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2 Tifosi Bergamaschi
Curva Settore Z
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2 Tifosi Bitontini
Curva Settore Z
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Vanni Ballasini
Tribuna 1
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Luciano Barelli
Curva Settore Z
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Giovanni Battaglioli
Curva Settore Z
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Ivan Berlucchi
Curva Settore Z
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Davide Bernardi
Curva Settore Z
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Marco Bernardini
Tribuna Stampa
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Stefano Bianchi
Curva Settore M-N-O
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Roberto Biolchini
Curva Settore Z
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Camilla Bonelli
Curva Settore
M-N-O
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Giovanni Bulgarella
Curva Settore Z
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Gaetano Buscemi
Tribuna 1
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"Avevamo i biglietti
di quel settore ma non entrammo"
di Simone Pesce
Il ricordo dei
bergamaschi: "Gli ingressi erano porticine di un metro e
mezzo: una trappola. Andammo in tribuna". "lo invece ero
lì, a venti metri dal muro crollato".
"Nessuno
capiva, nessuno ci aiutava. Fu un attimo". Settore Z,
l'apocalisse. Giovanni l'ha evitato grazie a Umberto e
non ha mai smesso di pensarci. Ubaldo ci si è trovato in
mezzo ed è scappato, rotolando in salvo sul prato dello
stadio. Heysel, 29 maggio '85. Giovanni Petenzi e
Umberto Bettoni di Costa Volpino e Ubaldo Donghi di
Brembate Sopra sono tra quelli tornati dall'inferno. Li
unisce la notte di Juventus-Liverpool, loro tra i 400
bergamaschi a Bruxelles per la finale di Coppa Campioni.
Li divide un biglietto del settore Z, il cimitero della
ragione. "C'è rimasto solo quello, ci avevano detto in
agenzia. Andammo". Giovanni Petenzi oggi ha 73 anni e un
certo curriculum di finali juventine. Atene '83,
l’incubo Magath; Roma'96, la coppa alzata da Vialli. Ma
è quel primo pomeriggio a Bruxelles, quel girovagare
inquieto di fronte allo stadio, a cambiare la sua
storia. "Siamo partiti in cinque da Costa Volpino, ma
Umberto non voleva entrare in quel settore. Non mi
piace, ripeteva, non mi piace". Perché, Umberto se lo
ricorda benissimo. "Avevamo visto gli ingressi e le
uscite del settore Z: due porticine larghe un metro e
mezzo, come quelle degli orti, e dietro la curva il
parcheggio coi pullman dei tifosi inglesi. Siamo pazzi a
entrare qui, dicevo io, è una trappola. Quasi
litigammo". E Umberto li convince. Parte la ricerca del
bagarino. "Lo troviamo quasi subito ricorda Giovanni. Ha
cinque biglietti di tribuna, a 140 mila lire. Presi.
Fossero stati 4, ora forse qualcuno di noi mancherebbe
all'appello". Restano i biglietti del settore Z da
smerciare. "Torniamo allo stadio e vediamo un gruppo di
tifosi inglesi. Tiriamo fuori i biglietti e li offriamo,
ma questi ci saltano addosso, ci strappano i biglietti,
le tasche dei pantaloni. Sono fuori di senno, la polizia
guarda e non fa nulla. Allora scappiamo in tribuna. La
partita l’abbiamo vista lì". Fino alla fine. "Avevamo
visto la gente sul prato, ma non si capiva cosa fosse
successo. Girano voci impazzite: morti, a decine". Uno a
zero, rigore di Platini, finita. Per strada Giovanni
dice che finalmente la Juve se l'è portata a casa, 'sta
coppa. "Un vecchietto sul marciapiede sente e dice: sì,
ma io ho perso due amici. E scoppia a piangere. Allora
abbiamo capito che era tutto vero. Da lì in poi
l'inferno". Via in pullman, di notte, all'aeroporto di
Anversa. "Il volo è alle 4, arriviamo alle due. Due ore
che non riesco a dimenticare. C'è gente con la testa
fasciata, piena di sangue. Uno dice di aver perso gli
amici, urla, piange". Allo stadio i telefoni a gettoni
sono rotti, all'aeroporto Umberto che parla francese
spalanca la porta dell'ufficio della polizia e ottiene
di poter chiamare in Italia, a pagamento. Giovanni e gli
altri si precipitano. "A casa sono tutti svegli. Per mia
moglie sono nel settore Z, non sapeva che lì non ci sono
mai entrato. Dell'Heysel non ho conservato nulla. Avevo
comprato una bandierina l'ho buttata". "Ero a 20 metri
dal crollo" Ubaldo Donghi il biglietto l'ha ancora in
casa, incorniciato. "Numero 14.621, costo 300 franchi,
settore corretto a biro. Sono juventino dalla culla, ho
giocato, ho fatto l'allenatore. Nell'85 avevo 31 anni,
era la mia prima finale". Partono in tre da Orio.
"Avevamo chiesto i biglietti del settore italiano, ma
all'ultimo l’agenzia ci aveva detto che erano rimasti
solo quelli del settore Z. L'aria era brutta. C'erano
inglesi dappertutto, ubriachi marci, lo stadio era uno
schifo. Quando scoppiò il finimondo io ero lì, a 20
metri da dove crollò il muro". Un boato, poi il
blackout. La vita sospesa, come in una bolla. "La
polizia non ci faceva uscire. Ho visto lanciare e
prendere al volo, non so come, una bambina oltre la
recinzione per evitare che venisse travolta. Riuscimmo a
raggiungere un cancello e mi ritrovai in campo, tra
gente distesa per terra. Vivi, morti, non si capiva
niente. Scappai per strada, andai sul pullman e non vidi
la partita. Non la vidi mai. Trovai una cabina,
telefonai a casa, era la sola cosa che m'importava. Non
ho più visto quegli amici, non sono mai tornato a
Bruxelles. Non tornerò più". "Nessuno fece nulla".
Nemmeno Umberto. Basta quel numero: 39. "I morti
dell'Heysel li hanno sulla coscienza la polizia belga e
l'Uefa. Sarebbe bastato poco per evitare la tragedia,
davvero poco. Ma nessuno fece nulla".
Fonte: L’Eco
di Bergamo
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Audio: Rai (Bruno Pizzul) ©
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L’incubo dell’Heysel:
viaggio all’inferno e ritorno
di Vincenzo Murgolo
Dino e Raffaele, entrambi bitontini, erano allo
stadio di Bruxelles il 29 maggio 1985.
Sono
nati e vivono a Bitonto. Tifano per la Juventus sin da
bambini. Ad unire le vite di Dino e Raffaele c’è
soprattutto una data: 29 maggio 1985. Entrambi erano
allo stadio Heysel di Bruxelles per assistere alla
finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool.
Un evento macchiato dagli incidenti avvenuti nella curva
Z e costati la vita a 39 persone (32 italiani, 4 belgi,
due francesi e un britannico), tra cui un bimbo di 10
anni e una ragazza di 17. "Sono partito con sei amici da
Brindisi", racconta Dino, titolare di una lavanderia e
all’epoca 29enne. "Io e mia moglie Tina - ricorda invece
Raffaele, insegnante in pensione che quel giorno di anni
ne aveva 34 - ci siamo sposati il 18 maggio e abbiamo
prenotato i biglietti quando la Juventus si è
qualificata per la semifinale. Siamo partiti il 19 per
il viaggio di nozze, poi il 27 siamo arrivati a Bergamo.
Insieme ad amici conosciuti quando ho insegnato lì,
siamo partiti in pullman e siamo arrivati a Bruxelles il
28 sera". L’avvicinamento allo stadio, situato in un
quartiere periferico di Bruxelles, è tranquillo. Gli
hooligans, la parte più estrema del tifo inglese, in
quegli anni sono un pericolo. Ma né Dino né Raffaele, né
tantomeno le persone che sono con loro, notano nulla che
faccia presagire problemi di ordine pubblico. "Siamo
partiti dall’albergo la mattina - racconta Raffaele - e
abbiamo girato per Bruxelles in un clima allegro.
Abbiamo incontrato un gruppo di inglesi con i quali ci
siamo fatti una foto. A uno di loro ho regalato la mia
sciarpa e il mio cappello della Juventus e lui ha fatto
lo stesso". Nel frattempo Dino e i suoi amici sono
atterrati a Bruxelles e si dirigono verso lo stadio.
"Nel parco circostante l’Heysel non c’erano soltanto gli
hooligans, ma anche tanti tifosi desiderosi di sostenere
il Liverpool. Uno di loro mi ha regalato una maglietta
della squadra, mentre io gli ho dato una sciarpa e un
gagliardetto della Juventus". Poi arriva il momento di
prendere posto nello stadio. Dino e i suoi amici si
dirigono nella curva Z, adiacente al settore riservato
al tifo organizzato inglese, mentre Raffaele e Tina
hanno il posto riservato nella curva opposta, riservata
alla tifoseria organizzata juventina. Restano però
colpiti dall’inadeguatezza dell’impianto belga ad
ospitare un evento della portata di una finale di Coppa
dei Campioni. "Per arrivare al nostro posto - spiega
Dino - abbiamo percorso una scala e siamo entrati nella
curva attraverso una porta in legno marcio". "Siamo
saliti - racconta Raffaele - lungo un terrapieno in
sabbia e poi si è creata una coda disordinata che è
durata oltre due ore".
Alle 17 scendono in campo dei
ragazzini per giocare una partitella di circa mezz’ora.
Poi i primi tafferugli. "Alcuni inglesi - ricorda Dino -
hanno portato via degli striscioni presenti nel nostro
settore. Poi hanno iniziato a lanciare bottiglie di
vetro e mattoni, così tanti hanno iniziato a spostarsi
verso la parte più esterna della curva. Ad un certo
punto un signore seduto vicino a me è stato colpito alla
testa da un mattone e insieme ad un ragazzo di Brindisi,
morto nei successivi incidenti, lo abbiamo trasportato
sul campo. Io poi sono tornato al mio posto, ma non ho
trovato nessuno. A quel punto sono tornato giù e sono
corso verso la tribuna. Questa è stata, a conti fatti,
la mia salvezza". Dalla tribuna Dino non riesce a vedere
la tragedia che si consuma poco dopo, quando il muro sul
quale si sono accalcati i tifosi seduti nella curva Z
per scappare dalle cariche degli inglesi crolla per
l’eccessiva pressione provocando numerose morti per
schiacciamento e asfissia. "Vedevo da lontano gli
scontri - aggiunge - ma non ne capivo la portata. Poi è
arrivata la gendarmeria belga a cavallo e ho saputo che
c’erano stati dei morti. Ma quello che è davvero
accaduto l’ho saputo solo dopo il rientro in Italia".
Intanto dall’altra parte tutti, compresi Raffaele e
Tina, attendono l’inizio della partita: "Vista la
struttura dello stadio, per noi era impossibile capire
quanto stava accadendo nella curva Z. Noi semplicemente
eravamo colpiti dal ritardo e lo attribuivamo ad alcune
scaramucce tra i gruppi organizzati e la polizia belga".
Alla fine la partita si gioca per motivi di ordine
pubblico e per evitare che, una volta usciti dallo
stadio, inglesi e italiani diano luogo ad altri scontri.
Il primo tempo termina 0-0, ma poco dopo il duplice
fischio dell’arbitro Daïna nella curva juventina accade
qualcosa. "Durante l’intervallo - racconta ancora
Raffaele - è arrivato sotto la nostra curva un signore
di Pisa. Aveva la giacca strappata. Ci ha detto che si
trovava nella curva Z dalla quale era scappato per via
dei tafferugli creati dai tifosi inglesi. Durante il suo
racconto io e Tina siamo stati presi da un solo
pensiero: far sapere ai nostri familiari che stavamo
bene. Nel frattempo era iniziato il secondo tempo, ma a
quel punto non ci importava più nulla della partita.
Siamo usciti dallo stadio e abbiamo raggiunto una cabina
telefonica dalla quale, insieme ad altre persone,
abbiamo chiamato casa. Ricordo soprattutto la grande
solidarietà tra i presenti. Non solo si facevano
telefonate brevi, ma si mettevano in comune i gettoni
telefonici per dar modo a tutti di rassicurare amici e
familiari". Intanto la Juventus vince partita e coppa
grazie ad un calcio di rigore realizzato da Platini.
Dino, rimasto in tribuna, assiste agli eventi combattuto
tra la felicità per la vittoria della squadra del cuore
e lo sconcerto per quanto accaduto poche ore prima. "Non
si può morire allo stadio - racconta, con l’emozione che
quasi gli spezza la voce - Mi rendo conto che giocare la
partita ha consentito di evitare scontri ancora
peggiori, ma nel mio cuore di tifoso è una vittoria
amara". Anche per Raffaele si tratta ancora oggi di una
gioia a metà: "È stato comunque necessario giocare.
Questo ha consentito di organizzare un deflusso che poi
è stato ordinato e tranquillo. Sulla premiazione c’è
poco da dire perché in fin dei conti si è trattato di un
rito. Forse avrei evitato la discesa festosa
dall’aereo". Alla fine le inchieste giudiziarie portano
sul banco degli imputati l’Uefa e le autorità belghe, ma
per Dino e Raffaele le responsabilità di quanto accaduto
sono chiare fin dal primo momento. "L’Uefa - dice
Raffaele - sapeva che lo stadio Heysel era vecchio e
inadeguato per un evento simile, ma ha deciso ugualmente
di far giocare lì la partita. La polizia belga, invece,
ha avuto la colpa gravissima di non creare un cordone di
sicurezza tra la curva Z e il settore che ospitava i
tifosi inglesi". La strage dell’Heysel provoca la
squalifica delle squadre inglesi dalle competizioni
internazionali per le successive cinque stagioni. Nel
1989, all’indomani di un’altra strage avvenuta nello
stadio inglese di Hillsborough, il governo di Margaret
Thatcher vara il Football Spectators Act con cui verrà
dato un giro di vite al fenomeno hooligans. In Italia,
invece, ancora oggi le cronache parlano di episodi di
violenza legati al calcio. Ma anche su questo punto Dino
e Raffaele hanno le idee molto chiare. "In Italia -
afferma Raffaele - non si fa prevenzione. C’è un
permessivismo di fondo che impedisce che si mettano a
punto misure serie". Sulla stessa lunghezza d’onda Dino,
che aggiunge: "Nel nostro Paese spesso nelle tifoserie
si nascondono veri e propri delinquenti. Servono regole
certe e ferree come in Inghilterra". Eppure, a 32 anni
di distanza, il loro amore per il calcio non si è
spento. "Ho giocato a livello agonistico per tanti anni
- dice commosso Dino - Poi ho fatto l’allenatore. Quello
per il calcio è un amore che non passerà. Mai". "Il tifo
- chiosa Raffaele - rientra nella sfera dell’emotività e
non ha nulla a che vedere la razionalità". Già, la
razionalità. La grande assente di quella sciagurata
notte. Doveva essere una festa di sport. Si è invece
trasformata in una barbarie che si poteva e si doveva
evitare.
Fonte: Mediaterraneonews © 1 Marzo 2017
(Testo © Video)
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Heysel, 39 anni fa:
"Scappammo subito e vedemmo quei lenzuoli..."
di Giovanni Gardani
CASALMAGGIORE - Da 39 anni esatti Heysel non è più il
nome di uno stadio, il principale di Bruxelles, ma il
sinonimo di una tragedia. Era il 29 maggio 1985, 39 anni
fa appunto, quando 39 tifosi della Juventus morirono
prima della finale tra i bianconeri e il Liverpool, una
delle più controverse mai giocate, perché non si doveva
giocare, schiacciati nel settore Z dalla furia degli
hooligans inglesi. A Bruxelles, quella sera, c’era anche
un gruppo di amici casalaschi. Tra loro Vanni Ballasini,
che riporta la sua testimonianza. "Eravamo seduti sotto
la tribuna stampa, vicino peraltro alle mogli di Cabrini
e Prandelli: i due calciatori, entrati per il
riscaldamento, fecero segno proprio alle coniugi di
andare via. E allora anche io decisi di uscire dallo
stadio, senza aspettare alcun calcio d’inizio. Sin lì si
era capito che qualcosa era successo, ma non capivamo la
gravità della situazione: poi all’uscita dallo stadio la
polizia a cavallo e alcuni corpi coperti da lenzuoli ci
fecero capire che si era appena consumata una tragedia".
Ascolta la testimonianza completa nel servizio tg di
Cremona 1.
Fonte:
Oglioponews.it © 29 maggio 2024
Video: Cremona 1 ©
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"Ero all’Heysel 20 anni fa: mi sono
salvato lanciandomi dagli spalti"
Venti anni dopo, negli occhi e nel
cuore rimane l'ombra della morte. "Una partita
maledetta, una vittoria da cancellare". Luciano Barelli,
comasco di Blevio, oggi 56enne, il 29 maggio 1985 era a
Bruxelles. Insieme con tre amici, aveva deciso di fare
una settimana di vacanza nel Nord Europa. E di
approfittare del viaggio per assistere alla finale di
Coppa dei Campioni. Pur non essendo un tifoso
bianconero. "Sono un milanista - dice - Davvero
bizzarro, ho rischiato la vita senza neanche capire il
perché e per una squadra che non era nemmeno la mia". In
realtà, Barelli quella partita non la vide. Perché
quando gli hooligan inglesi ruppero le reti di
protezione della curva, scappò verso l'alto, e si gettò
fuori dallo stadio in preda al panico. Il racconto di
quei momenti è impressionante. Anche a distanza di 20
anni. "Arrivammo a Bruxelles in camper - attacca Barelli
- Ci portammo allo stadio e subito notammo che era
fatiscente. L'Heysel era una sorta di catino in cima a
una collina, con le curve scavate nel terreno. Prima di
entrare, fummo presi a bastonate dai poliziotti belgi a
cavallo. Caricavano senza motivo. C'era insomma un clima
di tensione e le forze dell'ordine non facevano nulla
per calmare gli animi". I quattro amici comaschi entrano
nello stadio. E nessuno li controlla. "Abbiamo fatto il
giro liberamente, siamo andati da una curva all'altra e
non abbiamo incontrato alcuna barriera". Insomma, le
tifoserie possono facilmente entrare in contatto. Ma
soprattutto, possono portare all'interno dell'impianto
sportivo ogni genere di oggetto. "Quando gli hooligan
cominciarono a premere contro i tifosi juventini -
ricorda Barelli - sopra le nostre teste volò di tutto,
persino un estintore". L'Heysel, due ore prima della
partita, era l'anticamera dell'inferno. "Uno stadio
assolutamente inadatto a ospitare una partita così
importante - dice ancora il tifoso comasco - le reti
divisorie tra i settori degli spalti sembravano quelle
del giardino di casa mia, gli inglesi ci misero pochi
minuti a distruggerle". Il ricordo si fa vivo. Torna
alla mente la carica degli hooligan, "impazziti e
ubriachi, con gli italiani che fuggivano. Mancava
l'aria, la calca era così forte che non riuscivamo a
respirare". Barelli, insieme con due dei suoi tre amici,
si rifugia verso l'alto della curva. È la sua salvezza.
Se fosse scappato verso il basso sarebbe probabilmente
finito contro il muro il cui crollo provocò i 39 morti.
"Siamo arrivati in cima agli spalti e ci siamo buttati
di sotto. Proprio perché l'Heysel era "scavato" nella
collina, il salto era basso, un paio di metri. Abbiamo
avuto paura per la sorte del nostro amico, non era più
con noi. Prima di ritrovarci sono trascorse tre, quattro
ore. Abbiamo pensato che fosse morto". Oggi, venti anni
dopo, la voce di Barelli tradisce commozione. E
angoscia. "Non dimenticherò mai le tende in cui erano
stati raccolti i corpi dei tifosi, ancora adesso mi
chiedo dove fosse la polizia, perché l'Uefa diede l'ok
ad una finale in quello stadio fatiscente. L'Heysel non
c'è più, ma cancellare il ricordo della tragedia non è
possibile".
Fonte: Tifonet.it
© 30 Maggio 2005
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L’Heysel, l’aneurisma
e ora il terremoto: "Sono fortunato"
di Corrado Magnoni
Oggi ricorre il 27º anniversario della strage in
Belgio. Battaglioli, mister del Reno Centese, rivive i
tre drammi.
RENO CENTESE - Rabbia, dolore
e sconforto, non certo festeggiamenti per la vittoria
della prima Coppa dei Campioni della Juventus. Ricorre
oggi il 27° anniversario della strage dell'Heysel in cui
persero la vita 39 persone, la maggior parte delle quali
italiani. Michele Battaglioli, attuale tecnico del Reno
Centese, dopo aver militato per anni nelle fila della
squadra del suo paese, Finale Emilia, si ricorda bene
quel giorno. Circa trent'anni fa, un gruppetto di cinque
ragazzi finalesi saliva in macchina per andare in Belgio
a vedere una partita di calcio. Il drappello non
s’immaginava nemmeno che avrebbe assistito a una strage
e che a distanza di decenni non sarebbe stato l'unico
episodio spaventoso della loro vita. "Mi viene la pelle
d'oca a ripensarci - giura Battaglioli. Io ricordavo
agli amici che ricorre il funesto anniversario;
impossibile dimenticare, per degli anni ho sognato i
cori dei tifosi inglesi che caricavano contro di noi".
Salto all'indietro nel tempo, è la primavera del 1985,
mancano pochi giorni alla finale di Coppa dei Campioni
che la Juventus non ha mai vinto. I tifosi vogliono
seguire i propri beniamini, Boniek e Platini su tutti,
in terra fiamminga. Battaglioli, che all'epoca ha 23
anni, assieme a un gruppo di coetanei e al fratello di
uno di loro, l’appena sedicenne Marcello Pincelli,
trova, tramite la Gazzetta dello Sport, un pacchetto
viaggio con un solo pernottamento compreso il biglietto
per l'ingresso allo stadio. "Avevo uno zio, emigrato in
Belgio, che ci ha accolto la prima sera; trovare i
tagliandi per l'ingresso era stato difficilissimo, erano
introvabili. Erano validi per la curva Z, settore che
inizialmente era stato destinato agli abitanti locali e
poi suddiviso tra noi e gli inglesi". Già all'arrivo,
l'accoglienza non è delle migliori: "ci eravamo
imbattuti negli hooligans inglesi, già cotti da litri di
birra, che ci avevano intimato di lasciargli le sciarpe
bianconere; ci rifiutammo e uno di noi fu picchiato e
mandato all'ospedale. Il giorno dopo ci siamo presentati
allo stadio, mancava un quarto alle otto, ma si capiva
che qualcosa non andava; gli italiani perquisiti da capo
a piedi e gli inglesi carichi di birra entrati senza
problemi; si stavano preparando alla guerriglia". Il
nefasto presagio si avvera dopo pochi istanti, quando i
tifosi dei "reds" caricano gli juventini armati di cocci
di eternit strappati alle tettoie dei bagni: "Lo stadio
assomiglia molto al Paolo Mazza di Ferrara, fatte le
debite proporzioni; era come se fossimo nell'angolo
destro della Ovest, senza via di fuga se non il
precipizio. Stretti come sardine, ci siamo riparati il
volto con il gomito; eravamo disperati, ho creduto di
morire, mentre stringevo a me il fratello del mio amico.
Al crollo del muro, ho capito che ce l'avremmo fatta,
perché non rischiavamo più l'asfissia. Tornai indietro a
cercare gli altri, ma trovai cadaveri con la bava alla
bocca. Gli amici per fortuna erano sani e salvi in
campo, ma quei minuti rimarranno per sempre impressi
nella mia memoria". Storia a lieto fine, con i cinque
finalesi tratti in salvo da una famiglia calabrese e poi
rimpatriati: "E' stata la paura più forte della mia
vita, nemmeno l'aneurisma patito a gennaio di quest'anno
mi ha impressionato allo stesso modo; una volta entrato
in sala operatoria, era già tutto passato e per fortuna,
per la seconda volta, senza conseguenze". Tutto è bene
quel che finisce bene, visto che il tecnico del Reno
Centese è persino potuto tornare nella sua abitazione di
Finale Emilia, dopo il terremoto: "Adesso c'è da
ricostruire un paese; assieme agli amici di allora e di
oggi, uniti all'amministrazione comunale, si sta
cercando di organizzare un grande concerto allo stadio
Braglia di Modena o al Mazza di Ferrara a favore delle
zone terremotate; Vasco Rossi e Ligabue si sono resi
disponibili".
Fonte:
Lanuovaferrara.gelocal.it
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29 maggio 2012
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27 anni fa morivano 39
persone all’Heysel, Battaglioli c’era
di Alessandro Sovrani
Circa trent’anni fa, 29 maggio 1985, cinque ragazzi
finalesi salivano in macchina per andare in Belgio a
vedere una partita di calcio. "Mi viene la pelle d’oca a
ripensarci – giura Michele Battaglioli, tecnico del Re
Centese -, lo ricordavo agli amici che ricorre il
funesto anniversario; per tanti anni ho sognato i cori
dei tifosi inglesi che caricavano contro di noi". Salto
all’indietro nel tempo, è la primavera del 1985, mancano
pochi giorni alla finale di Coppa dei Campioni che la
Juventus non ha mai vinto. Battaglioli, che all’epoca ha
23 anni, assieme ad un gruppo di coetanei e al fratello
di uno di loro appena diciassettenne, trova tramite la
Gazzetta dello Sport un pacchetto viaggio con un solo
pernottamento e il biglietto per l’ingresso allo stadio.
"Avevo uno zio, emigrato, che ci ha accolto la prima
sera; trovare i tagliandi era stato difficilissimo,
erano introvabili. Erano validi per la curva "Z" ed
erano stati inizialmente destinati agli abitanti locali,
poi suddivisi tra noi e gli inglesi". All’arrivo,
l’accoglienza non è delle migliori. "Ci eravamo
imbattuti negli hooligans inglesi, già cotti da litri di
birra, che ci avevano intimato di lasciargli le sciarpe
bianconere; ci rifiutammo e uno di noi fu picchiato e
mandato all’ospedale. Il giorno dopo ci siamo presentati
allo stadio, mancava un quarto alle otto, ma si capiva
che qualcosa non andava; gli italiani perquisiti da capo
a piedi e gli inglesi carichi di birra entrati senza
problemi; si stavano preparando alla guerriglia". Il
nefasto presagio si avvera dopo pochi istanti, quando i
tifosi dei Reds caricano. "Lo stadio assomiglia molto al
Mazza; era come se fossimo nell’angolo destro della
Ovest, senza via di fuga se non il precipizio. Stretti
come sardine ci siamo riparati il volto col gomito;
eravamo disperati, ho creduto di morire, mentre
stringevo a me il fratello del mio amico. Al crollo del
muro, ho capito che ce l’avremmo fatta, perché non
rischiavamo più l’asfissia. Tornai indietro a cercare
gli altri, ma trovai cadaveri con la bava alla bocca.
Gli amici, per fortuna erano sani e salvi in campo, ma
quei minuti rimarranno per sempre impressi nella mia
memoria". Storia a lieto fine con i cinque finalesi
tratti in salvo da una famiglia calabrese e poi
rimpatriati. "E’ stata la paura più forte della mia
vita, nemmeno l’aneurisma patito a gennaio di quest’anno
mi ha impressionato allo stesso modo; una volta entrato
in sala operatoria, era già tutto passato e per fortuna,
per la seconda volta, senza conseguenze". Battaglioli
non ha nemmeno visto la partita. "Pensavamo non
l’avrebbero fatta, col senno di poi hanno fatto bene a
giocarla, sennò sarebbe stata una strage".
Fonte:
Telestense.it
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29 maggio 2012
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Testimonianza di
Bauhouse 65
Io
ero lì, insieme ad altri 7 miei amici dello Juventus
Club 2 Stelle Di Assisi - Santa Maria Degli Angeli PG -
fortunatamente dopo aver avuto in mano 8 biglietti di
curva Z tramite un ristoratore emigrato in Belgio anni
prima - trovammo ed acquistando 8 biglietti di tribuna
numerata ci ritrovammo vicino alle postazioni dei
telecronisti delle tv europee. Io mi ricordo benissimo
avevo 20 anni, ero a circa 10 metri da Bruno Pizzul.
Verso le 19 quegli ubriachi bastardi di inglesi
iniziarono a tirare di tutto verso la curva Z: bottiglie
rotte all' altezza delle facce degli italiani, bastoni,
sassi, ecc, ecc… Una cosa assurda e tutti i tifosi
bianconeri che volevano uscire dalla curva e quei tonti
dei poliziotti belgi che li respingevano pur vedendo
quello che stavano facendo gli hooligans !! Una cosa
assurda mai vista prima !! La sera prima nella Gran
Place al centro di Bruxelles c'erano così tante
bottiglie rotte di birra in terra che si camminava su
uno strato di vetro al posto delle mattonelle !!! E poi
vengono a farci la morale che abbiamo festeggiato !!
Prima di tutto quella Juve era fortissima ed avrebbe
vinto sicuramente !! Purtroppo la tragedia non lo ha
potuto dimostrare perché tutto è stato falsato ma vi
ricordo che se non si fosse giocato sarebbe stata una
carneficina perché i tifosi della curva juventina
avrebbero cercato di massacrare quei bastardi del
Liverpool !!! Ho visto oltre 350 partite di campionato e
delle coppe della Juve ed in molti stadi ho sentito
offendere quei nostri morti che volevano solo fuggire
dalla barbarie ed invece sono rimasti schiacciati come
le formiche: di questo genere di persone non si dice mai
nulla ed invece si continua ad inveire sulla Juve come
se la vera colpevole fosse stata lei. I veri colpevoli
furono gli inglesi ! Lo stato belga e la Uefa che scelse
quel posto decrepito nel quale trovarono la morte quelle
persone le quali volevano solo vedere per la prima volta
vincere quella coppa maledetta e tanto sfortunata per
noi juventini. Per cui tutti muti e massimo rispetto e
vergogna per chi ci critica. Solo una cosa sbagliano i
giocatori della Juve quella volta: quando scesero
dall'aereo a Torino non avrebbero dovuto alzare la coppa
maledetta ma portarla mestamente in sede ed iscrivere su
di essa i nomi dei tifosi morti !! Per me rimarranno
sempre nel mio cuore e sempre avrò una preghiera per
loro ! Forza magica Juve. Rivinci questa maledetta coppa
come si deve !!!
Fonte:
Canale You Tube "FIGHTERS 1985"
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26 dicembre 2014
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Calcio, dolore per la
morte di Franchino: "Noi con lui"
di Gloria Belotti
CALCIO
– Il crollo degli spalti dello stadio di Heysel Ivan
Berlucchi di Calcio, all’epoca 23 anni, lo ricorda come
fosse ieri. Ha rischiato di morire, anche se ha potuto
realizzare l'accaduto solo successivamente, e ha perso
un caro amico: Franco Galli (classe 1960) soprannominato
"Franchino Claido", Franchino per la bassa statura
mentre Claido era il nomignolo della numerosa famiglia
di cui era l'undicesimo figlio. "Da Calcio siamo partiti
in cinque racconta Ivan, io, Franco, Ivan Paloschi,
Lorenzo Martinelli e Domenico Consolandi. A Milano siamo
saliti sul pullman, organizzato per Bruxelles. Da
quell'incubo siamo rientrati tutti, tranne Franchino
purtroppo. Doveva essere una festa, invece non ci hanno
neppure fatto sentire il sapore della gioia perché allo
stadio, zeppo di gente, la tifoseria inglese ha iniziato
a spingere e non ha più smesso... fino alla tragedia".
Si avverte ancora commozione tra le parole di Ivan, che
aggiunge: "Io, dal basso, mi sono sentito sollevare e mi
sono salvato; con gli altri ho scavalcato il muro, siamo
scivolati lungo la scarpata e siamo usciti
nell'antistadio. Non abbiamo più visto Franco che,
essendo più basso, per vedere meglio si era posizionato
un po' più sotto. Siamo tornati verso l'albergo dove
abbiamo atteso notizie anche se sentori negativi mi
erano già arrivati da Calcio, dove non si avevano
notizie di lui. Mi sono realmente reso conto
dell'accaduto solo all'arrivo a Milano, dove tutti ci
guardavano come se fossimo alieni. A quel punto ho
compreso la tragedia". Franco era un grande tifoso della
Juventus, che seguiva in Coppa e campionato. Giocava
nella squadra degli "Amatori Kals" ed era animatore
della tifoseria juventina che si ritrovava al Bar
Centrale del paese, dove dopo il lavoro (era
carpentiere) s'intratteneva a discutere della sua
squadra con gli amici e a organizzare le trasferte. Per
la sua morte il paese crollò nel dolore, partecipando
con affetto al lutto della famiglia (i genitori Pietro e
Teresa Balduzzi sono morti da anni); in molti lo
ricordano per la sua cordialità, gioia di vivere e
passione calcistica. Da Calcio partirono, in aereo però,
anche Gianluigi Ranghetti, Venanzio Turmolli, Luigi
Bertoli e Franco Brevi. Ivan Berlucchi aggiunge: "Ci
sono ancora delle scritte sui muri di qualche nostro
paese che inneggiano all'Heysel. E’ una vergogna che non
siano ancora state cancellate. Il dramma si sarebbe
potuto evitare con una migliore organizzazione. Noi
italiani eravamo separati dalla tifoseria straniera solo
da una rete, sorvegliata da alcuni poveri poliziotti che
sicuramente saranno rimasti sepolti dal crollo del muro.
Bisognerebbe riflettere sugli errori per evitare altre
tragedie".
Fonte: L’eco
di Bergamo
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29 maggio 2015
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La testimonianza di
chi all'Heysel era presente
Heysel: "Giocavamo in
piazza insieme agli inglesi, il clima era sereno, poi
sono arrivati gli hooligans".
"Partimmo
da Picca Pietra, Genova, avevo 22 anni. C'erano anche
alcuni miei amici, io comprai il biglietto dopo di loro,
quindi andai in Belgio con un pullman organizzato.
Arrivammo a Bruxelles alla mattina, eravamo tutti in
Gran Place, facevamo festa, giocavamo a pallone con gli
inglesi. Il clima era sereno, era una festa, poi
arrivarono gli Hooligans...". Comincia così il ricordo
di quello che per me è il tifoso juventino numero 1, mio
padre, che il 29 maggio 1985 alle ore 18:30 si trovava
nel settore Z dello Stade du Heysel. Com’è stato
l'arrivo allo stadio ? "Siamo arrivati nel pomeriggio.
Ci ha accolto un cordone di polizia a cavallo, erano
pochissimi per la quantità di persone presenti. Lo
stadio conteneva circa 39 mila persone, eravamo 60 mila
! La porta d'ingresso della curva, era proprio una porta
(!), come quelle che ognuno di noi ha in casa. Il muro
di cinta che separava dall'esterno era alto 3 metri. I
seggiolini non esistevano, c'erano gradoni di terra e
cemento, che si sbriciolavano semplicemente toccandoli.
A dividerci dagli Hooligans invece una rete di fil di
ferro"… Una volta dentro... "Abbiamo visto tifosi
inglesi nudi. Vestiti solo della "Union Jack". In Belgio
pur essendo maggio faceva freddo. Entrammo nella
purtroppo famosa Curva Z. In quel settore c'erano
famiglie, donne, bambini, non solo italiani, ma anche
belgi. Il tifo organizzato juventino invece era
dall'altra parte. Molti inglesi sono arrivati senza
biglietto. Quelli del Liverpool hanno rotto sia la rete
che i cancelli, in modo che potessero entrare anche
quelli fuori dallo stadio. Quando il muro è crollato,
noi siamo stati fortunati, siamo riusciti ad uscire da
quell'inferno. Entrammo in campo per scappare, ma più
che il terreno di gioco, ricordo la manganellata nel
collo di un poliziotto belga. La poca polizia presente
allo stadio pensò che volessimo fare un'invasione di
campo e cercò di respingerci all'interno". Vi rendeste
subito conto di quello che stava accadendo ? "Sì. Noi
sì. Il resto dello stadio invece no. Gli aiuti
arrivarono addirittura un'ora e mezza dopo. I giocatori
però sapevano tutto, prima della partita uscirono i
rappresentanti di Juve e Liverpool per vedere
l'accaduto. E' anche vero che se avessero sospeso la
partita, sarebbe successa una strage. All'interno dello
stadio il rapporto italiani-inglesi era 50:1. Nessuno
sapeva dei 39 morti, in Tribuna la gente pensava ci
fosse solo qualche ferito. A fine partita, siamo andati
alla ricerca di un telefono per poter chiamare casa, i
bar italiani che prima ci gridavano "Paesà ! Paesà !" a
fine partita ci hanno chiuso letteralmente la porta in
faccia. Sono riuscito a chiamare mia madre dal
Lussemburgo". Ora lo stadio lo butteranno giù, per
ricostruirlo in vista degli europei 2020. Butteranno giù
anche il ricordo ? "Io non dimenticherò mai. Come spero
che non lo faccia Platini, presidente dell'Uefa, che
quella partita l'ha decisa". Dopo essere sopravvissuto a
quella tragedia, dopo 18 anni, gli è nato il suo secondo
figlio: il 29 maggio.
Fonte:
Discoveryfootball.blogspot.it
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29 maggio 2013
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"La ragazza
dell'Heysel che morì tra le mie braccia"
"Cazzo,
Marco, dammi una mano. Muoviti. Ho paura che stia
morendo". La voce di Claudio Colombo mi arriva alle
orecchie sconosciuta. Non è il mio collega di Tuttosport,
in quel momento. E’ soltanto un’anima angosciata e
sconvolta, anche lui, finita all’inferno dopo essersi
illusa che quella appena varcata fosse la porta del
paradiso. Lo guardo. Il viso che tremola, forse per via
dei gas fumogeni oppure per l’adrenalina che spinge i
neuroni del terrore piuttosto che per tutte e due le
cose insieme. E’ inginocchiato accanto ad un mucchio di
stracci colorati. Così, paradossalmente, mi sembra.
Abbandono taccuino e matita senza quasi rendermene
conto. Arrivo al suo fianco. Claudio sta già trafficando
freneticamente su quel fagotto. Su e giù, con le mani
serrate, nel tentativo di dare un senso ai due anni di
Medicina poi traditi per il giornalismo. Pigia forte
all’altezza del cuore fino a quando, con un rantolo
sfiatato, una voce che arriva da un pozzo senza fine
sibila sottile: "Mamma, papà non voglio morire". Un
cavallo al galoppo ci sfiora con in sella un folle dagli
occhi spiritati che fa ruotare un bastone e bestemmia in
fiammingo. Aria acida che entra in gola mentre le narici
inspirano nauseanti puzze di alcool, sangue e urina.
"Dai che sei viva, piccola. Tu prendila per le gambe.
Scappiamo via da qua". La teniamo così, in braccio,
frenando l’impeto dei passi che vorrebbero farsi ali per
fare più presto. Il lamento continua e forse è bene
così, pensiamo senza dircelo. Ma tanto sangue ha
inzuppato la camicetta e il golfino. Troppo sangue. La
barella finalmente. Due infermieri ci "strappano" il
fagotto. Sento un pezzo della mia carne rimanere
attaccato a quel corpo di giovane ragazza che ora non si
muove. Claudio è già scomparso per un’altra missione.
Rimango lì, inebetito, a osservare dal basso la mattanza
in atto sulla sommità di quello che sembra essere il
Golgota. E’ la Curva Z dello stadio Heysel, a Bruxelles.
Il sole sta calando dalla parte delle tribune dove le
persone sono immobili come soldatini di stagno. E’ il 29
maggio. Giorno in cui Giuseppina Conti, diciassette anni
di Arezzo, non voleva morire. Come tutti gli altri
trentotto subito angeli volati via nel cielo del Belgio.
Improvvisamente il torpore mi scivola via di dosso. Sono
in mezzo al campo da gioco dove il direttore Piero
Dardanello ha spedito me e Claudio non appena in tribuna
stampa si è capito che qualcosa di grave stava accadendo
sul lontano fianco sinistro della curva. L’invasione del
terreno è totale. Gli ultras bianconeri hanno sfondato e
tentato di dare l’assalto alle gradinate della parte
opposta dove, tra una birra e l’altra, gli inglesi sono
diventati assassini. Idranti e polizia a cavallo fanno
da muro. "Non si giocherà. Impossibile poterlo fare",
penso.
Infilo
il sottopasso che porta all’esterno. Un paio di colleghi
sono già lì. Statue di sale sul confine di uno spiazzo
dove, allineati, ci stanno teloni verdi in plastica
gonfi di umanità freddata dalla morte. Non è possibile.
E’ tutto così assurdo. Viene da urlare. Vomito i resti
della merenda consumata prima del lavoro. Già il lavoro
! Raccontare di una partita, di una Coppa, di attimi
felici e magari anche di delusione. E sarebbe questo,
ora, il lavoro ? Dire di trentanove morti ammazzati.
"Meno male che non si gioca. Un dovere per i fratelli e
le sorelle partiti. Un atto dovuto per Giusy, che
chiedeva a babbo e mamma di tenerla per mano e
strapparla alla morte". Invece no. Lo sento dalla vice
del giovane uomo che incontro a metà della scala che
porta dentro gli spogliatoi della Juventus. Mi pare di
conoscerlo. Non so… Da qualche parte… Forse… E’ in
ginocchio che prega. Permesso, mi scusi. Il suo sguardo
addosso, la sua vice nel cuore. "Lo dica anche lei al
presidente e ai ragazzi. Non possono e non devono
scendere in campo. Una tragedia così grande merita
soltanto rispetto e silenzio. Mio padre se ne è andato.
Sarà già in volo verso Torino". Ora lo riconosco dopo
averlo visto tante volte in foto. Edoardo, il figlio
dell’avvocato Gianni Agnelli. Ci incontreremo più avanti
nel tempo e, per quindici anni, sarà uno dei miei più
cari amici fino a quando non deciderà che i sogni, in
questo mondo dell’egoismo e dell’interesse dominanti,
sono destinati a rimanere tali. Dirà basta con un volo a
planare. Sarà domani. Intanto sento il rumore dei
tacchetti da gioco che pestano il cemento. Hanno deciso
che si gioca. Una Coppa di latta in palio sul campo
accanto al quale da due ore c’è un piccolo cimitero. In
tribuna stampa, dove faccio ritorno perché "the show
must go on", il clima è surreale. Inviati e direttori,
specialmente quelli delle testate sportive, sono
letteralmente ibernati in una zona franca dove
l’imbarazzo di dover riferire di calcio si scontra con
il dovere di raccontare bestiale cronaca nera. Bruno
Pizzul, poi, deve muoversi sul filo dell’equilibrista
senza rete sotto perché in Italia la sua voce dovrebbe
rassicurare chi ha amici e parenti all’Heysel almeno
fino a quando non ci saranno notizie inconfutabilmente
certe. Quelle che non tardano ad arrivare, agghiaccianti
e sconvolgenti, rendendo la scena di Michel Platini che
danza sollevando la Coppa al cielo un disgustoso rito
tribale. La notte fu bianca per tutti e popolata da
trentanove fantasmi. Un aereo pieno di vergogna ci
riportò a Torino. La mattina dopo. Eravamo diversi da
quelli che erano partiti.
Post
scriptum: Questa è la cronaca, personale e dettagliata e
fedele, di quella notte all’Heysel. Qualche anno prima,
come inviato per la Gazzetta del Popolo, avevo seguito
la guerra dei "Sei giorni" sul fronte israeliano. Vi
assicuro che il senso della tragedia, della violenza e
della morte provato a Bruxelles è stato infinitamente
più intenso di quello sentito sulla pelle per una vera
guerra dove, almeno per noi giornalisti, tutto si
risolveva con una visita a qualche carro armato
distrutto e abbandonato nel deserto. Io non so se la
ragazzina che Claudio Colombo ed io portammo via a
braccia fosse davvero Giuseppina Conti. Ancora oggi mi
auguro sia stata un’altra, poi sopravvissuta. Una cosa è
certa. Da quella notte il calcio non è mai stato più lo
stesso. Neppure per Platini che ha chiesto scusa per
essere caduto in trance e per Paolo Rossi il quale ha
scritto di provare vergogna ancora adesso per aver
giocato. In quanto al mio amico Edoardo avrei preferito
conoscerlo in un’altra occasione, ma forse proprio la
condivisione di quell’inferno in terra ha provveduto a
cementare fin da subito un rapporto speciale ed eterno.
Fonte:
Calciomercato.com
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13 novembre 2015
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Testimonianza di
Stefano Bianchi
Sono
uno di quelli "privilegiati" per capire cos’è stato
l’Heysel e cosa significa. C’ero. Tornai a casa, solo
perché il mio Club ebbe assegnati i biglietti in un
settore lontano. A trent’anni da quell’evento disumano,
ancora mi commuovo al ricordo dei corpi senza vita,
celati nei loro lineamenti contraffatti dalla morte, da
quelle bandiere che avrebbero dovuto sventolare in segno
di gioia. Ero con lo Juventus Club di Capannori (Lucca):
i dirigenti avevano biglietti di tribuna, non so se
coperta o scoperta, mai ho avuto voglia di appurarlo,
mentre noi "normali" eravamo in curva con biglietti
serie "MNO", con la "M" originariamente cancellata a
pennarello nero. Il settore era quasi simmetrico
rispetto al settore Z, abbastanza spostato verso la
gradinata. Eravamo una decina, e pochi gradini sotto a
noi c’era un mini striscione sostenuto da due paletti
con scritto "mamma siamo qui". So che esiste un filmato
anche della nostra curva, ma mi sono sempre rifiutato di
vedere qualsiasi cosa che non abbia potuto vedere già
quella notte. Verso la fine della partita, sono scesi
verso di noi dei ragazzi, tutti insanguinati che ci
hanno detto che "di là era successo qualcosa di grosso,
che forse c'erano dei morti". Certo che avevamo visto il
fuggi fuggi in curva Z a seguire un lancio di oggetti,
ma non avevamo né visto, né immaginato assolutamente
accoltellamenti o la gente che cadeva dalle tribune e
veniva schiacciata da chi cadeva giù dopo di loro.
Notizie "sicure di due o tre morti" le abbiamo apprese
da altri che si sono aggiunti a noi quando ci eravamo
incamminati per raggiungere i nostri pullman. Per
arrivare al parcheggio abbiamo dovuto attraversare
quello destinato ai tifosi inglesi: ci siamo messi a
testuggine, con le ragazze nel mezzo, tutti a braccetto
stretti stretti, ma gli inglesi, forse più informati di
noi e comunque in numero esageratamente maggiore, non ci
hanno degnati di uno sguardo. Notizie ancora più
terribili le abbiamo ricevute dal guidatore del pullman
che ci ha infine riportato in Belgio, ove avevamo
l’albergo. Sono infine riuscito a telefonare a casa dopo
le cinque di mattina e mia madre e mia moglie mi hanno
infine informato che i morti erano più di venti. Davanti
al dolore di chi ha perso i propri padri, figli o
nipoti, alla paura di chi i propri cari non sapeva se
fossero vivi o meno, forse non varrebbe la pena di
raccontare del nostro piccolo dolore di sopravvissuti,
colpevoli di una gioia comunque misurata in quanto
certamente macchiata ai nostri occhi da un qualcosa di
brutto che "doveva essere avvenuto", ma che mai e poi
mai avremmo potuto quantificare di quella spaventosa
entità. Era tanto che non scrivevo così diffusamente di
Heysel, scusa eventuali errori o ripetizioni, ma
contrariamente alle mie abitudini ed alla buona
educazione non ho voglia di rileggere quello che ho
scritto. Mi fa sempre male.
Fonte:
Giulemanidallajuve.com
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13 ottobre 2015
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29 maggio 1985: io
c'ero
Niente
stadio, per me, per tre anni. L’amore per la Juve era
invariato, ma allo stadio non avevo più messo piede,
finché… Complici un noiosissimo congresso in Riviera di
Levante e Sampdoria-Juve prevista l’indomani, uscii
dalla sala conferenze alla ricerca di un biglietto per
lo stadio, con un sorriso a trentadue denti inspiegabile
per i disattenti congressisti. Dopo tre anni di
black-out, improvvisamente e senza motivo apparente, il
craving da Juve si era improvvisamente risvegliato in
me. Quei tre anni senza stadio erano figli di quanto
avvenuto all’Heysel, quel posto maledetto che aveva
visto morire trentanove fratelli. Se al parlarne, ancora
oggi sono preso da un groppo alla gola, avevo finalmente
superato il disgusto che provavo al solo pensare di
entrare in uno stadio. Quell’autoesilio non significava
soltanto tre campionati della mia amata Juventus, ma tre
anni di vigilie, trasferte e mangiate con gli amici,
d’attesa del fischio d’inizio parlando anche con gente
mai vista prima, di ogni fede calcistica, ma sempre nel
rispetto reciproco. Di gioia e casino durante la gara e
nel lungo ritorno a casa, nel caso delle frequenti
vittorie, ovvero di disamina degli errori e delle
mancate contromosse in caso di sconfitta. Per inciso, Il
mio ritorno allo stadio coincise con una gara mediocre,
col pareggio acciuffato in extremis dal povero Scirea:
ma uscii da Marassi sereno, felice ed anche un po’ più
libero. A noi dello Juventus Club andò bene: all’Heysel
eravamo nel settore "N-O", esattamente all’opposto della
"Curva Z", il famigerato luogo dell’aggressione. Un
massacro di cui peraltro non capimmo immediatamente
l’entità, informati confusamente e solo a fine gara da
alcuni bianconeri, insanguinati e malconci, che ci
raggiunsero mentre tornavamo verso i pullman. La
reticenza nelle informazioni ufficiali e quel "giochiamo
per voi", se evitarono fatti di sangue possibilmente
ancor più gravi, facendoci valutare come "normali"
disordini pre-partita quel fuggi-fuggi nella curva
opposta, ci permise anche di gioire al vedere quella
tanto desiderata coppa sollevata al cielo dai nostri
eroi. Non sapevamo ancora che gli eroi veri erano altri,
per cui, oltre al lutto per la perdita di questi
fratelli, abbiamo anche dovuto farci carico del rimorso
per esserci divertiti e infine aver gioito per la
conquista di quella tanto agognata coppa. Quel simulacro
tanto inseguito che perdeva di significato ai nostri
occhi man mano che l’informazione si faceva più
completa, infine con le telefonate che all’alba
riuscimmo a fare a casa. Negli anni a seguire, pensavo
che l’enormità di quel misfatto, la morte di tanti
innocenti, il dolore dei loro familiari, l’ansia dei
nostri cari, ignari per ore della nostra sorte e, perché
no, la nostra piccolissima sofferenza di sopravvissuti,
potesse essere un freno all’attività di nuovi killers da
stadio. Invece il ricordo dell’Heysel, ma anche di
Paparelli, Spagnolo ed Esposito, non impediscono a
imbecilli armati, figli del disagio e dell’ignoranza, ma
sempre imbecilli, di continuare a sporcare di violenza
le domeniche di chi vorrebbe, almeno per novanta minuti,
dimenticare difficoltà economiche, guerre
strumentalizzate per svecchiare arsenali militari,
genocidi, carestie e migrazioni di profughi e miserabili
alla ricerca di pace e pane.
Ovvio
come il calcio sia espressione della società che lo
genera e che in esso si riversino le contraddizioni di
quella società: come per gli hooligans dei Reds, la
spinta assassina proviene dalla deriva sociale, che se
non sfocia in attività politica, porta gli emarginati a
trovare, nell’unione in bande, quell’identità e quella
visibilità che da soli non avrebbero. E' vero: costoro
sono i figliastri della pessima situazione economica, di
una scuola che allontana invece di accogliere, della
quasi assoluta mancanza di centri sociali e di
aggregazione, in una società che propaganda i valori
deteriori e in cui è normale pretendere senza dare ed i
cui rappresentanti politici sono più fonte di vergogna
che di esempio. Chi fa informazione e dovrebbe educare,
spesso invece si rivela un fomentatore d’odio (e meno
quotato è come giornalista, più si adopera per seminare
disinformazione e discordia). Non sono da meno alcuni
dirigenti del movimento che mostrano sportività ed
equità di giudizio pari a zero. I casi più recenti sono
quelli di Ormezzano, di cui assai si è scritto su GLMDJ,
e di De Laurentiis, che per una svista arbitrale (il gol
in offside del Dnipro) chiede addirittura le dimissioni
di Platini, facendo finta di non ricordare come la
qualificazione col Wolfsburg sia iniziata con una rete
doppiamente irregolare di Higuain. La loro parte la
fanno anche i giocatori, che spesso inscenano pantomime
assurde per minimi colpetti ricevuti, a simulare doppie
fratture di tibia e perone, tranne poi correre come
gazzelle pochi secondi dopo. O quando apostrofano
prolungatamente l’arbitro dall’alto dei palloni d’oro
vinti (penso a Cristiano Ronaldo con Atkins in
Juve-Real): un bel "rosso" in entrambi i casi sarebbe
come gettare olio sul mare in tempesta. Il cartellino
rosso, il bavaglio ai dirigenti sconsiderati e il codice
di autodisciplina per giornalisti sono comunque
pannicelli caldi, se la società non riforma se stessa
ridandosi valori condivisi, togliendo un po’ a chi ha
troppo, compresi certi titolari di pensioni e con un
occhio particolare per i giovani, cui dare istruzione,
lavoro, prospettive e possibilità di farsi una famiglia.
Altrimenti ben venga la violenza negli stadi, bene o
male controllabile, sublimazione di un disagio sociale
che qualsiasi sistema politico preferisce confinato in
questo luogo, a darsele di santa ragione per un gol o un
fuorigioco, che non nelle piazze a chiedere lavoro e
diritto di cittadinanza. Spero che chi ne abbia titolo e
possibilità faccia quello che deve per risolvere alla
radice i problemi sociali, genesi principale
dell’insensata violenza che avvelena il calcio. Prima
che ciò avvenga, o contemporaneamente a questo non
facile processo, spero che tutti gli altri attori
evitino di fare ciò che hanno fatto finora per
ingigantire il problema. Il risultato sarebbe
eccezionale. Altrimenti, significa che i Paparelli, gli
Spagnolo, gli Esposito e i Trentanove dell’Heysel non
hanno insegnato proprio niente.
Fonte:
Giulemanidallajuve.com
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29 maggio 2015
Fotografia: GETTY IMAGES
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Quel giorno all’Heysel
io c’ero
Sono passati
trent’anni, ma quella ferita la porto ancora nel cuore.
Il 29 maggio 1985 non doveva andare così com’è andata.
Il 29 maggio del 1985 si
giocava la finale di Coppa dei Campioni a Bruxelles. Lo
stadio Heysel era una struttura fatiscente, inadatta ad
ospitare un evento del genere. Inadeguate e colpevoli
furono anche le autorità della città e le forze
dell’ordine: impreparate a gestire la situazione. Doveva
essere una festa e invece fu una tragedia. Si giocavano
la finale tra Juventus e Liverpool, le due squadre più
forti d’Europa in quel momento. Nel pomeriggio io e
altri compagni di viaggio avevamo anche giocato una
partitella con alcuni tifosi inglesi. Nulla lasciava
presagire quello che sarebbe successo poche ore più
tardi. Prima della partita, nella curva Z, dove mi
trovavo insieme ad altri tifosi della Juventus (per lo
più famiglie, nessun ultrà), si scatenò la violenza
degli inglesi, ubriachi fradici, sistemati nei settori X
e Y. Tutto iniziò con il lancio di sassi/cemento,
ricavati dallo sgretolamento dei gradoni dello stadio e
poi di lattine riempite con quel materiale. Avvenne
anche il lancio di due razzi sparati ad altezza d’uomo.
Venne divelta la rete da pollaio, che pretendeva di
dividere le due tifoserie, e gli hooligans del Liverpool
caricarono a più ondate. I tifosi bianconeri arretrarono
spaventati e la calca asfissiante iniziò a fare le prime
vittime fra coloro che, caduti a terra, vennero
schiacciati o non riuscirono a riemergere. La pressione
della folla sul parapetto laterale della maledetta curva
Z fece crollare il muretto, causando ulteriori vittime,
ma aprendo anche una via di fuga. In pochi minuti,
durante i quali le forze dell’ordine belga assistettero
sostanzialmente inermi, morirono 39 persone di cui 36
(NdR: 32)
italiani, il più vecchio di 58 anni e il più giovane di
11 anni) e rimasero ferite più di 600 persone. Io e una
ragazza con cui viaggiavo fummo tra gli ultimi a uscire
dalla curva Z passando per un cancello che dava sulla
pista di atletica, aperto da un poliziotto dopo molte
insistenze, per recarci al pronto soccorso dello stadio.
La mia amica se la cavò con un graffio al braccio e
considerata l’attesa e la banalità della ferita, quando
al pronto soccorso iniziarono ad arrivare diverse
barelle con feriti gravi, uscimmo all’aperto e ci
trovammo di fronte ad una scena apocalittica. Polvere,
gente che urlava e chiedeva aiuto, persone sedute sulla
pista di atletica con la testa fra le mani, persone che
praticavano il massaggio cardiaco, altri che si
abbracciavano, altri che tentavano di tirare per le
braccia chi era rimasto bloccato sotto altri corpi. Era
l’inferno. Se anche io e la mia amica fossimo rimasti
attaccati alla rete che delimitava l’accesso alla pista
e al campo, saremmo stati tra coloro che furono
schiacciati al momento del crollo del muro. Il pensiero
andò a casa, ai miei genitori, a mia sorella e mio
cognato. Nel 1985 non c’erano i cellulari. Non potevo
rassicurarli, dire che stavo bene. Fu terribile.
Fortunatamente, nonostante l’indisponibilità iniziale
sia dei dirigenti juventini che di quelli del Liverpool,
per ragioni di ordine pubblico e permettere alla polizia
belga di organizzare i soccorsi dei feriti e il deflusso
in sicurezza dei tifosi, la partita si giocò lo stesso.
Se non si fosse giocata, sicuramente le conseguenze
sarebbero state peggiori. I tifosi della Juventus, che
erano la maggioranza all’interno dello stadio, avrebbero
voluto vendicare i morti. L’intervento di alcuni
giocatori della Juventus che dialogarono con gli ultrà
bianconeri evitò quella reazione. La Juventus vinse 1-0,
ma nessuno poté godere fino in fondo di quella vittoria.
Finita la partita raggiungemmo il bus che ci riportò a
casa. Agli autogrill le code per telefonare erano
immense. Solo il giorno dopo, all’arrivo a Milano, i
miei seppero finalmente che ero vivo e tirarono un
sospiro di sollievo. Quella strage non fu la peggiore
della storia del calcio. Ebbe però il massimo risalto
dei media perché si trattava della finale della Coppa
dei Campioni. Purtroppo fu una strage inutile che non
servì ad evitare che la bestialità degli uomini
riemergesse ancora altre volte. L’amarezza lascia il
posto a un lumicino di speranza ripensando alla
commemorazione svoltasi allo Juventus Stadium domenica
scorsa quando al minuto 39 di Juventus-Napoli i tifosi
della Juve hanno sventolato uno striscione di ricordo
per le vittime dell’Heysel. Chissà se prima o poi gli
uomini impareranno dai propri errori.
Fonte:
Robertobiolchini.it
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29 maggio 2015
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Il 29 maggio 1985 la
tragedia dell'Heysel: il racconto di Camilla Bonelli
Sono passati 35 anni,
35 lunghi anni
Avevo
appena dato il primo esame all’Università. Partimmo per
la finale, per quella Coppa che ancora ci mancava. Ci
bruciava ancora la sconfitta di Atene, quel goal, che
delusione. Nonostante Atene, i 40.000 italiani, la mia
prima volta in aereo. Partimmo in autobus, dovevamo
cominciare a soffrire presto, anche questa volta. Ne
valeva la pena. Avevamo già battuto il Liverpool in una
fredda, bianca notte di gennaio. Potevamo farcela,
almeno così speravamo. Quando ti metti in viaggio per
una partita, per divertirti non pensi mai, neanche di
fronte all’evidenza che possa andare diversamente, che
possa succedere qualcosa di diverso. Lo stadio era
fatiscente, bastava un calcio del mio sandalo misura 36
per sbriciolare un gradone. Quei cavalli poi cosa ci
stavano a fare in mezzo a migliaia di spettatori. Ma
giocava la Juve, andava bene lo stesso. Gli inglesi
avevano bevuto, erano ubriachi, ma state tranquilli non
succede niente, deve giocare la Juve. E poi due anni fa
ad Atene non potevamo neanche alzarci in piedi allo
stadio che dei solerti gendarmi ci invitavano subito a
sederci. Abbiamo viaggiato ininterrottamente per due
giorni, arriviamo a Bruxelles nel pomeriggio. Che ci
interessa del centro, andiamo subito allo stadio, gioca
la Juve… Il mio vicino allo stadio mi chiede se ho fame,
mi offre un panino, estrae dalla sua borsa il pane, un
salame e comincia ad affettarlo con un grande coltello.
Ma come allo stadio con un coltello, sì ma ho fame,
mangiamoci questo panino, aspettando la Juve… La partita
non comincia, dall’altra parte c’è confusione, gli
inglesi sembrano invadere la zona degli italiani,
qualcuno scappa, arriva un signore e piange. Ma che
succede ? Niente, andiamo deve giocare la Juve… E dopo
la partita, il rigore, il giro del campo. Usciamo,
speriamo che gli Inglesi siano ancora dentro. Un Inglese
piange e ci dice "Sorry", ma che fa, ha bevuto, si
scusa, ma di cosa ? Saliamo sul nostro autobus e dalla
radio veniamo a sapere che la Juve ha vinto la Coppa,
quella Coppa stregata, ma ci sono oltre 30 morti dentro
lo stadio, però… Non avevamo voluto crederci, doveva
giocare la Juve, per quella Coppa. Invece era vero.
C’era stata una strage. Conservo ancora il biglietto
della partita, zona N, siamo stati fortunati. Conservo
ancora quel brandello di maglia di Tardelli, la sua
ultima partita in bianconero. Ha ragione lui, che
vergogna festeggiare, che vergogna il giro del campo,
che vergogna lanciare la maglia. Ma c’era la Juve, c’era
la Coppa chi poteva immaginare… Solo durante la notte
riuscimmo a comunicare con le nostre famiglie e far
sapere loro che noi stavamo tutti bene, noi, solo noi,
però. Sono tornata a Bruxelles, ci sono tornata qualche
anno fa. Per lavoro, con una classe di giovani elbani.
Abbiamo incontrato dirigenti dell’Unione Europea,
abbiamo parlato di sviluppo e finanziamenti, ma ho
voluto portarli anche all’Heysel, volevo che capissero.
Peccato che non c’è più. C’è il "Baldovino". Una piccola
targa ricorda il 29 maggio del 1985. La solerte Addetta
al Marketing, dopo aver sentito la mia storia, ci fa
entrare, ci fa calpestare l’erbetta. Mi regala un libro
sulla storia dello stadio. Una paginetta sola per quel
29 maggio. Vergogna, civile Belgio, vergogna. Dopo
trentacinque tra qualche giorno, forse ricomincia il
campionato, in un anno incredibile che ha visto cambiare
le sorti del mondo, un passo verso una normalità che
però da quel giorno per molte famiglie non c’è più
stata. Ho continuato a seguire la Juve, ovunque, con il
mio babbo ed oggi con mamma ed i miei cuginetti, ai
quali trasmetto la passione per la Juve ed il rispetto
per l’avversario, come per il prossimo. Per quelli che
erano lì con noi ed oggi non ci sono più, per continuare
a sperare che una partita di pallone rimanga sempre una
partita di pallone, anche se è una finale, anche quando
gioca la Juve e tu sei un avversario. Camilla Bonelli
(Juventus Club Isola d’Elba)
Fonte: Tenews.it
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30 maggio 2020
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Racconto Heysel
...Entriamo dalla porticina
dopo essere stati accuratamente perquisiti... Tra noi
gente comune non tifosi organizzati... Entro e vedo i
nostri seduti sul lato opposto allo spicchio dei tifosi
inglesi... Mi siedo nello spazio libero alcuni secondi e
capisco il perché, piovono sassi dal settore inglese e
due - tre di noi si stanno fasciando le ferite sulla
testa alcuni metri alla mia destra... Alcuni dei nostri
rispondono ai lanci di pietre, andavano sicuramente a
segno dato che nello spicchio dei tifosi avversari non
ci sono spazi liberi... Giungono sotto la curva il
portiere del Liverpool con altri due giocatori in
borghese... Invitano il loro pubblico ad invadere il
settore libero separato da una rete ridicola... La
polizia accompagna uno alla volta 2-3 ultras fermati in
scontri precedenti e quindi identificati nello spicchio
degli inglesi... Passando davanti a noi ci
sberleffano... Molti inglesi passano dal buco in alto e
si accomodano in curva... Tutto bene... Pochi secondi e
senza apparente motivo si volatilizzano tornano nel loro
spicchio... Ecco la ragione: alcuni ultras, circa una
decina non di più, stanno attaccando a ventaglio, in
mano pietre, lattine e bottiglie, attaccano a ondate
avanti e indietro non dando il tempo di organizzare una
reazione... Il pubblico inglese ad ogni ondata incita
l'attacco... Un ragazzo con la maglia bianconera da solo
li attacca... Subito a terra sta per soccombere... Io
attacco il gruppo che subito si ritira, il ragazzo si
rialza e corre fra i nostri... Il capo e l'altro una
volta ritirati riattaccano puntando direttamente su di
me... Qualcuno cerca invano di organizzare una
reazione... Appena vedo che sono il loro obiettivo
riesco a raggiungere un paio dei nostri che cercano di
sfondare la porticina dietro la porta. Insieme riusciamo
a sfondare nonostante la polizia con i manganelli...
Aiuto alcuni ad entrare dalla porticina ma ormai le
ondate degli inglesi hanno oltrepassato sia la porticina
di ingresso sia quello della porta, per gli altri niente
da fare sono spacciati... Si ammassano a sinistra
guardandoli dal campo fino al cedimento del muro... In
campo alcuni di noi cercano di raggiungere la tribuna
respinti da alcuni che minacciano di lanciare delle
poltroncine... Uno juventino insegue un altro vestito
bianconero con sciarpa bianconera gridando è un
inglese... Questo corre serpeggiando fra noi e la
polizia a cavallo sbeffeggiando tutti... Una ragazza
piange seduta al fianco del padre urlando che ha un
malore colpito da infarto... Prendo non so come una
barella e insieme ad un altro operatore lo accompagno
fuori... Una volta assicuratomi che l'ambulanza li porti
via cerco di rientrare... Vietato: siamo fuori... C'era
il mondo: esercito, polizia, tutto circondato... Minà
passa vicino ci dice alcune parole di conforto, non
possono giocarla ora lo fanno solo per far defluire i
tifosi... A terra circa 20 corpi dei nostri compagni
allineati coperti con delle coperte... Mi avvicino e li
scopro ad uno ad uno cercando di vedere se tra loro c'è
qualche amico: nessuno, solo uno sembra un conoscente...
A pochi metri due gendarmi se la ridono godendosi la
scena... Sento una voce: "sono 38 dall'Italia", dicono
38... Tutto bloccato, non mi rimane che farmela a piedi
sin fuori l'accerchiamento. Prendo un taxi, torno in
albergo... Tutti mi accolgono sostenendomi. Sono venuti
via dalla partita... Sono alla tv, giocano... Alcuni
inglesi vengono incontro scusandosi... Uno piange... Non
guardo la partita... Rigore... Mi giro: 2 metri fuori
dall'area... Mi rigiro i nostri che girano intorno al
campo con la coppa alzata... Che schifo... Torniamo a
casa in pullman, 2-3 con la testa fasciata... Due posti
vuoti... Per fortuna rimasti solo per cure...
Fonte:
Facebook (Pagina Comitato Heysel)
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12 gennaio 2015
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Quel giorno c’ero
anche io
Quel giorno c’ero anche io. Venivo da Londra dove
lavoravo. Prima dell’incontro avevo fatto da traduttore
tra tifosi del Liverpool e della Juve come ero e sono
io. Sembrava tutto così tranquillo. Solo gli inglesi
erano pieni di cassette di birra che si portavano
appresso, non so dire se anche dentro lo stadio. Le
strade puzzavano di birra, mentre i pochi poliziotti
belgi a cavallo ci passavano vicino incutendo un certo
timore. Non ricordo il nome della curva nella quale mi
trovavo, ma era opposta alla Z. Un ragazzo mi propose di
scambiare il posto e mi diede il biglietto della tribuna
accanto alla curva Z per poter stare lui col gruppo di
tifosi con cui mi trovavo. Tra loro c’era un suo amico.
Era una festa. Lui la voleva vedere con l’amico, io la
volevo vedere il meglio possibile. Poi, sono entrato
all’Heysel. Quello che è accaduto lì dentro lo sapete
bene. La finale che si è svolta dopo non l’ho vista. Me
ne sono andato via sconvolto. Non credevo si sarebbe
giocata e comunque non la volevo vedere. Ho preso la
macchina che avevo parcheggiato lontano, la mia Fiat
Punto targata Roma, ho preso il traghetto per Dover e mi
pare verso le 3 del mattino sono rientrato a casa. Solo
la mattina, al lavoro, ho cominciato a piangere
confortato dai colleghi inglesi che, disperati per la
tragedia, mi hanno accolto tra le loro braccia. A voi
che avete perso genitori, figli, coniugi, amici voglio
dirvi che i vostri cari sono sempre nei miei pensieri e
che vi sento vicini anche se non vi conosco.
Gaetano Buscemi
Fonte:
Associazionefamiliarivittimeheysel.it
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29 maggio 2024
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