ROBERTO OBLATO
La storia dell'astigiano
sopravvissuto all’Heysel e che morì un mese dopo
di Stefano Masino
Trent'anni fa, e precisamente
tra fine maggio e fine giugno del 1985, l'astigiano Roberto
Oblato si trovò per due volte, ravvicinate fra loro, di fronte
al suo destino: sopravvisse alla curva maledetta dell'Heysel
(Bruxelles), ma non scampò a un'altra curva, infinitamente più
maledetta, a pochi chilometri da Asti.
La scorsa settimana un mio collega,
Marco Raviola, mi ha portato a vedere un cimelio di trent'anni
fa: il biglietto n.3870 della finale Juventus-Liverpool della
Coupe Clubs Champions Européens, disputata allo Stade du Heysel
(Heizelstadion) il 29 maggio 1985. Di colore verdino, ben
conservato, sul corpo del ticket si evincono alcune curiosità:
il costo: 300 franchi; l'orario partita: 20.15. Sul retro, oltre
agli sponsor (Bata, Coca Cola, Canon, Jvc, Camel, Cinzano, Fuji
Film, Seiko), è riprodotta la pianta dello stadio: il mio
collega si trovava nella curva opposta (posti in piedi N)
rispetto a dove avvenne la tragedia (Y e Z). Una frase, però, ha
destato la mia attenzione; riletta oggi, col senno di poi, fa
venire i brividi. È collocata in bella mostra nella parte bassa
e occupa un terzo della facciata principale del biglietto: "L'organisateur
décline toute responsabilità du chef d'accident, de quelque
nature qu'il soit, qui pourrait se produire au cours ou à l'occasion
du match pour lequel ce ticket est délivré" ("L'organizzatore
declina ogni responsabilità in caso di incidente di qualsiasi
natura che potrà verificarsi durante o in occasione del match
per il quale viene emesso il biglietto"). Raviola poi, dopo
avermi descritto le condizioni precarie dello stadio belga
dell'epoca, si è ricordato di un'altra vicenda drammatica legata
all'Heysel. Altri astigiani, infatti, erano dentro quel
maledetto stadio.
Rientrando dalla festa di San Giovanni
- "Mio fratello è morto il 25 giugno 1985. Era andato a Torino
con un suo amico per la festa di San Giovanni e rientrando,
verso le 2 dopo la mezzanotte, a 500 metri da casa per un colpo
di sonno è andato a scontrarsi contro la cappella votiva che si
trova di fronte al campo sportivo di Villa San Secondo". A
parlare, con la voce rotta dalla commozione, è Valeria Oblato,
sorella dell'indimenticato Roberto Oblato. "Pensi che lui nello
stadio era proprio dove crollò tutto. Si salvò per miracolo. Il
suo amico era andato a chiedere aiuto alla polizia mentre quegli
individui (hooligans inglesi. NdR) avanzavano contro di loro. A
un certo punto mio fratello decide di raggiungerlo; di fianco a
lui c'era una famiglia (papà mamma e figlioletto): il papà non
voleva farlo andare, lo aveva quasi trattenuto perché
allontanarsi di lì in quel momento voleva dire andare proprio in
bocca a quei pazzi; ma lui pensò che ubriachi come erano magari
non vedevano la singola persona ma il mucchio di gente lì
ammassata e così fece. Ci raccontò che aveva appena fatto
qualche metro quando si udì un tremendo boato e crollò tutto".
Un mese dopo soltanto quella tragedia sportiva, dove persero la
vita 39 pacifici tifosi juventini (32 italiani), il destino
attese, questa volta definitivamente, Roberto Oblato. Aveva
appena 21 anni, lavorava nell'azienda agricola di famiglia. I
funerali si svolsero a Corsione dove risiedeva e dove abitano
ancora adesso sua mamma, la sorella Valeria e due nipoti, Chiara
e Michela, che non ebbe il tempo di conoscere.
14 giugno 2015
Fonte: Lanuovaprovincia.it
A-Z |
29 maggio 1985, trent'anni
dalla strage di Heysel:
il racconto di due finalesi che
vissero la tragedia
Tecla Olivieri e Domenico Coppa
erano andati ad assistere alla partita Juventus-Liverpool: ci
furono 39 morti e 600 persone ferite.
"Fuori e dentro lo stadio era una
guerra, volavano pietre ovunque: da quel giorno non ho mai più
tifato nessuna squadra di calcio". Sono queste le prime parole
che pronuncia Tecla Olivieri, che il 29 maggio 1985, insieme
all'ex marito Domenico Coppa si trovava allo stadio Heysel di
Bruxelles, dove morirono 39 persone e ci furono 600 feriti. La
coppia, originaria di Finale, si trovava In Belgio insieme ad un
gruppo di amici per assistere alla partita Juventus-Liverpool.
Un’ora prima del match gli hooligan cominciarono a spingere
verso il settore Z, dove si trovavano i bianconeri, per tentare
di penetrare all’interno. In quella zona, però, si trovavano dei
semplici spettatori e non i veri tifosi che, alla vista degli
inglesi iniziarono a fuggire terrorizzati. Restano impresse
nella mente tutte le immagini della gente che fugge spaventata e
si ammassa, il muro di contenimento della gradinata che cede e
le persone rimaste schiacciate sotto la folla e i sassi. "In
pochi secondi", racconta Tecla, "fu guerra. Io mi trovavo nella
parte alta del settore e quella fu la nostra fortuna. Intorno a
noi cominciò a scatenarsi una battaglia, c’erano pietre e
mattoni che volavano ovunque, gente che scappava. Io mi muovevo
spinta dalla folla, non toccavo neanche i piedi per terra".
"Fortunatamente, prosegue la donna, davanti a noi c’erano
quattro bambini. Una guardia venne a prenderli per metterli in
salvo, noi li seguimmo e riuscimmo a uscire dallo stadio. Dopo
di noi chiusero le porte e per parecchie ore non sapemmo la
sorte dei nostri amici". Fuori dall’Heysel ai loro occhi si
presentò un vero e proprio scenario di guerra: polizia in tenuta
antisommossa, guardie a cavallo, nessuno per le vie cittadine,
un silenzio irreale rotto solo dalle grida di chi si trovava
imprigionato nello stadio. "Siamo corsi verso il bus", continua
la signora, "ma non ci hanno fatto salire: non sapevamo cosa
fare. Abbiamo iniziato, sempre tenendoci per mano per paura di
perderci, ad allontanarci dalla zona, alla disperata ricerca di
un mezzo pubblico". Tutti i veicoli cittadini, dagli autobus ai
tram, erano però stati precettati per portare i feriti dallo
stadio agli ospedali. "Ci siamo messi in mezzo alla strada a
sbracciare, ma nessuno ci ha caricato. Dopo un po’ di tempo che
vagavamo abbiamo visto un taxi fermo". Tecla e l'ex marito si
avvicinano e cercano di raccontare l’accaduto all’uomo che si
trovava alla guida. "Dopo quella dei bambini, spiega la
testimone, questa è stata la seconda fortuna della giornata.
L’autista infatti era marocchino, ma parlava perfettamente
italiano perché aveva lavorato per moltissimo tempo a Savona. Ci
ha spiegato che la corsa era stata prenotata da una signora e
che la stava appunto aspettando". La donna in quel momento
arriva, sale sul veicolo e l’extracomunitario le spiega quello
che era successo allo stadio: il taxi parte, ma dopo pochi metri
si ferma. "Quella signora, racconta Tecla, dopo essersi voltata
e averci guardato dal lunotto ha deciso di farci salire.
L’autista ci ha fatto togliere le sciarpe e, dopo aver
accompagnato lei in stazione, ci ha portato in aeroporto". Da lì
i coniugi Coppa riescono ad avvisare al telefono la famiglia a
Finale che stavano bene. "Ho parlato con mia madre, prosegue la
signora, per qualche secondo, giusto il tempo di rassicurarla e
poi è caduta la linea". Cominciano poi le ore di attesa
all’aeroporto: si parla di cancellare i voli, polizia che gira
ovunque, pochissime informazioni. "Dopo due ore cominciano ad
arrivare i nostri amici, chi con la camicia strappata, chi senza
scarpe, chi ferito. Qualcuno è partito con noi subito per
rientrare in Italia, qualcun altro era tra i feriti dello
stadio. Non potrò mai dimenticare quel giorno".
29 maggio 2015
Fonte: Savonanews.it
A-Z |
Ricordare
Ricordare
è un esercizio della mente, ognuno di noi ha un bagaglio vissuto
che ha contribuito in maniera determinante a farlo crescere, gli
sbagli del passato sono esperienza, le gioie di ieri diventano
struggente nostalgia al pensiero del tempo andato. Ricordare la
storia significa conoscere cosa è avvenuto quando il potere
decisionale era nelle mani di persone che abbiamo amato ed oggi
non ci sono più. Far finta che certi avvenimenti non ci tocchino
da vicino o, peggio ancora, non ci appartengano, è una mancanza
di rispetto a noi stessi ancor prima che ai protagonisti
diretti. E' così in tutti i settori della vita, dalla politica
alla famiglia. Il 29 Maggio del 1985 ha segnato profondamente la
nostra Storia, incidendola in profondità, segnando un confine
impossibile da superare… Eppure, colpevolmente, molti di noi lo
hanno fatto... Chi in campo, pur a conoscenza di ciò che era
accaduto, festeggiò... Chi, il giorno dopo, scese dalla scaletta
dell'aereo, a Caselle, alzando sorridente quella Coppa grondante
sangue... Chi scese in strada clacsonando... Chi, in società,
chiuse a chiave il finto trofeo considerandolo vero... Chi,
ancora oggi, pensa che di Coppe dei Campioni ne abbiamo vinte
due perché in questo modo il Milan con le sue 7 vittorie appare
più vicino... 39 morti sono finiti nel dimenticatoio, corpi
scomodi dei quali sbarazzarsi, ricordi fastidiosi da evitare...
Alcuni di noi, una netta minoranza, ma la qualità non va mai
d'accordo con la quantità, si sono battuti per tenere accesa la
fiamma recandosi a Bruxelles ogni volta che è capitata
l'occasione, stando vicini ai parenti abbandonati, cantando in
ogni stadio la voglia di non dimenticare. Ora sembra che, a
Bruxelles, vogliano abbattere l'Heysel, il nostro mausoleo per
farne un centro commerciale, buttare giù la piccola lapide ed il
monumento che ricorda la nostra tragedia. Io che ho pianto nel
vedere entrambi, la scorsa estate, non riesco a immaginare una
squadra di operai armati di picconi che distruggono quel poco
che resta a ricordo dei nostri fratelli e sorelle. Sono certo
che il poco rispetto portatoci dalle altre tifoserie parta anche
dal modo in cui non siamo stati capaci di gestire il dopo
Heysel. Oggi qualcuno ha il coraggio di chiedere che gli
accattoni restituiscano lo scudetto loro assegnato ed a noi
tolto in seguito a calciopoli, un tricolore chiaramente finto e
non meritato, ma chi siamo noi per pretendere questo se
continuiamo a non voler restituire una Coppa consegnataci senza
merito grazie ad una partita giocata solo ed esclusivamente per
motivi di ordine pubblico ? Il 29 Maggio non è tra due giorni,
per noi GOBBI ogni giorno è il 29 Maggio. Raccontiamo ai giovani
cosa fu quella sera, insegniamo loro che restituirla è un atto
doveroso, colpevolmente in ritardo, ma indispensabile. Smetterò
di andare allo stadio definitivamente solo quando avrò vinto la
mia battaglia, quella dei Gobbi veri che non si vergognano di un
passato vergognoso.
27 maggio 2008
Fonte:
Orgogliogobbo.forumcommunity.net
A-Z |
Bruxelles e l'Heysel 22 anni
dopo...
Avevo
lasciato Bruxelles quella maledetta sera del 29 maggio 1985 con
la morte negli occhi, l'angoscia che mi accompagna ancora adesso
di non aver potuto far nulla per aiutare la mia gente, l'odore
di morte che solo quando lo senti capisci che esiste. Sul
pullman gli occhi di chi ce l'aveva fatta, la conta con il
batticuore, la partenza in una città spettrale militarizzata
come mai. E poi il pensiero di dover telefonare a casa per
tranquillizzare i familiari. Non esistevano i cellulari, le
linee erano intasate, io ricordo di essere riuscito a chiamare
verso le 5 di mattina e vi lascio immaginare quanti e quali
pensieri avevano percorso le menti delle persone che mi
aspettavano. In tutti questi anni ho sempre pensato che sarei
tornato in quella città per rendere omaggio a chi non era
tornato. Ho cercato, per quanto possibile, di tener vivo il
ricordo di quanto accadde raccontandolo a chi, all'epoca, non
era ancora nato. Ho atteso la partita con i reds come un
appuntamento al quale non sarei mancato per nessuna ragione al
mondo e, senza vergogna, ero in prima fila incurante delle
conseguenze a cercare il contatto non avvenuto causa la presenza
di un vero esercito a protezione degli animali. Ero ad Arezzo
quando è stato intitolato il piazzale a Roberto Lorentini, una
delle vittime di quella sera. Ma il cuore mi diceva che sarei
dovuto tornare lì e così, ai primi di Agosto, ho imbarcato tutta
la famiglia in auto e sono partito alla volta del Belgio. Ho
voluto fare, quasi, le stesse cose che feci 22 anni fa, partendo
da una passeggiata in centro, in quello splendido salotto che è
la Grand Place, affollata di gente che sedeva nei tavolini dei
tanti bistrot. L'ho trovata uguale e diversa, o forse sono io
che la ricordavo differente: più grande, invasa dagli inglesi
ubriachi che ci impedivano di passeggiare tranquillamente con la
loro prepotenza alticcia. Il trasferimento all'Heysel è
risultato agevole grazie al navigatore, all'epoca ricordo che
feci qualche fatica ad arrivare con i mezzi pubblici, sbagliando
un paio di volte e decidendo alla fine di incamminarmi seguendo
l'enorme figura dell'Atomium che si stagliava nel cielo. Lo
stadio oggi è cambiato rispetto ad allora, completamente
ricostruito quasi come se una nuova veste riuscisse a cancellare
il passato. Ma non è così. Quegli spalti fanno parte della
nostra storia tanto quanto la città di Torino ! E' tutto
diverso, anche i colori dei mattoni di un rosso vivo contrastano
con il ricordo di un grigio che più grigio non si può, la
copertura verde che prima non c'era, ma lo spazio è rimasto
quello. La lapide, non visibilissima, con i nomi incisi è un
urlo che fa male al cuore ed alle orecchie. Il muro crollato, ed
oggi nuovamente in piedi, è lì a pochi metri e sembra il Titanic
appoggiato su un fianco. Ho raccontato ai miei figli cosa
accadde quella sera, perché accadde e di chi fu la
responsabilità di quel massacro. Abbiamo pianto insieme
scorrendo i nomi della lapide e di alcuni ho ricordato la storia
e la provenienza. Penso che ogni Gobbo dovrebbe, nel corso della
propria vita, recarsi all'Heysel, oggi Stadio Re Baldovino, come
ogni buon cristiano si reca dal Papa durante l'Anno Santo o come
i musulmani vanno alla mecca. Arriverà il momento in cui
anche io mi tirerò da parte, ma prima che questo accada
impegnerò tutte le mie forze affinché quella coppa venga
restituita con colpevole ritardo all'organo internazionale che
ce la regalò grazie ad un rigore che più fasullo non si può.
Inutile dire che ne abbiamo vinta solo una se poi ne abbiamo due
in bacheca perché, come ho già scritto, non possiamo pretendere
il rispetto degli altri se non siamo noi per primi ad averne per
la nostra gente che non c'è più. Abbiamo passato momenti
orribili, una vera rivoluzione ci ha colpiti, cosa volete che
sia privarsi di una cosa che non ci appartiene ? Vi prego:
andate a Bruxelles, toccate quel muro e lo sentirete vibrare
come quando è venuto giù. Se tornando a casa vorrete ancora
quella coppa in bacheca, vorrà dire che il mio popolo fa schifo
e le mie battaglie per migliorarlo sono risultate vane.
15 agosto 2007
Fonte:
Orgogliogobbo.forumcommunity.net
A-Z |
SANTINO e FAUSTO ORSI
Santino Orsi, sopravvissuto ai
campi di concentramento (Jugoslavia) e Heysel
di Mauro Molinaroli
Due storie vere per Santino
Orsi, l'uomo che visse due volte. L'uomo uscito due volte
dall'incubo di una morte annunciata oggi ha 91 anni, abita nei
pressi della Galleana, è persona cordiale e molto lucida. Non
penseresti mai che la sua esistenza è stata segnata così
pesantemente da due eventi talmente tragici di fronte ai quali
chiunque non troverebbe la forza di sorridere e di guardare
avanti.
IL PASSATO PESA - Lui sì, perché c'è un
senso a tutto anche al dolore ed alla morte. Perché il tempo sa
shakerare i ricordi e lenire le sofferenze. Perché l'oggi è
meglio di ieri, ma il passato pesa, pesa come un macigno:
prigioniero nella Jugoslavia di Tito dall'aprile 1945 al Natale
del 1945, ha rischiato anche di morire di calcio allo stadio
dell'Heysel a Bruxelles, il 29 maggio 1985, durante la finale di
Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Lui era in quel
maledetto settore "Z" insieme al figlio che lo salva
accorgendosi che sta per essere soffocato da una montagna di
persone che spingono per uscire da quell'inferno. Entra in coma,
si sveglierà qualche giorno dopo all'ospedale di Saint Luc di
Bruxelles, ma la vita difficile vera aveva toccato punte
incredibili dopo la caduta del Terzo Reich avvenuta l'8 maggio
1945. PRIGIONIERI A LUBIANA - Diverse migliaia di militari, in
maggioranza italiani, ma anche tedeschi e qualche slavo, con
l'inganno vengono fatti prigionieri e condotti a Lubiana, città
vicina ai confini con l'Italia, attraverso la Jugoslavia
settentrionale fino a Novi Vrbas, importante centro agricolo al
confine ungherese con l'obiettivo di sostituire gli ungheresi
cacciati dalle loro terre nei lavori nei campi e nelle
fabbriche. La marcia dura 38 giorni, tra i deportati c'è proprio
lui, Santino Orsi, reduce dalla campagna di Russia e della
Grecia poi: "Da Lubiana a piedi ci tradussero a Novi Vrbas,
eravamo più di 1.500 italiani, tornammo in 800. Tutto avvenne
senza cibo né bevande, spiega, mentre sfoglia un libro scritto
da un suo compagno di allora, Giuliano Marzaroli, dal titolo "La
marcia della giovinezza (Edizioni Ets) dove Santino è più volte
citato, che riporta proprio i giorni di quella devastante
marcia, quel viaggio nel cuore del comunismo di Tito, bevevamo
l'acqua nei fossi, mangiavamo le radici degli alberi e qualche
patata. Il percorso passava attraverso piccoli centri abitati, e
spesso anziché essere aiutati la gente ci insultava ed a volte
ci picchiava. Mi creda, ho ritrovato il libro di Giuliano Marzaroli e mi sono ritrovato nell'inferno di allora. Mi chiedo
se sarà ancora vivo, però quel viaggio, quelle sofferenze e
quelle torture sono ferite che non si cicatrizzano". LA
DEPORTAZIONE - L'onta della deportazione, il Danubio limaccioso,
città mai viste: "Urlavano che eravamo fascisti, prosegue Orsi,
e la gente si sfogava sputandoci addosso e picchiandoci. Osijek
rimane un incubo, una città terribile e ognuno di noi si rendeva
conto che dimagriva di giorno in giorno. Senza una ragione ci
stavano portando a forza in una città che non conoscevamo, una
località che avrebbe ospitato migliaia di montenegrini. Ma
questo noi non potevamo saperlo. Si dormiva nei prati, tra
l'umidore ed il solo conforto
era di contarci, ritrovarci e
capire che eravamo vivi. Fu forte la voglia di lasciarci
scivolare a terra. Giungemmo a Backa, la regione più a est della
Jugoslavia il 17 giugno. La marcia era finita. Saremmo stati
forza-lavoro per l'agricoltura e per le fabbriche. Ci diedero
del pane e non ci parve vero. Ci misero in uno stanzone, il
risveglio fu terribile". IL LAGER - Eravamo in un lager e il
comandante ci fece fare molte flessioni, una punizione
inspiegabile. Eravamo deboli, stanchi, non sapevamo come sarebbe
finita, ma so per certo che ciò che vivevamo era l'inferno.
Eppure il lavoro in fabbrica era durissimo diviso per turni, con
pesanti mazze molti di noi dovevano spezzare pietre prese dalle
cave, altri prigionieri le estraevano e poi venivano cotte nei
forni a ciclo continuo e trasformate in calce viva. Facevo l'"elecriciaio",
l'elettricista per intenderci. Mi chiamarono per
installare la
prese delle case ed i montenegrini probabilmente non avevano mai
avuto la luce elettrica; una sera mi chiamarono chiedendomi come
si spegnessero gli interruttori, con un gesto della mano spensi
in un attimo". HEYSEL: LA FINALISSIMA - La domenica precedente
la partita, Santino cade dalla bicicletta e sbatte la testa,
sembrano segni di un destino beffardo. Padre e figlio sono
indecisi se partire o meno. Poi vanno: "Un'ora prima della
partita gli hooligans, violenti ed ubriachi più che mai, dicono,
cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate, sfondando
le reti divisorie, reti che non erano per niente sufficienti a
garantire un'adeguata sicurezza: la tifoseria organizzata
bianconera è nella curva opposta, molto lontano; quel settore è
occupato solo da gente buona, da famiglie che vivono un dramma
che non dimenticheranno più. Eravamo impauriti, anche per il
mancato intervento e per l'assoluta impreparazione delle forze
dell'ordine belghe, che ostacolavano la fuga degli Italiani
verso il campo manganellandoci. Nella grande ressa che venne a
crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere
schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli ostacoli ed
entrare nel settore adiacente, altri si ferirono contro le
recinzioni. Il muro ad un certo punto crollò per il troppo peso,
moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla
e uccise nella corsa verso una via d'uscita". L'INFERNO -
Prosegue Fausto Orsi: "Anche noi cercavamo di raggiungere il
campo, ma era impossibile. Mio padre cadde e fu travolto da una
folla che spingeva, che cercava a tutti i costi di salvarsi. Mi
accorsi dov'era perché indossava un paio di calzoni con un
disegno a quadri, molto ben visibile. Ricordo che mi tuffai in
quel marasma, cercai mio padre che aveva perduto i
sensi, improvvisai una respirazione bocca a bocca e dopo
diverso tempo fu portato in un ospedale militare nei dintorni
dello stadio. C'era l'inferno, la gente che piangeva, si
disperava, sangue ovunque, feriti, i morti che neppure
impressionavano più in quel marasma. Raccontare oggi quel che
accadde allora è riaprire una ferita che ha impiegato molto
tempo a cicatrizzarsi. Fu quando mio padre giunse all'imponente
ospedale di Saint Cloud che mi resi conto che avrebbe potuto
farcela. Un centro medico molto attrezzato, lui era tenuto in
coma farmacologico. Ci raggiunse anche mia madre, fu un mese
molto strano, particolare. Santino intanto giorno dopo giorno
riprendeva conoscenza: "mi volevano tutti bene, fui trattato in
modo esemplare. Fecero il possibile per farmi dimenticare quel
dramma. Mio figlio era tornato a Piacenza, c'era il negozio di
elettrodomestici e l'attività di elettricista da mandare avanti.
Io rimasi a lungo. La foto in cui ero a terra esanime divenne
una sorta di simbolo nonché la copertina del Guerin Sportivo".
18 febbraio 2013
Fonte: La Libertà
A-Z |
CARLO OTTAVIANO
"Quella foto che mi riporta
nell'incubo dell'Heysel"
di Carlo Ottaviano
Trent'anni fa la strage: la
testimonianza del giornalista Carlo Ottaviano quel giorno allo
stadio con un gruppo di amici. "Ho rivissuto il dramma vedendo
pubblicata l'immagine del dolore di due tifosi con i quali avevo
viaggiato da Catania a Bruxelles".
Claudio quel giorno era ancora nella
pancia di Giusi che al telefono dall’unità di crisi della
Farnesina si sentì rispondere: "No, suo marito non è tra i
cadaveri riconosciuti... Però abbiamo 11 corpi ancora senza nome
e ci sono centinaia di feriti". Il mio ricordo dell’Heysel è il
senso di colpa per quelle ore di angoscia fatte vivere a chi mi
amava. Il mio ricordo dell’Heysel è la consapevolezza che nessun
merito e nessuna responsabilità sul loro destino avevano e hanno
quei due ragazzi che sarebbero nati di lì a poco e che tra
qualche mese compiranno i 30 anni. Domenico ha lo stesso nome
del padre mai conosciuto, una delle 39 vittime di quella dannata
partita. Domenico Russo viveva in Piemonte e aveva 28 anni, come
me allora. Dal 29 maggio del 1985 associo immancabilmente l’idea
dell’imponderabilità del fato a quel giorno e ai due ragazzi che
sarebbero diventati Claudio e Domenico. "Tra mezz’ora da
Fontanarossa parte un volo per Bruxelles. La Fiat mi ha regalato
4 posti. Vuoi venire assieme a mio figlio e mio nipote ? Si
rientra per mezzanotte a Catania". Giusto il tempo di una
telefonata a casa e via. Sull’aereo c’è aria di festa. Il
destino ha le sembianze di un gentile signore che distribuisce i
biglietti di ingresso allo stadio. A me capita la curva M. Ad
altri la N e la O. A 12 passeggeri, seduti in coda all’aereo,
viene dato l’accesso alla curva Z, quella della morte. Arrivati
all’aeroporto di Anversa, un’ora da Bruxelles vengo attratto da
un simpatico omaccione in bianconero: cappellino a righe, giacca
a righe, pantalone uno bianco e uno nero, scarpe in tono. Mentre
lo fotografo un amico gli si mette al fianco. Ho recuperato
l’immagine in queste ore dal cassetto dei ricordi dopo aver
visto la "Repubblica" di lunedì. Una foto riprende i due dopo il
passaggio della furia assassina degli hooligans: quelle sul
volto del Pierrot bianconero non sono lacrime dipinte, sono
vere. Una volta entrati nello stadio non capimmo nulla di ciò
che accadeva nella curva Z. Vedemmo la marea di maglie rosse
muoversi, la polizia portare via dei corpi tenendoli per le mani
e le gambe. Sapendo poi e ora che erano i corpi delle vittime,
continuo a vergognarmi per aver applaudito al rigore di Platini
e la vittoria dei torinesi. Solo a partita terminata, si iniziò
a sapere cos’era accaduto e ad avere contezza del dramma. Si
vagava per strada, alla ricerca del bus che avrebbe dovuto
riportarci in aeroporto. Quando, alle 5 della mattina dopo, il
gruppo si ricompose, all’appello mancavano in tanti, alcuni
feriti gravemente, altri rimasti per assisterli. Eugenio
Gagliano, 34 anni, assessore socialista a Mirabella Imbaccari,
padre di tre bambini, sarebbe tornato qualche giorno dopo con un
Hercules C130 dell’Aeronautica Militare ma dentro una cassa di
legno. E dopo due mesi di sofferenza all’Ospedale Erasme, senza
mai riprendersi dal coma, lo stesso triste viaggio avrebbe
compiuto Luigi Pidone, 31 anni, di Nicosia. Entrambi vittime
della furia dei teppisti inglesi e di quel dannato casuale
biglietto Z e non M, N, O.
27 maggio 2015
Fonte: La Repubblica - Palermo
A-Z |
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