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VINCENZO PAPARELLI
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L'omicidio Paparelli nello speciale "Storie" di Matteo Marani

Ci sono giorni che si depositano nel fondo di una città. Il 28 ottobre 1979 Roma si risvegliò sotto una leggera pioggia di fine autunno. La temperatura era di 17 gradi. C’erano le solite acque del Tevere, i soliti ponti, i soliti bassorilievi barocchi e la solita magnificenza della città più bella al mondo. Si ripeterono le abitudini di ogni domenica: i mercatini a Porta Portese, i turisti nei caffè, la benedizione di Giovanni Paolo II ai fedeli in piazza San Pietro. Pure il calcio stava per mettere in scena il suo rituale appuntamento. Il derby tra Roma e Lazio, fissato alle ore 14.30, era valevole per la settima giornata del campionato.

Derby 28 ottobre 1979 - In via Dronero (omissis), nella lontana periferia nordovest di Roma, in un anonimo punto in cui Casal del Marmo incrocia Casa Lotti-Boccea, i quattro componenti di casa Paparelli si alzarono tardi. Per il capofamiglia, Vincenzo, quello era l’unico giorno di riposo della settimana. Svegliò la moglie Vanda verso le 9 e poi i figli: Marco, di 13 anni, e Gabriele, di 8. La radio accesa, la colazione preparata ai ragazzi. Era una giornata di festa in una comune famiglia italiana degli Anni 70. Vincenzo e quella domenica 28 ottobre 1979 entrarono insieme nei libri di storia, ma dalla porta sbagliata. Accadde ciò che nessuno avrebbe mai immaginato che accadesse: la morte di un tifoso allo stadio. La tragedia di un uomo che come unica colpa aveva quella di tifare la sua squadra: la Lazio. Fu la prima volta che avvenne in Serie A e fu la perdita dell’innocenza di tutto il calcio. Nulla, da quel 28 ottobre 1979, è stato più come prima. Gli italiani appresero dalla voce di Giampiero Galeazzi che il loro rapporto con il pallone era cambiato per sempre. Vincenzo Paparelli, protagonista sfortunato di questa storia, nel 1979 ha appena 33 anni. È infatti nato a Roma il primo maggio 1946, il giorno dei lavoratori. E lui è un lavoratore eccezionale, instancabile. Il figlio di Gustavo e Triestina, umile coppia di Valmontone, è infatti riuscito a mettersi in proprio e a comprarsi un’autofficina col fratello Angelo. Sacrifici, debiti, sudore. Dista poco lontano da casa, in via Boccea. È un figlio del dopoguerra, Vincenzo. È orgoglioso della Bmw che è riuscito a comprarsi con non poca fatica l’anno precedente. Veste in tuta da meccanico tutto il giorno. Ha conosciuto Vanda fuori da un negozio dove lei fa la commessa. È una bella ragazza. Vincenzo la sposa pochi anni dopo, ma per il viaggio di nozze non sceglierà le Maldive, bensì Torino, perché a Torino ci ha fatto il militare. Questa è l’Italia di Vincenzo.

La stracittadina del 28 ottobre serve a fissare il primato cittadino, dato che quello nazionale è fuori della portata delle due società. Il 1979 è infatti un periodo poco brillante per il calcio della capitale. Nella stagione precedente, la Roma si è salvata nelle ultime giornate, con dei pareggi stiracchiati. La Lazio ha fatto meglio, ottavo posto, ma a distanza siderale dal Milan campione d’Italia. Quel successo rossonero, ottenuto grazie all’ultimo scampolo agonistico di Gianni Rivera e costruito dalla sapiente guida di Nils Liedholm - l’allenatore che ora siede proprio sulla panchina della Roma - ha cucito sulle divise milaniste la stella. Al primo derby romano della stagione 1979-80, le squadre arrivano con un punto di distanza: 6 la Lazio, 5 la Roma. Davanti, in una fuga solitaria che durerà l’intera stagione, si è già piazzata l’Inter di Eugenio Bersellini, la quale si appoggia sui gol di Spillo Altobelli, sulle invenzioni di Beccalossi e sulla continuità di rendimento di Oriali, Marini, Bini, Muraro e Bordon. È un campionato ancora senza stranieri, l’ultimo della chiusura, e l’Inter gioca all’italiana, catenaccio e contropiede. Finirà davanti alla Juventus di Trapattoni e al Milan di Giacomini, terzo in classifica e presto investito dallo scandalo del Totonero, con conseguente retrocessione in Serie B. Lo stesso destino attende pure la Lazio, ormai ben poca cosa rispetto alla bellissima formazione di cinque anni prima, quella dello scudetto conquistato il 12 maggio ‘74 alla penultima di campionato contro il Foggia. Una squadra, lei sì, entrata dalla porta giusta della storia. Aveva stregato con le giocate del giovane e talentuosissimo Vincenzo D’Amico, l’agonismo di Re Cecconi, la tempra difensiva di Martini e del portiere Felice Pulici, le sgroppate di Mario Frustalupi. E i due ragazzi arrivati dall’Internaples: Pino Wilson e Giorgio Chinaglia. Long John non è stato soltanto il giocatore più forte nell’ultrasecolare vita della Lazio, è stato il leader dello spogliatoio, il re degli scherzi, il nemico giurato dei romanisti, il leader nelle battaglie - costanti e volute - contro ogni avversario. Chinaglia personaggio sfrontato e irriverente, che in questo derby 1979 in scala minore tuttavia non c’è: vive a New York e gioca nei Cosmos con compagni del calibro di Pelé e Beckenbauer. Se i biancazzurri stentano a ritrovarsi dopo l’euforia passata, dall’altro lato del Tevere la Roma sta allestendo la squadra che tre anni più tardi vincerà il campionato. Ci sono alcuni futuri idoli: da Roberto Pruzzo, prelevato dal Genoa, carattere ombroso e cuore d’oro, all’emergente Carlo Ancelotti; da Agostino Di Bartolomei - troppo presto reclamato dagli angeli - a Bruno Conti, il ragazzo cresciuto nel sogno del baseball a Nettuno e prossimo all’incredibile trionfo Mundial dell’82. Quando il derby va in scena, sulla panchina giallorossa è seduto da pochi mesi Nils Liedholm: modi eleganti, ironia soffusa, lo svedese coniuga razionalità nordica ed emotività latina. Sorride e stempera tutto, il Barone, aggiungendo la lettura degli astri e la cartomanzia. Le carte migliori, però, le mette in campo e l’8 maggio 1983, con la classe aggiuntiva di Paulo Roberto Falcao, porterà la squadra al secondo scudetto. In un tripudio di bandiere e lacrime, sarà Antonello Venditti a intonare al Circo Massimo l’indimenticabile "Grazie Roma".

Il 28 ottobre, a mezzogiorno, mentre le squadre viaggiano in direzione Olimpico, e mentre i coniugi Paparelli decidono di andare allo stadio perché è spuntato il sole, Roma guarda col suo secolare fatalismo a quanto sta accadendo nelle proprie strade. Da anni la città è diventata l’epicentro di una violenza in aumento in tutto il Paese. Strisce di sangue rimangono sull’asfalto ogni mattina e sera, in centro come in periferia. Ai militanti di sinistra è interdetta Roma Nord, dove maggiore è la presenza dell’estrema destra, ragazzi del Fronte del Gioventù vengono uccisi ad Acca Laurenzia nel gennaio ‘78. Non si cercano più le ragioni degli uni o degli altri. Si impugnano chiavi inglesi, coltelli, bastoni, pistole, come quelle utilizzate da un gruppo di fascisti per fare irruzione a Radio Città Futura all’inizio del 1979. Ancor prima dell’ideologia, la differenza è scritta nell’abbigliamento. Eskimo contro Ray Ban, stivaletti contro Clarks. La violenza diviene un macabro gioco e tutto quanto è accaduto durante gli anni precedenti - ossia l’innalzamento della tensione - si condensa in questa stagione di sangue. Si ammazza per dare visibilità alla propria azione, per dimostrare di esistere, a volte sbagliando nomi o indirizzi delle vittime. I numeri sul terrorismo in Italia dicono tutto: 29 omicidi nel ‘78, 22 nel ‘79, 30 nell’80. Servirà un altro assassinio, quello dell’operaio Guido Rossa a Genova, in questo 1979, per spezzare la complicità tra fabbrica e brigatisti. Nel marzo 1977 Luciano Lama è stato cacciato dalla Sapienza, contestato dagli studenti di Autonomia operaia, i quali si sono scontrati coi militanti del Partito comunista. È la rottura in atto da tempo tra il principale partito della sinistra e i giovani extraparlamentari, una lacerazione che in piccolo si va ripetendo tra padri e figli in tante famiglie italiane. Il leader degli autonomi è Toni Negri, professore di Scienze Politiche a Padova, che proprio nel 1979 - il 7 di aprile - viene arrestato su richiesta del pubblico ministero Pietro Calogero, assieme a centinaia di appartenenti al gruppo. Qualcuno ha scritto che il cattivo maestro, poi esule in Francia, sia stato tra i fondatori delle Brigate rossonere del Milan, come riportato ancora oggi da alcuni siti. A noi non risulta. Sono i figli del movimento del 1977. Non hanno utopie da inseguire come i fratelli maggiori del Sessantotto, vivono un impasto di frustrazione, rabbia, eroina, disincanto, musica punk, sperimentazione, elementi che sono usciti dirompenti dalle vignette di Andrea Pazienza e dal rock demenziale degli Skiantos, entrambi protagonisti nella Bologna antagonista del 1977, la città che nel settembre di quell’anno ha ospitato il Convegno contro la repressione. A Roma si spara e si uccide per tutto: politica, droga, terrorismo. Ci si mette persino lo Stato, che incrocia la sua strada con la malavita. Il 20 marzo 1979 viene ucciso Mino Pecorelli, direttore della rivista Op, iscritto alla loggia massonica P2 e depositario di molti segreti e di troppi dossier. L’uccisione è stata commissionata da qualche mandante insospettabile e a sparare è stata la Banda della Magliana, uno strano coacervo di testaccini e balordi della periferia che in pochi anni hanno preso il controllo della città con le armi e con il controllo dello spaccio. La loro attività di borgata incrocerà l’eversione nera e altre pagine inquietanti nella storia del Paese. Che ci sia di mezzo o no lo Stato, la pagina più orrenda del terrorismo si è scritta il 16 marzo 1978, giorno del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro in via Mario Fani. Alle 9 di mattino, nelle ore in cui l’Italia aspettava la nascita del nuovo governo di solidarietà nazionale presieduto da Andreotti, un commando di terroristi ha sparato centinaia di colpi, uccidendo i 5 uomini della scorta. Le Brigate Rosse, fondate a Milano una decina d’anni prima da Renato Curcio e Alberto Franceschini, hanno vissuto in via Fani la fase più sanguinaria di una parabola criminale, rappresentata dall’enigmatico Mario Moretti, capo della colonna romana. È lui che ha interrogato il leader DC nella prigione del popolo nei 55 giorni del sequestro, in un succedersi di lettere che formano il memoriale Moro, fotografie dell’ostaggio col viso scarnito, comunicati firmati con la stella a cinque punte. L’Italia è rimasta paralizzata fino al 9 maggio 1978, quando Aldo Moro è stato ritrovato senza vita in via Caetani. Non è un luogo casuale, è un vicolo posto a metà strada tra piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana - là dove il segretario Martinazzoli ha vissuto con profonda angoscia - e via delle Botteghe oscure, storica sede del Partito Comunista, in cui Berlinguer ha cresciuto un nuovo gruppo dirigente formato da Achille Occhetto, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Il corpo di Moro è stato lasciato nel centro di Roma, nel cuore esatto del potere. Nel bagagliaio della Renault 4 rossa, piegato e sotto una coperta, non si è celato il corpo di un uomo, ma quello più grande dello Stato. È la notte della Repubblica. Una telefonata aveva squarciato così l’Italia. La violenza politica, di cui sono imbevuti i giovani del 1979, si trasferisce al calcio. In curva si mimano le P38 con le tre dita sollevate in aria, ci si cala i passamontagna sul volto, l’abbigliamento è paramilitare come quello dei ragazzi che in strada giocano a fare la rivoluzione. Nascono i fedayn, i boys, gli ultras. Feconda è anche la sottocultura giovanile britannica, quella dei mods, dei punk, degli skinhead.

Mentre Vincenzo Paparelli è in viaggio verso l’Olimpico, molti dei nuovi tifosi di curva sono da tempo davanti allo stadio. Hanno preparato striscioni, coreografie e botti per il pomeriggio. Se la Roma ha il Commando ultrà curva sud, da cui tra pochi minuti partirà il razzo assassino, i laziali sono raggruppati negli Eagles Supporters. Sono anni in cui il panorama del tifo italiano cambia dappertutto nomi e riti. Le curve praticano la violenza, ma hanno un carattere spontaneo e più colorato, che scomparirà col passare degli anni, lasciando spazio alle mafie e al nero odierni. Nei Settanta ci sono tamburi, cori, bandiere, e ci sono ragazzi magri, un po’ per la dieta povera di zuccheri, un po’ perché consumati dall’eroina. Uno di questi si chiama Giovanni Fiorillo e sta per fare il suo ingresso nella nostra storia. Giovanni Fiorillo è romano. È romano di via Porta Vittorio Emanuele. È figlio di Candida, che ha un banco di fiori, e di Giacomo, che è meccanico come Vincenzo Paparelli. Ha abbandonato le scuole prima della fine delle medie. E ha già ricevuto due condanne: una per furto e un’altra per furto aggravato, un borseggio che gli è costato 4 mesi. Lo chiamano lo tzigano, perché ha orecchino al lobo e lunghi capelli. Ha lavorato per qualche periodo come imbianchino. Ma è un balordo, si trascina lungo le giornate. E ha già una nemica in corpo: l’eroina. Alle 12, Vincenzo Paparelli lascia via Dronero. Nella stessa palazzina abitano la sorella Luciana e il fratello Angelo, la cui moglie è incinta. Angelo è abbonato, ma rinuncia al derby per starle accanto e cede la tessera al fratello. La vita è beffarda. Quell’abbonamento e lo spuntare del sole hanno fatto cambiare idea alla famiglia Paparelli, intenzionata a visitare i nonni a Valmontone. I genitori hanno preparato i panini per lo stadio, perché funziona così nell’Italia frugale di allora, prima di salutare i figli. In particolare al piccolo Gabriele, tifosissimo della Lazio come papà. Dopo avere comprato il biglietto per la moglie, 2.200 lire, alle ore 13 Vincenzo entra all’Olimpico. Tra meno di un’ora sarà morto. All’inizio i Paparelli scelgono un posto in basso nella Curva Nord, ma la panca di legno - bagnata dalla pioggia del mattino - consiglia loro di risalire fino ai gradoni in marmo. Vincenzo e Vanda si avvicinano alla zona che confina con la tribuna Monte Mario, poi optano per due posti a ridosso dell’ingresso 57, leggermente spostato su Tribuna Tevere. L’uscita è vicina e si può scappare in fretta: questo ha detto Vanda a Vincenzo. La tensione all’interno dello stadio è infatti palpabile: striscioni contro Rocca spuntano nella Nord, cori e botti partono dalla Curva Sud. Ed è lì che Giovanni Fiorillo sta armeggiando con un tubo in metallo che permette di sparare dei terribili razzi acquistati il giorno prima nel negozio di Romolo Piccionetti. Il commerciante li ha venduti senza chiedere il porto d’armi, come impone la legge 110 del 1975. Quei razzi sono piccoli missili, con una gettata lunghissima, di centinaia di metri. Il primo dei tre, sparato alle 13.15, ha sorvolato la curva Nord, per spegnersi all’esterno dello stadio. Il terzo non verrà invece acceso, perché è il secondo a cambiare la storia del 28 ottobre 1979 e di Vincenzo Paparelli. Invece di raccontarlo noi, lasciamo la ricostruzione di quegli attimi alle parole scelte dai giudici. La Corte di Cassazione di Roma, il cosiddetto palazzaccio a ridosso del Tevere, solenne e imponente, è il luogo in cui lo Stato giudica in ultimo grado. Ed è da lì che viene questo documento di portata eccezionale nell’economia della nostra storia, ottenuto dopo parecchie settimane di attesa e dopo numerose richieste avanzate al Tribunale di Roma. Si tratta appunto della sentenza di Cassazione sull’omicidio, firmata l’11 gennaio 1988 dal presidente Corrado Carnevale, che i giornali hanno ribattezzato giudice "ammazzasentenze". Ecco il passaggio che riguarda la nostra vicenda: "Il razzo mortale, costituito da un tubo esterno con funzione di custodia e anche di orientamento al momento del lancio, aveva seguito una traiettoria bassa, quasi rasente al suolo, e quando colpì il Paparelli, ad un occhio, era ancora in fase di accelerazione; il razzo consentiva, dopo lo strappo di una catenella, tutto il tempo sufficiente per prendere la mira senza fretta mediante l’angolazione del tubo ritenuta più opportuna: il lancio dei razzi era stato iniziato dal Fiorillo, come era stato preordinato con il Marcioni e l’Angelini, per reazione alle previste provocazioni dei tifosi laziali, che si erano concretate, peraltro dopo altre manifestazioni di intolleranza dei tifosi romanisti". Fiorillo non ha sparato da solo, dunque. Con lui c’era l’amico Enrico Marcioni, ancora minorenne, e c’era Marco Angelini, altro membro del Cucs giallorosso. Proprio la Cassazione, dopo la sentenza di primo grado del 3 luglio 1981, e dopo il secondo grado pronunciato l’8 maggio 1987, fisserà le seguenti pene definitive: 6 anni e 10 mesi di detenzione per Fiorillo, 6 anni e 10 mesi per Angelini, 4 anni e 10 mesi per Marcioni. Al di là della giustizia, ciò che resta è la morte di un giovane uomo di 33 anni. Il razzo, radente, ha attraversato l’intero stadio. Quasi 250 metri. Ha superato la pista di atletica, poi il campo e infine la pista opposta, tutto nello stupore generale. Vanda ha sentito un sibilo, ma ha capito la portata del dramma quando si è girata verso il marito. Vincenzo Paparelli ha conficcato nell’occhio sinistro un razzo potentissimo, costruito da un’azienda lombarda e usato in mare per la segnalazione a grande distanza. La situazione appare subito disperata. Tocca alla moglie estrarre l’oggetto dall’occhio e questo le costerà un’ustione alla mano che si porterà dietro per tutta la vita. Vincenzo è a terra in una pozza di sangue. Gli infermieri lo caricano su un’ambulanza diretta all’ospedale Santo Spirito. Sono le 13.30 di domenica 28 ottobre 1979, il calcio italiano sta guardando, in presa diretta, alla propria morte. La copertina del Guerin Sportivo riassume alla perfezione il sentimento di quel giorno. La corsa verso il Santo Spirito, struttura sanitaria posizionata nel cuore di Roma, si fa frenetica e sempre più inutile. È in questo ospedale della capitale, quando l’orologio indica le 14, che muore Vincenzo Paparelli. Lì accorrono il presidente del Coni, Franco Carraro, e le altre autorità sportive. L’atto del decesso lo firma il professor Ronchetti: è il numero 6.220. Così recita l’autopsia: "Il razzo aveva perforato l’occhio sinistro, sfondando la zona parietale, tranciando i vasi sanguigni, ledendo il cervello". Ancora più crude le parole del dottor Trastovini, il primo a prestare soccorso: "Non assomigliava neanche a una ferita di guerra: era molto di più". Le squadre stanno per entrare in campo nel momento in cui il decesso viene confermato, prima da Radio Rai e poi dalle nascenti radio locali. Adesso c’è un morto e la notizia diventa complessa da gestire all’Olimpico. In particolare per l’arbitro Pietro D’Elia. Nel tunnel che conduce al campo, ci sono discussioni agitate tra giocatori e direttore di gara. Che cosa fare ? C’è sgomento, ci sono soprattutto angoscia e paura per quanto può succedere ora. Molti sostenitori hanno lasciato lo stadio, ma all’Olimpico ci sono comunque 50mila persone da salvaguardare. La decisione di giocare spetta a D’Elia, che la prende dopo avere consultato i responsabili dell’ordine pubblico, questore e capi della polizia. Una parte di loro è concentrata nel mantenere il difficile controllo sulla sicurezza, un’altra si attiva subito per le prime indagini. Saranno 150 le perquisizioni e gli interrogatori fatti prima di sera, tutto coordinato dalla mobile e dalla procura romana. In Curva Sud, il resto dei tifosi si è rivoltato contro Fiorillo, urlandogli assassino. Il panico lo assale e lo mette in fuga, reazione che lo spingerà all’immediata latitanza, sin dalla prima notte. La meta è la Svizzera. Vi mostriamo un documento ripescato dall’archivio del settimanale Oggi: è l’intervista che l’inviato del periodico, Gian Paolo Rossetti, realizza con l’omicida, il quale ha telefonato più volte ad Angelo Paparelli per chiederne il perdono. Nell’intervista, fatta a Lugano, Fiorillo annuncia di volersi costituire. Bisognerà aspettare il gennaio 1981 per apprendere, nell’edizione di pranzo del Tg2, che l’assassino si è arreso. La partita va giocata. Questo ha deciso D’Elia dopo avere consultato i presidenti delle due squadre: il laziale Umberto Lenzini e il romanista Dino Viola. Nel tunnel d’ingresso nessuno ha più parlato. È un silenzio pesante, che non appartiene alle abitudini chiassose della Serie A. In quello spazio in genere si scherza e si ride. Oggi nessuno parla, nessuno fiata. Le squadre si avviano verso il centro del campo mentre sugli spalti accade di tutto. I tifosi della Lazio cercano di infrangere le barriere che dividono la Curva Nord dalle tribune. Una seconda parte abbandona le gradinate e cerca di raggiungere la Sud passando dall’esterno, per fortuna bloccata per tempo da polizia e carabinieri. Chi è ancora fermo in curva, si oppone alla decisione di giocare e deve intervenire il capitano Pino Wilson per placare la rabbia dei tifosi. Una rabbia incontrollata e incontrollabile.

Nel popolo laziale quella morte riaccende un altro dolore recente, quello vissuto due anni prima per la morte di Re Cecconi. Il 19 gennaio 1977, assieme al compagno Ghedin, il ragazzo biondo di Nervesia, provincia di Milano, era entrato nel negozio del gioielliere Bruno Tabocchini, quartiere Fleming. Con loro, un terzo uomo, il profumiere Giorgio Fraticcioli. Tutto era accaduto in pochi istanti. Qualcuno parlerà di uno scherzo di pessimo gusto, con una frase buttata lì ("questa è una rapina"), che Re Cecconi quasi certamente non ha mai pronunciato. Tabocchini, scosso da una serie di rapine nei mesi precedenti, ha puntato la pistola su Ghedin, che ha fatto in tempo ad alzare le braccia, e poi l’ha girata su Re Cecconi. La pallottola l’ha raggiunto in pieno petto. Una morte assurda e insopportabile, non certo l’unica di questo tipo in anni, di paura di rapine e di sequestri di persone. È un’Italia che in estate, sotto l’ombrellone, canta le canzoni di Riccardo Fogli, ma che in inverno, in città, gira armata. Dalle 25mila licenze richieste nel 1960 si è passati alle 172mila del 1976. La Lazio ne è un esempio: Smith and Wesson, 38 special, Winchester. Lo spogliatoio assomiglia a un arsenale. Ognuno pensa a farsi giustizia da sé, come ha visto fare nei film americani a Clint Eastwood, l’ispettore Callaghan con la magnum 44. Anche il cinema italiano tenta qualcosa di simile con il genere poliziesco. Sparatorie e rincorse, omicidi e borseggi, con le indagini portate avanti spesso dall’attore Maurizio Merli. I titoli costituiscono a loro volta un filone: Roma a mano armata, Quelli della calibro 38, Torino nera, Milano violenta, Squadra speciale antirapina, Napoli si ribella, La mano spietata della legge, La Polizia sta a guardare. Alle 14.30 Roma sa che all’Olimpico ci è scappato il morto. Nel Paese la notizia arriva dalla tv, da Domenica In, passata alla conduzione di Pippo Baudo dopo essere nata tre anni prima con Corrado. La capitale è sconvolta, gli assalti dei tifosi laziali dureranno ore. Alla sera, alcuni tenteranno di raggiungere la sede della Roma, anche qui bloccati da un cordone delle Forze dell’Ordine. In via Dronero non c’è più nessuno. I fratelli di Vincenzo Paparelli sono corsi al Santo Spirito, il piccolo Gabriele è stato invece lasciato a dei vicini di casa, che hanno il compito di tenerlo occupato e distratto da quanto sta avvenendo. All’Olimpico la partita è intanto iniziata. Sono 90 minuti privi di razionalità, senza senso. Qualcuno scriverà correttamente che quella partita non si è mai giocata. Sul tabellino resteranno il gol del laziale Zucchini, segnato dopo appena 6 minuti di gioco, e il pareggio di Roberto Pruzzo, arrivato al sedicesimo. In realtà quella partita deve scongiurare altre provocazioni e i calciatori si sono mostrati responsabili. Lo saranno ancora di più fra tre settimane, nel derby a squadre miste, il cui ricavato sarà devoluto alla famiglia Paparelli. Questa lettera del presidente Dino Viola testimonia la disponibilità data dalla Roma alla vedova per giocare quella partita: "Cara Signora, nei giorni che hanno seguito la tremenda tragedia che colpito lei e la sua famiglia, ho pensato molto spesso al vostro dolore e vi sono stato costantemente vicino con il pensiero. Come le è noto, la mia società sta attivamente adoperandosi con la SS Lazio per cercare di concretizzare la nota iniziativa al fine di aiutarla nel ricordo di suo marito, alla cui memoria ci sentiamo legati come uomini, come sportivi e come società. Spero di rivederla presto e nel frattempo le rinnovo le mie personali condoglianze e quelle dell’AS Roma tutta con la speranza che ritorni in lei al più presto la serenità pur nel ricordo del suo compianto marito". Non esistono riprese filmate dell’amichevole dell’amicizia, come fu chiamata, ma grazie alla straordinaria passione di alcuni collezionisti, siamo comunque in grado di farvi vedere le maglie originali con cui si giocò all’Olimpico nel pomeriggio di domenica 18 novembre 1979. Con la casacca verde scese in campo la formazione dei nativi di Roma, tra cui comparivano Bruno Giordano e Agostino Di Bartolomei, in maglia bianca, confezionata dallo stesso sponsor tecnico che serviva le due squadre capitoline in campionato, si esibì invece il Resto d’Italia, ossia i giocatori nati fuori della capitale, tra cui spiccava Roberto Pruzzo. Fu lui a decidere la partita, con una doppietta che fissò il risultato sul 2-1 finale.

Alle 17 l’Olimpico è ormai svuotato, sugli spalti restano le cartacce, le schedine del Totocalcio gettate a terra e i resti dei pranzi al sacco. Rimane anche il cappotto di Paparelli in curva Nord. Quella foto è il simbolo della morte nel calcio. Il primo morto in uno stadio di calcio italiano non è stato Vincenzo Paparelli, ma Giuseppe Plaitano, tifoso della Salernitana, raggiunto dal proiettile di un carabiniere, sparato in risposta all’invasione di campo dei tifosi. È il 1963. Ma Paparelli è il primo a morire per mano di un altro. E non resterà l’ultimo. Il 30 settembre 1984 viene ucciso Marco Fonghessi, anni 21, dopo un Milan-Cremonese. Poi tocca a Nazzareno Filippini, che cade dopo Ascoli-Inter del 9 ottobre 1988 per mano di ultras nerazzurri. Si sarebbe sposato pochi giorni dopo e la famiglia non ha mai avuto giustizia. Stessa stagione e Antonio De Falchi muore per un infarto durante una fuga prima di Roma-Milan. Aveva solo 18 anni. Come soli 22 ne aveva Salvatore Moschella, morto il 30 gennaio 1994. Il 29 gennaio 1995 tocca a Vincenzo Spagnolo. Pochi minuti prima di Genoa-Milan viene accoltellato da un tifoso rossonero. Una lista che corre sino a noi, sino a oggi. Antonino Currò, Sergio Ercolano, Filippo Raciti, Gabriele Sandri, Matteo Bagnaresi, Ciro Esposito, Daniele Belardinelli. Morto in prossimità del calcio. Tutti dormono sulla collina. Alle 19 Roma è ancora sotto shock per quanto è accaduto. Le immagini della Rai raggelano le case degli italiani e si diffondono anche nei bar. In uno di questi c’è il piccolo Gabriele, che tra poco tornerà a casa e scoprirà di non avere più un papà. Di Paparelli si parlerà per mesi ovunque: nei luoghi di lavoro, nei temi dei bambini delle elementari, nelle famiglie. Molte di queste decideranno di raccogliere pochi soldi e di mandarli - accompagnati in genere da un biglietto di condoglianze - alla signora Vanda Paparelli. La discussione si accende pure nel mondo politico. Per la prima volta si prende atto dell’esistenza di un’emergenza stadio. Quel delitto ha obbligato il Parlamento ad aprire gli occhi e quello che vi mostriamo è un altro documento significativo. Si tratta della seduta tenuta a Montecitorio il 31 ottobre, tre giorni dopo, nelle ore del funerale. Tocca al deputato Greggi interpellare il presidente del Consiglio, Francesco Cossiga e il ministro dell’Interno Virginio Rognoni, richiamando il governo a un’azione repressiva, che in effetti si registrerà in quelle settimane. Alle 20, quando gli italiani ormai cenano davanti al Tg1, Gabriele Paparelli rientra a casa. In via Dronero ci sono decine di giornalisti, televisioni, poliziotti, vicini di casa. Più persone ci sono e più Gabriele, Marco e per la madre Vanda finiscono per sentirsi soli. Il 28 ottobre 1979 sta ormai per chiudersi, ma prima c’è ancora tempo per la Domenica Sportiva. È la trasmissione che incolla dieci milioni di persone, ogni weekend, davanti alle immagini del campionato. È attesa, bramata, perché quello sono tra le pochissime cose sportive che la Tv di Stato mette in onda. Ma lo studio della Ds stavolta è cupo. Quel programma è l’ultimo appuntamento prima di andare a letto e rialzarsi la mattina dopo per ricominciare in ufficio o a scuola. Sta per iniziare una nuova settimana, una settimana che vedrà il funerale di Paparelli, con lo strazio della moglie Vanda e la disperazione dei genitori. Ed è anche l’inizio di una serie inaudita di offese, ingiurie, offese alla memoria. Scritte sui muri di Roma, urlate allo stadio. In troppi hanno offeso senza motivo un uomo già morto, un uomo di 33 anni ammazzato da un razzo sparato da un ragazzo che morirà nel 1993, ironia della sorte, a 33 anni. Ma insieme agli idioti, Vincenzo Paparelli ha riunito i tanti, tantissimi tifosi della Lazio che per quarant’anni hanno ricordato e onorato ogni giorno questo sfortunatissimo uomo. I murales, un parco che porta il suo nome, la lapide che qualche anno fu disvelata in quella nord nella quale Vincenzo aveva perso la vita, lo stesso luogo in cui la domenica sventola spesso una bandiera con il suo volto. Oggi Vincenzo Paparelli riposa a Prima Porta, in una tomba di famiglia, su cui tanti sono passati in questi anni a pregare e a portare fiori. Tra questi silenzi, in un’eternità che profuma solo della resina degli alberi e di pace, tantissima pace, resta il suo nome ad ammonire ciascuno noi su cosa possono produrre l’odio, l’intolleranza e la violenza. Paparelli morì in un’Italia in cui si cadeva per poco. Si moriva per il colore di una sciarpa, per un taglio di capelli lungo o corto, per un errore stupido. La sua fine fu così: un tragico e terribile errore. Quel 28 ottobre 1979 entrò nella storia con Vincenzo perché fu il giorno in cui il pallone perse all’improvviso la sua spensieratezza, la sua meravigliosa leggerezza. E lasciò dentro di noi qualcosa di brutto che prima non c’era. Ma proprio perché sono passati 40 anni e perché Silvia e gli altri bambini hanno diritto a godere dell’essenza del calcio, che è uno dei pochi luoghi in cui si può sorridere ed essere felici, bisogna ricordare questo uomo, questo padre di famiglia orgoglioso dei suoi figli e delle sue mani sporche da meccanico. È stato lui, un po’ per tutti, a pagare la violenza di quegli anni, la rivalità trasformata in odio, il tifo divenuto battaglia. Il calcio non può diventare mai guerra. Il calcio è vita, passione, è negazione stessa della morte. Da Prima Porta, in questo luogo dove gli uomini sono uguali e dove le stupide rivalità della terra non hanno più senso, ci arriva tutto questo. Se sapremo ascoltare dentro quel profondo silenzio che si alza da tutto questo marmo, capiremo. Nessuno uccida più Vincenzo Paparelli.

28 ottobre 2019

Fonte: Sport.sky.it

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