ENZO SALDUTTI
Il mio sogno ormai incubo
Era una dolce serata primaverile, ero
un giovane innamorato della Signora e nei miei sogni altro non
vedevo che la Coppa dei Campioni, altro non vedevo che Platini e
Boniek: il dolore di Atene mi tormentava ma sentivo la ferita
non più dolente; per la prima volta con gioia incommensurabile
entrai al Comunale: la vidi, li vidi; una gara memorabile: Juve
3 Bordeaux 0; nel mio cuore più che nella mente alberga quella
fiaccolata illuminante il cielo di Torino, alberga quel
movimento elegante e sinuoso di Michel che ignora alcuni
compagni eludendoli uno per uno e involarsi onde abbracciare il
bello di notte; tremavo di ebrezza perché in quel momento già
vedevo qualcosa di più strabiliante: la finale con la più forte
squadra di tutta Europa; alla radiolina l’annuncio era:
Liverpool 4 Panathinaikos 0; già sapevo come ottenere il
biglietto della partita gloriosa; pervenni in Belgio, era il 29
di maggio, il giorno moriva dolcemente, una brezza di vento
appena udibile aleggiava rinfrancando la calura; lo stadio
ricolmo contava le ore come gli antichi orologi: le ombre
coprenti il prato verde poco alla volta; tutto, ogni minima cosa
annotavo per raccontare quella dolcezza il giorno dopo; ma un
evento sinistro e diabolico era in agguato per me, per noi
ignari dell’imponderabile; di incanto: non bandiere, non più
cori; grida orripilanti, volti impauriti, attoniti, stravolti,
mi circondavano; di fronte e di lontano vedevo una travolgente
onda e orda rossa che tumultuava come un turbinio infernale,
abissale, dantesco; non comprendevo appieno però intuivo; vi era
ancora luce, il tramonto pareva fermo, immobile; vidi e rammento
due segni premonitori: una torma di cavalli lenti e vaganti
circondare il campo, vidi Cabrini venire a noi, Platini e
Tardelli più lontani; un evento crudele e terrificante era di
già accaduto ma conoscevo poco, pochissimo, quasi nulla; la
partita non cominciava: il mio sogno ormai incubo; ecco il
tramonto, la notte e le voci di Neal e Scirea bilingue: non
rispondete alle provocazioni, giochiamo per voi; dopo ciò: nulla
più seppi; la mia agognata partita cominciò in un clima
difficilmente spiegabile con le parole: erano solo e soltanto
pure sensazioni convulse; più di questo non so che dire; or
bene, una riflessione postuma; primariamente diciamo che
Boniperti non volle in alcun modo disputare quella partita ma il
dichiarato rifiuto non riuscì a convincere la dirigenza
dell’Uefa la quale ordinò di giocarla in modo perentorio
qualunque balordaggine lo scemo dica; quel giro di campo avvenne
perché nello spogliatoio della Juve non era per nulla compresa
quella tragedia nella vera entità; come opinare che tutto
repentinamente si conoscesse con i mezzi comunicativi di allora
? In qual modo immaginare calciatori di quella professionalità e
intelligenza riportare in campo il trofeo dopo un evento così
drammatico ? E poiché esistono i cretini appare fatica ardua un
colloquio di qualsivoglia natura: per il deficiente conta la
coppa e poco importa il rimanente; la partita fu giocata con
impegno da entrambe le squadre e l’azione del goal fu di una
folgorante bellezza: un allungo di Platini parte fulmineo dalle
vicinanze dell’area juventina e sorvola tutto il campo prima di
lambire il polacco ormai solo e centrale dinanzi a Grobbelaar
(due marcatori vanamente lo braccano e Gillespie ne aggancia il
piede di appoggio mentre il bianconero allunga la traiettoria
del pallone con un leggero colpo di testa a seguire); la fuga
titanica di Boniek viene bloccata fuori area ma la caduta
rovinosa lo conduce ben oltre il dischetto del rigore: che vede
il direttore di gara stazionante ancora vicino all’area
juventina proprio nella zona da cui era partito quel lancio
fulmineo ? Che vede ? La zona precisa del fallo ? Come la vede
l’idiota che parla da idiota e non se ne accorge ? Non vigeva
allora la norma dell’ultimo uomo: altrimenti il Liverpool
avrebbe dovuto giocare in 10 più di mezzora del secondo tempo ma
ciò è un dettaglio come lo è il rifiuto della Supercoppa europea
che i bianconeri avrebbero dovuto giocare con l’Everton; il
trofeo venne ufficialmente assegnato alla Juve dall’Uefa ma vi
fu il tenace diniego di Boniperti e comunque la deficiente
ignoranza è la bestia selvaggia più difficile da trattare.
5 giugno 2014
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
ALBERTO SALVADORI
Alberto Salvadori, detto
Bambara, sopravvissuto alla tragedia dell'Heysel
Un racconto per la nostra
piccola storia
di Ivo Camerini
Tra
i tifosi italiani al seguito della Juve nella famosa finale di
Coppa dei Campioni allo Stadio Heysel di Bruxelles, c'era anche
Alberto Salvadori, detto Bambara. In una veloce chiacchierata al
Circolo Bar Esso ci ha
raccontato come si fosse salvato stando tra i morti per quasi
un'ora mascherandosi con due sciarpe del Liverpool e come vide e
visse i tre assalti dei tifosi inglesi che nell'ultimo
depredarono i morti degli orologi e delle catenine d'oro. Un
evento, una tragedia che vorrebbe raccontare nei dettagli e che
ancor oggi al ricordo gli fa piangere il cuore.
22 gennaio 2017
Fonte: Letruria.it
A-Z |
30 anni dopo l’Heysel: il
ricordo di chi c’era
di Mattia Roseo
29 maggio 1985, Belgio, città
di Bruxelles, Stadio Heysel, ore 19:20, mancava poco all’inizio
della finale di Champions League tra Juventus e Liverpool.
L’evento sportivo finisce qui per lasciar spazio alla tragedia,
quando gli hooligans dei Reds cominciano la carica verso i
sostenitori bianconeri nel settore adiacente.
Quello che
accadde poi lo sappiamo tutti quanti, indifferentemente dalla
fede calcistica, ma c’è una differenza sostanziale tra il sapere
e il capire. Per capire fino in fondo la profondità di una
tragedia del genere bisogna aver vissuto quei momenti in prima
persona ed è proprio con una testimonianza inedita che vorremmo
far capire a tutti cosa accadde perché, saperlo lo sappiamo
tutti…
A parlare è Marco Santucci, 46 enne
di Ardea (Roma), impiegato, personal trainer e allenatore di
pallavolo. Tifoso juventino da sempre ha trasmesso il suo credo
anche alla sua famiglia: il calcio è uno sport e una passione,
mentre per molti altri è solo odio, rancore, invidia, rabbia e
frustrazione da sfogare. Lui quel 29 maggio 1985 si trovava allo
Stadio Heysel e qui inizia il nostro viaggio nei suoi ricordi.
Quanti
anni avevi all’epoca dei fatti, con che spirito sei andato alla
partita e con chi ? Eri già un tifoso assiduo frequentatore di
stadi o alle prime esperienze ?
"Ero alle prime esperienze, forse ero
stato solo un paio di volte allo stadio qui a Roma. Avevo 15
anni e partii col cuore che impazziva dall’ emozione. Fu una
sorpresa di mio padre: probabilmente per omaggiare un referente
per la loro attività lavorativa, una piccola compagnia aerea di
Milano gli offrì la possibilità di andare a Bruxelles con tanto
di biglietto per il match. Partii dopo avere imbarcato un Club
di Forlì non conoscendo nessuno".
Che sensazioni si respiravano
in città ? C’era già aria di tensione ?
"Non direi, anche se gli inglesi
avevano preso possesso del centro cittadino e della Grand Place
in particolare, come loro uso e costume. E’ una mentalità
anglosassone: la sera c’è la partita, ma di giorno io faccio il
padrone a casa d’altri. Mi ricordo la Grand Place completamente
ricoperta di casse da birra. Loro saranno stati tra i quindici e
i ventimila, ognuno di loro si sarà bevuto una cassa, puoi
immaginare lo scenario ! Però non c’erano avvisaglie di
incidenti, anche se giravano voci di vendette da cercare dopo i
pestaggi subiti a Roma l’anno prima nella finale vinta con la
Roma".
Dove ti trovavi nel momento in
cui si consumava la tragedia e come hai vissuto quei momenti ?
Ti sei accorto subito della gravità della situazione ?
"Eravamo nella tribuna più lontana, non
quella adiacente al settore Z, in pratica fronte telecamere. Non
ci accorgemmo della gravità".
Come, tra voi tifosi, vi
spiegavate quello che stava succedendo e che voci circolavano ?
"Più che pensare osservavamo: lo
sfondamento degli inglesi, la reazione della curva juventina dal
lato opposto e la tensione che era salita alle stelle. Che ci
fossero stati guai seri era chiaro, ma io personalmente non
ricordo che ci fosse una presa di coscienza chiara e
dimensionata di ciò".
Secondo te le colpe sono da
attribuirsi di più alla disorganizzazione delle forze
dell’ordine locali o alla violenza incontrastabile degli
hooligans inglesi ?
"Voglio essere molto franco: la colpa
per me fu al 90% della disorganizzazione. Stadio decrepito,
gestione della vendita dei biglietti assurda, forze dell’ordine
inefficienti, disorganizzate e in numero esiguo. Eppure le
abitudini degli inglesi erano note da almeno dieci anni in giro
per l’Europa. Però, per assurdo, se avessero trovato di fronte a
loro degli ultras, non ci sarebbe stato neanche un morto, perché
non ci sarebbe stata una fuga disordinata di gente "normale"
verso quel muro che poi è ceduto".
Come hai accolto la decisione
di giocare comunque nonostante gli organi competenti fossero
ovviamente al corrente dell’accaduto ?
"Come detto, lì per lì non avevo
capito. A posteriori, col senno di poi, anche del Marco oggi
quarantaseienne, secondo me hanno fatto bene dal loro punto di
vista. Guadagnarono, infatti, due ore per salvare il salvabile
in termini di organizzazione dell’ordine pubblico. Moralmente,
però, è ovvio che hanno fatto malissimo, costringendo i
giocatori ad una macabra recita".
Una volta abbandonato lo stadio
che scenario ti sei trovato di fronte ? A quel punto era
impossibile non capire cosa fosse accaduto ?
"Voci più precise furono proprio verso
l’uscita che ci raggiunsero. Lo scenario era irreale: con tutto
ciò che era accaduto, per raggiungere i pullman che ci avrebbero
portati all’ aeroporto, percorrevamo un tragitto completamente
mischiati ai tifosi inglesi. Dopo un centinaio di metri mi
sentii quasi strozzare alla gola perché qualcuno da dietro aveva
afferrato la mia sciarpa aggredendomi. Reagii a calci e pugni.
Non so neanche dire quanti potevano essere: dieci, venti, forse
di più. In pochi attimi finii a terra travolto da una valanga di
calci. Durò pochi secondi, mi coprii bene la testa e me la cavai
con un occhio nero. Mi rialzai da solo e sentii la voce del mio
"accompagnatore" che mi chiamava da arrampicato sopra un albero.
Alla faccia della promessa fatta a mio padre di badare a me,
mettiamoci pure un pizzico di macabra ironia in questo triste
ricordo…".
Cosa hai fatto quando ti sei
reso totalmente conto della tragedia ? Fai parte di quelle
persone che hanno cercato di mettersi in contatto
telefonicamente con l’Italia tramite l’aiuto di
giornalisti/abitanti della zona ?
"No, forse l’incoscienza di un ragazzo
di 15 anni non mi fece subito capire l’importanza di dare mie
notizie a casa al più presto. Telefonai solo all’arrivo in
Italia. Mia madre era distrutta, aveva passato la notte a
cercare mie notizie tramite amicizie "pesanti" in polizia, ma
nulla da fare. Fui un po’ stronzo, in effetti…".
Come ha cambiato, se l’ha
cambiata, questa tragedia la tua percezione delle cose ? Vivi il
calcio sempre allo stesso modo o qualcosa in te è cambiato ?
"Io credo che solo chi ha perso
qualcuno o si è trovato in quell’inferno di settore può avere
subito un trauma tale da non volere neanche più sentire parlare
di calcio. Negli anni ho sempre seguito con passione la
Juventus, anche da abbonato a Torino, malgrado io viva a Roma.
Sei-sette partite all’anno le faccio sempre in giro per
l’Italia".
Cosa pensi di quelle tifoserie
avverse che spesso e volentieri ancora oggi inneggiano
all’Heysel per schernire gli juventini ?
"Penso
sia meglio che non me ne capiti mai uno tra le mani. Penso che
lo hanno fatto impunemente per troppi anni e in modo troppo
sfacciato, penso che l’odio verso la Juventus e i suoi tifosi è
inverosimile e che lo fomentano media indecorosi, che pur di
vendere una copia in più perdono la dignità da più di
trent’anni".
Pensi che tragedie del genere
possano capitare ancora o ora gli stadi e la sicurezza sono
migliorati ?
"Credo sia impossibile, almeno a
livello di calcio internazionale e nazionale d’élite. La
violenza in termini di scontri tra tifosi è un’altra cosa, con
mille sfaccettature, e molto presto porterà a conseguenze
davvero gravi, è solo questione di tempo".
Hai una frase o un pensiero da
dedicare a quel giorno e a quelle 39 vittime ?
"Sì: continuerò sempre a difenderne la
memoria non solo dai miserabili che la insultano, ma anche dai
cialtroni che usano e strumentalizzano quella strage per gettare
fango addosso alla Juventus e per togliersi la soddisfazione di
dire "quella coppa non vale" ! Capito che ignobili ?! A milioni
di finti moralisti non è mai interessato nulla di quei morti,
anzi, a loro interessa solo screditare e anche di fronte ai
morti sbavano rabbia e odio calcistico, usandoli persino".
Nel ringraziare ancora Marco per la sua
disponibilità e collaborazione, speriamo con lui che il ricordo
di questa tragedia nel suo trentesimo anniversario possa essere
utile per porre fine alla strumentalizzazione ai danni dei
caduti e della società Juventus, che si tratti di discorsi al
bar o negli stadi. Nessun dramma dovrebbe confondersi con lo
sport, dall’Heysel a Superga, impariamo a goderci il tifo in
maniera sana e lasciamo odio e frustrazione fuori dal calcio per
rispettare almeno la memoria di chi non c’è più.
28 maggio 2015
Fonte: Calciogazzetta.it
A-Z |
LAURA SAU
"Quella notte all’Heysel eravamo
convinte di morire"
di Filippo Rubertà
Nel 1985 a Bruxelles c’erano anche
l’attuale assessore di Verbania Laura Sau e la sorella Silvia:
"Da allora il calcio non lo guardiamo più nemmeno in tv".
Ancora adesso
quando ci ritroviamo in situazioni di affollamento ci prende la
paura". Nella notte dell’Heysel - quando il 29 maggio 1985 allo
stadio di Bruxelles morirono 39 persone - c’erano anche
l’attuale assessore all’Ambiente di Verbania Laura Sau e la
sorella Silvia. Allora erano studentesse universitarie che
lavoravano saltuariamente come accompagnatrici turistiche. Non
erano appassionate di calcio, ma nel 1983 avevano accompagnato i
tifosi juventini ad Atene per la finale di Coppa Campioni contro
l’Amburgo ed erano rimaste colpite. Erano quindi partite
tranquille per il match contro il Liverpool: Laura in pullman e
Silvia in aereo.
"Il mio gruppo - racconta
Laura - è stato sistemato nel settore Z proprio vicino agli
inglesi dove si sono verificati gli scontri più duri. Stadio
vecchio, con una rete inconsistente che divideva le due
tifoserie, la polizia era inesistente. Ho intuito subito che
l’atmosfera era pesante e appena la rete è stata abbattuta, dopo
essere rimasta schiacciata, sono scappata".
Fuga senza scarpe - Laura Sau
nel tentativo di guadagnare l’uscita, dopo aver scavalcato il
muro di cinta, è rimasta imbrigliata nella recinzione di filo
spinato: "Ero con una mia collega e ci siamo ferite un po’
dappertutto. Avevo anche perso le scarpe ma in quel momento
nemmeno ci ho fatto caso, pensavo solo a mettermi in salvo".
Laura Sau scoprì solo dopo che c’erano stati dei morti: "Ci
siamo rifugiate a casa di una famiglia e lì guardando la tv
abbiamo saputo. Tra i morti anche uno del nostro gruppo". Subito
dopo chiama i genitori per tranquillizzarli, ma lei è inquieta
perché non sa che fine abbia fatto la sorella. Alla famiglia non
dice niente: "Silvia era arrivata in aereo ed io non l’avevo
vista. Non c’erano ancora i telefonini e sono andata avanti
tutta la notte e il giorno dopo a pensare al peggio. Non avevo
il coraggio di telefonare a casa. Quando ho saputo da mio padre
che lei si era già fatta sentire è finito l’incubo". Silvia,
scavalcando il filo spinato, era riuscita ad allontanarsi: "Dove
c’ero io è crollato un muro - racconta proprio Silvia. C’era un
fronte di persone che spingeva e altre che erano calpestate. Mi
sentivo soffocare, mentre in testa mi arrivavano sassi e
petardi. Un’esperienza terribile, ho pensato che fosse la fine.
Mi torna l’ansia ogni volta che sono in luoghi dove c’è tanta
gente". A casa i genitori hanno vissuto momenti terribili:
"Quando sono arrivata - dice Laura - mio papà mi ha abbracciato
quasi fossi miracolata. Da allora non più voluto veder partite,
nemmeno in tv".
31 maggio 2015
Fonte: Lastampa.it
© Fotografia: Comune.verbania.it
A-Z |
VINCENZO SCAFA
Eravamo in quello stadio: ho visto gli
hooligans uccidere
Vincenzo Scafa ci racconta la sua
drammatica esperienza
di Andrea Fantucchio
Avellino. Dopo i fatti di Marsiglia che
hanno riportato all'onore delle cronache mondiale il fenomeno
degli hooligans, mostrandoci cosa il calcio e lo sport in
generale non dovrebbero mai essere, vi riproponiamo
un'intervista che facemmo a Vincenzo Scafa, mercoglianese che si
trovava a Bruxelles quando andò in scena uno dei momenti più
terribili che lo sport mondiale ricordi. La tragedia
dell'Heysel.
"L'ondata umana ruppe il silenzio che
ancora avvolgeva lo stadio, oscillando da destra verso sinistra:
una scossa tellurica che, fra gemiti e urla, annunciava l'inizio
della fine. I tifosi juventini, spinti dagli inglesi che
caricavano come un solo uomo, indietreggiavano fino a trovarsi
con le spalle al muro. Fu allora che il panico s'impadronì della
folla: in tanti si lanciavano nel vuoto cercando salvezza o
camminando sui corpi caduti a terra, calpestando e scalciando
fra urla di dolore e paura. Erano topi in gabbia: da un lato i
tifosi inglesi che li incalzavano, dall'altro la rete di
sicurezza che impediva loro ogni via d'uscita". A Parlare è
Vincenzo Scafa, classe 1963, irpino che trent'anni fa si trovava
a Bruxelles per seguire l'ultimo atto della Coppa dei Campioni
1985. La Juve avrebbe battuto il Liverpool 1-0 ma, quella sera,
ad uscire sconfitto, era lo sport: con trentanove morti e più di
seicento feriti, la tragedia dell’Heysel rappresenta una
cicatrice indelebile che supera i confini dei campi di calcio.
"La sera prima della gara - racconta Vincenzo - facemmo una
passeggiata in centro e ci accorgemmo di come la situazione fra
le due tifoserie si stesse surriscaldando: decine di inglesi
ubriachi, distesi sui marciapiedi, intonavano cori spaventosi
insultando i passanti. Poi, la mattina della partita, lungo lo
stradone che conduceva allo stadio, la situazione degenerò
ulteriormente: i tifosi del Liverpool cercavano in tutti i modi
la provocazione spintonandoci e insultandoci. Noi ci facemmo
valere rispondendo alle offese ricevute, ma non si andò oltre
gli insulti goliardici e gli spintoni". "All'ingresso dello
stadio - continua - poliziotti a cavallo imponevano alle file
che erano in attesa ai tornelli di mantenersi ordinate. Passammo
di fianco ad un cantiere abbandonato, poco distante
dall'ingresso dell'Heysel, è lì che gli hooligans, nei momenti
di follia collettiva, avrebbero reperito spranghe, mattoni e
altri oggetti contundenti. Lo stato delle curve era indegno per
una finale di Coppe dei Campioni: campi del genere, oggi, non
potrebbero ospitare neanche una terza categoria. Ricordo bene le
fila di mattoncini rossi che facevano da spalti, gli stessi
mattoncini qualche ora dopo sarebbero stati divelti dalla folla
inferocita per essere usati come armi". Vincenzo racconta che,
un'ora prima dell'inizio della partita, il settore "Z" fu preso
d'assalto dai tifosi inglesi. Dalla sua postazione la visuale
non era chiara: vide solo una grande nuvola di polvere
sollevarsi, ma intuì che qualcosa non andava. Continuava a
scattare foto in direzione del polverone finché cominciarono a
distinguersi le prime scene di violenza. Il settore dei tifosi
juventini era stato invaso dalla marea urlante dei supporter
inglesi e quel mare finì per sfondare tutti gli argini che
trovava di fronte. "Fu allora che si rivelò fondamentale
l'intervento di Michele Leo - racconta Vincenzo - che ci
convinse ad andar via. Noi giovani volevamo restare ma Michele,
padre di famiglia, era irremovibile. Quando giungemmo in
albergo, stavano andando in onda i primi collegamenti
televisivi. Sul campo nessuno si era reso accorto della gravità
della situazione, non immaginavamo ci fossero tutti quei morti e
quei feriti. Cercammo di rassicurare immediatamente le nostre
famiglie ma non riuscivamo a comunicare con loro perché le linee
telefoniche erano intasate. La partita, alla fine, la vedemmo in
televisione anche se non importava a nessuno. Di quei giorni ci
rimase la bella esperienza vissuta prima di quelle tragiche ore:
il Belgio, per l'ordine e la pulizia delle città e l'educazione
dei cittadini, ci era sembrato un autentico paradiso. Poi, la
sera del 29 maggio 1985, il tempo si è fermato: dall'Heysel non
siamo mai tornati indietro".
12 giugno 2016
Fonte: Ottopagine.it
A-Z |
ETTORE SIMONCELLI
La testimonianza da Sanremo
Trent’anni fa la tragedia dell’Heysel
"Io, Ettore, tifoso bianconero ho
vissuto quel dramma"
"Quando è iniziato il delirio mortale
sono riuscito a scappare dallo stadio e sono subito andato alla
prima cabina del telefono per rassicurare mia moglie e mio
figlio".
Sanremo. "Quando ho visto un seggiolino
colpire un poliziotto e i suoi colleghi caricati dagli
hooligans, ho pensato che se attaccavano anche le forze
dell’ordine, chissà cosa avrebbero fatto a noi": si legge ancora
paura e rabbia negli occhi del sanremese Ettore Simoncelli,
quando questo racconta della terribile esperienza vissuta oramai
30 anni fa, in un tremendo 29 maggio alla stadio Heysel di
Bruxelles. Simoncelli, che all’epoca aveva 44 anni, era in
Belgio per assistere, da tifoso juventino, alla finale di Coppa
dei Campioni tra i bianconeri e gli inglesi del Liverpool. Era
partito in pullman con altri tifosi dell’allora Sanremo Juventus
Club. La partita si trasformò in una ecatombe, quella dei 34
morti - quasi tutti italiani - travolti dalla folla e dalla
rabbia dei supporter albionici. "Già quando siamo arrivati in
Belgio con il pullman - continua a spiegare Ettore - ci siamo
resi conto che quel paese, almeno all’epoca, non era proprio ben
disposto nei confronti degli italiani. Le guardie di confine si
erano fatte regalare una bandiera della Juve, con molta
insistenza quasi fosse un dazio. Poi, mentre partivamo, si sono
messe a litigare violentemente per decidere chi avrebbe tenuto
il vessillo. Un altro loro collega, mentre guardavamo la scena,
ci ha anche fatto le corna". Ma i problemi grossi iniziano con
l’arrivo allo stadio: "Quasi tutti i tifosi del Liverpool erano
ubriachi marci - racconta il testimone - e nessun poliziotto si
è azzardato a chiedere agli hooligans di non entrare con le
casse di birra, delle quali erano fornitissimi. C’erano
addirittura parecchi ragazzi inglesi che si iniettavano eroina
in vena quando erano già sulle gradinate. Quando poi, prima
dell’inizio del match - conclude Simoncelli - è iniziato il
delirio mortale del settore inglese, per fortuna sono riuscito a
scappare dallo stadio e sono subito andato alla prima cabina del
telefono per rassicurare mia moglie e mio figlio, terrorizzati a
casa che aspettavano mie notizie". Da quel giorno Simoncelli,
che seguiva la Juventus nelle trasferte di mezza Europa, ha
quasi smesso di andare allo stadio. Solo qualche partita di
coppa a Torino, ma nulla più: troppa paura per quello che è
successo.
23 Maggio 2015
Fonte: Riviera24.it
A-Z |
FRANCO e REBECCA SPAGNUOLO
Heysel 29/05/1985
I ricordi indelebili di Franco
Spagnuolo
Non so cosa e non so il perché, ma a
distanza di più di 26 anni, anche io voglio dare la mia
testimonianza su quello che è successo il fatidico giorno che
mai più scorderò nella mia vita; il 29/05/1985. All’epoca avevo
22 anni.
Avevo già visto una finale di coppa di
campioni della Juventus 2 anni prima ad Atene in compagnia del
mio amico Paolo Lusetti. Volevo a tutti i costi vedere anche
questa finale (l’anno precedente non avevo potuto assistere alla
finale di coppa delle coppe perché stavo svolgendo il servizio
militare) e quindi io e Mauro Lusetti (fratello di Paolo con cui
avevo visto la finale di Atene) ci mettemmo alla ricerca dei
fatidici biglietti. Avevo (ed ho tutt’ora) una sorella che
lavorava all’agenzia viaggi Planetario di Reggio Emilia e
incaricai lei di trovarmi un viaggio organizzato per vedere la
partita. Rita, riuscì nell’impresa e Mauro ed io facemmo parte
degli altri 48 tifosi che riempivano il pullman con destinazione
Belgio, stadio Heysel. I nostri amici e fidanzate ci
accompagnarono alla stazione centrale di Reggio Emilia dove era
prevista per mezzanotte circa, la partenza del pullman. Eravamo
carichi come delle molle, ma la mia gioia purtroppo si trasformò
subito in dolore perché il giorno della partenza mi
devitalizzarono un dente e il dentista (che odio tutt’ora con
tutta l’anima) mi fece un male cane, nonostante le 4 punture
anestetiche e proprio pochi minuti dopo la partenza, forse
perché fino a poco prima ero ancora sotto l’effetto di una parte
di anestetico, mi si acutizzò il dolore e me lo portai dietro
fino alla fine della mattina successiva… Praticamente non chiusi
occhio. Comunque dopo ben 16 ore di viaggio, intorno alle 16.00,
arrivammo a destinazione. Fortunatamente stavo bene e non vedevo
l’ora di entrare. Quello che mi ricordo e che mi ha lasciò
sbalordito, furono le centinaia e centinaia di lattine vuote di
birra che contornavano lo stadio in prossimità del settore
inglese, ma nonostante ciò, fuori dallo stadio, non c’era niente
che facesse presagire quello che poi accadde. Mi ricordo
addirittura che scambiai la mia sciarpa della Juventus con
quella di un tifoso del Liverpool e facemmo insieme anche alcune
foto. Finalmente arrivò il momento di entrare allo stadio; anche
qui ci fu un’altra cosa che mi lasciò senza parole; dalla nostra
parte i servizi di sicurezza dello stadio, ci privarono di tutti
gli oggetti che potessero recare danni; a me personalmente, mi
requisirono l’asta della bandiera, un tubo di plastica vuoto che
non avrebbe fatto male neanche ad un bambino mentre con grande
stupore mi accorsi, appena messo piede dentro lo stadio, che il
settore degli inglesi era strapieno di bandiere con i loro
relativi bastoni (e non credo neanche di plastica come era la
mia). Comunque, a parte questo particolare ci sistemammo al
centro del settore Z; mi ricordo di essere andato con Mauro in
prossimità della rete che ci divideva dagli inglesi per farmi
fare una foto con loro come sfondo. C’era abbastanza caldo e
misi la giacca di Jeans (prestata da mia sorella) in una sporta
di plastica, insieme alla macchina fotografica, la bandiera e la
sciarpa del Liverpool e rimasi con la mitica "fruits" bianca.
Intorno alle (non ricordo con precisione l’orario),
incominciarono a volarci sopra la nostra testa, dei pezzi di
tufo che i tifosi inglesi staccavano, senza neanche tanta
fatica, dalle gradinate dello stadio; una persona, a qualche
metro da noi, rimase colpito procurando la fuoriuscita di
sangue. In quel momento espressi ai miei amici (oltre a Mauro,
ci trovammo davanti allo stadio con altri nostri amici partiti a
loro volta con un viaggio organizzato dallo Juventus club di
Parma e tra questi c’era anche il fratello di Mauro, Paolo)
l’intenzione di allontanarci il più possibile dai tifosi inglesi
per uscire dalla portata del loro lancio, ma un nostro amico,
Iori Sergio disse le seguenti e sante parole: "restiamo qui. Non
appena inizia la partita, saranno concentrati a vederla e non
lanceranno più niente". Quindi tutti decidemmo di rimanere lì e
io sono vivamente convinto che questo ci ha salvato la vita
perché se ci fossimo spostati sulla parte laterale del settore
Z, ci saremmo trovati più a ridosso del fatidico muro, crollato
a causa della calca della gente. Quando ormai si credeva che nel
giro di pochi minuti, tutto sarebbe tornato alla normalità,
successe il fattaccio. Quello che la mia mente ricorda, di aver
visto parte dei tifosi juventini posizionati sulla nostra
sinistra correre verso di noi in preda al panico; in una
frazione di secondo ho visto gli inglesi che avevano divelto la
rete e stavano in massa incominciando a dirigersi verso la
nostra parte. Il mio primo pensiero è stato quello di scappare
in direzione dell’ingresso posizionato sopra di noi e non mi
resi assolutamente conto di andare dalla parte opposta dei miei
amici e che abbandonai il sacchetto con all’interno le mie cose.
La mia priorità era di togliermi dal pericolo. Mi ritrovai da
solo a decidere cosa dover fare, ma dopo 26 anni sono sempre più
convinto che ogni decisione presa, fu sempre quella giusta.
Non riuscii a guadagnare la zona dalla
quale entrai, perché la calca della gente tese a spostarmi verso
sinistra, ma riuscii ugualmente a raggiungere il muro di cinta
dello stadio, nella parte alta delle gradinate. Qui mi fermai
per qualche secondo. Per un attimo pensai di stare lì ad
aspettare in attesa che tornasse tutto normale; ricordo che mi
misi in punta di piedi e con mio sommo spavento vidi qualche
inglese a pochi metri di distanza venire verso di noi, uno dei
quali, con una bottiglia rotta tra le mani; mi voltai di scatto
e cercai di fare quello che già altri in quel momento stavano
facendo e più precisamente cercai di salire sul muro di cinta
per poi gettarmi fuori dallo stadio. Il muro era alto; ai primi
due tentativi non riuscii a sollevarmi, poi al terzo tentativo
mi sentii una mano sul sedere che mi aiutò a salire… Non saprò
mai chi sia stato, ma posso dire tranquillamente: "chiunque tu
sia, che tu sia benedetto !" Raggiunta la vetta del muro, ci fu
un altro problema; il salto non era dei più facili perché il
muro era recintato con del filo spinato; per non farsi male,
bisognava saltare tra il muro e il filo spinato e lo spazio era
veramente ridotto. Fortunatamente ero magro e il salto di circa
2 metri non comportò danni anche se la zona in cui si atterrava
era subito scoscesa e si rischiava di perdere l’equilibrio e
ruzzolare lungo la discesa andando a sbattere contro un albero.
Sono fermamente convinto, con il senno di poi, che qualcuno mi
stava manovrando dall’alto (eri tu papà ?) e grazie al cielo
andò tutto per il meglio. Mi ritrovai da solo fuori dallo stadio
senza conoscere nessuno e con una gran paura. Cercai dei
poliziotti per avere più sicurezza, ma non ne trovai. Mi
imbattei in qualche altro gruppo di inglesi ubriachi fuori dallo
stadio, probabilmente senza biglietto e sicuramente inconsci di
quello che stesse accadendo. Le mie paure aumentavano sempre
più, ma stavo bene. Arrivai finalmente davanti alla zona
tribune, praticamente in prossimità del muro che da lì a poco
cedette. Mi avvicinai ad un poliziotto a cavallo e in francese,
quel poco che conoscevo, gli chiesi se poteva accompagnarmi
nella zona dove erano parcheggiati i pullman, perché non me la
sentivo di andare da solo. Mi rispose che era pieno di
poliziotti e di stare tranquillo. Nel frattempo vedevo che
stavano arrivando le ambulanze che caricavano i feriti... Da
lontano ogni persona che vidi sulle barelle, mi fecero pensare
ad un mio amico… Ero preoccupato che fosse successo qualcosa a
loro. Mi venne in mente anche di chiamare casa, ma
sfortunatamente ogni negozio, in prossimità dello stadio, aveva
la saracinesca abbassata. Forse solo adesso che sono genitore
anche io, credo di poter immaginare quanto invece i miei parenti
abbiano sofferto in quei lunghissimi momenti. Sconfortato dalle
vicende che vidi in quel momento, e facendomi coraggio, mi
avviai al parcheggio dei
pullman distante alcune centinaia di
metri dallo stadio; ero sempre spaventato anche perché di
poliziotti lungo il tragitto non se ne videro nemmeno l’ombra.
Incominciai a rassicurarmi non appena giunsi in prossimità dei
primi pullman… C’erano già tanti tifosi juventini che come me
erano riusciti ad uscire dallo stadio e stavano man mano
ritornando al loro pullman. Io presi posto sul mio. Non ricordo
bene che ore fossero, ma so solo che alcuni altri pullman
accesero la tele (non il nostro) per vedere la partita che a
quel punto sembrava stesse per iniziare. Ero distrutto
moralmente e fisicamente, ma ero vivo e vegeto ! Di tanto in
tanto sopraggiunse qualche altro componente del nostro gruppo.
Mi ricordo di uno che lo chiamavano "il Profeta" che aveva tutta
la fruits insanguinata. Ognuno di quelli che arrivava,
raccontava la sua storia e io la mia. Nessuno di noi volle
vedere la partita. Eravamo disgustati. A fine gara, rimanemmo ad
aspettare che arrivassero tutti… Ma c’eravamo poi tutti ? Mauro
ancora non si vedeva. Il capo gruppo disse che sarebbe stato
meglio andare davanti al consolato italiano per controllare se
chi mancava era stato ricoverato in un qualche ospedale, anche
se molti di noi non erano d’accordo di spostarci da lì, tra cui
io… Mancava ancora il mio amico. Ero veramente in ansia per
Mauro; L’autista aveva già acceso il pullman, ma poi finalmente
lo vidi arrivare dal finestrone posteriore del pullman e potei
avvisare l’autista che un altro dei nostri stava arrivando. Mi
ricordo che era scalzo e che lo abbracciai appena mise piede sul
pullman, e fortunatamente stava bene. Mi raccontò la sua
esperienza che era riuscito a scappare in direzione del campo e
che poi successivamente venne trasferito in tribuna, e quella
degli altri nostri amici, confermandomi che stavano bene,
compreso suo fratello. Mi raccontò anche dell’esperienza di un
ragazzo dalla grossa stazza, facente parte del gruppo di Parma,
che lo videro piangere seduto in mezzo al campo, continuando a
dire: "ringrazio la mia mamma che mi ha fatto grosso"; era
praticamente caduto in mezzo alla calca e calpestato da tutti.
Arrivammo davanti al consolato italiano e solo qui purtroppo
(perlomeno io) appresi che ci furono anche dei morti. Di minuto
in minuto la lista aumentava sempre più. Del nostro pullman,
mancavano alcune persone, non ricordo il numero preciso, ma
credo 5/6. Nessuna di loro figurava nella lista che di tanto in
tanto leggevamo e ciò ci rassicurava che perlomeno fossero vive,
seppur magari ricoverate in qualche ospedale. Il capogruppo
Tiziano, l’organizzatore, ci chiese ad ognuno di noi i nostri
numeri di telefono di casa e si prese l’impegno di telefonare a
sua moglie e comunicarglieli uno per uno, la quale poi avrebbe
chiamato a sua volta, le famiglie di ognuno di noi. Passammo poi
tutta la notte davanti al consolato, ma nessuno di noi riuscì a
dormire. La mattina partimmo per tornare a casa sempre con le
stesse persone che mancavano all’appello, ma fino a quel
momento, ancora non sapevamo il loro destino. Facemmo tappa a
Strasburgo per mangiare e qui capitò una scena che mi fece
piangere come un bambino. Mia sorella che mi aveva organizzato
il viaggio, sapeva perfettamente quali sarebbero state tutte le
nostre tappe (solo in quel momento capii la sofferenza che
passarono i miei familiari). Per la prima volta credo in vita
sua, mia madre si era collegata a sentire le notizie sulla
partita già dalle 19.00. Assisté, insieme alle mie sorelle, a
tutto quello che successe. Appena terminò la partita, Rita
chiamò fino a notte inoltrata l’albergo in Lussemburgo dove noi
avremmo dovuto fare tappa, ma si sentii sempre rispondere che
non eravamo ancora arrivati. Il giorno dopo attese che arrivasse
l’ora di pranzo per chiamare il ristorante dove eravamo previsti
arrivare… Infatti mi trovò lì; sentii un cameriere francese che
tavolo per tavolo chiamava il mio nome; inizialmente non ci feci
caso, ma poi sentendo pronunciare più volte il mio nome, dissi
che ero io; mi disse di recarmi al telefono che c’era una
chiamata per me... Al momento non capivo chi fosse e chi mi
stesse chiamando, ma non appena senti la voce di mia sorella e
lei sentii la mia scoppiammo a piangere dalla gioia soprattutto
la sua, di sentirmi e lo stesso valse per mia madre; io ero
tranquillo sapendo che qualcuno, la sera prima aveva avvisato
casa che stavamo bene (la moglie del capogruppo), ma mia madre
mi disse che fintanto non avesse sentito la mia voce, non
avrebbe dato retta alla voce di nessuno ! Quello che lei
desiderava più di ogni altra cosa era di sentire la mia voce !
Forse solo adesso che sono genitore anche io, credo di poter
solo un po' quanto mia madre e le mie sorelle abbiano sofferto
in quei lunghissimi interminabili momenti. Arrivai a casa
all’una di notte passata, senza far rumore andai in camera mia e
mi infilai nel letto; credo che mi fossi addormentato da poco,
quando ad un certo punto sentii qualcuno che mi si buttò sul
letto e mi abbracciò con tutta la forza che aveva… Era mia madre
con le mie sorelle a seguito e nessuno di voi potrà mai
immaginare la gioia che in quel momento provassero
nell’abbracciarmi dal vivo. Se da parte mia c’è stata una bella
conclusione, purtroppo non lo è stata per le 39 persone rimaste
vittime degli eventi. Solo al mio risveglio ho saputo che tra le
persone mancanti sul nostro pullman, ce n’era una che non torno
mai più a casa; si chiamava Claudio Zavaroni, non lo conoscevo,
ma la cosa mi ferì moltissimo e tutt’oggi mi chiedo se è mai
possibile poter morire in quel modo. Il mio amico Mauro disse
allora, che ogni anno che sarebbe passato da quel fatidico
giorno, sarebbe stato un regalo. Voglio credere che sia così
soprattutto in memoria di chi non ce l’ha fatta. Ho impiegato da
allora diversi anni prima di rimettere piede allo stadio e tutte
le volte che ci sono tornato (poche in realtà da allora) non
sono più stato tranquillo. Ho una figlia che ha 12 anni e ogni
volta mi chiede se posso portarla a vedere la Juve… Non ci sono
ancora riuscito ! Ciao. Franco Spagnuolo
23 Agosto 2011
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
... FRANCO e REBECCA SPAGNUOLO
... |
Io non c'ero, me lo ha detto il mio
papà
Io, quando è successa la tragedia, ho
12 anni, non ero ancora nata. Ho saputo tutto grazie a mio papà
che c'era in quel momento. Ieri sera all'inaugurazione dello
stadio della JUVE, mi ha approfondito tutto. Lui, Franco
Spagnuolo, c'era e lo ha vissuto. Era lì, su quelle gradinate,
con dei suoi amici, a cui uno deve la vita perché ha detto di
restare lì, vicino alla rete e così si sono potuti salvare. Non
è stato un bel racconto perché mi ha spiegato che è dovuto
saltare da un muro di 2 metri e che era da solo. Adesso però ce
l'ha solo come ricordo e ancora non riesce a portarmi allo
stadio. Io ci vorrei andare anche se per vedere Juve-Parma, che
è vicino. Insomma adesso sta bene, ma secondo me non se lo
scorderà mai. Ti voglio bene papi !!! Ciao. Rebecca Spagnuolo
9 settembre 2011
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
FABRIZIO STACCHINI
Il racconto del segretario del Cons
Fabrizio Stacchini presente alla gara
"Fu una giornata drammatica"
di Laura Casetta
In molti avevano segnato quel 29 maggio
sul calendario tra le date da non dimenticare assolutamente.
Tanti i tifosi che si misero in viaggio da ogni parte d’Italia
per assistere alla finalissima di Coppa Campioni della loro
squadra del cuore. Tra i tanti anche il segretario generale del
Comitato Olimpico Sammarinese Fabrizio Stacchini che ancora ha
un ricordo nitido e indelebile di quel giorno. "Incredibile. Fu
una giornata veramente drammatica - racconta - soprattutto per
la responsabilità verso mio figlio, di soli 7 anni che avevo
portato con me. Aveva terminato la scuola, era stato promosso,
era un viaggio premio e la partita per lui era un grande premio.
Arrivai a Bruxelles nel primo pomeriggio e subito mi accorsi che
c’era un clima strano soprattutto per i numerosi hooligans, già
ubriachi, per strada al fatto che ci portarono allo stadio con
largo anticipo. Mi colpì il fatto che la struttura, certamente
non all’altezza di una finale di Coppa, era una sorta di
Colosseo, senza tribune, senza reti divisorie, tanti blocchi di
cemento. Mi infastidì anche il comportamento dei poliziotti in
sella ai cavalli che con arroganza dirigevano l’ingresso degli
spettatori". E, prosegue: "Noi eravamo nella curva opposta alla
tragedia e subito ci sbalordimmo per il ritardo d’inizio gara.
Circolavano notizie incontrollate e poco dopo il terreno di
gioco fu invaso da tanta, ma tanta gente. Capii che era successo
qualcosa di grave, ero terrorizzato, preoccupato per mio figlio
e cercai di dirigermi subito verso l’uscita. Mi trovai di fronte
ad una muraglia di persone che mi impedì di uscire. Rimasi
quindi a vedere la partita che si svolse regolarmente in un
clima esasperato e di grande tensione. Una gara davvero ridicola
inesistente sul piano sportivo. Alla fine fummo scortati sino
all’aeroporto senza nemmeno un minimo controllo dei biglietti e,
soprattutto, senza che potessi riuscire a telefonare a mia
moglie, disperata per quanto visto in televisione. Mio fratello
chiamò anche la Farnesina per sapere se nella lista dei morti e
dei dispersi c’erano i nostri nomi. Tornammo a casa dopo molte
ore ed ora, nonostante siano passati 20 anni, il ricordo è
ancora bruciante".
5 aprile 2005
Fonte: La Tribuna Sammarinese
A-Z |
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