti dopo la partenza, forse perché fino a poco prima ero ancora sotto l’effetto di una parte di anestetico, mi si acutizzò il dolore e me lo portai dietro fino alla fine della mattina successiva… Praticamente non chiusi occhio. Comunque dopo ben 16 ore di viaggio, intorno alle 16.00, arrivammo a destinazione. Fortunatamente stavo bene e non vedevo l’ora di entrare. Quello che mi ricordo e che mi ha lasciò sbalordito, furono le centinaia e centinaia di lattine vuote di birra che contornavano lo stadio in prossimità del settore inglese, ma nonostante ciò, fuori dallo stadio, non c’era niente che facesse presagire quello che poi accadde. Mi ricordo addirittura che scambiai la mia sciarpa della Juventus con quella di un tifoso del Liverpool e facemmo insieme anche alcune foto. Finalmente arrivò il momento di entrare allo stadio; anche qui ci fu un’altra cosa che mi lasciò senza parole; dalla nostra parte i servizi di sicurezza dello stadio, ci privarono di tutti gli oggetti che potessero recare danni; a me personalmente, mi requisirono l’asta della bandiera, un tubo di plastica vuoto che non avrebbe fatto male neanche ad un bambino mentre con grande stupore mi accorsi, appena messo piede dentro lo stadio, che il settore degli inglesi era strapieno di bandiere con i loro relativi bastoni (e non credo neanche di plastica come era la mia). Comunque, a parte questo particolare ci sistemammo al centro del settore Z; mi ricordo di essere andato con Mauro in prossimità della rete che ci divideva dagli inglesi per farmi fare una foto con loro come sfondo. C’era abbastanza caldo e misi la giacca di Jeans (prestata da mia sorella) in una sporta di plastica, insieme alla macchina fotografica, la bandiera e la sciarpa del Liverpool e rimasi con la mitica "fruits" bianca. Intorno alle (non ricordo con precisione l’orario), incominciarono a volarci sopra la nostra testa, dei pezzi di tufo che i tifosi inglesi staccavano, senza neanche tanta fatica, dalle gradinate dello stadio; una persona, a qualche metro da noi, rimase colpito procurando la fuoriuscita di sangue. In quel momento espressi ai miei amici (oltre a Mauro, ci trovammo davanti allo stadio con altri nostri amici partiti a loro volta con un viaggio organizzato dallo Juventus club di Parma e tra questi c’era anche il fratello di Mauro, Paolo) l’intenzione di allontanarci il più possibile dai tifosi inglesi per uscire dalla portata del loro lancio, ma un nostro amico, Iori Sergio disse le seguenti e sante parole: "restiamo qui. Non appena inizia la partita, saranno concentrati a vederla e non lanceranno più niente". Quindi tutti decidemmo di rimanere lì e io sono vivamente convinto che questo ci ha salvato la vita perché se ci fossimo spostati sulla parte laterale del settore Z, ci saremmo trovati più a ridosso del fatidico muro, crollato a causa della calca della gente. Quando ormai si credeva che nel giro di pochi minuti, tutto sarebbe tornato alla normalità, successe il fattaccio. Quello che la mia mente ricorda, di aver visto parte dei tifosi juventini posizionati sulla nostra sinistra correre verso di noi in preda al panico; in una frazione di secondo ho visto gli inglesi che avevano divelto la rete e stavano in massa incominciando a dirigersi verso la nostra parte. Il mio primo pensiero è stato quello di scappare in direzione dell’ingresso posizionato sopra di noi e non mi resi assolutamente conto di andare dalla parte opposta dei miei amici e che abbandonai il sacchetto con all’interno le mie cose. La mia priorità era di togliermi dal pericolo. Mi ritrovai da solo a decidere cosa dover fare, ma dopo 26 anni sono sempre più convinto che ogni decisione presa, fu sempre quella giusta.

Non riuscii a guadagnare la zona dalla quale entrai, perché la calca della gente tese a spostarmi verso sinistra, ma riuscii ugualmente a raggiungere il muro di cinta dello stadio, nella parte alta delle gradinate. Qui mi fermai per qualche secondo. Per un attimo pensai di stare lì ad aspettare in attesa che tornasse tutto normale; ricordo che mi misi in punta di piedi e con mio sommo spavento vidi qualche inglese a pochi metri di distanza venire verso di noi, uno dei quali, con una bottiglia rotta tra le mani; mi voltai di scatto e cercai di fare quello che già altri in quel momento stavano facendo e più precisamente cercai di salire sul muro di cinta per poi gettarmi fuori dallo stadio. Il muro era alto; ai primi due tentativi non riuscii a sollevarmi, poi al terzo tentativo mi sentii una mano sul sedere che mi aiutò a salire… Non saprò mai chi sia stato, ma posso dire tranquillamente: "chiunque tu sia, che tu sia benedetto !" Raggiunta la vetta del muro, ci fu un altro problema; il salto non era dei più facili perché il muro era recintato con del filo spinato; per non farsi male, bisognava saltare tra il muro e il filo spinato e lo spazio era veramente ridotto. Fortunatamente ero magro e il salto di circa 2 metri non comportò danni anche se la zona in cui si atterrava era subito scoscesa e si rischiava di perdere l’equilibrio e ruzzolare lungo la discesa andando a sbattere contro un albero. Sono fermamente convinto, con il senno di poi, che qualcuno mi stava manovrando dall’alto (eri tu papà ?) e grazie al cielo andò tutto per il meglio. Mi ritrovai da solo fuori dallo stadio senza conoscere nessuno e con una gran paura. Cercai dei poliziotti per avere più sicurezza, ma non ne trovai. Mi imbattei in qualche altro gruppo di inglesi ubriachi fuori dallo stadio, probabilmente senza biglietto e sicuramente inconsci di quello che stesse accadendo. Le mie paure aumentavano sempre più, ma stavo bene. Arrivai finalmente davanti alla zona tribune, praticamente in prossimità del muro che da lì a poco cedette. Mi avvicinai ad un poliziotto a cavallo e in francese, quel poco che conoscevo, gli chiesi se poteva accompagnarmi nella zona dove erano parcheggiati i pullman, perché non me la sentivo di andare da solo. Mi rispose che era pieno di poliziotti e di stare tranquillo. Nel frattempo vedevo che stavano arrivando le ambulanze che caricavano i feriti... Da lontano ogni persona che vidi sulle barelle, mi fecero pensare ad un mio amico… Ero preoccupato che fosse successo qualcosa a loro. Mi venne in mente anche di chiamare casa, ma sfortunatamente ogni negozio, in prossimità dello stadio, aveva la saracinesca abbassata. Forse solo adesso che sono genitore anche io, credo di poter immaginare quanto invece i miei parenti abbiano sofferto in quei lunghissimi momenti. Sconfortato dalle vicende che vidi in quel momento, e facendomi coraggio, mi avviai al parcheggio dei pullman distante alcune centinaia di metri dallo stadio; ero sempre spaventato anche perché di poliziotti lungo il tragitto non se ne videro nemmeno l’ombra. Incominciai a rassicurarmi non appena giunsi in prossimità dei primi pullman… C’erano già tanti tifosi juventini che come me erano riusciti ad uscire dallo stadio e stavano man mano ritornando al loro pullman. Io presi posto sul mio. Non ricordo bene che ore fossero, ma so solo che alcuni altri pullman accesero la tele (non il nostro) per vedere la partita che a quel punto sembrava stesse per iniziare. Ero distrutto moralmente e fisicamente, ma ero vivo e vegeto ! Di tanto in tanto sopraggiunse qualche altro componente del nostro gruppo. Mi ricordo di uno che lo chiamavano "il Profeta" che aveva tutta la fruits insanguinata. Ognuno di quelli che arrivava, raccontava la sua storia e io la mia. Nessuno di noi volle vedere la partita. Eravamo disgustati. A fine gara, rimanemmo ad aspettare che arrivassero tutti… Ma c’eravamo poi tutti ? Mauro ancora non si vedeva. Il capo gruppo disse che sarebbe stato meglio andare davanti al consolato italiano per controllare se chi mancava era stato ricoverato in un qualche ospedale, anche se molti di noi non erano d’accordo di spostarci da lì, tra cui io… Mancava ancora il mio amico. Ero veramente in ansia per Mauro; L’autista aveva già acceso il pullman, ma poi finalmente lo vidi arrivare dal finestrone posteriore del pullman e potei avvisare l’autista che un altro dei nostri stava arrivando. Mi ricordo che era scalzo e che lo abbracciai appena mise piede sul pullman, e fortunatamente stava bene. Mi raccontò la sua esperienza che era riuscito a scappare in direzione del campo e che poi successivamente venne trasferito in tribuna, e quella degli altri nostri amici, confermandomi che stavano bene, compreso suo fratello. Mi raccontò anche dell’esperienza di un ragazzo dalla grossa stazza, facente parte del gruppo di Parma, che lo videro piangere seduto in mezzo al campo, continuando a dire: "ringrazio la mia mamma che mi ha fatto grosso"; era praticamente caduto in mezzo alla calca e calpestato da tutti. Arrivammo davanti al consolato italiano e solo qui purtroppo (perlomeno io) appresi che ci furono anche dei morti. Di minuto in minuto la lista aumentava sempre più. Del nostro pullman, mancavano alcune persone, non ricordo il numero preciso, ma credo 5/6. Nessuna di loro figurava nella lista che di tanto in tanto leggevamo e ciò ci rassicurava che perlomeno fossero vive, seppur magari ricoverate in qualche ospedale. Il capogruppo Tiziano, l’organizzatore, ci chiese ad ognuno di noi i nostri numeri di telefono di casa e si prese l’impegno di telefonare a sua moglie e comunicarglieli uno per uno, la quale poi avrebbe chiamato a sua volta, le famiglie di ognuno di noi. Passammo poi tutta la notte davanti al consolato, ma nessuno di noi riuscì a dormire. La mattina partimmo per tornare a casa sempre con le stesse persone che mancavano all’appello, ma fino a quel momento, ancora non sapevamo il loro destino. Facemmo tappa a Strasburgo per mangiare e qui capitò una scena che mi fece piangere come un bambino. Mia sorella che mi aveva organizzato il viaggio, sapeva perfettamente quali sarebbero state tutte le nostre tappe (solo in quel momento capii la sofferenza che passarono i miei familiari). Per la prima volta credo in vita sua, mia madre si era collegata a sentire le notizie sulla partita già dalle 19.00. Assisté, insieme alle mie sorelle, a tutto quello che successe. Appena terminò la partita, Rita chiamò fino a notte inoltrata l’albergo in Lussemburgo dove noi avremmo dovuto fare tappa, ma si sentii sempre rispondere che non eravamo ancora arrivati. Il giorno dopo attese che arrivasse l’ora di pranzo per chiamare il ristorante dove eravamo previsti arrivare… Infatti mi trovò lì; sentii un cameriere francese che tavolo per tavolo chiamava il mio nome; inizialmente non ci feci caso, ma poi sentendo pronunciare più volte il mio nome, dissi che ero io; mi disse di recarmi al telefono che c’era una chiamata per me... Al momento non capivo chi fosse e chi mi stesse chiamando, ma non appena senti la voce di mia sorella e lei sentii la mia scoppiammo a piangere dalla gioia soprattutto la sua, di sentirmi e lo stesso valse per mia madre; io ero tranquillo sapendo che qualcuno, la sera prima aveva avvisato casa che stavamo bene (la moglie del capogruppo), ma mia madre mi disse che fintanto non avesse sentito la mia voce, non avrebbe dato retta alla voce di nessuno ! Quello che lei desiderava più di ogni altra cosa era di sentire la mia voce ! Forse solo adesso che sono genitore anche io, credo di poter solo un po' quanto mia madre e le mie sorelle abbiano sofferto in quei lunghissimi interminabili momenti. Arrivai a casa all’una di notte passata, senza far rumore andai in camera mia e mi infilai nel letto; credo che mi fossi addormentato da poco, quando ad un certo punto sentii qualcuno che mi si buttò sul letto e mi abbracciò con tutta la forza che aveva… Era mia madre con le mie sorelle a seguito e nessuno di voi potrà mai immaginare la gioia che in quel momento provassero nell’abbracciarmi dal vivo. Se da parte mia c’è stata una bella conclusione, purtroppo non lo è stata per le 39 persone rimaste vittime degli eventi. Solo al mio risveglio ho saputo che tra le persone mancanti sul nostro pullman, ce n’era una che non torno mai più a casa; si chiamava Claudio Zavaroni, non lo conoscevo, ma la cosa mi ferì moltissimo e tutt’oggi mi chiedo se è mai possibile poter morire in quel modo. Il mio amico Mauro disse allora, che ogni anno che sarebbe passato da quel fatidico giorno, sarebbe stato un regalo. Voglio credere che sia così soprattutto in memoria di chi non ce l’ha fatta. Ho impiegato da allora diversi anni prima di rimettere piede allo stadio e tutte le volte che ci sono tornato (poche in realtà da allora) non sono più stato tranquillo. Ho una figlia che ha 12 anni e ogni volta mi chiede se posso portarla a vedere la Juve… Non ci sono ancora riuscito ! Ciao. Franco Spagnuolo

23 Agosto 2011

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

... FRANCO e REBECCA SPAGNUOLO ...

Io non c'ero, me lo ha detto il mio papà

Io, quando è successa la tragedia, ho 12 anni, non ero ancora nata. Ho saputo tutto grazie a mio papà che c'era in quel momento. Ieri sera all'inaugurazione dello stadio della JUVE, mi ha approfondito tutto. Lui, Franco Spagnuolo, c'era e lo ha vissuto. Era lì, su quelle gradinate, con dei suoi amici, a cui uno deve la vita perché ha detto di restare lì, vicino alla rete e così si sono potuti salvare. Non è stato un bel racconto perché mi ha spiegato che è dovuto saltare da un muro di 2 metri e che era da solo. Adesso però ce l'ha solo come ricordo e ancora non riesce a portarmi allo stadio. Io ci vorrei andare anche se per vedere Juve-Parma, che è vicino. Insomma adesso sta bene, ma secondo me non se lo scorderà mai. Ti voglio bene papi !!!  Ciao. Rebecca Spagnuolo

9 settembre 2011

Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

A-Z

 

FABRIZIO STACCHINI

Il racconto del segretario del Cons Fabrizio Stacchini presente alla gara

"Fu una giornata drammatica"

di Laura Casetta

In molti avevano segnato quel 29 maggio sul calendario tra le date da non dimenticare assolutamente. Tanti i tifosi che si misero in viaggio da ogni parte d’Italia per assistere alla finalissima di Coppa Campioni della loro squadra del cuore. Tra i tanti anche il segretario generale del Comitato Olimpico Sammarinese Fabrizio Stacchini che ancora ha un ricordo nitido e indelebile di quel giorno. "Incredibile. Fu una giornata veramente drammatica - racconta - soprattutto per la responsabilità verso mio figlio, di soli 7 anni che avevo portato con me. Aveva terminato la scuola, era stato promosso, era un viaggio premio e la partita per lui era un grande premio. Arrivai a Bruxelles nel primo pomeriggio e subito mi accorsi che c’era un clima strano soprattutto per i numerosi hooligans, già ubriachi, per strada al fatto che ci portarono allo stadio con largo anticipo. Mi colpì il fatto che la struttura, certamente non all’altezza di una finale di Coppa, era una sorta di Colosseo, senza tribune, senza reti divisorie, tanti blocchi di cemento. Mi infastidì anche il comportamento dei poliziotti in sella ai cavalli che con arroganza dirigevano l’ingresso degli spettatori". E, prosegue: "Noi eravamo nella curva opposta alla tragedia e subito ci sbalordimmo per il ritardo d’inizio gara. Circolavano notizie incontrollate e poco dopo il terreno di gioco fu invaso da tanta, ma tanta gente. Capii che era successo qualcosa di grave, ero terrorizzato, preoccupato per mio figlio e cercai di dirigermi subito verso l’uscita. Mi trovai di fronte ad una muraglia di persone che mi impedì di uscire. Rimasi quindi a vedere la partita che si svolse regolarmente in un clima esasperato e di grande tensione. Una gara davvero ridicola inesistente sul piano sportivo. Alla fine fummo scortati sino all’aeroporto senza nemmeno un minimo controllo dei biglietti e, soprattutto, senza che potessi riuscire a telefonare a mia moglie, disperata per quanto visto in televisione. Mio fratello chiamò anche la Farnesina per sapere se nella lista dei morti e dei dispersi c’erano i nostri nomi. Tornammo a casa dopo molte ore ed ora, nonostante siano passati 20 anni, il ricordo è ancora bruciante".

5 aprile 2005

Fonte: La Tribuna Sammarinese

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