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Reduci Heysel B
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Testimonianze Reduci Heysel (B)
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"Avevamo i biglietti di quel settore ma non entrammo"

di Simone Pesce

Il ricordo dei bergamaschi: "Gli ingressi erano porticine di un metro e mezzo: una trappola. Andammo in tribuna". "lo invece ero lì, a venti metri dal muro crollato".

"Nessuno capiva, nessuno ci aiutava. Fu un attimo". Settore Z, l'apocalisse. Giovanni l'ha evitato grazie a Umberto e non ha mai smesso di pensarci. Ubaldo ci si è trovato in mezzo ed è scappato, rotolando in salvo sul prato dello stadio. Heysel, 29 maggio '85. Giovanni Petenzi e Umberto Bettoni di Costa Volpino e Ubaldo Donghi di Brembate Sopra sono tra quelli tornati dall'inferno. Li unisce la notte di Juventus-Liverpool, loro tra i 400 bergarnaschi a Bruxelles per la finale di Coppa Campioni. Li divide un biglietto del settore Z, il cimitero della ragione. "C'è rimasto solo quello, ci avevano detto in agenzia. Andammo". Giovanni Petenzi oggi ha 73 anni e un certo curriculum di finali juventine. Atene '83, l’incubo Magath; Roma'96, la coppa alzata da Vialli. Ma è quel primo pomeriggio a Bruxelles, quel girovagare inquieto di fronte allo stadio, a cambiare la sua storia. "Siamo partiti in cinque da Costa Volpino, ma Umberto non voleva entrare in quel settore. Non mi piace, ripeteva, non mi piace". Perché, Umberto se lo ricorda benissimo. "Avevamo visto gli ingressi e le uscite del settore Z: due porticine larghe un metro e mezzo, come quelle degli orti, e dietro la curva il parcheggio coi pullman dei tifosi inglesi. Siamo pazzi a entrare qui, dicevo io, è una trappola. Quasi litigammo". E Umberto li convince. Parte la ricerca del bagarino. "Lo troviamo quasi subito  ricorda Giovanni. Ha cinque biglietti di tribuna, a 140 mila lire. Presi. Fossero stati 4, ora forse qualcuno di noi mancherebbe all'appello". Restano i biglietti del settore Z da smerciare. "Torniamo allo stadio e vediamo un gruppo di tifosi inglesi. Tiriamo fuori i biglietti e li offriamo, ma questi ci saltano addosso, ci strappano i biglietti, le tasche dei pantaloni. Sono fuori di senno, la polizia guarda e non fa nulla. Allora scappiamo in tribuna. La partita l’abbiamo vista lì". Fino alla fine. "Avevamo visto la gente sul prato, ma non si capiva cosa fosse successo. Girano voci impazzite: morti, a decine". Uno a zero, rigore di Platini, finita. Per strada Giovanni dice che finalmente la Juve se l'è portata a casa, 'sta coppa. "Un vecchietto sul marciapiede sente e dice: sì, ma io ho perso due amici. E scoppia a piangere. Allora abbiamo capito che era tutto vero. Da lì in poi l'inferno". Via in pullman, di notte, all'aeroporto di Anversa. "Il volo è alle 4, arriviamo alle due. Due ore che non riesco a dimenticare. C'è gente con la testa fasciata, piena di sangue. Uno dice di aver perso gli amici, urla, piange". Allo stadio i telefoni a gettoni sono rotti, all'aeroporto Umberto che parla francese spalanca la porta dell'ufficio della polizia e ottiene di poter chiamare in Italia, a pagamento. Giovanni e gli altri si precipitano. "A casa sono tutti svegli. Per mia moglie sono nel settore Z, non sapeva che lì non ci sono mai entrato. Dell'Heysel non ho conservato nulla. Avevo comprato una bandierina l'ho buttata". "Ero a 20 metri dal crollo" Ubaldo Donghi il biglietto l'ha ancora in casa, incorniciato. "Numero 14.621, costo 300 franchi, settore corretto a biro. Sono juventino dalla culla, ho giocato, ho fatto l'allenatore. Nell'85 avevo 31 anni, era la mia prima finale". Partono in tre da Orio. "Avevamo chiesto i biglietti del settore italiano, ma all'ultimo l’agenzia ci aveva detto che erano rimasti solo quelli del settore Z. L'aria era brutta. C'erano inglesi dappertutto, ubriachi marci, lo stadio era uno schifo. Quando scoppiò il finimondo io ero lì, a 20 metri da dove crollò il muro". Un boato, poi il blackout. La vita sospesa, come in una bolla. "La polizia non ci faceva uscire. Ho visto lanciare e prendere al volo, non so come, una bambina oltre la recinzione per evitare che venisse travolta. Riuscimmo a raggiungere un cancello e mi ritrovai in campo, tra gente distesa per terra. Vivi, morti, non si capiva niente. Scappai per strada, andai sul pullman e non vidi la partita. Non la vidi mai. Trovai una cabina, telefonai a casa, era la sola cosa che m'importava. Non ho più visto quegli amici, non sono mai tornato a Bruxelles. Non tornerò più". "Nessuno fece nulla". Nemmeno Umberto. Basta quel numero: 39. "I morti dell'Heysel li hanno sulla coscienza la polizia belga e l'Uefa. Sarebbe bastato poco per evitare la tragedia, davvero poco. Ma nessuno fece nulla".

29 maggio 2015

Fonte: L’Eco di Bergamo

A-Z

2 BITONTINI

L’incubo dell’Heysel: viaggio all’inferno e ritorno

di Vincenzo Murgolo

Dino e Raffaele, entrambi bitontini, erano allo stadio di Bruxelles il 29 maggio 1985

Sono nati e vivono a Bitonto. Tifano per la Juventus sin da bambini. Ad unire le vite di Dino e Raffaele c’è soprattutto una data: 29 maggio 1985. Entrambi erano allo stadio Heysel di Bruxelles per assistere alla finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Un evento macchiato dagli incidenti avvenuti nella curva Z e costati la vita a 39 persone (32 italiani, 4 belgi, due francesi e un britannico), tra cui un bimbo di 10 anni e una ragazza di 17. "Sono partito con sei amici da Brindisi", racconta Dino, titolare di una lavanderia e all’epoca 29enne. "Io e mia moglie Tina - ricorda invece Raffaele, insegnante in pensione che quel giorno di anni ne aveva 34 - ci siamo sposati il 18 maggio e abbiamo prenotato i biglietti quando la Juventus si è qualificata per la semifinale. Siamo partiti il 19 per il viaggio di nozze, poi il 27 siamo arrivati a Bergamo. Insieme ad amici conosciuti quando ho insegnato lì, siamo partiti in pullman e siamo arrivati a Bruxelles il 28 sera". L’avvicinamento allo stadio, situato in un quartiere periferico di Bruxelles, è tranquillo. Gli hooligans, la parte più estrema del tifo inglese, in quegli anni sono un pericolo. Ma né Dino né Raffaele, né tantomeno le persone che sono con loro, notano nulla che faccia presagire problemi di ordine pubblico. "Siamo partiti dall’albergo la mattina - racconta Raffaele - e abbiamo girato per Bruxelles in un clima allegro. Abbiamo incontrato un gruppo di inglesi con i quali ci siamo fatti una foto. A uno di loro ho regalato la mia sciarpa e il mio cappello della Juventus e lui ha fatto lo stesso". Nel frattempo Dino e i suoi amici sono atterrati a Bruxelles e si dirigono verso lo stadio. "Nel parco circostante l’Heysel non c’erano soltanto gli hooligans, ma anche tanti tifosi desiderosi di sostenere il Liverpool. Uno di loro mi ha regalato una maglietta della squadra, mentre io gli ho dato una sciarpa e un gagliardetto della Juventus". Poi arriva il momento di prendere posto nello stadio. Dino e i suoi amici si dirigono nella curva Z, adiacente al settore riservato al tifo organizzato inglese, mentre Raffaele e Tina hanno il posto riservato nella curva opposta, riservata alla tifoseria organizzata juventina. Restano però colpiti dall’inadeguatezza dell’impianto belga ad ospitare un evento della portata di una finale di Coppa dei Campioni. "Per arrivare al nostro posto - spiega Dino - abbiamo percorso una scala e siamo entrati nella curva attraverso una porta in legno marcio". "Siamo saliti - racconta Raffaele - lungo un terrapieno in sabbia e poi si è creata una coda disordinata che è durata oltre due ore". Alle 17 scendono in campo dei ragazzini per giocare una partitella di circa mezz’ora. Poi i primi tafferugli. "Alcuni inglesi - ricorda Dino - hanno portato via degli striscioni presenti nel nostro settore. Poi hanno iniziato a lanciare bottiglie di vetro e mattoni, così tanti hanno iniziato a spostarsi verso la parte più esterna della curva. Ad un certo punto un signore seduto vicino a me è stato colpito alla testa da un mattone e insieme ad un ragazzo di Brindisi, morto nei successivi incidenti, lo abbiamo trasportato sul campo. Io poi sono tornato al mio posto, ma non ho trovato nessuno. A quel punto sono tornato giù e sono corso verso la tribuna. Questa è stata, a conti fatti, la mia salvezza". Dalla tribuna Dino non riesce a vedere la tragedia che si consuma poco dopo, quando il muro sul quale si sono accalcati i tifosi seduti nella curva Z per scappare dalle cariche degli inglesi crolla per l’eccessiva pressione provocando numerose morti per schiacciamento e asfissia. "Vedevo da lontano gli scontri - aggiunge - ma non ne capivo la portata. Poi è arrivata la gendarmeria belga a cavallo e ho saputo che c’erano stati dei morti. Ma quello che è davvero accaduto l’ho saputo solo dopo il rientro in Italia". Intanto dall’altra parte tutti, compresi Raffaele e Tina, attendono l’inizio della partita: "Vista la struttura dello stadio, per noi era impossibile capire quanto stava accadendo nella curva Z. Noi semplicemente eravamo colpiti dal ritardo e lo attribuivamo ad alcune scaramucce tra i gruppi organizzati e la polizia belga". Alla fine la partita si gioca per motivi di ordine pubblico e per evitare che, una volta usciti dallo stadio, inglesi e italiani diano luogo ad altri scontri. Il primo tempo termina 0-0, ma poco dopo il duplice fischio dell’arbitro Daïna nella curva juventina accade qualcosa. "Durante l’intervallo - racconta ancora Raffaele - è arrivato sotto la nostra curva un signore di Pisa. Aveva la giacca strappata. Ci ha detto che si trovava nella curva Z dalla quale era scappato per via dei tafferugli creati dai tifosi inglesi. Durante il suo racconto io e Tina siamo stati presi da un solo pensiero: far sapere ai nostri familiari che stavamo bene. Nel frattempo era iniziato il secondo tempo, ma a quel punto non ci importava più nulla della partita. Siamo usciti dallo stadio e abbiamo raggiunto una cabina telefonica dalla quale, insieme ad altre persone, abbiamo chiamato casa. Ricordo soprattutto la grande solidarietà tra i presenti. Non solo si facevano telefonate brevi, ma si mettevano in comune i gettoni telefonici per dar modo a tutti di rassicurare amici e familiari". Intanto la Juventus vince partita e coppa grazie ad un calcio di rigore realizzato da Platini. Dino, rimasto in tribuna, assiste agli eventi combattuto tra la felicità per la vittoria della squadra del cuore e lo sconcerto per quanto accaduto poche ore prima. "Non si può morire allo stadio - racconta, con l’emozione che quasi gli spezza la voce - Mi rendo conto che giocare la partita ha consentito di evitare scontri ancora peggiori, ma nel mio cuore di tifoso è una vittoria amara". Anche per Raffaele si tratta ancora oggi di una gioia a metà: "È stato comunque necessario giocare. Questo ha consentito di organizzare un deflusso che poi è stato ordinato e tranquillo. Sulla premiazione c’è poco da dire perché in fin dei conti si è trattato di un rito. Forse avrei evitato la discesa festosa dall’aereo". Alla fine le inchieste giudiziarie portano sul banco degli imputati l’Uefa e le autorità belghe, ma per Dino e Raffaele le responsabilità di quanto accaduto sono chiare fin dal primo momento. "L’Uefa - dice Raffaele - sapeva che lo stadio Heysel era vecchio e inadeguato per un evento simile, ma ha deciso ugualmente di far giocare lì la partita. La polizia belga, invece, ha avuto la colpa gravissima di non creare un cordone di sicurezza tra la curva Z e il settore che ospitava i tifosi inglesi". La strage dell’Heysel provoca la squalifica delle squadre inglesi dalle competizioni internazionali per le successive cinque stagioni. Nel 1989, all’indomani di un’altra strage avvenuta nello stadio inglese di Hillsborough, il governo di Margaret Thatcher vara il Football Spectators Act con cui verrà dato un giro di vite al fenomeno hooligans. In Italia, invece, ancora oggi le cronache parlano di episodi di violenza legati al calcio. Ma anche su questo punto Dino e Raffaele hanno le idee molto chiare. "In Italia - afferma Raffaele - non si fa prevenzione. C’è un permessivismo di fondo che impedisce che si mettano a punto misure serie". Sulla stessa lunghezza d’onda Dino, che aggiunge: "Nel nostro Paese spesso nelle tifoserie si nascondono veri e propri delinquenti. Servono regole certe e ferree come in Inghilterra". Eppure, a 32 anni di distanza, il loro amore per il calcio non si è spento. "Ho giocato a livello agonistico per tanti anni - dice commosso Dino - Poi ho fatto l’allenatore. Quello per il calcio è un amore che non passerà. Mai". "Il tifo - chiosa Raffaele - rientra nella sfera dell’emotività e non ha nulla a che vedere la razionalità". Già, la razionalità. La grande assente di quella sciagurata notte. Doveva essere una festa di sport. Si è invece trasformata in una barbarie che si poteva e si doveva evitare.

Marzo 2017

Fonte: Mediaterraneonews (Quindicinale del Master in Giornalismo Bari 2014-2016)

A-Z


LUCIANO BARELLI

"Ero all’Heysel 20 anni fa. Mi sono salvato lanciandomi dagli spalti"

Venti anni dopo, negli occhi e nel cuore rimane l'ombra della morte. "Una partita maledetta, una vittoria da cancellare". Luciano Barelli, comasco di Blevio, oggi 56enne, il 29 maggio 1985 era a Bruxelles. Insieme con tre amici, aveva deciso di fare una settimana di vacanza nel Nord Europa. E di approfittare del viaggio per assistere alla finale di Coppa dei Campioni. Pur non essendo un tifoso bianconero. "Sono un milanista - dice - Davvero bizzarro, ho rischiato la vita senza neanche capire il perché e per una squadra che non era nemmeno la mia". In realtà, Barelli quella partita non la vide. Perché quando gli hooligan inglesi ruppero le reti di protezione della curva, scappò verso l'alto, e si gettò fuori dallo stadio in preda al panico. Il racconto di quei momenti è impressionante. Anche a distanza di 20 anni. "Arrivammo a Bruxelles in camper - attacca Barelli - Ci portammo allo stadio e subito notammo che era fatiscente. L'Heysel era una sorta di catino in cima a una collina, con le curve scavate nel terreno. Prima di entrare, fummo presi a bastonate dai poliziotti belgi a cavallo. Caricavano senza motivo. C'era insomma un clima di tensione e le forze dell'ordine non facevano nulla per calmare gli animi". I quattro amici comaschi entrano nello stadio. E nessuno li controlla. "Abbiamo fatto il giro liberamente, siamo andati da una curva all'altra e non abbiamo incontrato alcuna barriera". Insomma, le tifoserie possono facilmente entrare in contatto. Ma soprattutto, possono portare all'interno dell'impianto sportivo ogni genere di oggetto. "Quando gli hooligan cominciarono a premere contro i tifosi juventini - ricorda Barelli - sopra le nostre teste volò di tutto, persino un estintore". L'Heysel, due ore prima della partita, era l'anticamera dell'inferno. "Uno stadio assolutamente inadatto a ospitare una partita così importante - dice ancora il tifoso comasco - le reti divisorie tra i settori degli spalti sembravano quelle del giardino di casa mia, gli inglesi ci misero pochi minuti a distruggerle". Il ricordo si fa vivo. Torna alla mente la carica degli hooligan, "impazziti e ubriachi, con gli italiani che fuggivano. Mancava l'aria, la calca era così forte che non riuscivamo a respirare". Barelli, insieme con due dei suoi tre amici, si rifugia verso l'alto della curva. È la sua salvezza. Se fosse scappato verso il basso sarebbe probabilmente finito contro il muro il cui crollo provocò i 39 morti. "Siamo arrivati in cima agli spalti e ci siamo buttati di sotto. Proprio perché l'Heysel era "scavato" nella collina, il salto era basso, un paio di metri. Abbiamo avuto paura per la sorte del nostro amico, non era più con noi. Prima di ritrovarci sono trascorse tre, quattro ore. Abbiamo pensato che fosse morto". Oggi, venti anni dopo, la voce di Barelli tradisce commozione. E angoscia. "Non dimenticherò mai le tende in cui erano stati raccolti i corpi dei tifosi, ancora adesso mi chiedo dove fosse la polizia, perché l'Uefa diede l'ok ad una finale in quello stadio fatiscente. L'Heysel non c'è più, ma cancellare il ricordo della tragedia non è possibile".

30 Maggio 2005

Fonte: Tifonet.it

A-Z

MICHELE BATTAGLIOLI

L’Heysel, l’aneurisma e ora il terremoto: "Sono fortunato"

di Corrado Magnoni

Oggi ricorre il 27º anniversario della strage in Belgio. Battaglioli, mister del Reno Centese, rivive i tre drammi.

RENO CENTESE - Rabbia, dolore e sconforto, non certo festeggiamenti per la vittoria della prima Coppa dei Campioni della Juventus. Ricorre oggi il 27° anniversario della strage dell'Heysel in cui persero la vita 39 persone, la maggior parte delle quali italiani. Michele Battaglioli, attuale tecnico del Reno Centese, dopo aver militato per anni nelle fila della squadra del suo paese, Finale Emilia, si ricorda bene quel giorno. Circa trent'anni fa, un gruppetto di cinque ragazzi finalesi saliva in macchina per andare in Belgio a vedere una partita di calcio. Il drappello non s’immaginava nemmeno che avrebbe assistito a una strage e che a distanza di decenni non sarebbe stato l'unico episodio spaventoso della loro vita. "Mi viene la pelle d'oca a ripensarci - giura Battaglioli. Io ricordavo agli amici che ricorre il funesto anniversario; impossibile dimenticare, per degli anni ho sognato i cori dei tifosi inglesi che caricavano contro di noi".  Salto all'indietro nel tempo, è la primavera del 1985, mancano pochi giorni alla finale di Coppa dei Campioni che la Juventus non ha mai vinto. I tifosi vogliono seguire i propri beniamini, Boniek e Platini su tutti, in terra fiamminga. Battaglioli, che all'epoca ha 23 anni, assieme a un gruppo di coetanei e al fratello di uno di loro, l’appena sedicenne Marcello Pincelli, trova, tramite la Gazzetta dello Sport, un pacchetto viaggio con un solo pernottamento compreso il biglietto per l'ingresso allo stadio. "Avevo uno zio, emigrato in Belgio, che ci ha accolto la prima sera; trovare i tagliandi per l'ingresso era stato difficilissimo, erano introvabili. Erano validi per la curva Z, settore che inizialmente era stato destinato agli abitanti locali e poi suddiviso tra noi e gli inglesi".  Già all'arrivo, l'accoglienza non è delle migliori: "ci eravamo imbattuti negli hooligans inglesi, già cotti da litri di birra, che ci avevano intimato di lasciargli le sciarpe bianconere; ci rifiutammo e uno di noi fu picchiato e mandato all'ospedale. Il giorno dopo ci siamo presentati allo stadio, mancava un quarto alle otto, ma si capiva che qualcosa non andava; gli italiani perquisiti da capo a piedi e gli inglesi carichi di birra entrati senza problemi; si stavano preparando alla guerriglia".  Il nefasto presagio si avvera dopo pochi istanti, quando i tifosi dei "reds" caricano gli juventini armati di cocci di eternit strappati alle tettoie dei bagni: "Lo stadio assomiglia molto al Paolo Mazza di Ferrara, fatte le debite proporzioni; era come se fossimo nell'angolo destro della Ovest, senza via di fuga se non il precipizio. Stretti come sardine, ci siamo riparati il volto con il gomito; eravamo disperati, ho creduto di morire, mentre stringevo a me il fratello del mio amico. Al crollo del muro, ho capito che ce l'avremmo fatta, perché non rischiavamo più l'asfissia. Tornai indietro a cercare gli altri, ma trovai cadaveri con la bava alla bocca. Gli amici per fortuna erano sani e salvi in campo, ma quei minuti rimarranno per sempre impressi nella mia memoria".  Storia a lieto fine, con i cinque finalesi tratti in salvo da una famiglia calabrese e poi rimpatriati: "E' stata la paura più forte della mia vita, nemmeno l'aneurisma patito a gennaio di quest'anno mi ha impressionato allo stesso modo; una volta entrato in sala operatoria, era già tutto passato e per fortuna, per la seconda volta, senza conseguenze".  Tutto è bene quel che finisce bene, visto che il tecnico del Reno Centese è persino potuto tornare nella sua abitazione di Finale Emilia, dopo il terremoto: "Adesso c'è da ricostruire un paese; assieme agli amici di allora e di oggi, uniti all'amministrazione comunale, si sta cercando di organizzare un grande concerto allo stadio Braglia di Modena o al Mazza di Ferrara a favore delle zone terremotate; Vasco Rossi e Ligabue si sono resi disponibili".

29 maggio 2012

Fonte: Lanuovaferrara.gelocal.it

A-Z
... MICHELE BATTAGLIOLI ...

27 anni fa morivano 39 persone all’Heysel, Battaglioli c’era

di Alessandro Sovrani

Circa trent’anni fa, 29 maggio 1985, cinque ragazzi finalesi salivano in macchina per andare in Belgio a vedere una partita di calcio.  "Mi viene la pelle d’oca a ripensarci – giura Michele Battaglioli, tecnico del Re Centese -, lo ricordavo agli amici che ricorre il funesto anniversario; per tanti anni ho sognato i cori dei tifosi inglesi che caricavano contro di noi". Salto all’indietro nel tempo, è la primavera del 1985, mancano pochi giorni alla finale di Coppa dei Campioni che la Juventus non ha mai vinto. Battaglioli, che all’epoca ha 23 anni, assieme ad un gruppo di coetanei e al fratello di uno di loro appena diciassettenne, trova tramite la Gazzetta dello Sport un pacchetto viaggio con un solo pernottamento e il biglietto per l’ingresso allo stadio. "Avevo uno zio, emigrato, che ci ha accolto la prima sera; trovare i tagliandi era stato difficilissimo, erano introvabili. Erano validi per la curva "Z" ed erano stati inizialmente destinati agli abitanti locali, poi suddivisi tra noi e gli inglesi". All’arrivo, l’accoglienza non è delle migliori. "Ci eravamo imbattuti negli hooligans inglesi, già cotti da litri di birra, che ci avevano intimato di lasciargli le sciarpe bianconere; ci rifiutammo e uno di noi fu picchiato e mandato all’ospedale. Il giorno dopo ci siamo presentati allo stadio, mancava un quarto alle otto, ma si capiva che qualcosa non andava; gli italiani perquisiti da capo a piedi e gli inglesi carichi di birra entrati senza problemi; si stavano preparando alla guerriglia". Il nefasto presagio si avvera dopo pochi istanti, quando i tifosi dei Reds caricano. "Lo stadio assomiglia molto al Mazza; era come se fossimo nell’angolo destro della Ovest, senza via di fuga se non il precipizio. Stretti come sardine ci siamo riparati il volto col gomito; eravamo disperati, ho creduto di morire, mentre stringevo a me il fratello del mio amico. Al crollo del muro, ho capito che ce l’avremmo fatta, perché non rischiavamo più l’asfissia. Tornai indietro a cercare gli altri, ma trovai cadaveri con la bava alla bocca. Gli amici, per fortuna erano sani e salvi in campo, ma quei minuti rimarranno per sempre impressi nella mia memoria". Storia a lieto fine con i cinque finalesi tratti in salvo da una famiglia calabrese e poi rimpatriati. "E’ stata la paura più forte della mia vita, nemmeno l’aneurisma patito a gennaio di quest’anno mi ha impressionato allo stesso modo; una volta entrato in sala operatoria, era già  tutto passato e per fortuna, per la seconda volta, senza conseguenze". Battaglioli non ha nemmeno visto la partita. "Pensavamo non l’avrebbero fatta, col senno di poi hanno fatto bene a giocarla, sennò sarebbe stata una strage".

29 maggio 2012

Fonte: Telestense.it

A-Z

BAUHOUSE 65

Testimonianza di Bauhouse 65

Io ero lì, insieme ad altri 7 miei amici dello Juventus Club 2 Stelle Di Assisi - Santa Maria Degli Angeli PG - fortunatamente dopo aver avuto in mano 8 biglietti di curva Z tramite un ristoratore emigrato in Belgio anni prima - trovammo ed acquistando 8 biglietti di tribuna numerata ci ritrovammo vicino alle postazioni dei telecronisti delle tv europee. Io mi ricordo benissimo avevo 20 anni, ero a circa 10 metri da Bruno Pizzul. Verso le 19 quegli ubriachi bastardi di inglesi iniziarono a tirare di tutto verso la curva Z: bottiglie rotte all' altezza delle facce degli italiani, bastoni, sassi, ecc, ecc… Una cosa assurda e tutti i tifosi bianconeri che volevano uscire dalla curva e quei tonti dei poliziotti belgi che li respingevano pur vedendo quello che stavano facendo gli hooligans !! Una cosa assurda mai vista prima !! La sera prima nella Gran Place al centro di Bruxelles c'erano così tante bottiglie rotte di birra in terra che si camminava su uno strato di vetro al posto delle mattonelle !!! E poi vengono a farci la morale che abbiamo festeggiato !! Prima di tutto quella Juve era fortissima ed avrebbe vinto sicuramente !! Purtroppo la tragedia non lo ha potuto dimostrare perché tutto è stato falsato ma vi ricordo che se non si fosse giocato sarebbe stata una carneficina perché i tifosi della curva juventina avrebbero cercato di massacrare quei bastardi del Liverpool !!! Ho visto oltre 350 partite di campionato e delle coppe della Juve ed in molti stadi ho sentito offendere quei nostri morti che volevano solo fuggire dalla barbarie ed invece sono rimasti schiacciati come le formiche: di questo genere di persone non si dice mai nulla ed invece si continua ad inveire sulla Juve come se la vera colpevole fosse stata lei. I veri colpevoli furono gli inglesi ! Lo stato belga e la Uefa che scelse quel posto decrepito nel quale trovarono la morte quelle persone le quali volevano solo vedere per la prima volta vincere quella coppa maledetta e tanto sfortunata per noi juventini. Per cui tutti muti e massimo rispetto e vergogna per chi ci critica. Solo una cosa sbagliano i giocatori della Juve quella volta: quando scesero dall'aereo a Torino non avrebbero dovuto alzare la coppa maledetta ma portarla mestamente in sede ed iscrivere su di essa i nomi dei tifosi morti !! Per me rimarranno sempre nel mio cuore e sempre avrò una preghiera per loro ! Forza magica Juve. Rivinci questa maledetta coppa come si deve !!!

26 dicembre 2014

Fonte: Canale You Tube "FIGHTERS 1985"

A-Z

IVAN BERLUCCHI

Calcio, dolore per la morte di Franchino: "Noi con lui"

di Gloria Belotti

CALCIO – Il crollo degli spalti dello stadio di Heysel Ivan Berlucchi di Calcio, all’epoca 23 anni, lo ricorda come fosse ieri. Ha rischiato di morire, anche se ha potuto realizzare l'accaduto solo successivamente, e ha perso un caro amico: Franco Galli (classe 1960) soprannominato "Franchino Claido", Franchino per la bassa statura mentre Claido era il nomignolo della numerosa famiglia di cui era l'undicesimo figlio. "Da Calcio siamo partiti in cinque racconta Ivan, io, Franco, Ivan Paloschi, Lorenzo Martinelli e Domenico Consolandi. A Milano siamo saliti sul pullman, organizzato per Bruxelles. Da quell'incubo siamo rientrati tutti, tranne Franchino purtroppo. Doveva essere una festa, invece non ci hanno neppure fatto sentire il sapore della gioia perché allo stadio, zeppo di gente, la tifoseria inglese ha iniziato a spingere e non ha più smesso... fino alla tragedia". Si avverte ancora commozione tra le parole di Ivan, che aggiunge: "Io, dal basso, mi sono sentito sollevare e mi sono salvato; con gli altri ho scavalcato il muro, siamo scivolati lungo la scarpata e siamo usciti nell'antistadio. Non abbiamo più visto Franco che, essendo più basso, per vedere meglio si era posizionato un po' più sotto. Siamo tornati verso l'albergo dove abbiamo atteso notizie anche se sentori negativi mi erano già arrivati da Calcio, dove non si avevano notizie di lui. Mi sono realmente reso conto dell'accaduto solo all'arrivo a Milano, dove tutti ci guardavano come se fossimo alieni. A quel punto ho compreso la tragedia". Franco era un grande tifoso della Juventus, che seguiva in Coppa e campionato. Giocava nella squadra degli "Amatori Kals" ed era animatore della tifoseria juventina che si ritrovava al Bar Centrale del paese, dove dopo il lavoro (era carpentiere) s'intratteneva a discutere della sua squadra con gli amici e a organizzare le trasferte. Per la sua morte il paese crollò nel dolore, partecipando con affetto al lutto della famiglia (i genitori Pietro e Teresa Balduzzi sono morti da anni); in molti lo ricordano per la sua cordialità, gioia di vivere e passione calcistica. Da Calcio partirono, in aereo però, anche Gianluigi Ranghetti, Venanzio Turmolli, Luigi Bertoli e Franco Brevi. Ivan Berlucchi aggiunge: "Ci sono ancora delle scritte sui muri di qualche nostro paese che inneggiano all'Heysel. E’ una vergogna che non siano ancora state cancellate. Il dramma si sarebbe potuto evitare con una migliore organizzazione. Noi italiani eravamo separati dalla tifoseria straniera solo da una rete, sorvegliata da alcuni poveri poliziotti che sicuramente saranno rimasti sepolti dal crollo del muro. Bisognerebbe riflettere sugli errori per evitare altre tragedie".

29 maggio 2015

Fonte: L’eco di Bergamo

A-Z

DAVIDE BERNARDI

La testimonianza di chi all'Heysel era presente

Heysel: "Giocavamo in piazza insieme agli inglesi, il clima era sereno, poi sono arrivati gli hooligans".

"Partimmo da Picca Pietra, Genova, avevo 22 anni. C'erano anche alcuni miei amici, io comprai il biglietto dopo di loro, quindi andai in Belgio con un pullman organizzato. Arrivammo a Bruxelles alla mattina, eravamo tutti in Gran Place, facevamo festa, giocavamo a pallone con gli inglesi. Il clima era sereno, era una festa, poi arrivarono gli Hooligans...". Comincia così il ricordo di quello che per me è il tifoso juventino numero 1, mio padre, che il 29 maggio 1985 alle ore 18:30 si trovava nel settore Z dello Stade du Heysel. Com’è stato l'arrivo allo stadio ? "Siamo arrivati nel pomeriggio. Ci ha accolto un cordone di polizia a cavallo, erano pochissimi per la quantità di persone presenti. Lo stadio conteneva circa 39 mila persone, eravamo 60 mila ! La porta d'ingresso della curva, era proprio una porta (!), come quelle che ognuno di noi ha in casa. Il muro di cinta che separava dall'esterno era alto 3 metri. I seggiolini non esistevano, c'erano gradoni di terra e cemento, che si sbriciolavano semplicemente toccandoli. A dividerci dagli Hooligans invece una rete di fil di ferro"… Una volta dentro... "Abbiamo visto tifosi inglesi nudi.  Vestiti solo della "Union Jack". In Belgio pur essendo maggio faceva freddo. Entrammo nella purtroppo famosa Curva Z. In quel settore c'erano famiglie, donne, bambini, non solo italiani, ma anche belgi. Il tifo organizzato juventino invece era dall'altra parte. Molti inglesi sono arrivati senza biglietto. Quelli del Liverpool hanno rotto sia la rete che i cancelli, in modo che potessero entrare anche quelli fuori dallo stadio. Quando il muro è crollato, noi siamo stati fortunati, siamo riusciti ad uscire da quell'inferno. Entrammo in campo per scappare, ma più che il terreno di gioco, ricordo la manganellata nel collo di un poliziotto belga. La poca polizia presente allo stadio pensò che volessimo fare un'invasione di campo e cercò di respingerci all'interno". Vi rendeste subito conto di quello che stava accadendo ? "Sì. Noi sì. Il resto dello stadio invece no. Gli aiuti arrivarono addirittura un'ora e mezza dopo. I giocatori però sapevano tutto, prima della partita uscirono i rappresentanti di Juve e Liverpool per vedere l'accaduto. E' anche vero che se avessero sospeso la partita, sarebbe successa una strage. All'interno dello stadio il rapporto italiani-inglesi era 50:1. Nessuno sapeva dei 39 morti, in Tribuna la gente pensava ci fosse solo qualche ferito. A fine partita, siamo andati alla ricerca di un telefono per poter chiamare casa, i bar italiani che prima ci gridavano "Paesà ! Paesà !" a fine partita ci hanno chiuso letteralmente la porta in faccia. Sono riuscito a chiamare mia madre dal Lussemburgo". Ora lo stadio lo butteranno giù, per ricostruirlo in vista degli europei 2020. Butteranno giù anche il ricordo ? "Io non dimenticherò mai. Come spero che non lo faccia Platini, presidente dell'Uefa, che quella partita l'ha decisa". Dopo essere sopravvissuto a quella tragedia, dopo 18 anni, gli è nato il suo secondo figlio: il 29 maggio.

29 maggio 2013

Fonte: Discoveryfootball.blogspot.it

A-Z

MARCO BERNARDINI

"La ragazza dell'Heysel che morì tra le mie braccia"

"Cazzo, Marco, dammi una mano. Muoviti. Ho paura che stia morendo". La voce di Claudio Colombo mi arriva alle orecchie sconosciuta. Non è il mio collega di Tuttosport, in quel momento. E’ soltanto un’anima angosciata e sconvolta, anche lui, finita all’inferno dopo essersi illusa che quella appena varcata fosse la porta del paradiso. Lo guardo. Il viso che tremola, forse per via dei gas fumogeni oppure per l’adrenalina che spinge i neuroni del terrore piuttosto che per tutte e due le cose insieme. E’ inginocchiato accanto ad un mucchio di stracci colorati. Così, paradossalmente, mi sembra. Abbandono taccuino e matita senza quasi rendermene conto. Arrivo al suo fianco. Claudio sta già trafficando freneticamente su quel fagotto. Su e giù, con le mani serrate, nel tentativo di dare un senso ai due anni di Medicina poi traditi per il giornalismo. Pigia forte all’altezza del cuore fino a quando, con un rantolo sfiatato, una voce che arriva da un pozzo senza fine sibila sottile: "Mamma, papà non voglio morire". Un cavallo al galoppo ci sfiora con in sella un folle dagli occhi spiritati che fa ruotare un bastone e bestemmia in fiammingo. Aria acida che entra in gola mentre le narici inspirano nauseanti puzze di alcool, sangue e urina. "Dai che sei viva, piccola. Tu prendila per le gambe. Scappiamo via da qua". La teniamo così, in braccio, frenando l’impeto dei passi che vorrebbero farsi ali per fare più presto. Il lamento continua e forse è bene così, pensiamo senza dircelo. Ma tanto sangue ha inzuppato la camicetta e il golfino. Troppo sangue. La barella finalmente. Due infermieri ci "strappano" il fagotto. Sento un pezzo della mia carne rimanere attaccato a quel corpo di giovane ragazza che ora non si muove. Claudio è già scomparso per un’altra missione. Rimango lì, inebetito, a osservare dal basso la mattanza in atto sulla sommità di quello che sembra essere il Golgota. E’ la Curva Z dello stadio Heysel, a Bruxelles. Il sole sta calando dalla parte delle tribune dove le persone sono immobili come soldatini di stagno. E’ il 29 maggio. Giorno in cui Giuseppina Conti, diciassette anni di Arezzo, non voleva morire. Come tutti gli altri trentotto subito angeli volati via nel cielo del Belgio. Improvvisamente il torpore mi scivola via di dosso. Sono in mezzo al campo da gioco dove il direttore Piero Dardanello ha spedito me e Claudio non appena in tribuna stampa si è capito che qualcosa di grave stava accadendo sul lontano fianco sinistro della curva. L’invasione del terreno è totale. Gli ultras bianconeri hanno sfondato e tentato di dare l’assalto alle gradinate della parte opposta dove, tra una birra e l’altra, gli inglesi sono diventati assassini. Idranti e polizia a cavallo fanno da muro. "Non si giocherà. Impossibile poterlo fare", penso.

Infilo il sottopasso che porta all’esterno. Un paio di colleghi sono già lì. Statue di sale sul confine di uno spiazzo dove, allineati, ci stanno teloni verdi in plastica gonfi di umanità freddata dalla morte.  Non è possibile. E’ tutto così assurdo. Viene da urlare. Vomito i resti della merenda consumata prima del lavoro. Già il lavoro ! Raccontare di una partita, di una Coppa, di attimi felici e magari anche di delusione. E sarebbe questo, ora, il lavoro ? Dire di trentanove morti ammazzati. "Meno male che non si gioca. Un dovere per i fratelli e le sorelle partiti. Un atto dovuto per Giusy, che chiedeva a babbo e mamma di tenerla per mano e strapparla alla morte". Invece no. Lo sento dalla vice del giovane uomo che incontro a metà della scala che porta dentro gli spogliatoi della Juventus. Mi pare di conoscerlo. Non so… Da qualche parte… Forse… E’ in ginocchio che prega. Permesso, mi scusi. Il suo sguardo addosso, la sua vice nel cuore. "Lo dica anche lei al presidente e ai ragazzi. Non possono e non devono scendere in  campo. Una tragedia così grande merita soltanto rispetto e silenzio. Mio padre se ne è andato. Sarà già in volo verso Torino". Ora lo riconosco dopo averlo visto tante volte in foto. Edoardo, il figlio dell’avvocato Gianni Agnelli. Ci incontreremo più avanti nel tempo e, per quindici anni, sarà uno dei miei più cari amici fino a quando non deciderà che i sogni, in questo mondo dell’egoismo e dell’interesse dominanti, sono destinati a rimanere tali. Dirà basta con un volo a planare. Sarà domani. Intanto sento il rumore dei tacchetti da gioco che pestano il cemento. Hanno deciso che si gioca. Una Coppa di latta in palio sul campo accanto al quale da due ore c’è un piccolo cimitero. In tribuna stampa, dove faccio ritorno perché "the show must go on", il clima è surreale. Inviati e direttori, specialmente quelli delle testate sportive, sono letteralmente ibernati in una zona franca dove l’imbarazzo di dover riferire di calcio si scontra con il dovere di raccontare bestiale cronaca nera. Bruno Pizzul, poi, deve muoversi sul filo dell’equilibrista senza rete sotto perché in Italia la sua voce dovrebbe rassicurare chi ha amici e parenti all’Heysel almeno fino a quando non ci saranno notizie inconfutabilmente certe. Quelle che non tardano ad arrivare, agghiaccianti e sconvolgenti, rendendo la scena di Michel Platini che danza sollevando la Coppa al cielo un disgustoso rito tribale. La notte fu bianca per tutti e popolata da trentanove fantasmi. Un aereo pieno di vergogna ci riportò a Torino. La mattina dopo. Eravamo diversi da quelli che erano partiti.

Post scriptum: Questa è la cronaca, personale e dettagliata e fedele, di quella notte all’Heysel. Qualche anno prima, come inviato per la Gazzetta del Popolo, avevo seguito la guerra dei "Sei giorni" sul fronte israeliano. Vi assicuro che il senso della tragedia, della violenza e della morte provato a Bruxelles è stato infinitamente più intenso di quello sentito sulla pelle per una vera guerra dove, almeno per noi giornalisti, tutto si risolveva con una visita a qualche carro armato distrutto e abbandonato nel deserto. Io non so se la ragazzina che Claudio Colombo ed io portammo via a braccia fosse davvero Giuseppina Conti. Ancora oggi mi auguro sia stata un’altra, poi sopravvissuta. Una cosa è certa. Da quella notte il calcio non è mai stato più lo stesso. Neppure per Platini che ha chiesto scusa per essere caduto in trance e per Paolo Rossi il quale ha scritto di provare vergogna ancora adesso per aver giocato. In quanto al mio amico Edoardo avrei preferito conoscerlo in un’altra occasione, ma forse proprio la condivisione di quell’inferno in terra ha provveduto a cementare fin da subito un rapporto speciale ed eterno.

13 novembre 2015

Fonte: Calciomercato.com

A-Z

STEFANO BIANCHI

Testimonianza di Stefano Bianchi

Sono uno di quelli "privilegiati" per capire cos’è stato l’Heysel e cosa significa. C’ero. Tornai a casa, solo perché il mio Club ebbe assegnati i biglietti in un settore lontano. A trent’anni da quell’evento disumano, ancora mi commuovo al ricordo dei corpi senza vita, celati nei loro lineamenti contraffatti dalla morte, da quelle bandiere che avrebbero dovuto sventolare in segno di gioia. Ero con lo Juventus Club di Capannori (Lucca): i dirigenti avevano biglietti di tribuna, non so se coperta o scoperta, mai ho avuto voglia di appurarlo, mentre noi "normali" eravamo in curva con biglietti serie "MNO", con la "M" originariamente cancellata a pennarello nero. Il settore era quasi simmetrico rispetto al settore Z, abbastanza spostato verso la gradinata. Eravamo una diecina, e pochi gradini sotto a noi c’era un mini striscione sostenuto da due paletti con scritto "mamma siamo qui". So che esiste un filmato anche della nostra curva, ma mi sono sempre rifiutato di vedere qualsiasi cosa che non abbia potuto vedere già quella notte. Verso la fine della partita, sono scesi verso di noi dei ragazzi, tutti insanguinati che ci hanno detto che "di là era successo qualcosa di grosso, che forse c'erano dei morti". Certo che avevamo visto il fuggi fuggi in curva Z a seguire un lancio di oggetti, ma non avevamo né visto, né immaginato assolutamente accoltellamenti o la gente che cadeva dalle tribune e veniva schiacciata da chi cadeva giù dopo di loro. Notizie "sicure di due o tre morti" le abbiamo apprese da altri che si sono aggiunti a noi quando ci eravamo incamminati per raggiungere i nostri pullman. Per arrivare al parcheggio abbiamo dovuto attraversare quello destinato ai tifosi inglesi: ci siamo messi a testuggine, con le ragazze nel mezzo, tutti a braccetto stretti stretti, ma gli inglesi, forse più informati di noi e comunque in numero esageratamente maggiore, non ci hanno degnati di uno sguardo. Notizie ancora più terribili le abbiamo ricevute dal guidatore del pullman che ci ha infine riportato in Belgio, ove avevamo l’albergo. Sono infine riuscito a telefonare a casa dopo le cinque di mattina e mia madre e mia moglie mi hanno infine informato che i morti erano più di venti. Davanti al dolore di chi ha perso i propri padri, figli o nipoti, alla paura di chi i propri cari non sapeva se fossero vivi o meno, forse non varrebbe la pena di raccontare del nostro piccolo dolore di sopravvissuti, colpevoli di una gioia comunque misurata in quanto certamente macchiata ai nostri occhi da un qualcosa di brutto che "doveva essere avvenuto", ma che mai e poi mai avremmo potuto quantificare di quella spaventosa entità. Era tanto che non scrivevo così diffusamente di Heysel, scusa eventuali errori o ripetizioni, ma contrariamente alle mie abitudini ed alla buona educazione non ho voglia di rileggere quello che ho scritto. Mi fa sempre male.

13 ottobre 2015

Fonte: Giulemanidallajuve.com

A-Z
... STEFANO BIANCHI ...

29 maggio 1985: io c'ero

Niente stadio, per me, per tre anni. L’amore per la Juve era invariato, ma allo stadio non avevo più messo piede, finché… Complici un noiosissimo congresso in Riviera di Levante e Sampdoria-Juve prevista l’indomani, uscii dalla sala conferenze alla ricerca di un biglietto per lo stadio, con un sorriso a trentadue denti inspiegabile per i disattenti congressisti. Dopo tre anni di black-out, improvvisamente e senza motivo apparente, il craving da Juve si era improvvisamente risvegliato in me. Quei tre anni senza stadio erano figli di quanto avvenuto all’Heysel, quel posto maledetto che aveva visto morire trentanove fratelli. Se al parlarne, ancora oggi sono preso da un groppo alla gola, avevo finalmente superato il disgusto che provavo al solo pensare di entrare in uno stadio. Quell’autoesilio non significava soltanto tre campionati della mia amata Juventus, ma tre anni di vigilie, trasferte e mangiate con gli amici, d’attesa del fischio d’inizio parlando anche con gente mai vista prima, di ogni fede calcistica, ma sempre nel rispetto reciproco. Di gioia e casino durante la gara e nel lungo ritorno a casa, nel caso delle frequenti vittorie, ovvero di disamina degli errori e delle mancate contromosse in caso di sconfitta. Per inciso, Il mio ritorno allo stadio coincise con una gara mediocre, col pareggio acciuffato in extremis dal povero Scirea: ma uscii da Marassi sereno, felice ed anche un po’ più libero.

A noi dello Juventus Club andò bene: all’Heysel eravamo nel settore "N-O", esattamente all’opposto della "Curva Z", il famigerato luogo dell’aggressione. Un massacro di cui peraltro non capimmo immediatamente l’entità, informati confusamente e solo a fine gara da alcuni bianconeri, insanguinati e malconci, che ci raggiunsero mentre tornavamo verso i pullman. La reticenza nelle informazioni ufficiali e quel "giochiamo per voi", se evitarono fatti di sangue possibilmente ancor più gravi, facendoci valutare come "normali" disordini pre-partita quel fuggi-fuggi nella curva opposta, ci permise anche di gioire al vedere quella tanto desiderata coppa sollevata al cielo dai nostri eroi. Non sapevamo ancora che gli eroi veri erano altri, per cui, oltre al lutto per la perdita di questi fratelli, abbiamo anche dovuto farci carico del rimorso per esserci divertiti e infine aver gioito per la conquista di quella tanto agognata coppa. Quel simulacro tanto inseguito che perdeva di significato ai nostri occhi man mano che l’informazione si faceva più completa, infine con le telefonate che all’alba riuscimmo a fare a casa. Negli anni a seguire, pensavo che l’enormità di quel misfatto, la morte di tanti innocenti, il dolore dei loro familiari, l’ansia dei nostri cari, ignari per ore della nostra sorte e, perché no, la nostra piccolissima sofferenza di sopravvissuti, potesse essere un freno all’attività di nuovi killers da stadio. Invece il ricordo dell’Heysel, ma anche di Paparelli, Spagnolo ed Esposito, non impediscono a imbecilli armati, figli del disagio e dell’ignoranza, ma sempre imbecilli, di continuare a sporcare di violenza le domeniche di chi vorrebbe, almeno per novanta minuti, dimenticare difficoltà economiche, guerre strumentalizzate per svecchiare arsenali militari, genocidi, carestie e migrazioni di profughi e miserabili alla ricerca di pace e pane. Ovvio come il calcio sia espressione della società che lo genera e che in esso si riversino le contraddizioni di quella società: come per gli hooligans dei Reds, la spinta assassina proviene dalla deriva sociale, che se non sfocia in attività politica, porta gli emarginati a trovare, nell’unione in bande, quell’identità e quella visibilità che da soli non avrebbero. E' vero: costoro sono i figliastri della pessima situazione economica, di una scuola che allontana invece di accogliere, della quasi assoluta mancanza di centri sociali e di aggregazione, in una società che propaganda i valori deteriori e in cui è normale pretendere senza dare ed i cui rappresentanti politici sono più fonte di vergogna che di esempio. Chi fa informazione e dovrebbe educare, spesso invece si rivela un fomentatore d’odio (e meno quotato è come giornalista, più si adopera per seminare disinformazione e discordia). Non sono da meno alcuni dirigenti del movimento che mostrano sportività ed equità di giudizio pari a zero. I casi più recenti sono quelli di Ormezzano, di cui assai si è scritto su GLMDJ, e di De Laurentiis, che per una svista arbitrale (il gol in offside del Dnipro) chiede addirittura le dimissioni di Platini, facendo finta di non ricordare come la qualificazione col Wolfsburg sia iniziata con una rete doppiamente irregolare di Higuain. La loro parte la fanno anche i giocatori, che spesso inscenano pantomime assurde per minimi colpetti ricevuti, a simulare doppie fratture di tibia e perone, tranne poi correre come gazzelle pochi secondi dopo. O quando apostrofano prolungatamente l’arbitro dall’alto dei palloni d’oro vinti (penso a Cristiano Ronaldo con Atkins in Juve-Real): un bel "rosso" in entrambi i casi sarebbe come gettare olio sul mare in tempesta. Il cartellino rosso, il bavaglio ai dirigenti sconsiderati e il codice di autodisciplina per giornalisti sono comunque pannicelli caldi, se la società non riforma se stessa ridandosi valori condivisi, togliendo un po’ a chi ha troppo, compresi certi titolari di pensioni e con un occhio particolare per i giovani, cui dare istruzione, lavoro, prospettive e possibilità di farsi una famiglia. Altrimenti ben venga la violenza negli stadi, bene o male controllabile, sublimazione di un disagio sociale che qualsiasi sistema politico preferisce confinato in questo luogo, a darsele di santa ragione per un gol o un fuorigioco, che non nelle piazze a chiedere lavoro e diritto di cittadinanza. Spero che chi ne abbia titolo e possibilità faccia quello che deve per risolvere alla radice i problemi sociali, genesi principale dell’insensata violenza che avvelena il calcio. Prima che ciò avvenga, o contemporaneamente a questo non facile processo, spero che tutti gli altri attori evitino di fare ciò che hanno fatto finora per ingigantire il problema. Il risultato sarebbe eccezionale. Altrimenti, significa che i Paparelli, gli Spagnolo, gli Esposito e i Trentanove dell’Heysel non hanno insegnato proprio niente.

29 maggio 2015

Fonte: Giulemanidallajuve.com

A-Z

ROBERTO BIOLCHINI

Quel giorno all’Heysel io c’ero

Sono passati trent’anni, ma quella ferita la porto ancora nel cuore. Il 29 maggio 1985 non doveva andare così com’è andata.

Il 29 maggio del 1985 si giocava la finale di Coppa dei Campioni a Bruxelles. Lo stadio Heysel era una struttura fatiscente, inadatta ad ospitare un evento del genere. Inadeguate e colpevoli furono anche le autorità della città e le forze dell’ordine: impreparate a gestire la situazione. Doveva essere una festa e invece fu una tragedia. Si giocavano la finale tra Juventus e Liverpool, le due squadre più forti d’Europa in quel momento. Nel pomeriggio io e altri compagni di viaggio avevamo anche giocato una partitella con alcuni tifosi inglesi. Nulla lasciava presagire quello che sarebbe successo poche ore più tardi. Prima della partita, nella curva Z, dove mi trovavo insieme ad altri tifosi della Juventus (per lo più famiglie, nessun ultrà), si scatenò la violenza degli inglesi, ubriachi fradici, sistemati nei settori X e Y. Tutto iniziò con il lancio di sassi/cemento, ricavati dallo sgretolamento dei gradoni dello stadio e poi di lattine riempite con quel materiale. Avvenne anche il lancio di due razzi sparati ad altezza d’uomo. Venne divelta la rete da pollaio, che pretendeva di dividere le due tifoserie, e gli hooligans del Liverpool caricarono a più ondate. I tifosi bianconeri arretrarono spaventati e la calca asfissiante iniziò a fare le prime vittime fra coloro che, caduti a terra, vennero schiacciati o non riuscirono a riemergere. La pressione della folla sul parapetto laterale della maledetta curva Z fece crollare il muretto, causando ulteriori vittime, ma aprendo anche una via di fuga. In pochi minuti, durante i quali le forze dell’ordine belga assistettero sostanzialmente inermi, morirono 39 persone (di cui 36 (32 NDR) italiani, il più vecchio di 58 anni e il più giovane di 11 anni) e rimasero ferite più di 600 persone. Io e una ragazza con cui viaggiavo fummo tra gli ultimi a uscire dalla curva Z passando per un cancello che dava sulla pista di atletica, aperto da un poliziotto dopo molte insistenze, per recarci al pronto soccorso dello stadio. La mia amica se la cavò con un graffio al braccio e considerata l’attesa e la banalità della ferita, quando al pronto soccorso iniziarono ad arrivare diverse barelle con feriti gravi, uscimmo all’aperto e ci trovammo di fronte ad una scena apocalittica. Polvere, gente che urlava e chiedeva aiuto, persone sedute sulla pista di atletica con la testa fra le mani, persone che praticavano il massaggio cardiaco, altri che si abbracciavano, altri che tentavano di tirare per le braccia chi era rimasto bloccato sotto altri corpi. Era l’inferno. Se anche io e la mia amica fossimo rimasti attaccati alla rete che delimitava l’accesso alla pista e al campo, saremmo stati tra coloro che furono schiacciati al momento del crollo del muro. Il pensiero andò a casa, ai miei genitori, a mia sorella e mio cognato. Nel 1985 non c’erano i cellulari. Non potevo rassicurarli, dire che stavo bene. Fu terribile. Fortunatamente, nonostante l’indisponibilità iniziale sia dei dirigenti juventini che di quelli del Liverpool, per ragioni di ordine pubblico e permettere alla polizia belga di organizzare i soccorsi dei feriti e il deflusso in sicurezza dei tifosi, la partita si giocò lo stesso. Se non si fosse giocata, sicuramente le conseguenze sarebbero state peggiori. I tifosi della Juventus, che erano la maggioranza all’interno dello stadio, avrebbero voluto vendicare i morti. L’intervento di alcuni giocatori della Juventus che dialogarono con gli ultrà bianconeri evitò quella reazione. La Juventus vinse 1-0, ma nessuno poté godere fino in fondo di quella vittoria. Finita la partita raggiungemmo il bus che ci riportò a casa. Agli autogrill le code per telefonare erano immense. Solo il giorno dopo, all’arrivo a Milano, i miei seppero finalmente che ero vivo e tirarono un sospiro di sollievo. Quella strage non fu la peggiore della storia del calcio. Ebbe però il massimo risalto dei media perché si trattava della finale della Coppa dei Campioni. Purtroppo fu una strage inutile che non servì ad evitare che la bestialità degli uomini riemergesse ancora altre volte. L’amarezza lascia il posto a un lumicino di speranza ripensando alla commemorazione svoltasi allo Juventus Stadium domenica scorsa quando al minuto 39 di Juventus-Napoli i tifosi della Juve hanno sventolato uno striscione di ricordo per le vittime dell’Heysel. Chissà se prima o poi gli uomini impareranno dai propri errori.

29 maggio 2015

Fonte: Robertobiolchini.it

A-Z

CAMILLA BONELLI

Il 29 maggio 1985 la tragedia dell'Heysel: il racconto di Camilla Bonelli

Sono passati 35 anni, 35 lunghi anni.

Avevo appena dato il primo esame all’Università. Partimmo per la finale, per quella Coppa che ancora ci mancava. Ci bruciava ancora la sconfitta di Atene, quel goal, che delusione. Nonostante Atene, i 40.000 italiani, la mia prima volta in aereo. Partimmo in autobus, dovevamo cominciare a soffrire presto, anche questa volta. Ne valeva la pena. Avevamo già battuto il Liverpool in una fredda, bianca notte di gennaio. Potevamo farcela, almeno così speravamo. Quando ti metti in viaggio per una partita, per divertirti non pensi mai, neanche di fronte all’evidenza che possa andare diversamente, che possa succedere qualcosa di diverso. Lo stadio era fatiscente, bastava un calcio del mio sandalo misura 36 per sbriciolare un gradone. Quei cavalli poi cosa ci stavano a fare in mezzo a migliaia di spettatori. Ma giocava la Juve, andava bene lo stesso. Gli inglesi avevano bevuto, erano ubriachi, ma state tranquilli non succede niente, deve giocare la Juve. E poi due anni fa ad Atene non potevamo neanche alzarci in piedi allo stadio che dei solerti gendarmi ci invitavano subito a sederci. Abbiamo viaggiato ininterrottamente per due giorni, arriviamo a Bruxelles nel pomeriggio. Che ci interessa del centro, andiamo subito allo stadio, gioca la Juve… Il mio vicino allo stadio mi chiede se ho fame, mi offre un panino, estrae dalla sua borsa il pane, un salame e comincia ad affettarlo con un grande coltello. Ma come allo stadio con un coltello, sì ma ho fame, mangiamoci questo panino, aspettando la Juve… La partita non comincia, dall’altra parte c’è confusione, gli inglesi sembrano invadere la zona degli italiani, qualcuno scappa, arriva un signore e piange. Ma che succede ? Niente, andiamo deve giocare la Juve… E dopo la partita, il rigore, il giro del campo. Usciamo, speriamo che gli Inglesi siano ancora dentro. Un Inglese piange e ci dice "Sorry", ma che fa, ha bevuto, si scusa, ma di cosa ? Saliamo sul nostro autobus e dalla radio veniamo a sapere che la Juve ha vinto la Coppa, quella Coppa stregata, ma ci sono oltre 30 morti dentro lo stadio, però… Non avevamo voluto crederci, doveva giocare la Juve, per quella Coppa. Invece era vero. C’era stata una strage. Conservo ancora il biglietto della partita, zona N, siamo stati fortunati. Conservo ancora quel brandello di maglia di Tardelli, la sua ultima partita in bianconero. Ha ragione lui, che vergogna festeggiare, che vergogna il giro del campo, che vergogna lanciare la maglia. Ma c’era la Juve, c’era la Coppa chi poteva immaginare… Solo durante la notte riuscimmo a comunicare con le nostre famiglie e far sapere loro che noi stavamo tutti bene, noi, solo noi, però. Sono tornata a Bruxelles, ci sono tornata qualche anno fa. Per lavoro, con una classe di giovani elbani. Abbiamo incontrato dirigenti dell’Unione Europea, abbiamo parlato di sviluppo e finanziamenti, ma ho voluto portarli anche all’Heysel, volevo che capissero. Peccato che non c’è più. C’è il "Baldovino". Una piccola targa ricorda il 29 maggio del 1985. La solerte Addetta al Marketing, dopo aver sentito la mia storia, ci fa entrare, ci fa calpestare l’erbetta. Mi regala un libro sulla storia dello stadio. Una paginetta sola per quel 29 maggio. Vergogna, civile Belgio, vergogna. Dopo trentacinque tra qualche giorno, forse ricomincia il campionato, in un anno incredibile che ha visto cambiare le sorti del mondo, un passo verso una normalità che però da quel giorno per molte famiglie non c’è più stata. Ho continuato a seguire la Juve, ovunque, con il mio babbo ed oggi con mamma ed i miei cuginetti, ai quali trasmetto la passione per la Juve ed il rispetto per l’avversario, come per il prossimo. Per quelli che erano lì con noi ed oggi non ci sono più, per continuare a sperare che una partita di pallone rimanga sempre una partita di pallone, anche se è una finale, anche quando gioca la Juve e tu sei un avversario. Camilla Bonelli (Juventus Club Isola d’Elba)

30 maggio 2020

Fonte: Tenews.it

A-Z

GIOVANNI BULGARELLA

Racconto Heysel

...Entriamo dalla porticina dopo essere stati accuratamente perquisiti... Tra noi gente comune non tifosi organizzati... Entro e vedo i nostri seduti sul lato opposto allo spicchio dei tifosi inglesi... Mi siedo nello spazio libero alcuni secondi e capisco il perché, piovono sassi dal settore inglese e due - tre di noi si stanno fasciando le ferite sulla testa alcuni metri alla mia destra... Alcuni dei nostri rispondono ai lanci di pietre, andavano sicuramente a segno dato che nello spicchio dei tifosi avversari non ci sono spazi liberi... Giungono sotto la curva il portiere del Liverpool con altri due giocatori in borghese... Invitano il loro pubblico ad invadere il settore libero separato da una rete ridicola... La polizia accompagna uno alla volta 2-3 ultras fermati in scontri precedenti e quindi identificati nello spicchio degli inglesi... Passando davanti a noi ci sberleffano... Molti inglesi passano dal buco in alto e si accomodano in curva... Tutto bene... Pochi secondi e senza apparente motivo si volatilizzano tornano nel loro spicchio... Ecco la ragione: alcuni ultras, circa una decina non di più, stanno attaccando a ventaglio, in mano pietre, lattine e bottiglie, attaccano a ondate avanti e indietro non dando il tempo di organizzare una reazione... Il pubblico inglese ad ogni ondata incita l'attacco... Un ragazzo con la maglia bianconera da solo li attacca... Subito a terra sta per soccombere... Io attacco il gruppo che subito si ritira, il ragazzo si rialza e corre fra i nostri... Il capo e l'altro una volta ritirati riattaccano puntando direttamente su di me... Qualcuno cerca invano di organizzare una reazione... Appena vedo che sono il loro obiettivo riesco a raggiungere un paio dei nostri che cercano di sfondare la porticina dietro la porta. Insieme riusciamo a sfondare nonostante la polizia con i manganelli... Aiuto alcuni ad entrare dalla porticina ma ormai le ondate degli inglesi hanno oltrepassato sia la porticina di ingresso sia quello della porta, per gli altri niente da fare sono spacciati... Si ammassano a sinistra guardandoli dal campo fino al cedimento del muro... In campo alcuni di noi cercano di raggiungere la tribuna respinti da alcuni che minacciano di lanciare delle poltroncine... Uno juventino insegue un altro vestito bianconero con sciarpa bianconera gridando è un inglese... Questo corre serpeggiando fra noi e la polizia a cavallo sbeffeggiando tutti... Una ragazza piange seduta al fianco del padre urlando che ha un malore colpito da infarto... Prendo non so come una barella e insieme ad un altro operatore lo accompagno fuori... Una volta assicuratomi che l'ambulanza li porti via cerco di rientrare... Vietato: siamo fuori... C'era il mondo:  esercito, polizia, tutto circondato... Minà passa vicino ci dice alcune parole di conforto, non possono giocarla ora lo fanno solo per far defluire i tifosi... A terra circa 20 corpi dei nostri compagni allineati coperti con delle coperte... Mi avvicino e li scopro ad uno ad uno cercando di vedere se tra loro c'è qualche amico: nessuno, solo uno sembra un conoscente... A pochi metri due gendarmi se la ridono godendosi la scena... Sento una voce: "sono 38 dall'Italia", dicono 38... Tutto bloccato, non mi rimane che farmela a piedi sin fuori l'accerchiamento. Prendo un taxi, torno in albergo... Tutti mi accolgono sostenendomi. Sono venuti via dalla partita... Sono alla tv, giocano... Alcuni inglesi vengono incontro scusandosi... Uno piange... Non guardo la partita... Rigore... Mi giro:  2 metri fuori dall'area... Mi rigiro  i nostri che girano intorno al campo con la coppa alzata... Che schifo... Torniamo a casa in pullman, 2-3 con la testa fasciata... Due posti vuoti... Per fortuna rimasti solo per cure...

12 gennaio 2015

Fonte: Facebook (Pagina Comitato Heysel)

A-Z
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