"Avevamo i biglietti di quel settore ma
non entrammo"
di Simone Pesce
Il ricordo dei bergamaschi: "Gli ingressi
erano porticine di un metro e mezzo: una trappola. Andammo in tribuna".
"lo invece ero lì, a venti metri dal muro crollato".
"Nessuno
capiva, nessuno ci aiutava. Fu un attimo". Settore Z, l'apocalisse.
Giovanni l'ha evitato grazie a Umberto e non ha mai smesso di pensarci.
Ubaldo ci si è trovato in mezzo ed è scappato, rotolando in salvo
sul prato dello stadio. Heysel, 29 maggio '85. Giovanni Petenzi
e Umberto Bettoni di Costa Volpino e Ubaldo Donghi di Brembate Sopra
sono tra quelli tornati dall'inferno. Li unisce la notte di Juventus-Liverpool,
loro tra i 400 bergarnaschi a Bruxelles per la finale di Coppa Campioni.
Li divide un biglietto del settore Z, il cimitero della ragione.
"C'è rimasto solo quello, ci avevano detto in agenzia. Andammo".
Giovanni Petenzi oggi ha 73 anni e un certo curriculum di finali
juventine. Atene '83, l’incubo Magath; Roma'96, la coppa alzata
da Vialli. Ma è quel primo pomeriggio a Bruxelles, quel girovagare
inquieto di fronte allo stadio, a cambiare la sua storia. "Siamo
partiti in cinque da Costa Volpino, ma Umberto non voleva entrare
in quel settore. Non mi piace, ripeteva, non mi piace". Perché,
Umberto se lo ricorda benissimo. "Avevamo visto gli ingressi e le
uscite del settore Z: due porticine larghe un metro e mezzo, come
quelle degli orti, e dietro la curva il parcheggio coi pullman dei
tifosi inglesi. Siamo pazzi a entrare qui, dicevo io, è una trappola.
Quasi litigammo". E Umberto li convince. Parte la ricerca del bagarino.
"Lo troviamo quasi subito ricorda Giovanni. Ha cinque biglietti
di tribuna, a 140 mila lire. Presi. Fossero stati 4, ora forse qualcuno
di noi mancherebbe all'appello". Restano i biglietti del settore
Z da smerciare. "Torniamo allo stadio e vediamo un gruppo di tifosi
inglesi. Tiriamo fuori i biglietti e li offriamo, ma questi ci saltano
addosso, ci strappano i biglietti, le tasche dei pantaloni. Sono
fuori di senno, la polizia guarda e non fa nulla. Allora scappiamo
in tribuna. La partita l’abbiamo vista lì". Fino alla fine. "Avevamo
visto la gente sul prato, ma non si capiva cosa fosse successo.
Girano voci impazzite: morti, a decine". Uno a zero, rigore di Platini,
finita. Per strada Giovanni dice che finalmente la Juve se l'è portata
a casa, 'sta coppa. "Un vecchietto sul marciapiede sente e dice:
sì, ma io ho perso due amici. E scoppia a piangere. Allora abbiamo
capito che era tutto vero. Da lì in poi l'inferno". Via in pullman,
di notte, all'aeroporto di Anversa. "Il volo è alle 4, arriviamo
alle due. Due ore che non riesco a dimenticare. C'è gente con la
testa fasciata, piena di sangue. Uno dice di aver perso gli amici,
urla, piange". Allo stadio i telefoni a gettoni sono rotti, all'aeroporto
Umberto che parla francese spalanca la porta dell'ufficio della
polizia e ottiene di poter chiamare in Italia, a pagamento. Giovanni
e gli altri si precipitano. "A casa sono tutti svegli. Per mia moglie
sono nel settore Z, non sapeva che lì non ci sono mai entrato. Dell'Heysel
non ho conservato nulla. Avevo comprato una bandierina l'ho buttata".
"Ero a 20 metri dal crollo" Ubaldo Donghi il biglietto l'ha ancora
in casa, incorniciato. "Numero 14.621, costo 300 franchi, settore
corretto a biro. Sono juventino dalla culla, ho giocato, ho fatto
l'allenatore. Nell'85 avevo 31 anni, era la mia prima finale". Partono
in tre da Orio. "Avevamo chiesto i biglietti del settore italiano,
ma all'ultimo l’agenzia ci aveva detto che erano rimasti solo quelli
del settore Z. L'aria era brutta. C'erano inglesi dappertutto, ubriachi
marci, lo stadio era uno schifo. Quando scoppiò il finimondo io
ero lì, a 20 metri da dove crollò il muro". Un boato, poi il blackout.
La vita sospesa, come in una bolla. "La polizia non ci faceva uscire.
Ho visto lanciare e prendere al volo, non so come, una bambina oltre
la recinzione per evitare che venisse travolta. Riuscimmo a raggiungere
un cancello e mi ritrovai in campo, tra gente distesa per terra.
Vivi, morti, non si capiva niente. Scappai per strada, andai sul
pullman e non vidi la partita. Non la vidi mai. Trovai una cabina,
telefonai a casa, era la sola cosa che m'importava. Non ho più visto
quegli amici, non sono mai tornato a Bruxelles. Non tornerò più".
"Nessuno fece nulla". Nemmeno Umberto. Basta quel numero: 39. "I
morti dell'Heysel li hanno sulla coscienza la polizia belga e l'Uefa.
Sarebbe bastato poco per evitare la tragedia, davvero poco. Ma nessuno
fece nulla".
29 maggio 2015
Fonte: L’Eco di Bergamo
A-Z |
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2
BITONTINI
L’incubo dell’Heysel:
viaggio all’inferno e ritorno
di Vincenzo Murgolo
Dino e Raffaele, entrambi
bitontini, erano allo stadio di Bruxelles il 29 maggio 1985
Sono
nati e vivono a Bitonto. Tifano per la Juventus sin da
bambini. Ad unire le vite di Dino e Raffaele c’è soprattutto
una data: 29 maggio 1985. Entrambi erano allo stadio Heysel
di Bruxelles per assistere alla finale di Coppa dei Campioni
tra Juventus e Liverpool. Un evento macchiato dagli
incidenti avvenuti nella curva Z e costati la vita a 39
persone (32 italiani, 4 belgi, due francesi e un
britannico), tra cui un bimbo di 10 anni e una ragazza di
17. "Sono partito con sei amici da Brindisi", racconta Dino,
titolare di una lavanderia e all’epoca 29enne. "Io e mia
moglie Tina - ricorda invece Raffaele, insegnante in
pensione che quel giorno di anni ne aveva 34 - ci siamo
sposati il 18 maggio e abbiamo prenotato i biglietti quando
la Juventus si è qualificata per la semifinale. Siamo
partiti il 19 per il viaggio di nozze, poi il 27 siamo
arrivati a Bergamo. Insieme ad amici conosciuti quando ho
insegnato lì, siamo partiti in pullman e siamo arrivati a
Bruxelles il 28 sera". L’avvicinamento allo stadio, situato
in un quartiere periferico di Bruxelles, è tranquillo. Gli
hooligans, la parte più estrema del tifo inglese, in quegli
anni sono un pericolo. Ma né Dino né Raffaele, né tantomeno
le persone che sono con loro, notano nulla che faccia
presagire problemi di ordine pubblico. "Siamo partiti
dall’albergo la mattina - racconta Raffaele - e abbiamo
girato per Bruxelles in un clima allegro. Abbiamo incontrato
un gruppo di inglesi con i quali ci siamo fatti una foto. A
uno di loro ho regalato la mia sciarpa e il mio cappello
della Juventus e lui ha fatto lo stesso". Nel frattempo Dino
e i suoi amici sono atterrati a Bruxelles e si dirigono
verso lo stadio. "Nel parco circostante l’Heysel non c’erano
soltanto gli hooligans, ma anche tanti tifosi desiderosi di
sostenere il Liverpool. Uno di loro mi ha regalato una
maglietta della squadra, mentre io gli ho dato una sciarpa e
un gagliardetto della Juventus". Poi arriva il momento di
prendere posto nello stadio. Dino e i suoi amici si dirigono
nella curva Z, adiacente al settore riservato al tifo
organizzato inglese, mentre Raffaele e Tina hanno il posto
riservato nella curva opposta, riservata alla tifoseria
organizzata juventina. Restano però colpiti
dall’inadeguatezza dell’impianto belga ad ospitare un evento
della portata di una finale di Coppa dei Campioni. "Per
arrivare al nostro posto - spiega Dino - abbiamo percorso
una scala e siamo entrati nella curva attraverso una porta
in legno marcio". "Siamo saliti - racconta Raffaele - lungo
un terrapieno in sabbia e poi si è creata una coda
disordinata che è durata oltre due ore". Alle 17 scendono in
campo dei ragazzini per giocare una partitella di circa
mezz’ora. Poi i primi tafferugli. "Alcuni inglesi - ricorda
Dino - hanno portato via degli striscioni presenti nel
nostro settore. Poi hanno iniziato a lanciare bottiglie di
vetro e mattoni, così tanti hanno iniziato a spostarsi verso
la parte più esterna della curva. Ad un certo punto un
signore seduto vicino a me è stato colpito alla testa da un
mattone e insieme ad un ragazzo di Brindisi, morto nei
successivi incidenti, lo abbiamo trasportato sul campo. Io
poi sono tornato al mio posto, ma non ho trovato nessuno. A
quel punto sono tornato giù e sono corso verso la tribuna.
Questa è stata, a conti fatti, la mia salvezza". Dalla
tribuna Dino non riesce a vedere la tragedia che si consuma
poco dopo, quando il muro sul quale si sono accalcati i
tifosi seduti nella curva Z per scappare dalle cariche degli
inglesi crolla per l’eccessiva pressione provocando numerose
morti per schiacciamento e asfissia. "Vedevo da lontano gli
scontri - aggiunge - ma non ne capivo la portata. Poi è
arrivata la gendarmeria belga a cavallo e ho saputo che
c’erano stati dei morti. Ma quello che è davvero accaduto
l’ho saputo solo dopo il rientro in Italia". Intanto
dall’altra parte tutti, compresi Raffaele e Tina, attendono
l’inizio della partita: "Vista la struttura dello stadio,
per noi era impossibile capire quanto stava accadendo nella
curva Z. Noi semplicemente eravamo colpiti dal ritardo e lo
attribuivamo ad alcune scaramucce tra i gruppi organizzati e
la polizia belga". Alla fine la partita si gioca per motivi
di ordine pubblico e per evitare che, una volta usciti dallo
stadio, inglesi e italiani diano luogo ad altri scontri. Il
primo tempo termina 0-0, ma poco dopo il duplice fischio
dell’arbitro Daïna nella curva juventina accade qualcosa.
"Durante l’intervallo - racconta ancora Raffaele - è
arrivato
sotto
la nostra curva un signore di Pisa. Aveva la giacca
strappata. Ci ha detto che si trovava nella curva Z dalla
quale era scappato per via dei tafferugli creati dai tifosi
inglesi. Durante il suo racconto io e Tina siamo stati presi
da un solo pensiero: far sapere ai nostri familiari che
stavamo bene. Nel frattempo era iniziato il secondo tempo,
ma a quel punto non ci importava più nulla della partita.
Siamo usciti dallo stadio e abbiamo raggiunto una cabina
telefonica dalla quale, insieme ad altre persone, abbiamo
chiamato casa. Ricordo soprattutto la grande solidarietà tra
i presenti. Non solo si facevano telefonate brevi, ma si
mettevano in comune i gettoni telefonici per dar modo a
tutti di rassicurare amici e familiari". Intanto la Juventus
vince partita e coppa grazie ad un calcio di rigore
realizzato da Platini. Dino, rimasto in tribuna, assiste
agli eventi combattuto tra la felicità per la vittoria della
squadra del cuore e lo sconcerto per quanto accaduto poche
ore prima. "Non si può morire allo stadio - racconta, con
l’emozione che quasi gli spezza la voce - Mi rendo conto che
giocare la partita ha consentito di evitare scontri ancora
peggiori, ma nel mio cuore di tifoso è una vittoria amara".
Anche per Raffaele si tratta ancora oggi di una gioia a
metà: "È stato comunque necessario giocare. Questo ha
consentito di organizzare un deflusso che poi è stato
ordinato e tranquillo. Sulla premiazione c’è poco da dire
perché in fin dei conti si è trattato di un rito. Forse
avrei evitato la discesa festosa dall’aereo". Alla fine le
inchieste giudiziarie portano sul banco degli imputati
l’Uefa e le autorità belghe, ma per Dino e Raffaele le
responsabilità di quanto accaduto sono chiare fin dal primo
momento. "L’Uefa - dice Raffaele - sapeva che lo stadio
Heysel era vecchio e inadeguato per un evento simile, ma ha
deciso ugualmente di far giocare lì la partita. La polizia
belga, invece, ha avuto la colpa gravissima di non creare un
cordone di sicurezza tra la curva Z e il settore che
ospitava i tifosi inglesi". La strage dell’Heysel provoca la
squalifica delle squadre inglesi dalle competizioni
internazionali per le successive cinque stagioni. Nel 1989,
all’indomani di un’altra strage avvenuta nello stadio
inglese di Hillsborough, il governo di Margaret Thatcher
vara il Football Spectators Act con cui verrà dato un giro
di vite al fenomeno hooligans. In Italia, invece, ancora
oggi le cronache parlano di episodi di violenza legati al
calcio. Ma anche su questo punto Dino e Raffaele hanno le
idee molto chiare. "In Italia - afferma Raffaele - non si fa
prevenzione. C’è un permessivismo di fondo che impedisce che
si mettano a punto misure serie". Sulla stessa lunghezza
d’onda Dino, che aggiunge: "Nel nostro Paese spesso nelle
tifoserie si nascondono veri e propri delinquenti. Servono
regole certe e ferree come in Inghilterra". Eppure, a 32
anni di distanza, il loro amore per il calcio non si è
spento. "Ho giocato a livello agonistico per tanti anni -
dice commosso Dino - Poi ho fatto l’allenatore. Quello per
il calcio è un amore che non passerà. Mai". "Il tifo -
chiosa Raffaele - rientra nella sfera dell’emotività e non
ha nulla a che vedere la razionalità". Già, la razionalità.
La grande assente di quella sciagurata notte. Doveva essere
una festa di sport. Si è invece trasformata in una barbarie
che si poteva e si doveva evitare.
Marzo 2017
Fonte:
Mediaterraneonews (Quindicinale del Master in
Giornalismo Bari 2014-2016)
A-Z |
LUCIANO BARELLI
"Ero all’Heysel 20 anni fa. Mi sono salvato
lanciandomi dagli spalti"
Venti
anni dopo, negli occhi e nel cuore rimane l'ombra della morte. "Una
partita maledetta, una vittoria da cancellare". Luciano Barelli,
comasco di Blevio, oggi 56enne, il 29 maggio 1985 era a Bruxelles.
Insieme con tre amici, aveva deciso di fare una settimana di vacanza
nel Nord Europa. E di approfittare del viaggio per assistere alla
finale di Coppa dei Campioni. Pur non essendo un tifoso bianconero.
"Sono un milanista - dice - Davvero bizzarro, ho rischiato la vita
senza neanche capire il perché e per una squadra che non era nemmeno
la mia". In realtà, Barelli quella partita non la vide. Perché quando
gli hooligan inglesi ruppero le reti di protezione della curva,
scappò verso l'alto, e si gettò fuori dallo stadio in preda al panico.
Il racconto di quei momenti è impressionante. Anche a distanza di
20 anni. "Arrivammo a Bruxelles in camper - attacca Barelli - Ci
portammo allo stadio e subito notammo che era fatiscente. L'Heysel
era una sorta di catino in cima a una collina, con le curve scavate
nel terreno. Prima di entrare, fummo presi a bastonate dai poliziotti
belgi a cavallo. Caricavano senza motivo. C'era insomma un clima
di tensione e le forze dell'ordine non facevano nulla per calmare
gli animi". I quattro amici comaschi entrano nello stadio. E nessuno
li controlla. "Abbiamo fatto il giro liberamente, siamo andati da
una curva all'altra e non abbiamo incontrato alcuna barriera". Insomma,
le tifoserie possono facilmente entrare in contatto. Ma soprattutto,
possono portare all'interno dell'impianto sportivo ogni genere di
oggetto. "Quando gli hooligan cominciarono a premere contro i tifosi
juventini - ricorda Barelli - sopra le nostre teste volò di tutto,
persino un estintore". L'Heysel, due ore prima della partita, era
l'anticamera dell'inferno. "Uno stadio assolutamente inadatto a
ospitare una partita così importante - dice ancora il tifoso comasco
- le reti divisorie tra i settori degli spalti sembravano quelle
del giardino di casa mia, gli inglesi ci misero pochi minuti a distruggerle".
Il ricordo si fa vivo. Torna alla mente la carica degli hooligan,
"impazziti e ubriachi, con gli italiani che fuggivano. Mancava l'aria,
la calca era così forte che non riuscivamo a respirare". Barelli,
insieme con due dei suoi tre amici, si rifugia verso l'alto della
curva. È la sua salvezza. Se fosse scappato verso il basso sarebbe
probabilmente finito contro il muro il cui crollo provocò i 39 morti.
"Siamo arrivati in cima agli spalti e ci siamo buttati di sotto.
Proprio perché l'Heysel era "scavato" nella collina, il salto era
basso, un paio di metri. Abbiamo avuto paura per la sorte del nostro
amico, non era più con noi. Prima di ritrovarci sono trascorse tre,
quattro ore. Abbiamo pensato che fosse morto". Oggi, venti anni
dopo, la voce di Barelli tradisce commozione. E angoscia. "Non dimenticherò
mai le tende in cui erano stati raccolti i corpi dei tifosi, ancora
adesso mi chiedo dove fosse la polizia, perché l'Uefa diede l'ok
ad una finale in quello stadio fatiscente. L'Heysel non c'è più,
ma cancellare il ricordo della tragedia non è possibile".
30 Maggio 2005
Fonte: Tifonet.it
A-Z |
MICHELE
BATTAGLIOLI
L’Heysel, l’aneurisma e ora il terremoto:
"Sono fortunato"
di Corrado Magnoni
Oggi ricorre il 27º anniversario della
strage in Belgio. Battaglioli, mister del Reno Centese, rivive i
tre drammi.
RENO
CENTESE - Rabbia, dolore e sconforto, non certo festeggiamenti per
la vittoria della prima Coppa dei Campioni della Juventus. Ricorre
oggi il 27° anniversario della strage dell'Heysel in cui persero
la vita 39 persone, la maggior parte delle quali italiani. Michele
Battaglioli, attuale tecnico del Reno Centese, dopo aver militato
per anni nelle fila della squadra del suo paese, Finale Emilia,
si ricorda bene quel giorno. Circa trent'anni fa, un gruppetto di
cinque ragazzi finalesi saliva in macchina per andare in Belgio
a vedere una partita di calcio. Il drappello non s’immaginava nemmeno
che avrebbe assistito a una strage e che a distanza di decenni non
sarebbe stato l'unico episodio spaventoso della loro vita. "Mi viene
la pelle d'oca a ripensarci - giura Battaglioli. Io ricordavo agli
amici che ricorre il funesto anniversario; impossibile dimenticare,
per degli anni ho sognato i cori dei tifosi inglesi che caricavano
contro di noi". Salto all'indietro nel tempo, è la primavera
del 1985, mancano pochi giorni alla finale di Coppa dei Campioni
che la Juventus non ha mai vinto. I tifosi vogliono seguire i propri
beniamini, Boniek e Platini su tutti, in terra fiamminga. Battaglioli,
che all'epoca ha 23 anni, assieme a un gruppo di coetanei e al fratello
di uno di loro, l’appena sedicenne Marcello Pincelli, trova, tramite
la Gazzetta dello Sport, un pacchetto viaggio con un solo pernottamento
compreso il biglietto per l'ingresso allo stadio. "Avevo uno zio,
emigrato in Belgio, che ci ha accolto la prima sera; trovare i tagliandi
per l'ingresso era stato difficilissimo, erano introvabili. Erano
validi per la curva Z, settore che inizialmente era stato destinato
agli abitanti locali e poi suddiviso tra noi e gli inglesi".
Già all'arrivo, l'accoglienza non è delle migliori: "ci eravamo
imbattuti negli hooligans inglesi, già cotti da litri di birra,
che ci avevano intimato di lasciargli le sciarpe bianconere; ci
rifiutammo e uno di noi fu picchiato e mandato all'ospedale. Il
giorno dopo ci siamo presentati allo stadio, mancava un quarto alle
otto, ma si capiva che qualcosa non andava; gli italiani perquisiti
da capo a piedi e gli inglesi carichi di birra entrati senza problemi;
si stavano preparando alla guerriglia". Il nefasto presagio
si avvera dopo pochi istanti, quando i tifosi dei "reds" caricano
gli juventini armati di cocci di eternit strappati alle tettoie
dei bagni: "Lo stadio assomiglia molto al Paolo Mazza di Ferrara,
fatte le debite proporzioni; era come se fossimo nell'angolo destro
della Ovest, senza via di fuga se non il precipizio. Stretti come
sardine, ci siamo riparati il volto con il gomito; eravamo disperati,
ho creduto di morire, mentre stringevo a me il fratello del mio
amico. Al crollo del muro, ho capito che ce l'avremmo fatta, perché
non rischiavamo più l'asfissia. Tornai indietro a cercare gli altri,
ma trovai cadaveri con la bava alla bocca. Gli amici per fortuna
erano sani e salvi in campo, ma quei minuti rimarranno per sempre
impressi nella mia memoria". Storia a lieto fine, con i cinque
finalesi tratti in salvo da una famiglia calabrese e poi rimpatriati:
"E' stata la paura più forte della mia vita, nemmeno l'aneurisma
patito a gennaio di quest'anno mi ha impressionato allo stesso modo;
una volta entrato in sala operatoria, era già tutto passato e per
fortuna, per la seconda volta, senza conseguenze". Tutto è
bene quel che finisce bene, visto che il tecnico del Reno Centese
è persino potuto tornare nella sua abitazione di Finale Emilia,
dopo il terremoto: "Adesso c'è da ricostruire un paese; assieme
agli amici di allora e di oggi, uniti all'amministrazione comunale,
si sta cercando di organizzare un grande concerto allo stadio Braglia
di Modena o al Mazza di Ferrara a favore delle zone terremotate;
Vasco Rossi e Ligabue si sono resi disponibili".
29 maggio 2012
Fonte: Lanuovaferrara.gelocal.it
A-Z |
... MICHELE BATTAGLIOLI
... |
27 anni fa morivano 39 persone all’Heysel,
Battaglioli c’era
di Alessandro Sovrani
Circa
trent’anni fa, 29 maggio 1985, cinque ragazzi finalesi salivano
in macchina per andare in Belgio a vedere una partita di calcio.
"Mi viene la pelle d’oca a ripensarci – giura Michele Battaglioli,
tecnico del Re Centese -, lo ricordavo agli amici che ricorre il
funesto anniversario; per tanti anni ho sognato i cori dei tifosi
inglesi che caricavano contro di noi". Salto all’indietro nel tempo,
è la primavera del 1985, mancano pochi giorni alla finale di Coppa
dei Campioni che la Juventus non ha mai vinto. Battaglioli, che
all’epoca ha 23 anni, assieme ad un gruppo di coetanei e al fratello
di uno di loro appena diciassettenne, trova tramite la Gazzetta
dello Sport un pacchetto viaggio con un solo pernottamento e il
biglietto per l’ingresso allo stadio. "Avevo uno zio, emigrato,
che ci ha accolto la prima sera; trovare i tagliandi era stato difficilissimo,
erano introvabili. Erano validi per la curva "Z" ed erano stati
inizialmente destinati agli abitanti locali, poi suddivisi tra noi
e gli inglesi". All’arrivo, l’accoglienza non è delle migliori.
"Ci eravamo imbattuti negli hooligans inglesi, già cotti da litri
di birra, che ci avevano intimato di lasciargli le sciarpe bianconere;
ci rifiutammo e uno di noi fu picchiato e mandato all’ospedale.
Il giorno dopo ci siamo presentati allo stadio, mancava un quarto
alle otto, ma si capiva che qualcosa non andava; gli italiani perquisiti
da capo a piedi e gli inglesi carichi di birra entrati senza problemi;
si stavano preparando alla guerriglia". Il nefasto presagio si avvera
dopo pochi istanti, quando i tifosi dei Reds caricano. "Lo stadio
assomiglia molto al Mazza; era come se fossimo nell’angolo destro
della Ovest, senza via di fuga se non il precipizio. Stretti come
sardine ci siamo riparati il volto col gomito; eravamo disperati,
ho creduto di morire, mentre stringevo a me il fratello del mio
amico. Al crollo del muro, ho capito che ce l’avremmo fatta, perché
non rischiavamo più l’asfissia. Tornai indietro a cercare gli altri,
ma trovai cadaveri con la bava alla bocca. Gli amici, per fortuna
erano sani e salvi in campo, ma quei minuti rimarranno per sempre
impressi nella mia memoria". Storia a lieto fine con i cinque finalesi
tratti in salvo da una famiglia calabrese e poi rimpatriati. "E’
stata la paura più forte della mia vita, nemmeno l’aneurisma patito
a gennaio di quest’anno mi ha impressionato allo stesso modo; una
volta entrato in sala operatoria, era già tutto passato e
per fortuna, per la seconda volta, senza conseguenze". Battaglioli
non ha nemmeno visto la partita. "Pensavamo non l’avrebbero fatta,
col senno di poi hanno fatto bene a giocarla, sennò sarebbe stata
una strage".
29 maggio 2012
Fonte: Telestense.it
A-Z |
BAUHOUSE 65
Testimonianza di Bauhouse
65
Io
ero lì, insieme ad altri 7 miei amici dello Juventus Club 2 Stelle
Di Assisi - Santa Maria Degli Angeli PG - fortunatamente dopo aver
avuto in mano 8 biglietti di curva Z tramite un ristoratore emigrato
in Belgio anni prima - trovammo ed acquistando 8 biglietti di tribuna
numerata ci ritrovammo vicino alle postazioni dei telecronisti delle
tv europee. Io mi ricordo benissimo avevo 20 anni, ero a circa 10
metri da Bruno Pizzul. Verso le 19 quegli ubriachi bastardi di inglesi
iniziarono a tirare di tutto verso la curva Z: bottiglie rotte all'
altezza delle facce degli italiani, bastoni, sassi, ecc, ecc… Una
cosa assurda e tutti i tifosi bianconeri che volevano uscire dalla
curva e quei tonti dei poliziotti belgi che li respingevano pur
vedendo quello che stavano facendo gli hooligans !! Una cosa assurda
mai vista prima !! La sera prima nella Gran Place al centro di Bruxelles
c'erano così tante bottiglie rotte di birra in terra che si camminava
su uno strato di vetro al posto delle mattonelle !!! E poi vengono
a farci la morale che abbiamo festeggiato !! Prima di tutto quella
Juve era fortissima ed avrebbe vinto sicuramente !! Purtroppo la
tragedia non lo ha potuto dimostrare perché tutto è stato falsato
ma vi ricordo che se non si fosse giocato sarebbe stata una carneficina
perché i tifosi della curva juventina avrebbero cercato di massacrare
quei bastardi del Liverpool !!! Ho visto oltre 350 partite di campionato
e delle coppe della Juve ed in molti stadi ho sentito offendere
quei nostri morti che volevano solo fuggire dalla barbarie ed invece
sono rimasti schiacciati come le formiche: di questo genere di persone
non si dice mai nulla ed invece si continua ad inveire sulla Juve
come se la vera colpevole fosse stata lei. I veri colpevoli furono
gli inglesi ! Lo stato belga e la Uefa che scelse quel posto decrepito
nel quale trovarono la morte quelle persone le quali volevano solo
vedere per la prima volta vincere quella coppa maledetta e tanto
sfortunata per noi juventini. Per cui tutti muti e massimo rispetto
e vergogna per chi ci critica. Solo una cosa sbagliano i giocatori
della Juve quella volta: quando scesero dall'aereo a Torino non
avrebbero dovuto alzare la coppa maledetta ma portarla mestamente
in sede ed iscrivere su di essa i nomi dei tifosi morti !! Per me
rimarranno sempre nel mio cuore e sempre avrò una preghiera per
loro ! Forza magica Juve. Rivinci questa maledetta coppa come si
deve !!!
26 dicembre 2014
Fonte: Canale You Tube "FIGHTERS 1985"
A-Z |
IVAN BERLUCCHI
Calcio, dolore per la morte di Franchino:
"Noi con lui"
di Gloria Belotti
CALCIO
– Il crollo degli spalti dello stadio di Heysel Ivan Berlucchi di
Calcio, all’epoca 23 anni, lo ricorda come fosse ieri. Ha rischiato
di morire, anche se ha potuto realizzare l'accaduto solo successivamente,
e ha perso un caro amico: Franco Galli (classe 1960) soprannominato
"Franchino Claido", Franchino per la bassa statura mentre Claido
era il nomignolo della numerosa famiglia di cui era l'undicesimo
figlio. "Da Calcio siamo partiti in cinque racconta Ivan, io, Franco,
Ivan Paloschi, Lorenzo Martinelli e Domenico Consolandi. A Milano
siamo saliti sul pullman, organizzato per Bruxelles. Da quell'incubo
siamo rientrati tutti, tranne Franchino purtroppo. Doveva essere
una festa, invece non ci hanno neppure fatto sentire il sapore della
gioia perché allo stadio, zeppo di gente, la tifoseria inglese ha
iniziato a spingere e non ha più smesso... fino alla tragedia".
Si avverte ancora commozione tra le parole di Ivan, che aggiunge:
"Io, dal basso, mi sono sentito sollevare e mi sono salvato; con
gli altri ho scavalcato il muro, siamo scivolati lungo la scarpata
e siamo usciti nell'antistadio. Non abbiamo più visto Franco che,
essendo più basso, per vedere meglio si era posizionato un po' più
sotto. Siamo tornati verso l'albergo dove abbiamo atteso notizie
anche se sentori negativi mi erano già arrivati da Calcio, dove
non si avevano notizie di lui. Mi sono realmente reso conto dell'accaduto
solo all'arrivo a Milano, dove tutti ci guardavano come se fossimo
alieni. A quel punto ho compreso la tragedia". Franco era un grande
tifoso della Juventus, che seguiva in Coppa e campionato. Giocava
nella squadra degli "Amatori Kals" ed era animatore della tifoseria
juventina che si ritrovava al Bar Centrale del paese, dove dopo
il lavoro (era carpentiere) s'intratteneva a discutere della sua
squadra con gli amici e a organizzare le trasferte. Per la sua morte
il paese crollò nel dolore, partecipando con affetto al lutto della
famiglia (i genitori Pietro e Teresa Balduzzi sono morti da anni);
in molti lo ricordano per la sua cordialità, gioia di vivere e passione
calcistica. Da Calcio partirono, in aereo però, anche Gianluigi
Ranghetti, Venanzio Turmolli, Luigi Bertoli e Franco Brevi. Ivan
Berlucchi aggiunge: "Ci sono ancora delle scritte sui muri di qualche
nostro paese che inneggiano all'Heysel. E’ una vergogna che non
siano ancora state cancellate. Il dramma si sarebbe potuto evitare
con una migliore organizzazione. Noi italiani eravamo separati dalla
tifoseria straniera solo da una rete, sorvegliata da alcuni poveri
poliziotti che sicuramente saranno rimasti sepolti dal crollo del
muro. Bisognerebbe riflettere sugli errori per evitare altre tragedie".
29 maggio 2015
Fonte: L’eco di Bergamo
A-Z |
DAVIDE BERNARDI
La testimonianza di chi all'Heysel era
presente
Heysel: "Giocavamo in piazza insieme agli
inglesi, il clima era sereno, poi sono arrivati gli hooligans".
"Partimmo
da Picca Pietra, Genova, avevo 22 anni. C'erano anche alcuni miei
amici, io comprai il biglietto dopo di loro, quindi andai in Belgio
con un pullman organizzato. Arrivammo a Bruxelles alla mattina,
eravamo tutti in Gran Place, facevamo festa, giocavamo a pallone
con gli inglesi. Il clima era sereno, era una festa, poi arrivarono
gli Hooligans...". Comincia così il ricordo di quello che per me
è il tifoso juventino numero 1, mio padre, che il 29 maggio 1985
alle ore 18:30 si trovava nel settore Z dello Stade du Heysel. Com’è
stato l'arrivo allo stadio ? "Siamo arrivati nel pomeriggio. Ci
ha accolto un cordone di polizia a cavallo, erano pochissimi per
la quantità di persone presenti. Lo stadio conteneva circa 39 mila
persone, eravamo 60 mila ! La porta d'ingresso della curva, era
proprio una porta (!), come quelle che ognuno di noi ha in casa.
Il muro di cinta che separava dall'esterno era alto 3 metri. I seggiolini
non esistevano, c'erano gradoni di terra e cemento, che si sbriciolavano
semplicemente toccandoli. A dividerci dagli Hooligans invece una
rete di fil di ferro"… Una volta dentro... "Abbiamo visto tifosi
inglesi nudi. Vestiti solo della "Union Jack". In Belgio pur
essendo maggio faceva freddo. Entrammo nella purtroppo famosa Curva
Z. In quel settore c'erano famiglie, donne, bambini, non solo italiani,
ma anche belgi. Il tifo organizzato juventino invece era dall'altra
parte. Molti inglesi sono arrivati senza biglietto. Quelli del Liverpool
hanno rotto sia la rete che i cancelli, in modo che potessero entrare
anche quelli fuori dallo stadio. Quando il muro è crollato, noi
siamo stati fortunati, siamo riusciti ad uscire da quell'inferno.
Entrammo in campo per scappare, ma più che il terreno di gioco,
ricordo la manganellata nel collo di un poliziotto belga. La poca
polizia presente allo stadio pensò che volessimo fare un'invasione
di campo e cercò di respingerci all'interno". Vi rendeste subito
conto di quello che stava accadendo ? "Sì. Noi sì. Il resto dello
stadio invece no. Gli aiuti arrivarono addirittura un'ora e mezza
dopo. I giocatori però sapevano tutto, prima della partita uscirono
i rappresentanti di Juve e Liverpool per vedere l'accaduto. E' anche
vero che se avessero sospeso la partita, sarebbe successa una strage.
All'interno dello stadio il rapporto italiani-inglesi era 50:1.
Nessuno sapeva dei 39 morti, in Tribuna la gente pensava ci fosse
solo qualche ferito. A fine partita, siamo andati alla ricerca di
un telefono per poter chiamare casa, i bar italiani che prima ci
gridavano "Paesà ! Paesà !" a fine partita ci hanno chiuso letteralmente
la porta in faccia. Sono riuscito a chiamare mia madre dal Lussemburgo".
Ora lo stadio lo butteranno giù, per ricostruirlo in vista degli
europei 2020. Butteranno giù anche il ricordo ? "Io non dimenticherò
mai. Come spero che non lo faccia Platini, presidente dell'Uefa,
che quella partita l'ha decisa". Dopo essere sopravvissuto a quella
tragedia, dopo 18 anni, gli è nato il suo secondo figlio: il 29
maggio.
29 maggio 2013
Fonte: Discoveryfootball.blogspot.it
A-Z |
MARCO BERNARDINI
"La ragazza dell'Heysel che morì tra le
mie braccia"
"Cazzo,
Marco, dammi una mano. Muoviti. Ho paura che stia morendo". La voce
di Claudio Colombo mi arriva alle orecchie sconosciuta. Non è il
mio collega di Tuttosport, in quel momento. E’ soltanto un’anima
angosciata e sconvolta, anche lui, finita all’inferno dopo essersi
illusa che quella appena varcata fosse la porta del paradiso. Lo
guardo. Il viso che tremola, forse per via dei gas fumogeni oppure
per l’adrenalina che spinge i neuroni del terrore piuttosto che
per tutte e due le cose insieme. E’ inginocchiato accanto ad un
mucchio di stracci colorati. Così, paradossalmente, mi sembra. Abbandono
taccuino e matita senza quasi rendermene conto. Arrivo al suo fianco.
Claudio sta già trafficando freneticamente su quel fagotto. Su e
giù, con le mani serrate, nel tentativo di dare un senso ai due
anni di Medicina poi traditi per il giornalismo. Pigia forte all’altezza
del cuore fino a quando, con un rantolo sfiatato, una voce che arriva
da un pozzo senza fine sibila sottile: "Mamma, papà non voglio morire".
Un cavallo al galoppo ci sfiora con in sella un folle dagli occhi
spiritati che fa ruotare un bastone e bestemmia in fiammingo. Aria
acida che entra in gola mentre le narici inspirano nauseanti puzze
di alcool, sangue e urina. "Dai che sei viva, piccola. Tu prendila
per le gambe. Scappiamo via da qua". La teniamo così, in braccio,
frenando l’impeto dei passi che vorrebbero farsi ali per fare più
presto. Il lamento continua e forse è bene così, pensiamo senza
dircelo. Ma tanto sangue ha inzuppato la camicetta e il golfino.
Troppo sangue. La barella finalmente. Due infermieri ci "strappano"
il fagotto. Sento un pezzo della mia carne rimanere attaccato a
quel corpo di giovane ragazza che ora non si muove. Claudio è già
scomparso per un’altra missione. Rimango lì, inebetito, a osservare
dal basso la mattanza in atto sulla sommità di quello che sembra
essere il Golgota. E’ la Curva Z dello stadio Heysel, a Bruxelles.
Il sole sta calando dalla parte delle tribune dove le persone sono
immobili come soldatini di stagno. E’ il 29 maggio. Giorno in cui
Giuseppina Conti, diciassette anni di Arezzo, non voleva morire.
Come tutti gli altri trentotto subito angeli volati via nel cielo
del Belgio. Improvvisamente il torpore mi scivola via di dosso.
Sono in mezzo al campo da gioco dove il direttore Piero Dardanello
ha spedito me e Claudio non appena in tribuna stampa si è capito
che qualcosa di grave stava accadendo sul lontano fianco sinistro
della curva. L’invasione del terreno è totale. Gli ultras bianconeri
hanno sfondato e tentato di dare l’assalto alle gradinate della
parte opposta dove, tra una birra e l’altra, gli inglesi sono diventati
assassini. Idranti e polizia a cavallo fanno da muro. "Non si giocherà.
Impossibile poterlo fare", penso.
Infilo il sottopasso che porta all’esterno.
Un paio di colleghi sono già lì. Statue di sale sul confine di uno
spiazzo dove, allineati, ci stanno teloni verdi in plastica gonfi
di umanità freddata dalla morte. Non è possibile. E’ tutto
così assurdo. Viene da urlare. Vomito i resti della merenda consumata
prima del lavoro. Già il lavoro ! Raccontare di una partita, di
una Coppa, di attimi felici e magari anche di delusione. E sarebbe
questo, ora, il lavoro ? Dire di trentanove morti ammazzati. "Meno
male che non si gioca. Un dovere per i fratelli e le sorelle partiti.
Un atto dovuto per Giusy, che chiedeva a babbo e mamma di tenerla
per mano e strapparla alla morte". Invece no. Lo sento dalla vice
del giovane uomo che incontro a metà della scala che porta dentro
gli spogliatoi della Juventus. Mi pare di conoscerlo. Non so… Da
qualche parte… Forse… E’ in ginocchio che prega. Permesso, mi scusi.
Il suo sguardo addosso, la sua vice nel cuore. "Lo dica anche lei
al presidente e ai ragazzi. Non possono e non devono scendere in
campo. Una tragedia così grande merita soltanto rispetto e silenzio.
Mio padre se ne è andato. Sarà già in volo verso Torino". Ora lo
riconosco dopo averlo visto tante volte in foto. Edoardo, il figlio
dell’avvocato Gianni Agnelli. Ci incontreremo più avanti nel tempo
e, per quindici anni, sarà uno dei miei più cari amici fino a quando
non deciderà che i sogni, in questo mondo dell’egoismo e dell’interesse
dominanti, sono destinati a rimanere tali. Dirà basta con un volo
a planare. Sarà domani. Intanto sento il rumore dei tacchetti da
gioco che pestano il cemento. Hanno deciso che si gioca. Una Coppa
di latta in palio sul campo accanto al quale da due ore c’è un piccolo
cimitero. In tribuna stampa, dove faccio ritorno perché "the show
must go on", il clima è surreale. Inviati e direttori, specialmente
quelli delle testate sportive, sono letteralmente ibernati in una
zona franca dove l’imbarazzo di dover riferire di calcio si scontra
con il dovere di raccontare bestiale cronaca nera. Bruno Pizzul,
poi, deve muoversi sul filo dell’equilibrista senza rete sotto perché
in Italia la sua voce dovrebbe rassicurare chi ha amici e parenti
all’Heysel almeno fino a quando non ci saranno notizie inconfutabilmente
certe. Quelle che non tardano ad arrivare, agghiaccianti e sconvolgenti,
rendendo la scena di Michel Platini che danza sollevando la Coppa
al cielo un disgustoso rito tribale. La notte fu bianca per tutti
e popolata da trentanove fantasmi. Un aereo pieno di vergogna ci
riportò a Torino. La mattina dopo. Eravamo diversi da quelli che
erano partiti.
Post scriptum: Questa è la cronaca, personale
e dettagliata e fedele, di quella notte all’Heysel. Qualche anno
prima, come inviato per la Gazzetta del Popolo, avevo seguito la
guerra dei "Sei giorni" sul fronte israeliano. Vi assicuro che il
senso della tragedia, della violenza e della morte provato a Bruxelles
è stato infinitamente più intenso di quello sentito sulla pelle
per una vera guerra dove, almeno per noi giornalisti, tutto si risolveva
con una visita a qualche carro armato distrutto e abbandonato nel
deserto. Io non so se la ragazzina che Claudio Colombo ed io portammo
via a braccia fosse davvero Giuseppina Conti. Ancora oggi mi auguro
sia stata un’altra, poi sopravvissuta. Una cosa è certa. Da quella
notte il calcio non è mai stato più lo stesso. Neppure per Platini
che ha chiesto scusa per essere caduto in trance e per Paolo Rossi
il quale ha scritto di provare vergogna ancora adesso per aver giocato.
In quanto al mio amico Edoardo avrei preferito conoscerlo in un’altra
occasione, ma forse proprio la condivisione di quell’inferno in
terra ha provveduto a cementare fin da subito un rapporto speciale
ed eterno.
13 novembre 2015
Fonte: Calciomercato.com
A-Z |
STEFANO BIANCHI
Testimonianza di Stefano Bianchi
Sono
uno di quelli "privilegiati" per capire cos’è stato l’Heysel e cosa
significa. C’ero. Tornai a casa, solo perché il mio Club ebbe assegnati
i biglietti in un settore lontano. A trent’anni da quell’evento
disumano, ancora mi commuovo al ricordo dei corpi senza vita, celati
nei loro lineamenti contraffatti dalla morte, da quelle bandiere
che avrebbero dovuto sventolare in segno di gioia. Ero con lo Juventus
Club di Capannori (Lucca): i dirigenti avevano biglietti di tribuna,
non so se coperta o scoperta, mai ho avuto voglia di appurarlo,
mentre noi "normali" eravamo in curva con biglietti serie "MNO",
con la "M" originariamente cancellata a pennarello nero. Il settore
era quasi simmetrico rispetto al settore Z, abbastanza spostato
verso la gradinata. Eravamo una diecina, e pochi gradini sotto a
noi c’era un mini striscione sostenuto da due paletti con scritto
"mamma siamo qui". So che esiste un filmato anche della nostra curva,
ma mi sono sempre rifiutato di vedere qualsiasi cosa che non abbia
potuto vedere già quella notte. Verso la fine della partita, sono
scesi verso di noi dei ragazzi, tutti insanguinati che ci hanno
detto che "di là era successo qualcosa di grosso, che forse c'erano
dei morti". Certo che avevamo visto il fuggi fuggi in curva Z a
seguire un lancio di oggetti, ma non avevamo né visto, né immaginato
assolutamente accoltellamenti o la gente che cadeva dalle tribune
e veniva schiacciata da chi cadeva giù dopo di loro. Notizie "sicure
di due o tre morti" le abbiamo apprese da altri che si sono aggiunti
a noi quando ci eravamo incamminati per raggiungere i nostri pullman.
Per arrivare al parcheggio abbiamo dovuto attraversare quello destinato
ai tifosi inglesi: ci siamo messi a testuggine, con le ragazze nel
mezzo, tutti a braccetto stretti stretti, ma gli inglesi, forse
più informati di noi e comunque in numero esageratamente maggiore,
non ci hanno degnati di uno sguardo. Notizie ancora più terribili
le abbiamo ricevute dal guidatore del pullman che ci ha infine riportato
in Belgio, ove avevamo l’albergo. Sono infine riuscito a telefonare
a casa dopo le cinque di mattina e mia madre e mia moglie mi hanno
infine informato che i morti erano più di venti. Davanti al dolore
di chi ha perso i propri padri, figli o nipoti, alla paura di chi
i propri cari non sapeva se fossero vivi o meno, forse non varrebbe
la pena di raccontare del nostro piccolo dolore di sopravvissuti,
colpevoli di una gioia comunque misurata in quanto certamente macchiata
ai nostri occhi da un qualcosa di brutto che "doveva essere avvenuto",
ma che mai e poi mai avremmo potuto quantificare di quella spaventosa
entità. Era tanto che non scrivevo così diffusamente di Heysel,
scusa eventuali errori o ripetizioni, ma contrariamente alle mie
abitudini ed alla buona educazione non ho voglia di rileggere quello
che ho scritto. Mi fa sempre male.
13 ottobre 2015
Fonte: Giulemanidallajuve.com
A-Z |
29 maggio 1985: io c'ero
Niente stadio, per me, per tre anni. L’amore per la Juve era
invariato, ma allo stadio non avevo più messo piede, finché… Complici
un noiosissimo congresso in Riviera di Levante e Sampdoria-Juve
prevista l’indomani, uscii dalla sala conferenze alla ricerca di
un biglietto per lo stadio, con un sorriso a trentadue denti inspiegabile
per i disattenti congressisti. Dopo tre anni di black-out, improvvisamente
e senza motivo apparente, il craving da Juve si era improvvisamente
risvegliato in me. Quei tre anni senza stadio erano figli di quanto
avvenuto all’Heysel, quel posto maledetto che aveva visto morire
trentanove fratelli. Se al parlarne, ancora oggi sono preso da un
groppo alla gola, avevo finalmente superato il disgusto che provavo
al solo pensare di entrare in uno stadio. Quell’autoesilio non significava
soltanto tre campionati della mia amata Juventus, ma tre anni di
vigilie, trasferte e mangiate con gli amici, d’attesa del fischio
d’inizio parlando anche con gente mai vista prima, di ogni fede
calcistica, ma sempre nel rispetto reciproco. Di gioia e casino
durante la gara e nel lungo ritorno a casa, nel caso delle frequenti
vittorie, ovvero di disamina degli errori e delle mancate contromosse
in caso di sconfitta. Per inciso, Il mio ritorno allo stadio coincise
con una gara mediocre, col pareggio acciuffato in extremis dal povero
Scirea: ma uscii da Marassi sereno, felice ed anche un po’ più libero.
A noi dello Juventus Club andò bene: all’Heysel eravamo nel settore
"N-O", esattamente all’opposto della "Curva Z", il famigerato luogo
dell’aggressione. Un massacro di cui peraltro non capimmo immediatamente
l’entità, informati confusamente e solo a fine gara da alcuni bianconeri,
insanguinati e malconci, che ci raggiunsero mentre tornavamo verso
i pullman. La reticenza nelle informazioni ufficiali e quel "giochiamo
per voi", se evitarono fatti di sangue possibilmente ancor più gravi,
facendoci valutare come "normali" disordini pre-partita quel fuggi-fuggi
nella curva opposta, ci permise anche di gioire al vedere quella
tanto desiderata coppa sollevata al cielo dai nostri eroi. Non sapevamo
ancora che gli eroi veri erano altri, per cui, oltre al lutto per
la perdita di questi fratelli, abbiamo anche dovuto farci carico
del rimorso per esserci divertiti e infine aver gioito per la conquista
di quella tanto agognata coppa. Quel simulacro tanto inseguito che
perdeva di significato ai nostri occhi man mano che l’informazione
si faceva più completa, infine con le telefonate che all’alba riuscimmo
a fare a casa. Negli anni a seguire, pensavo che l’enormità di quel
misfatto, la morte di tanti innocenti, il dolore dei loro familiari,
l’ansia dei nostri cari, ignari per ore della nostra sorte e, perché
no, la nostra piccolissima sofferenza di sopravvissuti,
potesse
essere un freno all’attività di nuovi killers da stadio. Invece
il ricordo dell’Heysel, ma anche di Paparelli, Spagnolo ed Esposito,
non impediscono a imbecilli armati, figli del disagio e dell’ignoranza,
ma sempre imbecilli, di continuare a sporcare di violenza le
domeniche
di chi vorrebbe, almeno per novanta minuti, dimenticare difficoltà
economiche, guerre strumentalizzate per svecchiare arsenali militari,
genocidi, carestie e migrazioni di profughi e miserabili alla ricerca
di pace e pane. Ovvio come il calcio sia espressione della società
che lo genera e che in esso si riversino le
contraddizioni
di quella società: come per gli hooligans dei Reds, la spinta assassina
proviene dalla deriva sociale, che se non sfocia in attività politica,
porta gli emarginati a trovare, nell’unione in bande, quell’identità
e quella visibilità che da soli non avrebbero. E' vero: costoro
sono i figliastri della pessima situazione economica, di una scuola
che allontana invece di accogliere, della quasi assoluta mancanza
di centri sociali e di aggregazione, in una società che propaganda
i valori deteriori e in cui è normale pretendere senza dare ed i
cui rappresentanti politici sono più fonte di vergogna che di esempio.
Chi fa informazione e dovrebbe educare, spesso invece si rivela
un fomentatore d’odio (e meno quotato è come giornalista, più si
adopera per seminare disinformazione e discordia). Non sono da meno
alcuni dirigenti del movimento che mostrano sportività ed equità
di giudizio pari a zero. I casi più recenti sono quelli di Ormezzano,
di cui assai si è scritto su GLMDJ, e di De Laurentiis, che per
una svista arbitrale (il gol in offside del Dnipro) chiede addirittura
le dimissioni di Platini, facendo finta di non ricordare come la
qualificazione col Wolfsburg sia iniziata con una rete doppiamente
irregolare di Higuain. La loro parte la fanno anche i giocatori,
che spesso inscenano pantomime assurde per minimi colpetti ricevuti,
a simulare doppie fratture di tibia e perone, tranne poi correre
come gazzelle pochi secondi dopo. O quando apostrofano prolungatamente
l’arbitro dall’alto dei palloni d’oro vinti (penso a Cristiano Ronaldo
con Atkins in Juve-Real): un bel "rosso" in entrambi i casi sarebbe
come gettare olio sul mare in tempesta. Il cartellino rosso, il
bavaglio ai dirigenti sconsiderati e il codice di autodisciplina
per giornalisti sono comunque pannicelli caldi, se la società non
riforma se stessa ridandosi valori condivisi, togliendo un po’ a
chi ha troppo, compresi certi titolari di pensioni e con un occhio
particolare per i giovani, cui dare istruzione, lavoro, prospettive
e possibilità di farsi una famiglia. Altrimenti ben venga la violenza
negli stadi, bene o male controllabile, sublimazione di un disagio
sociale che qualsiasi sistema politico preferisce confinato in questo
luogo, a darsele di santa ragione per un gol o un fuorigioco, che
non nelle piazze a chiedere lavoro e diritto di cittadinanza. Spero
che chi ne abbia titolo e possibilità faccia quello che deve per
risolvere alla radice i problemi sociali, genesi principale dell’insensata
violenza che avvelena il calcio. Prima che ciò avvenga, o contemporaneamente
a questo non facile processo, spero che tutti gli altri attori evitino
di fare ciò che hanno fatto finora per ingigantire il problema.
Il risultato sarebbe eccezionale. Altrimenti, significa che i Paparelli,
gli Spagnolo, gli Esposito e i Trentanove dell’Heysel non hanno
insegnato proprio niente. 29 maggio 2015
Fonte: Giulemanidallajuve.com
A-Z |
ROBERTO BIOLCHINI
Quel giorno all’Heysel io c’ero
Sono passati trent’anni, ma quella ferita
la porto ancora nel cuore. Il 29 maggio 1985 non doveva andare così
com’è andata.
Il
29 maggio del 1985 si giocava la finale di Coppa dei Campioni a
Bruxelles. Lo stadio Heysel era una struttura fatiscente, inadatta
ad ospitare un evento del genere. Inadeguate e colpevoli furono
anche le autorità della città e le forze dell’ordine: impreparate
a gestire la situazione. Doveva essere una festa e invece fu una
tragedia. Si giocavano la finale tra Juventus e Liverpool, le due
squadre più forti d’Europa in quel momento. Nel pomeriggio io e
altri compagni di viaggio avevamo anche giocato una partitella con
alcuni tifosi inglesi. Nulla lasciava presagire quello che sarebbe
successo poche ore più tardi. Prima della partita, nella curva Z,
dove mi trovavo insieme ad altri tifosi della Juventus (per lo più
famiglie, nessun ultrà), si scatenò la violenza degli inglesi, ubriachi
fradici, sistemati nei settori X e Y. Tutto iniziò con il lancio
di sassi/cemento, ricavati dallo sgretolamento dei gradoni dello
stadio e poi di lattine riempite con quel materiale. Avvenne anche
il lancio di due razzi sparati ad altezza d’uomo. Venne divelta
la rete da pollaio, che pretendeva di dividere le due tifoserie,
e gli hooligans del Liverpool caricarono a più ondate. I tifosi
bianconeri arretrarono spaventati e la calca asfissiante iniziò
a fare le prime vittime fra coloro che, caduti a terra, vennero
schiacciati o non riuscirono a riemergere. La pressione della folla
sul parapetto laterale della maledetta curva Z fece crollare il
muretto, causando ulteriori vittime, ma aprendo anche una via di
fuga. In pochi minuti, durante i quali le forze dell’ordine belga
assistettero sostanzialmente inermi, morirono 39 persone (di cui
36 (32 NDR) italiani, il più vecchio di 58 anni e il più giovane
di 11 anni) e rimasero ferite più di 600 persone. Io e una ragazza
con cui viaggiavo fummo tra gli ultimi a uscire dalla curva Z passando
per un cancello che dava sulla pista di atletica, aperto da un poliziotto
dopo molte insistenze, per recarci al pronto soccorso dello stadio.
La mia amica se la cavò con un graffio al braccio e considerata
l’attesa e la banalità della ferita, quando al pronto soccorso iniziarono
ad arrivare diverse barelle con feriti gravi, uscimmo all’aperto
e ci trovammo di fronte ad una scena apocalittica. Polvere, gente
che urlava e chiedeva aiuto, persone sedute sulla pista di atletica
con la testa fra le mani, persone che praticavano il massaggio cardiaco,
altri che si abbracciavano, altri che tentavano di tirare per le
braccia chi era rimasto bloccato sotto altri corpi. Era l’inferno.
Se anche io e la mia amica fossimo rimasti attaccati alla rete che
delimitava l’accesso alla pista e al campo, saremmo stati tra coloro
che furono schiacciati al momento del crollo del muro. Il pensiero
andò a casa, ai miei genitori, a mia sorella e mio cognato. Nel
1985 non c’erano i cellulari. Non potevo rassicurarli, dire che
stavo bene. Fu terribile. Fortunatamente, nonostante l’indisponibilità
iniziale sia dei dirigenti juventini che di quelli del Liverpool,
per ragioni di ordine pubblico e permettere alla polizia belga di
organizzare i soccorsi dei feriti e il deflusso in sicurezza dei
tifosi, la partita si giocò lo stesso. Se non si fosse giocata,
sicuramente le conseguenze sarebbero state peggiori. I tifosi della
Juventus, che erano la maggioranza all’interno dello stadio, avrebbero
voluto vendicare i morti. L’intervento di alcuni giocatori della
Juventus che dialogarono con gli ultrà bianconeri evitò quella reazione.
La Juventus vinse 1-0, ma nessuno poté godere fino in fondo di quella
vittoria. Finita la partita raggiungemmo il bus che ci riportò a
casa. Agli autogrill le code per telefonare erano immense. Solo
il giorno dopo, all’arrivo a Milano, i miei seppero finalmente che
ero vivo e tirarono un sospiro di sollievo. Quella strage non fu
la peggiore della storia del calcio. Ebbe però il massimo risalto
dei media perché si trattava della finale della Coppa dei Campioni.
Purtroppo fu una strage inutile che non servì ad evitare che la
bestialità degli uomini riemergesse ancora altre volte. L’amarezza
lascia il posto a un lumicino di speranza ripensando alla commemorazione
svoltasi allo Juventus Stadium domenica scorsa quando al minuto
39 di Juventus-Napoli i tifosi della Juve hanno sventolato uno striscione
di ricordo per le vittime dell’Heysel. Chissà se prima o poi gli
uomini impareranno dai propri errori.
29 maggio 2015
Fonte: Robertobiolchini.it
A-Z |
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CAMILLA BONELLI
Il 29 maggio 1985 la tragedia dell'Heysel: il
racconto di Camilla Bonelli
Sono passati 35 anni, 35
lunghi anni.
Avevo
appena dato il primo esame all’Università. Partimmo per la
finale, per quella Coppa che ancora ci mancava. Ci bruciava
ancora la sconfitta di Atene, quel goal, che delusione.
Nonostante Atene, i 40.000 italiani, la mia prima volta in
aereo. Partimmo in autobus, dovevamo cominciare a soffrire
presto, anche questa volta. Ne valeva la pena. Avevamo già
battuto il Liverpool in una fredda, bianca notte di gennaio.
Potevamo farcela, almeno così speravamo. Quando ti metti in
viaggio per una partita, per divertirti non pensi mai,
neanche di fronte all’evidenza che possa andare
diversamente, che possa succedere qualcosa di diverso. Lo
stadio era fatiscente, bastava un calcio del mio sandalo
misura 36 per sbriciolare un gradone. Quei cavalli poi cosa
ci stavano a fare in mezzo a migliaia di spettatori. Ma
giocava la Juve, andava bene lo stesso. Gli inglesi avevano
bevuto, erano ubriachi, ma state tranquilli non succede
niente, deve giocare la Juve. E poi due anni fa ad Atene non
potevamo neanche alzarci in piedi allo stadio che dei
solerti gendarmi ci invitavano subito a sederci. Abbiamo
viaggiato ininterrottamente per due giorni, arriviamo a
Bruxelles nel pomeriggio. Che ci interessa del centro,
andiamo subito allo stadio, gioca la Juve… Il mio vicino
allo stadio mi chiede se ho fame, mi offre un panino, estrae
dalla sua borsa il pane, un salame e comincia ad affettarlo
con un grande coltello. Ma come allo stadio con un coltello,
sì ma ho fame, mangiamoci questo panino, aspettando la Juve…
La partita non comincia, dall’altra parte c’è confusione,
gli inglesi sembrano invadere la zona degli italiani,
qualcuno scappa, arriva un signore e piange. Ma che succede
? Niente, andiamo deve giocare la Juve… E dopo la partita,
il rigore, il giro del campo. Usciamo, speriamo che gli
Inglesi siano ancora dentro. Un Inglese piange e ci dice
"Sorry", ma che fa, ha bevuto, si scusa, ma di cosa ?
Saliamo sul nostro autobus e dalla radio veniamo a sapere
che la Juve ha vinto la Coppa, quella Coppa stregata, ma ci
sono oltre 30 morti dentro lo stadio, però… Non avevamo
voluto crederci, doveva giocare la Juve, per quella Coppa.
Invece era vero. C’era stata una strage. Conservo ancora il
biglietto della partita, zona N, siamo stati fortunati.
Conservo ancora quel brandello di maglia di Tardelli, la sua
ultima partita in bianconero. Ha ragione lui, che vergogna
festeggiare, che vergogna il giro del campo, che vergogna
lanciare la maglia. Ma c’era la Juve, c’era la Coppa chi
poteva immaginare… Solo durante la notte riuscimmo a
comunicare con le nostre famiglie e far sapere loro che noi
stavamo tutti bene, noi, solo noi, però. Sono tornata a
Bruxelles, ci sono tornata qualche anno fa. Per lavoro, con
una classe di giovani elbani. Abbiamo incontrato dirigenti
dell’Unione Europea, abbiamo parlato di sviluppo e
finanziamenti, ma ho voluto portarli anche all’Heysel,
volevo che capissero. Peccato che non c’è più. C’è il
"Baldovino". Una piccola targa ricorda il 29 maggio del
1985. La solerte Addetta al Marketing, dopo aver sentito la
mia storia, ci fa entrare, ci fa calpestare l’erbetta. Mi
regala un libro sulla storia dello stadio. Una paginetta
sola per quel 29 maggio. Vergogna, civile Belgio, vergogna.
Dopo trentacinque tra qualche giorno, forse ricomincia il
campionato, in un anno incredibile che ha visto cambiare le
sorti del mondo, un passo verso una normalità che però da
quel giorno per molte famiglie non c’è più stata. Ho
continuato a seguire la Juve, ovunque, con il mio babbo ed
oggi con mamma ed i miei cuginetti, ai quali trasmetto la
passione per la Juve ed il rispetto per l’avversario, come
per il prossimo. Per quelli che erano lì con noi ed oggi non
ci sono più, per continuare a sperare che una partita di
pallone rimanga sempre una partita di pallone, anche se è
una finale, anche quando gioca la Juve e tu sei un
avversario. Camilla
Bonelli (Juventus Club Isola d’Elba)
30 maggio 2020
Fonte: Tenews.it
A-Z |
GIOVANNI
BULGARELLA
Racconto Heysel
...Entriamo
dalla porticina dopo essere stati accuratamente perquisiti... Tra
noi gente comune non tifosi organizzati... Entro e vedo i nostri
seduti sul lato opposto allo spicchio dei tifosi inglesi... Mi siedo
nello spazio libero alcuni secondi e capisco il perché, piovono
sassi dal settore inglese e due - tre di noi si stanno fasciando
le ferite sulla testa alcuni metri alla mia destra... Alcuni dei
nostri rispondono ai lanci di pietre, andavano sicuramente a segno
dato che nello spicchio dei tifosi avversari non ci sono spazi liberi...
Giungono sotto la curva il portiere del Liverpool con altri due
giocatori in borghese... Invitano il loro pubblico ad invadere il
settore libero separato da una rete ridicola... La polizia accompagna
uno alla volta 2-3 ultras fermati in scontri precedenti e quindi
identificati nello spicchio degli inglesi... Passando davanti a
noi ci sberleffano... Molti inglesi passano dal buco in alto e si
accomodano in curva... Tutto bene... Pochi secondi e senza apparente
motivo si volatilizzano tornano nel loro spicchio... Ecco la ragione:
alcuni ultras, circa una decina non di più, stanno attaccando a
ventaglio, in mano pietre, lattine e bottiglie, attaccano a ondate
avanti e indietro non dando il tempo di organizzare una reazione...
Il pubblico inglese ad ogni ondata incita l'attacco... Un ragazzo
con la maglia bianconera da solo li attacca... Subito a terra sta
per soccombere... Io attacco il gruppo che subito si ritira, il
ragazzo si rialza e corre fra i nostri... Il capo e l'altro una
volta ritirati riattaccano puntando direttamente su di me... Qualcuno
cerca invano di organizzare una reazione... Appena vedo che sono
il loro obiettivo riesco a raggiungere un paio dei nostri che cercano
di sfondare la porticina dietro la porta. Insieme riusciamo a sfondare
nonostante la polizia con i manganelli... Aiuto alcuni ad entrare
dalla porticina ma ormai le ondate degli inglesi hanno oltrepassato
sia la porticina di ingresso sia quello della porta, per gli altri
niente da fare sono spacciati... Si ammassano a sinistra guardandoli
dal campo fino al cedimento del muro... In campo alcuni di noi cercano
di raggiungere la tribuna respinti da alcuni che minacciano di lanciare
delle poltroncine... Uno juventino insegue un altro vestito bianconero
con sciarpa bianconera gridando è un inglese... Questo corre serpeggiando
fra noi e la polizia a cavallo sbeffeggiando tutti... Una ragazza
piange seduta al fianco del padre urlando che ha un malore colpito
da infarto... Prendo non so come una barella e insieme ad un altro
operatore lo accompagno fuori... Una volta assicuratomi che l'ambulanza
li porti via cerco di rientrare... Vietato: siamo fuori... C'era
il mondo: esercito, polizia, tutto circondato... Minà passa
vicino ci dice alcune parole di conforto, non possono giocarla ora
lo fanno solo per far defluire i tifosi... A terra circa 20 corpi
dei nostri compagni allineati coperti con delle coperte... Mi avvicino
e li scopro ad uno ad uno cercando di vedere se tra loro c'è qualche
amico: nessuno, solo uno sembra un conoscente... A pochi metri due
gendarmi se la ridono godendosi la scena... Sento una voce: "sono
38 dall'Italia", dicono 38... Tutto bloccato, non mi rimane che
farmela a piedi sin fuori l'accerchiamento. Prendo un taxi, torno
in albergo... Tutti mi accolgono sostenendomi. Sono venuti via dalla
partita... Sono alla tv, giocano... Alcuni inglesi vengono incontro
scusandosi... Uno piange... Non guardo la partita... Rigore... Mi
giro: 2 metri fuori dall'area... Mi rigiro i nostri
che girano intorno al campo con la coppa alzata... Che schifo...
Torniamo a casa in pullman, 2-3 con la testa fasciata... Due posti
vuoti... Per fortuna rimasti solo per cure...
12 gennaio 2015
Fonte: Facebook (Pagina Comitato Heysel)
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