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Enzo Saldutti
Curva Settore
M-N-O
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Alberto Salvadori
Curva Settore Z
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Laura Sau
Curva Settore Z
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Vincenzo Scafa
Curva Settore
M-N-O
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Ettore Simoncelli
Curva Settore Z
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Franco e Rebecca Spagnuolo
Curva Settore Z
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Fabrizio Stacchini
Curva Settore
M-N-O
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Il mio sogno ormai incubo
Era una dolce serata primaverile,
ero un giovane innamorato della Signora e nei miei sogni
altro non vedevo che la Coppa dei Campioni, altro non
vedevo che Platini e Boniek: il dolore di Atene mi
tormentava ma sentivo la ferita non più dolente; per la
prima volta con gioia incommensurabile entrai al
Comunale: la vidi, li vidi; una gara memorabile: Juve 3
Bordeaux 0; nel mio cuore più che nella mente alberga
quella fiaccolata illuminante il cielo di Torino,
alberga quel movimento elegante e sinuoso di Michel che
ignora alcuni compagni eludendoli uno per uno e
involarsi onde abbracciare il bello di notte; tremavo di
ebrezza perché in quel momento già vedevo qualcosa di
più strabiliante: la finale con la più forte squadra di
tutta Europa; alla radiolina l’annuncio era: Liverpool 4
Panathinaikos 0; già sapevo come ottenere il biglietto
della partita gloriosa; pervenni in Belgio, era il 29 di
maggio, il giorno moriva dolcemente, una brezza di vento
appena udibile aleggiava rinfrancando la calura; lo
stadio ricolmo contava le ore come gli antichi orologi:
le ombre coprenti il prato verde poco alla volta; tutto,
ogni minima cosa annotavo per raccontare quella dolcezza
il giorno dopo; ma un evento sinistro e diabolico era in
agguato per me, per noi ignari dell’imponderabile; di
incanto: non bandiere, non più cori; grida orripilanti,
volti impauriti, attoniti, stravolti, mi circondavano;
di fronte e di lontano vedevo una travolgente onda e
orda rossa che tumultuava come un turbinio infernale,
abissale, dantesco; non comprendevo appieno però
intuivo; vi era ancora luce, il tramonto pareva fermo,
immobile; vidi e rammento due segni premonitori: una
torma di cavalli lenti e vaganti circondare il campo,
vidi Cabrini venire a noi, Platini e Tardelli più
lontani; un evento crudele e terrificante era di già
accaduto ma conoscevo poco, pochissimo, quasi nulla; la
partita non cominciava: il mio sogno ormai incubo; ecco
il tramonto, la notte e le voci di Neal e Scirea
bilingue: non rispondete alle provocazioni, giochiamo
per voi; dopo ciò: nulla più seppi; la mia agognata
partita cominciò in un clima difficilmente spiegabile
con le parole: erano solo e soltanto pure sensazioni
convulse; più di questo non so che dire;
Or bene, una
riflessione postuma; primariamente diciamo che Boniperti
non volle in alcun modo disputare quella partita ma il
dichiarato rifiuto non riuscì a convincere la dirigenza dell’Uefa la quale ordinò di giocarla in modo perentorio
qualunque balordaggine lo scemo dica; quel giro di campo
avvenne perché nello spogliatoio della Juve non era per
nulla compresa quella tragedia nella vera entità; come
opinare che tutto repentinamente si conoscesse con i
mezzi comunicativi di allora ? In qual modo immaginare
calciatori di quella professionalità e intelligenza
riportare in campo il trofeo dopo un evento così
drammatico ? E poiché esistono i cretini appare fatica
ardua un colloquio di qualsivoglia natura: per il
deficiente conta la coppa e poco importa il rimanente;
la partita fu giocata con impegno da entrambe le squadre
e l’azione del goal fu di una folgorante bellezza: un
allungo di Platini parte fulmineo dalle vicinanze
dell’area juventina e sorvola tutto il campo prima di
lambire il polacco ormai solo e centrale dinanzi a
Grobbelaar (due marcatori vanamente lo braccano e
Gillespie ne aggancia il piede di appoggio mentre il
bianconero allunga la traiettoria del pallone con un
leggero colpo di testa a seguire); la fuga titanica di
Boniek viene bloccata fuori area ma la caduta rovinosa
lo conduce ben oltre il dischetto del rigore: che vede
il direttore di gara stazionante ancora vicino all’area
juventina proprio nella zona da cui era partito quel
lancio fulmineo ? Che vede ? La zona precisa del fallo ?
Come la vede l’idiota che parla da idiota e non se ne
accorge ? Non vigeva allora la norma dell’ultimo uomo:
altrimenti il Liverpool avrebbe dovuto giocare in 10 più
di mezzora del secondo tempo ma ciò è un dettaglio come
lo è il rifiuto della Supercoppa europea che i
bianconeri avrebbero dovuto giocare con l’Everton; il
trofeo venne ufficialmente assegnato alla Juve dall’Uefa
ma vi fu il tenace diniego di Boniperti e comunque la
deficiente ignoranza è la bestia selvaggia più difficile
da trattare.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
© 5 giugno 2014
Fotografie: Nicola Di Fazio
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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Alberto Salvadori, detto Bambara,
sopravvissuto alla tragedia dell'Heysel.
Un racconto per la nostra piccola
storia
di Ivo Camerini
Tra i tifosi italiani al seguito
della Juve nella famosa finale di Coppa dei Campioni
allo Stadio Heysel di Bruxelles, c'era anche Alberto
Salvadori, detto Bambara. In una veloce chiacchierata al
Circolo Bar Esso ci ha raccontato come si fosse salvato
stando tra i morti per quasi un'ora mascherandosi con
due sciarpe del Liverpool e come vide e visse i tre
assalti dei tifosi inglesi che nell'ultimo depredarono i
morti degli orologi e delle catenine d'oro. Un evento,
una tragedia che vorrebbe raccontare nei dettagli e che
ancor oggi al ricordo gli fa piangere il cuore.
Fonte: Letruria.it
© 22 gennaio 2017
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"Quella notte all’Heysel eravamo
convinte di morire"
di Filippo Rubertà
Nel 1985 a Bruxelles c’erano anche
l’attuale assessore di Verbania Laura Sau e la sorella
Silvia: "Da allora il calcio non lo guardiamo più
nemmeno in tv".
Ancora adesso quando ci ritroviamo
in situazioni di affollamento ci prende la paura". Nella
notte dell’Heysel - quando il 29 maggio 1985 allo stadio
di Bruxelles morirono 39 persone - c’erano anche
l’attuale assessore all’Ambiente di Verbania Laura Sau e
la sorella Silvia. Allora erano studentesse
universitarie che lavoravano saltuariamente come
accompagnatrici turistiche. Non erano appassionate di
calcio, ma nel 1983 avevano accompagnato i tifosi
juventini ad Atene per la finale di Coppa Campioni
contro l’Amburgo ed erano rimaste colpite. Erano quindi
partite tranquille per il match contro il Liverpool:
Laura in pullman e Silvia in aereo. "Il mio gruppo -
racconta Laura - è stato sistemato nel settore Z proprio
vicino agli inglesi dove si sono verificati gli scontri
più duri. Stadio vecchio, con una rete inconsistente che
divideva le due tifoserie, la polizia era inesistente.
Ho intuito subito che l’atmosfera era pesante e appena
la rete è stata abbattuta, dopo essere rimasta
schiacciata, sono scappata". Fuga senza scarpe - Laura
Sau nel tentativo di guadagnare l’uscita, dopo aver
scavalcato il muro di cinta, è rimasta imbrigliata nella
recinzione di filo spinato: "Ero con una mia collega e
ci siamo ferite un po’ dappertutto. Avevo anche perso le
scarpe ma in quel momento nemmeno ci ho fatto caso,
pensavo solo a mettermi in salvo". Laura Sau scoprì solo
dopo che c’erano stati dei morti: "Ci siamo rifugiate a
casa di una famiglia e lì guardando la tv abbiamo
saputo. Tra i morti anche uno del nostro gruppo". Subito
dopo chiama i genitori per tranquillizzarli, ma lei è
inquieta perché non sa che fine abbia fatto la sorella.
Alla famiglia non dice niente: "Silvia era arrivata in
aereo ed io non l’avevo vista. Non c’erano ancora i
telefonini e sono andata avanti tutta la notte e il
giorno dopo a pensare al peggio. Non avevo il coraggio
di telefonare a casa. Quando ho saputo da mio padre che
lei si era già fatta sentire è finito l’incubo". Silvia,
scavalcando il filo spinato, era riuscita ad
allontanarsi: "Dove c’ero io è crollato un muro -
racconta proprio Silvia. C’era un fronte di persone che
spingeva e altre che erano calpestate. Mi sentivo
soffocare, mentre in testa mi arrivavano sassi e
petardi. Un’esperienza terribile, ho pensato che fosse
la fine. Mi torna l’ansia ogni volta che sono in luoghi
dove c’è tanta gente". A casa i genitori hanno vissuto
momenti terribili: "Quando sono arrivata - dice Laura -
mio papà mi ha abbracciato quasi fossi miracolata. Da
allora non più voluto veder partite, nemmeno in tv".
Fonte: Lastampa.it
© 31 maggio 2015
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Eravamo in quello stadio: ho visto
gli hooligans uccidere
Vincenzo Scafa ci racconta la sua
drammatica esperienza
di Andrea Fantucchio
Avellino - Dopo i fatti di Marsiglia
che hanno riportato all'onore delle cronache mondiale il
fenomeno degli hooligans, mostrandoci cosa il calcio e
lo sport in generale non dovrebbero mai essere, vi
riproponiamo un'intervista che facemmo a Vincenzo Scafa,
mercoglianese che si trovava a Bruxelles quando andò in
scena uno dei momenti più terribili che lo sport
mondiale ricordi. La tragedia dell'Heysel.
"L'ondata umana ruppe il silenzio
che ancora avvolgeva lo stadio, oscillando da destra
verso sinistra: una scossa tellurica che, fra gemiti e
urla, annunciava l'inizio della fine. I tifosi
juventini, spinti dagli inglesi che caricavano come un
solo uomo, indietreggiavano fino a trovarsi con le
spalle al muro. Fu allora che il panico s'impadronì
della folla: in tanti si lanciavano nel vuoto cercando
salvezza o camminando sui corpi caduti a terra,
calpestando e scalciando fra urla di dolore e paura.
Erano topi in gabbia: da un lato i tifosi inglesi che li
incalzavano, dall'altro la rete di sicurezza che
impediva loro ogni via d'uscita". A Parlare è Vincenzo
Scafa, classe 1963, irpino che trent'anni fa si trovava
a Bruxelles per seguire l'ultimo atto della Coppa dei
Campioni 1985. La Juve avrebbe battuto il Liverpool 1-0
ma, quella sera, ad uscire sconfitto, era lo sport: con
trentanove morti e più di seicento feriti, la tragedia
dell’Heysel rappresenta una cicatrice indelebile che
supera i confini dei campi di calcio. "La sera prima
della gara - racconta Vincenzo - facemmo una passeggiata
in centro e ci accorgemmo di come la situazione fra le
due tifoserie si stesse surriscaldando: decine di
inglesi ubriachi, distesi sui marciapiedi, intonavano
cori spaventosi insultando i passanti. Poi, la mattina
della partita, lungo lo stradone che conduceva allo
stadio, la situazione degenerò ulteriormente: i tifosi
del Liverpool cercavano in tutti i modi la provocazione
spintonandoci e insultandoci. Noi ci facemmo valere
rispondendo alle offese ricevute, ma non si andò oltre
gli insulti goliardici e gli spintoni". "All'ingresso
dello stadio - continua - poliziotti a cavallo
imponevano alle file che erano in attesa ai tornelli di
mantenersi ordinate. Passammo di fianco ad un cantiere
abbandonato, poco distante dall'ingresso dell'Heysel, è
lì che gli hooligans, nei momenti di follia collettiva,
avrebbero reperito spranghe, mattoni e altri oggetti
contundenti. Lo stato delle curve era indegno per una
finale di Coppe dei Campioni: campi del genere, oggi,
non potrebbero ospitare neanche una terza categoria.
Ricordo bene le fila di mattoncini rossi che facevano da
spalti, gli stessi mattoncini qualche ora dopo sarebbero
stati divelti dalla folla inferocita per essere usati
come armi". Vincenzo racconta che, un'ora prima
dell'inizio della partita, il settore "Z" fu preso
d'assalto dai tifosi inglesi. Dalla sua postazione la
visuale non era chiara: vide solo una grande nuvola di
polvere sollevarsi, ma intuì che qualcosa non andava.
Continuava a scattare foto in direzione del polverone
finché cominciarono a distinguersi le prime scene di
violenza. Il settore dei tifosi juventini era stato
invaso dalla marea urlante dei supporter inglesi e quel
mare finì per sfondare tutti gli argini che trovava di
fronte. "Fu allora che si rivelò fondamentale
l'intervento di Michele Leo - racconta Vincenzo - che ci
convinse ad andar via. Noi giovani volevamo restare ma
Michele, padre di famiglia, era irremovibile. Quando
giungemmo in albergo, stavano andando in onda i primi
collegamenti televisivi. Sul campo nessuno si era reso
accorto della gravità della situazione, non immaginavamo
ci fossero tutti quei morti e quei feriti. Cercammo di
rassicurare immediatamente le nostre famiglie ma non
riuscivamo a comunicare con loro perché le linee
telefoniche erano intasate. La partita, alla fine, la
vedemmo in televisione anche se non importava a nessuno.
Di quei giorni ci rimase la bella esperienza vissuta
prima di quelle tragiche ore: il Belgio, per l'ordine e
la pulizia delle città e l'educazione dei cittadini, ci
era sembrato un autentico paradiso. Poi, la sera del 29
maggio 1985, il tempo si è fermato: dall'Heysel non
siamo mai tornati indietro".
Fonte: Ottopagine.it
© 12 giugno 2016
Video:
Statoquotidiano.It
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La testimonianza da Sanremo
Trent’anni fa la tragedia
dell’Heysel
"Io, Ettore, tifoso bianconero ho
vissuto quel dramma"
"Quando è iniziato il delirio
mortale sono riuscito a scappare dallo stadio e sono
subito andato alla prima cabina del telefono per
rassicurare mia moglie e mio figlio".
Sanremo
- "Quando ho visto un
seggiolino colpire un poliziotto e i suoi colleghi
caricati dagli hooligans, ho pensato che se attaccavano
anche le forze dell’ordine, chissà cosa avrebbero fatto
a noi": si legge ancora paura e rabbia negli occhi del
sanremese Ettore Simoncelli, quando questo racconta
della terribile esperienza vissuta oramai 30 anni fa, in
un tremendo 29 maggio alla stadio Heysel di Bruxelles.
Simoncelli, che all’epoca aveva 44 anni, era in Belgio
per assistere, da tifoso juventino, alla finale di Coppa
dei Campioni tra i bianconeri e gli inglesi del
Liverpool. Era partito in pullman con altri tifosi
dell’allora Sanremo Juventus Club. La partita si
trasformò in una ecatombe, quella dei 34 morti - quasi
tutti italiani - travolti dalla folla e dalla rabbia dei
supporter albionici. "Già quando siamo arrivati in
Belgio con il pullman - continua a spiegare Ettore - ci
siamo resi conto che quel paese, almeno all’epoca, non
era proprio ben disposto nei confronti degli italiani.
Le guardie di confine si erano fatte regalare una
bandiera della Juve, con molta insistenza quasi fosse un
dazio. Poi, mentre partivamo, si sono messe a litigare
violentemente per decidere chi avrebbe tenuto il
vessillo. Un altro loro collega, mentre guardavamo la
scena, ci ha anche fatto le corna". Ma i problemi grossi
iniziano con l’arrivo allo stadio: "Quasi tutti i tifosi
del Liverpool erano ubriachi marci - racconta il
testimone - e nessun poliziotto si è azzardato a
chiedere agli hooligans di non entrare con le casse di
birra, delle quali erano fornitissimi. C’erano
addirittura parecchi ragazzi inglesi che si iniettavano
eroina in vena quando erano già sulle gradinate. Quando
poi, prima dell’inizio del match - conclude Simoncelli -
è iniziato il delirio mortale del settore inglese, per
fortuna sono riuscito a scappare dallo stadio e sono
subito andato alla prima cabina del telefono per
rassicurare mia moglie e mio figlio, terrorizzati a casa
che aspettavano mie notizie". Da quel giorno Simoncelli,
che seguiva la Juventus nelle trasferte di mezza Europa,
ha quasi smesso di andare allo stadio. Solo qualche
partita di coppa a Torino, ma nulla più: troppa paura
per quello che è successo.
Fonte:
Riviera24.it
© 23 Maggio 2015
Fotografia: GETTY IMAGES
© (Not
for Commercial Use)
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Heysel 29/05/1985
I ricordi indelebili di Franco
Spagnuolo
Non so cosa e non so il perché, ma
a distanza di più di 26 anni, anche io voglio dare la
mia testimonianza su quello che è successo il fatidico
giorno che mai più scorderò nella mia vita: il
29/05/1985. All’epoca avevo 22 anni.
Avevo già visto una finale di coppa
di campioni della Juventus 2 anni prima ad Atene in
compagnia del mio amico Paolo Lusetti. Volevo a tutti i
costi vedere anche questa finale (l’anno precedente non
avevo potuto assistere alla finale di coppa delle coppe
perché stavo svolgendo il servizio militare) e quindi io
e Mauro Lusetti (fratello di Paolo con cui avevo visto
la finale di Atene) ci mettemmo alla ricerca dei
fatidici biglietti. Avevo (ed ho tutt’ora) una sorella
che lavorava all’agenzia viaggi Planetario di Reggio
Emilia e incaricai lei di trovarmi un viaggio
organizzato per vedere la partita. Rita, riuscì
nell’impresa e Mauro ed io facemmo parte degli altri 48
tifosi che riempivano il pullman con destinazione
Belgio, stadio Heysel. I nostri amici e fidanzate ci
accompagnarono alla stazione centrale di Reggio Emilia
dove era prevista per mezzanotte circa, la partenza del
pullman. Eravamo carichi come delle molle, ma la mia
gioia purtroppo si trasformò subito in dolore perché il
giorno della partenza mi devitalizzarono un dente e il
dentista (che odio tutt’ora con tutta l’anima) mi fece
un male cane, nonostante le 4 punture anestetiche e
proprio pochi minuti dopo la partenza, forse perché fino
a poco prima ero ancora sotto l’effetto di una parte di
anestetico, mi si acutizzò il dolore e me lo portai
dietro fino alla fine della mattina successiva…
Praticamente non chiusi occhio. Comunque dopo ben 16 ore
di viaggio, intorno alle 16.00, arrivammo a
destinazione. Fortunatamente stavo bene e non vedevo
l’ora di entrare. Quello che mi ricordo e che mi ha
lasciò sbalordito, furono le centinaia e centinaia di
lattine vuote di birra che contornavano lo stadio in
prossimità del settore inglese, ma nonostante ciò, fuori
dallo stadio, non c’era niente che facesse presagire
quello che poi accadde. Mi ricordo addirittura che
scambiai la mia sciarpa della Juventus con quella di un
tifoso del Liverpool e facemmo insieme anche alcune
foto. Finalmente arrivò il momento di entrare allo
stadio; anche qui ci fu un’altra cosa che mi lasciò
senza parole; dalla nostra parte i servizi di sicurezza
dello stadio, ci privarono di tutti gli oggetti che
potessero recare danni; a me personalmente, mi
requisirono l’asta della bandiera, un tubo di plastica
vuoto che non avrebbe fatto male neanche ad un bambino
mentre con grande stupore mi accorsi, appena messo piede
dentro lo stadio, che il settore degli inglesi era
strapieno di bandiere con i loro relativi bastoni (e non
credo neanche di plastica come era la mia). Comunque, a
parte questo particolare ci sistemammo al centro del
settore Z; mi ricordo di essere andato con Mauro in
prossimità della rete che ci divideva dagli inglesi per
farmi fare una foto con loro come sfondo. C’era
abbastanza caldo e misi la giacca di Jeans (prestata da
mia sorella) in una sporta di plastica, insieme alla
macchina fotografica, la bandiera e la sciarpa del
Liverpool e rimasi con la mitica "fruits" bianca.
Intorno alle (non ricordo con precisione l’orario),
incominciarono a volarci sopra la nostra testa, dei
pezzi di tufo che i tifosi inglesi staccavano, senza
neanche tanta fatica, dalle gradinate dello stadio; una
persona, a qualche metro da noi, rimase colpito
procurando la fuoriuscita di sangue.
In quel momento espressi ai miei
amici (oltre a Mauro, ci trovammo davanti allo stadio
con altri nostri amici partiti a loro volta con un
viaggio organizzato dallo Juventus club di Parma e tra
questi c’era anche il fratello di Mauro, Paolo)
l’intenzione di allontanarci il più possibile dai tifosi
inglesi per uscire dalla portata del loro lancio, ma un
nostro amico, Iori Sergio disse le seguenti e sante
parole: "restiamo qui. Non appena inizia la partita,
saranno concentrati a vederla e non lanceranno più
niente". Quindi tutti decidemmo di rimanere lì e io sono
vivamente convinto che questo ci ha salvato la vita
perché se ci fossimo spostati sulla parte laterale del
settore Z, ci saremmo trovati più a ridosso del fatidico
muro, crollato a causa della calca della gente. Quando
ormai si credeva che nel giro di pochi minuti, tutto
sarebbe tornato alla normalità, successe il fattaccio.
Quello che la mia mente ricorda, di aver visto parte dei
tifosi juventini posizionati sulla nostra sinistra
correre verso di noi in preda al panico; in una frazione
di secondo ho visto gli inglesi che avevano divelto la
rete e stavano in massa incominciando a dirigersi verso
la nostra parte. Il mio primo pensiero è stato quello di
scappare in direzione dell’ingresso posizionato sopra di
noi e non mi resi assolutamente conto di andare dalla
parte opposta dei miei amici e che abbandonai il
sacchetto con all’interno le mie cose. La mia priorità
era di togliermi dal pericolo. Mi ritrovai da solo a
decidere cosa dover fare, ma dopo 26 anni sono sempre
più convinto che ogni decisione presa, fu sempre quella
giusta. Non riuscii a guadagnare la zona
dalla quale entrai, perché la calca della gente tese a
spostarmi verso sinistra, ma riuscii ugualmente a
raggiungere il muro di cinta dello stadio, nella parte
alta delle gradinate. Qui mi fermai per qualche secondo.
Per un attimo pensai di stare lì ad aspettare in attesa
che tornasse tutto normale; ricordo che mi misi in punta
di piedi e con mio sommo spavento vidi qualche inglese a
pochi metri di distanza venire verso di noi, uno dei
quali, con una bottiglia rotta tra le mani; mi voltai di
scatto e cercai di fare quello che già altri in quel
momento stavano facendo e più precisamente cercai di
salire sul muro di cinta per poi gettarmi fuori dallo
stadio. Il muro era alto; ai primi due tentativi non
riuscii a sollevarmi, poi al terzo tentativo mi sentii
una mano sul sedere che mi aiutò a salire… Non saprò mai
chi sia stato, ma posso dire tranquillamente: "chiunque
tu sia, che tu sia benedetto !" Raggiunta la vetta del
muro, ci fu un altro problema; il salto non era dei più
facili perché il muro era recintato con del filo
spinato; per non farsi male, bisognava saltare tra il
muro e il filo spinato e lo spazio era veramente
ridotto. Fortunatamente ero magro e il salto di circa 2
metri non comportò danni anche se la zona in cui si
atterrava era subito scoscesa e si rischiava di perdere
l’equilibrio e ruzzolare lungo la discesa andando a
sbattere contro un albero. Sono fermamente convinto, con
il senno di poi, che qualcuno mi stava manovrando
dall’alto (eri tu papà ?) e grazie al cielo andò tutto
per il meglio. Mi ritrovai da solo fuori dallo stadio
senza conoscere nessuno e con una gran paura. Cercai dei
poliziotti per avere più sicurezza, ma non ne trovai. Mi
imbattei in qualche altro gruppo di inglesi ubriachi
fuori dallo stadio, probabilmente senza biglietto e
sicuramente inconsci di quello che stesse accadendo. Le
mie paure aumentavano sempre più, ma stavo bene.
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Arrivai finalmente davanti
alla zona tribune, praticamente in prossimità del muro
che da lì a poco cedette. Mi avvicinai ad un poliziotto
a cavallo e in francese, quel poco che conoscevo, gli
chiesi se poteva accompagnarmi nella zona dove erano
parcheggiati i pullman, perché non me la sentivo di
andare da solo. Mi rispose che era pieno di poliziotti e
di stare tranquillo. Nel frattempo vedevo che stavano
arrivando le ambulanze che caricavano i feriti... Da
lontano ogni persona che vidi sulle barelle, mi fecero
pensare ad un mio amico… Ero preoccupato che fosse
successo qualcosa a loro. Mi venne in mente anche di
chiamare casa, ma sfortunatamente ogni negozio, in
prossimità dello stadio, aveva la saracinesca abbassata.
Forse solo adesso che sono genitore anche io, credo di
poter immaginare quanto invece i miei parenti abbiano
sofferto in quei lunghissimi momenti. Sconfortato dalle
vicende che vidi in quel momento, e facendomi coraggio,
mi avviai al parcheggio dei pullman distante alcune
centinaia di metri dallo stadio; ero sempre spaventato
anche perché di poliziotti lungo il tragitto non se ne
videro nemmeno l’ombra. Incominciai a rassicurarmi non
appena giunsi in prossimità dei primi pullman… C’erano
già tanti tifosi juventini che come me erano riusciti ad
uscire dallo stadio e stavano man mano ritornando al
loro pullman. Io presi posto sul mio. Non ricordo bene
che ore fossero, ma so solo che alcuni altri pullman
accesero la tele (non il nostro) per vedere la partita
che a quel punto sembrava stesse per iniziare. Ero
distrutto moralmente e fisicamente, ma ero vivo e vegeto
! Di tanto in tanto sopraggiunse qualche altro
componente del nostro gruppo. Mi ricordo di uno che lo
chiamavano "il Profeta" che aveva tutta la fruits
insanguinata. Ognuno di quelli che arrivava, raccontava
la sua storia e io la mia. Nessuno di noi volle vedere
la partita. Eravamo disgustati. A fine gara, rimanemmo
ad aspettare che arrivassero tutti… Ma c’eravamo poi
tutti ? Mauro ancora non si vedeva. Il capo gruppo disse
che sarebbe stato meglio andare davanti al consolato
italiano per controllare se chi mancava era stato
ricoverato in un qualche ospedale, anche se molti di noi
non erano d’accordo di spostarci da lì, tra cui io…
Mancava ancora il mio amico. Ero veramente in ansia per
Mauro;
L’autista aveva già acceso il
pullman, ma poi finalmente lo vidi arrivare dal
finestrone posteriore del pullman e potei avvisare
l’autista che un altro dei nostri stava arrivando. Mi
ricordo che era scalzo e che lo abbracciai appena mise
piede sul pullman, e fortunatamente stava bene. Mi
raccontò la sua esperienza che era riuscito a scappare
in direzione del campo e che poi successivamente venne
trasferito in tribuna, e quella degli altri nostri
amici, confermandomi che stavano bene, compreso suo
fratello. Mi raccontò anche dell’esperienza di un
ragazzo dalla grossa stazza, facente parte del gruppo di
Parma, che lo videro piangere seduto in mezzo al campo,
continuando a dire: "ringrazio la mia mamma che mi ha
fatto grosso"; era praticamente caduto in mezzo alla
calca e calpestato da tutti. Arrivammo davanti al
consolato italiano e solo qui purtroppo (perlomeno io)
appresi che ci furono anche dei morti. Di minuto in
minuto la lista aumentava sempre più. Del nostro
pullman, mancavano alcune persone, non ricordo il numero
preciso, ma credo 5/6. Nessuna di loro figurava nella
lista che di tanto in tanto leggevamo e ciò ci
rassicurava che perlomeno fossero vive, seppur magari
ricoverate in qualche ospedale. Il capogruppo Tiziano,
l’organizzatore, ci chiese ad ognuno di noi i nostri
numeri di telefono di casa e si prese l’impegno di
telefonare a sua moglie e comunicarglieli uno per uno,
la quale poi avrebbe chiamato a sua volta, le famiglie
di ognuno di noi. Passammo poi tutta la notte davanti al
consolato, ma nessuno di noi riuscì a dormire. La
mattina partimmo per tornare a casa sempre con le stesse
persone che mancavano all’appello, ma fino a quel
momento, ancora non sapevamo il loro destino. Facemmo
tappa a Strasburgo per mangiare e qui capitò una scena
che mi fece piangere come un bambino. Mia sorella che mi
aveva organizzato il viaggio, sapeva perfettamente quali
sarebbero state tutte le nostre tappe (solo in quel
momento capii la sofferenza che passarono i miei
familiari).
Per la prima volta credo in vita
sua, mia madre si era collegata a sentire le notizie
sulla partita già dalle 19.00. Assisté, insieme alle mie
sorelle, a tutto quello che successe. Appena terminò la
partita, Rita chiamò fino a notte inoltrata l’albergo in
Lussemburgo dove noi avremmo dovuto fare tappa, ma si
sentii sempre rispondere che non eravamo ancora
arrivati. Il giorno dopo attese che arrivasse l’ora di
pranzo per chiamare il ristorante dove eravamo previsti
arrivare… Infatti mi trovò lì; sentii un cameriere
francese che tavolo per tavolo chiamava il mio nome;
inizialmente non ci feci caso, ma poi sentendo
pronunciare più volte il mio nome, dissi che ero io; mi
disse di recarmi al telefono che c’era una chiamata per
me... Al momento non capivo chi fosse e chi mi stesse
chiamando, ma non appena senti la voce di mia sorella e
lei sentii la mia scoppiammo a piangere dalla gioia
soprattutto la sua, di sentirmi e lo stesso valse per
mia madre; io ero tranquillo sapendo che qualcuno, la
sera prima aveva avvisato casa che stavamo bene (la
moglie del capogruppo), ma mia madre mi disse che
fintanto non avesse sentito la mia voce, non avrebbe
dato retta alla voce di nessuno ! Quello che lei
desiderava più di ogni altra cosa era di sentire la mia
voce ! Forse solo adesso che sono genitore anche io,
credo di poter solo un po' quanto mia madre e le mie
sorelle abbiano sofferto in quei lunghissimi
interminabili momenti. Arrivai a casa all’una di notte
passata, senza far rumore andai in camera mia e mi
infilai nel letto; credo che mi fossi addormentato da
poco, quando ad un certo punto sentii qualcuno che mi si
buttò sul letto e mi abbracciò con tutta la forza che
aveva… Era mia madre con le mie sorelle a seguito e
nessuno di voi potrà mai immaginare la gioia che in quel
momento provassero nell’abbracciarmi dal vivo. Se da
parte mia c’è stata una bella conclusione, purtroppo non
lo è stata per le 39 persone rimaste vittime degli
eventi. Solo al mio risveglio ho saputo che tra le
persone mancanti sul nostro pullman, ce n’era una che
non torno mai più a casa; si chiamava Claudio Zavaroni,
non lo conoscevo, ma la cosa mi ferì moltissimo e
tutt’oggi mi chiedo se è mai possibile poter morire in
quel modo. Il mio amico Mauro disse allora, che ogni
anno che sarebbe passato da quel fatidico giorno,
sarebbe stato un regalo. Voglio credere che sia così
soprattutto in memoria di chi non ce l’ha fatta. Ho
impiegato da allora diversi anni prima di rimettere
piede allo stadio e tutte le volte che ci sono tornato
(poche in realtà da allora) non sono più stato
tranquillo. Ho una figlia che ha 12 anni e ogni volta mi
chiede se posso portarla a vedere la Juve… Non ci sono
ancora riuscito ! Ciao.
Franco Spagnuolo
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it © 23 Agosto
2011
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Io non c'ero, me lo ha detto il mio
papà
Io, quando è successa la tragedia,
ho 12 anni, non ero ancora nata. Ho saputo tutto grazie
a mio papà che c'era in quel momento. Ieri sera
all'inaugurazione dello stadio della JUVE, mi ha
approfondito tutto. Lui, Franco Spagnuolo, c'era e lo ha
vissuto. Era lì, su quelle gradinate, con dei suoi
amici, a cui uno deve la vita perché ha detto di restare
lì, vicino alla rete e così si sono potuti salvare. Non
è stato un bel racconto perché mi ha spiegato che è
dovuto saltare da un muro di 2 metri e che era da solo.
Adesso però ce l'ha solo come ricordo e ancora non
riesce a portarmi allo stadio. Io ci vorrei andare anche
se per vedere Juve-Parma, che è vicino. Insomma adesso
sta bene, ma secondo me non se lo scorderà mai. Ti
voglio bene papi !!! Ciao. Rebecca Spagnuolo
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
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La Repubblica
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Il racconto del segretario del Consigliere
Fabrizio Stacchini presente alla gara
"Fu una giornata drammatica"
di Laura Casetta
In
molti avevano segnato quel 29 maggio sul calendario tra
le date da non dimenticare assolutamente. Tanti i tifosi
che si misero in viaggio da ogni parte d’Italia per
assistere alla finalissima di Coppa Campioni della loro
squadra del cuore. Tra i tanti anche il segretario
generale del Comitato Olimpico Sammarinese Fabrizio
Stacchini che ancora ha un ricordo nitido e indelebile
di quel giorno. "Incredibile. Fu una giornata veramente
drammatica - racconta - soprattutto per la
responsabilità verso mio figlio, di soli 7 anni che
avevo portato con me. Aveva terminato la scuola, era
stato promosso, era un viaggio premio e la partita per
lui era un grande premio. Arrivai a Bruxelles nel primo
pomeriggio e subito mi accorsi che c’era un clima strano
soprattutto per i numerosi hooligans, già ubriachi, per
strada al fatto che ci portarono allo stadio con largo
anticipo. Mi colpì il fatto che la struttura, certamente
non all’altezza di una finale di Coppa, era una sorta di
Colosseo, senza tribune, senza reti divisorie, tanti
blocchi di cemento. Mi infastidì anche il comportamento
dei poliziotti in sella ai cavalli che con arroganza
dirigevano l’ingresso degli spettatori". E, prosegue:
"Noi eravamo nella curva opposta alla tragedia e subito
ci sbalordimmo per il ritardo d’inizio gara. Circolavano
notizie incontrollate e poco dopo il terreno di gioco fu
invaso da tanta, ma tanta gente. Capii che era successo
qualcosa di grave, ero terrorizzato, preoccupato per mio
figlio e cercai di dirigermi subito verso l’uscita. Mi
trovai di fronte ad una muraglia di persone che mi
impedì di uscire. Rimasi quindi a vedere la partita che
si svolse regolarmente in un clima esasperato e di
grande tensione. Una gara davvero ridicola inesistente
sul piano sportivo. Alla fine fummo scortati sino
all’aeroporto senza nemmeno un minimo controllo dei
biglietti e, soprattutto, senza che potessi riuscire a
telefonare a mia moglie, disperata per quanto visto in
televisione. Mio fratello chiamò anche la Farnesina per
sapere se nella lista dei morti e dei dispersi c’erano i
nostri nomi. Tornammo a casa dopo molte ore ed ora,
nonostante siano passati venti anni, il ricordo è ancora
bruciante".
Fonte: La
Tribuna Sammarinese
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