L'omicidio Paparelli nello speciale "Storie" di
Matteo Marani
Ci sono giorni che si depositano nel fondo di
una città. Il 28 ottobre 1979 Roma si risvegliò
sotto una leggera pioggia di fine autunno. La
temperatura era di 17 gradi. C’erano le solite
acque del Tevere, i soliti ponti, i soliti
bassorilievi barocchi e la solita magnificenza
della città più bella al mondo. Si ripeterono le
abitudini di ogni domenica: i mercatini a Porta
Portese, i turisti nei caffè, la benedizione di
Giovanni Paolo II ai fedeli in piazza San
Pietro. Pure il calcio stava per mettere in
scena il suo rituale appuntamento. Il derby tra
Roma e Lazio, fissato alle ore 14.30, era
valevole per la settima giornata del campionato.
Derby 28 ottobre 1979 - In via Dronero
(omissis), nella lontana periferia nordovest di
Roma, in un anonimo punto in cui Casal del Marmo
incrocia Casa Lotti-Boccea, i quattro componenti
di casa Paparelli si alzarono tardi. Per il
capofamiglia, Vincenzo, quello era l’unico
giorno di riposo della settimana. Svegliò la
moglie Vanda verso le 9 e poi i figli: Marco, di
13 anni, e Gabriele, di 8. La radio accesa, la
colazione preparata ai ragazzi. Era una giornata
di festa in una comune famiglia italiana degli
Anni 70. Vincenzo e quella domenica 28 ottobre
1979 entrarono insieme nei libri di storia, ma
dalla porta sbagliata. Accadde ciò che nessuno
avrebbe mai immaginato che accadesse: la morte
di un tifoso allo stadio. La tragedia di un uomo
che come unica colpa aveva quella di tifare la
sua squadra: la Lazio. Fu la prima volta che
avvenne in Serie A e fu la perdita
dell’innocenza di tutto il calcio. Nulla, da
quel 28 ottobre 1979, è stato più come prima.
Gli italiani appresero dalla voce di Giampiero
Galeazzi che il loro rapporto con il pallone era
cambiato per sempre. Vincenzo Paparelli,
protagonista sfortunato di questa storia, nel
1979 ha appena 33 anni. È infatti nato a Roma il
primo maggio 1946, il giorno dei lavoratori. E
lui è un lavoratore eccezionale, instancabile.
Il figlio di Gustavo e Triestina, umile coppia
di Valmontone, è infatti riuscito a mettersi in
proprio e a comprarsi un’autofficina col
fratello Angelo. Sacrifici, debiti, sudore.
Dista poco lontano da casa, in via Boccea. È un
figlio del dopoguerra, Vincenzo. È orgoglioso
della Bmw che è riuscito a comprarsi con non
poca fatica l’anno precedente. Veste in tuta da
meccanico tutto il giorno. Ha conosciuto Vanda
fuori da un negozio dove lei fa la commessa. È
una bella ragazza. Vincenzo la sposa pochi anni
dopo, ma per il viaggio di nozze non sceglierà
le Maldive, bensì Torino, perché a Torino ci ha
fatto il militare. Questa è l’Italia di
Vincenzo.
La stracittadina del 28 ottobre serve
a fissare il primato cittadino, dato che quello
nazionale è fuori della portata delle due
società. Il 1979 è infatti un periodo poco
brillante per il calcio della capitale. Nella
stagione precedente, la Roma si è salvata nelle
ultime giornate, con dei pareggi stiracchiati.
La Lazio ha fatto meglio, ottavo posto, ma a
distanza siderale dal Milan campione d’Italia.
Quel successo rossonero, ottenuto grazie
all’ultimo scampolo agonistico di Gianni Rivera
e costruito dalla sapiente guida di Nils
Liedholm - l’allenatore che ora siede proprio
sulla panchina della Roma - ha cucito sulle
divise milaniste la stella. Al primo derby
romano della stagione 1979-80, le squadre
arrivano con un punto di distanza: 6 la Lazio, 5
la Roma. Davanti, in una fuga solitaria che
durerà l’intera stagione, si è già piazzata
l’Inter di Eugenio Bersellini, la quale si
appoggia sui gol di Spillo Altobelli, sulle
invenzioni di Beccalossi e sulla continuità di
rendimento di Oriali, Marini, Bini, Muraro e
Bordon. È un campionato ancora senza stranieri,
l’ultimo della chiusura, e l’Inter gioca
all’italiana, catenaccio e contropiede. Finirà
davanti alla Juventus di Trapattoni e al Milan
di Giacomini, terzo in classifica e presto
investito dallo scandalo del Totonero, con
conseguente retrocessione in Serie B. Lo stesso
destino attende pure la Lazio, ormai ben poca
cosa rispetto alla bellissima formazione di
cinque anni prima, quella dello scudetto
conquistato il 12 maggio ‘74 alla penultima di
campionato contro il Foggia. Una squadra, lei
sì, entrata dalla porta giusta della storia.
Aveva stregato con le giocate del giovane e
talentuosissimo Vincenzo D’Amico, l’agonismo di
Re Cecconi, la tempra difensiva di Martini e del
portiere Felice Pulici, le sgroppate di Mario
Frustalupi. E i due ragazzi arrivati
dall’Internaples: Pino Wilson e Giorgio
Chinaglia. Long John non è stato soltanto il
giocatore più forte nell’ultrasecolare vita
della Lazio, è stato il leader dello
spogliatoio, il re degli scherzi, il nemico
giurato dei romanisti, il leader nelle battaglie
- costanti e volute - contro ogni avversario.
Chinaglia personaggio sfrontato e irriverente,
che in questo derby 1979 in scala minore
tuttavia non c’è: vive a New York e gioca nei
Cosmos con compagni del calibro di Pelé e
Beckenbauer. Se i biancazzurri stentano a
ritrovarsi dopo l’euforia passata, dall’altro
lato del Tevere la Roma sta allestendo la
squadra che tre anni più tardi vincerà il
campionato. Ci sono alcuni futuri idoli: da
Roberto Pruzzo, prelevato dal Genoa, carattere
ombroso e cuore d’oro, all’emergente Carlo
Ancelotti; da Agostino Di Bartolomei - troppo
presto reclamato dagli angeli - a Bruno Conti,
il ragazzo cresciuto nel sogno del baseball a
Nettuno e prossimo all’incredibile trionfo
Mundial dell’82. Quando il derby va in scena,
sulla panchina giallorossa è seduto da pochi
mesi Nils Liedholm: modi eleganti, ironia
soffusa, lo svedese coniuga razionalità nordica
ed emotività latina. Sorride e stempera tutto,
il Barone, aggiungendo la lettura degli astri e
la cartomanzia. Le carte migliori, però, le
mette in campo e l’8 maggio 1983, con la classe
aggiuntiva di Paulo Roberto Falcao, porterà la
squadra al secondo scudetto. In un tripudio di
bandiere e lacrime, sarà Antonello Venditti a
intonare al Circo Massimo l’indimenticabile
"Grazie Roma".
Il 28 ottobre, a mezzogiorno, mentre le squadre
viaggiano in direzione Olimpico, e mentre i
coniugi Paparelli decidono di andare allo stadio
perché è spuntato il sole, Roma guarda col suo
secolare fatalismo a quanto sta accadendo nelle
proprie strade. Da anni la città è diventata
l’epicentro di una violenza in aumento in tutto
il Paese. Strisce di sangue rimangono
sull’asfalto ogni mattina e sera, in centro come
in periferia. Ai militanti di sinistra è
interdetta Roma Nord, dove maggiore è la
presenza dell’estrema destra, ragazzi del Fronte
del Gioventù vengono uccisi ad Acca Laurenzia
nel gennaio ‘78. Non si cercano più le ragioni
degli uni o degli altri. Si impugnano chiavi
inglesi, coltelli, bastoni, pistole, come quelle
utilizzate da un gruppo di fascisti per fare
irruzione a Radio Città Futura all’inizio del
1979. Ancor prima dell’ideologia, la differenza
è scritta nell’abbigliamento. Eskimo contro Ray
Ban, stivaletti contro Clarks. La violenza
diviene un macabro gioco e tutto quanto è
accaduto durante gli anni precedenti - ossia
l’innalzamento della tensione - si condensa in
questa stagione di sangue. Si ammazza per dare
visibilità alla propria azione, per dimostrare
di esistere, a volte sbagliando nomi o indirizzi
delle vittime. I numeri sul terrorismo in Italia
dicono tutto: 29 omicidi nel ‘78, 22 nel ‘79, 30
nell’80. Servirà un altro assassinio, quello
dell’operaio Guido Rossa a Genova, in questo
1979, per spezzare la complicità tra fabbrica e
brigatisti. Nel marzo 1977 Luciano Lama è stato
cacciato dalla Sapienza, contestato dagli
studenti di Autonomia operaia, i quali si sono
scontrati coi militanti del Partito comunista. È
la rottura in atto da tempo tra il principale
partito della sinistra e i giovani
extraparlamentari, una lacerazione che in
piccolo si va ripetendo tra padri e figli in
tante famiglie italiane. Il leader degli
autonomi è Toni Negri, professore di Scienze
Politiche a Padova, che proprio nel 1979 - il 7
di aprile - viene arrestato su richiesta del
pubblico ministero Pietro Calogero, assieme a
centinaia di appartenenti al gruppo. Qualcuno ha
scritto che il cattivo maestro, poi esule in
Francia, sia stato tra i fondatori delle Brigate
rossonere del Milan, come riportato ancora oggi
da alcuni siti. A noi non risulta. Sono i figli
del movimento del 1977. Non hanno utopie da
inseguire come i fratelli maggiori del
Sessantotto, vivono un impasto di frustrazione,
rabbia, eroina, disincanto, musica punk,
sperimentazione, elementi che sono usciti
dirompenti dalle vignette di Andrea Pazienza e
dal rock demenziale degli Skiantos, entrambi
protagonisti nella Bologna antagonista del 1977,
la città che nel settembre di quell’anno ha
ospitato il Convegno contro la repressione. A
Roma si spara e si uccide per tutto: politica,
droga, terrorismo. Ci si mette persino lo Stato,
che incrocia la sua strada con la malavita. Il
20 marzo 1979 viene ucciso Mino Pecorelli,
direttore della rivista Op, iscritto alla loggia
massonica P2 e depositario di molti segreti e di
troppi dossier. L’uccisione è stata
commissionata da qualche mandante insospettabile
e a sparare è stata la Banda della Magliana, uno
strano coacervo di testaccini e balordi della
periferia che in pochi anni hanno preso il
controllo della città con le armi e con il
controllo dello spaccio. La loro attività di
borgata incrocerà l’eversione nera e altre
pagine inquietanti nella storia del Paese. Che
ci sia di mezzo o no lo Stato, la pagina più
orrenda del terrorismo si è scritta il 16 marzo
1978, giorno del sequestro del presidente della
Democrazia Cristiana Aldo Moro in via Mario
Fani. Alle 9 di mattino, nelle ore in cui
l’Italia aspettava la nascita del nuovo governo
di solidarietà nazionale presieduto da
Andreotti, un commando di terroristi ha sparato
centinaia di colpi, uccidendo i 5 uomini della
scorta. Le Brigate Rosse, fondate a Milano una
decina d’anni prima da Renato Curcio e Alberto
Franceschini, hanno vissuto in via Fani la fase
più sanguinaria di una parabola criminale,
rappresentata dall’enigmatico Mario Moretti,
capo della colonna romana. È lui che ha
interrogato il leader DC nella prigione del
popolo nei 55 giorni del sequestro, in un
succedersi di lettere che formano il memoriale
Moro, fotografie dell’ostaggio col viso
scarnito, comunicati firmati con la stella a
cinque punte. L’Italia è rimasta paralizzata
fino al 9 maggio 1978, quando Aldo Moro è stato
ritrovato senza vita in via Caetani. Non è un
luogo casuale, è un vicolo posto a metà strada
tra piazza del Gesù, sede della Democrazia
Cristiana - là dove il segretario Martinazzoli
ha vissuto con profonda angoscia - e via delle
Botteghe oscure, storica sede del Partito
Comunista, in cui Berlinguer ha cresciuto un
nuovo gruppo dirigente formato da Achille
Occhetto, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Il
corpo di Moro è stato lasciato nel centro di
Roma, nel cuore esatto del potere. Nel
bagagliaio della Renault 4 rossa, piegato e
sotto una coperta, non si è celato il corpo di
un uomo, ma quello più grande dello Stato. È la
notte della Repubblica. Una telefonata aveva
squarciato così l’Italia.
La violenza politica, di cui sono imbevuti i
giovani del 1979, si trasferisce al calcio. In
curva si mimano le P38 con le tre dita sollevate
in aria, ci si cala i passamontagna sul volto,
l’abbigliamento è paramilitare come quello dei
ragazzi che in strada giocano a fare la
rivoluzione. Nascono i fedayn, i boys, gli
ultras. Feconda è anche la sottocultura
giovanile britannica, quella dei mods, dei punk,
degli skinhead.
Mentre Vincenzo Paparelli è in
viaggio verso l’Olimpico, molti dei nuovi tifosi
di curva sono da tempo davanti allo stadio.
Hanno preparato striscioni, coreografie e botti
per il pomeriggio. Se la Roma ha il Commando
ultrà curva sud, da cui tra pochi minuti partirà
il razzo assassino, i laziali sono raggruppati
negli Eagles Supporters. Sono anni in cui il
panorama del tifo italiano cambia dappertutto
nomi e riti. Le curve praticano la violenza, ma
hanno un carattere spontaneo e più colorato, che
scomparirà col passare degli anni, lasciando
spazio alle mafie e al nero odierni. Nei
Settanta ci sono tamburi, cori, bandiere, e ci
sono ragazzi magri, un po’ per la dieta povera
di zuccheri, un po’ perché consumati
dall’eroina. Uno di questi si chiama Giovanni
Fiorillo e sta per fare il suo ingresso nella
nostra storia. Giovanni Fiorillo è romano. È
romano di via Porta Vittorio Emanuele. È figlio
di Candida, che ha un banco di fiori, e di
Giacomo, che è meccanico come Vincenzo
Paparelli. Ha abbandonato le scuole prima della
fine delle medie. E ha già ricevuto due
condanne: una per furto e un’altra per furto
aggravato, un borseggio che gli è costato 4
mesi. Lo chiamano lo tzigano, perché ha
orecchino al lobo e lunghi capelli. Ha lavorato
per qualche periodo come imbianchino. Ma è un
balordo, si trascina lungo le giornate. E ha già
una nemica in corpo: l’eroina. Alle 12, Vincenzo
Paparelli lascia via Dronero. Nella stessa
palazzina abitano la sorella Luciana e il
fratello Angelo, la cui moglie è incinta. Angelo
è abbonato, ma rinuncia al derby per starle
accanto e cede la tessera al fratello. La vita è
beffarda. Quell’abbonamento e lo spuntare del
sole hanno fatto cambiare idea alla famiglia
Paparelli, intenzionata a visitare i nonni a
Valmontone. I genitori hanno preparato i panini
per lo stadio, perché funziona così nell’Italia
frugale di allora, prima di salutare i figli. In
particolare al piccolo Gabriele, tifosissimo
della Lazio come papà. Dopo avere comprato il
biglietto per la moglie, 2.200 lire, alle ore 13
Vincenzo entra all’Olimpico. Tra meno di un’ora
sarà morto. All’inizio i Paparelli scelgono un
posto in basso nella Curva Nord, ma la panca di
legno - bagnata dalla pioggia del mattino -
consiglia loro di risalire fino ai gradoni in
marmo. Vincenzo e Vanda si avvicinano alla zona
che confina con la tribuna Monte Mario, poi
optano per due posti a ridosso dell’ingresso 57,
leggermente spostato su Tribuna Tevere. L’uscita
è vicina e si può scappare in fretta: questo ha
detto Vanda a Vincenzo. La tensione all’interno
dello stadio è infatti palpabile: striscioni
contro Rocca spuntano nella Nord, cori e botti
partono dalla Curva Sud. Ed è lì che Giovanni
Fiorillo sta armeggiando con un tubo in metallo
che permette di sparare dei terribili razzi
acquistati il giorno prima nel negozio di Romolo
Piccionetti. Il commerciante li ha venduti senza
chiedere il porto d’armi, come impone la legge
110 del 1975. Quei razzi sono piccoli missili,
con una gettata lunghissima, di centinaia di
metri. Il primo dei tre, sparato alle 13.15, ha
sorvolato la curva Nord, per spegnersi
all’esterno dello stadio. Il terzo non verrà
invece acceso, perché è il secondo a cambiare la
storia del 28 ottobre 1979 e di Vincenzo
Paparelli. Invece di raccontarlo noi, lasciamo
la ricostruzione di quegli attimi alle parole
scelte dai giudici. La Corte di Cassazione di
Roma, il cosiddetto palazzaccio a ridosso del
Tevere, solenne e imponente, è il luogo in cui
lo Stato giudica in ultimo grado. Ed è da lì che
viene questo documento di portata eccezionale
nell’economia della nostra storia, ottenuto dopo
parecchie settimane di attesa e dopo numerose
richieste avanzate al Tribunale di Roma. Si
tratta appunto della sentenza di Cassazione
sull’omicidio, firmata l’11 gennaio 1988 dal
presidente Corrado Carnevale, che i giornali
hanno ribattezzato giudice "ammazzasentenze".
Ecco il passaggio che riguarda la nostra
vicenda: "Il razzo mortale, costituito da un
tubo esterno con funzione di custodia e anche di
orientamento al momento del lancio, aveva
seguito una traiettoria bassa, quasi rasente al
suolo, e quando colpì il Paparelli, ad un
occhio, era ancora in fase di accelerazione; il
razzo consentiva, dopo lo strappo di una
catenella, tutto il tempo sufficiente per
prendere la mira senza fretta mediante
l’angolazione del tubo ritenuta più opportuna:
il lancio dei razzi era stato iniziato dal
Fiorillo, come era stato preordinato con il
Marcioni e l’Angelini, per reazione alle
previste provocazioni dei tifosi laziali, che si
erano concretate, peraltro dopo altre
manifestazioni di intolleranza dei tifosi
romanisti".
Fiorillo non ha sparato da solo, dunque. Con lui
c’era l’amico Enrico Marcioni, ancora minorenne,
e c’era Marco Angelini, altro membro del Cucs
giallorosso. Proprio la Cassazione, dopo la
sentenza di primo grado del 3 luglio 1981, e
dopo il secondo grado pronunciato l’8 maggio
1987, fisserà le seguenti pene definitive: 6
anni e 10 mesi di detenzione per Fiorillo, 6
anni e 10 mesi per Angelini, 4 anni e 10 mesi
per Marcioni. Al di là della giustizia, ciò che
resta è la morte di un giovane uomo di 33 anni.
Il razzo, radente, ha attraversato l’intero
stadio. Quasi 250 metri. Ha superato la pista di
atletica, poi il campo e infine la pista
opposta, tutto nello stupore generale. Vanda ha
sentito un sibilo, ma ha capito la portata del
dramma quando si è girata verso il marito.
Vincenzo Paparelli ha conficcato nell’occhio
sinistro un razzo potentissimo, costruito da
un’azienda lombarda e usato in mare per la
segnalazione a grande distanza. La situazione
appare subito disperata. Tocca alla moglie
estrarre l’oggetto dall’occhio e questo le
costerà un’ustione alla mano che si porterà
dietro per tutta la vita. Vincenzo è a terra in
una pozza di sangue. Gli infermieri lo caricano
su un’ambulanza diretta all’ospedale Santo
Spirito. Sono le 13.30 di domenica 28 ottobre
1979, il calcio italiano sta guardando, in presa
diretta, alla propria morte. La copertina del
Guerin Sportivo riassume alla perfezione il
sentimento di quel giorno. La corsa verso il
Santo Spirito, struttura sanitaria posizionata
nel cuore di Roma, si fa frenetica e sempre più
inutile. È in questo ospedale della capitale,
quando l’orologio indica le 14, che muore
Vincenzo Paparelli. Lì accorrono il presidente
del Coni, Franco Carraro, e le altre autorità
sportive. L’atto del decesso lo firma il
professor Ronchetti: è il numero 6.220. Così
recita l’autopsia: "Il razzo aveva perforato
l’occhio sinistro, sfondando la zona parietale,
tranciando i vasi sanguigni, ledendo il
cervello". Ancora più crude le parole del dottor
Trastovini, il primo a prestare soccorso: "Non
assomigliava neanche a una ferita di guerra: era
molto di più". Le squadre stanno per entrare in
campo nel momento in cui il decesso viene
confermato, prima da Radio Rai e poi dalle
nascenti radio locali. Adesso c’è un morto e la
notizia diventa complessa da gestire
all’Olimpico. In particolare per l’arbitro
Pietro D’Elia. Nel tunnel che conduce al campo,
ci sono discussioni agitate tra giocatori e
direttore di gara. Che cosa fare ? C’è sgomento,
ci sono soprattutto angoscia e paura per quanto
può succedere ora. Molti sostenitori hanno
lasciato lo stadio, ma all’Olimpico ci sono
comunque 50mila persone da salvaguardare. La
decisione di giocare spetta a D’Elia, che la
prende dopo avere consultato i responsabili
dell’ordine pubblico, questore e capi della
polizia. Una parte di loro è concentrata nel
mantenere il difficile controllo sulla
sicurezza, un’altra si attiva subito per le
prime indagini. Saranno 150 le perquisizioni e
gli interrogatori fatti prima di sera, tutto
coordinato dalla mobile e dalla procura romana.
In Curva Sud, il resto dei tifosi si è rivoltato
contro Fiorillo, urlandogli assassino. Il panico
lo assale e lo mette in fuga, reazione che lo
spingerà all’immediata latitanza, sin dalla
prima notte. La meta è la Svizzera. Vi mostriamo
un documento ripescato dall’archivio del
settimanale Oggi: è l’intervista che l’inviato
del periodico, Gian Paolo Rossetti, realizza con
l’omicida, il quale ha telefonato più volte ad
Angelo Paparelli per chiederne il perdono.
Nell’intervista, fatta a Lugano, Fiorillo
annuncia di volersi costituire. Bisognerà
aspettare il gennaio 1981 per apprendere,
nell’edizione di pranzo del Tg2, che l’assassino
si è arreso. La partita va giocata. Questo ha
deciso D’Elia dopo avere consultato i presidenti
delle due squadre: il laziale Umberto Lenzini e
il romanista Dino Viola. Nel tunnel d’ingresso
nessuno ha più parlato. È un silenzio pesante,
che non appartiene alle abitudini chiassose
della Serie A. In quello spazio in genere si
scherza e si ride. Oggi nessuno parla, nessuno
fiata. Le squadre si avviano verso il centro del
campo mentre sugli spalti accade di tutto. I
tifosi della Lazio cercano di infrangere le
barriere che dividono la Curva Nord dalle
tribune. Una seconda parte abbandona le
gradinate e cerca di raggiungere la Sud passando
dall’esterno, per fortuna bloccata per tempo da
polizia e carabinieri. Chi è ancora fermo in
curva, si oppone alla decisione di giocare e
deve intervenire il capitano Pino Wilson per
placare la rabbia dei tifosi. Una rabbia
incontrollata e incontrollabile.
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Nel popolo
laziale quella morte riaccende un altro dolore
recente, quello vissuto due anni prima per la
morte di Re Cecconi. Il 19 gennaio 1977, assieme
al compagno Ghedin, il ragazzo biondo di
Nervesia, provincia di Milano, era entrato nel
negozio del gioielliere Bruno Tabocchini,
quartiere Fleming. Con loro, un terzo uomo, il
profumiere Giorgio Fraticcioli. Tutto era
accaduto in pochi istanti. Qualcuno parlerà di
uno scherzo di pessimo gusto, con una frase
buttata lì ("questa è una rapina"), che Re
Cecconi quasi certamente non ha mai pronunciato.
Tabocchini, scosso da una serie di rapine nei
mesi precedenti, ha puntato la pistola su
Ghedin, che ha fatto in tempo ad alzare le
braccia, e poi l’ha girata su Re Cecconi. La
pallottola l’ha raggiunto in pieno petto. Una
morte assurda e insopportabile, non certo
l’unica di questo tipo in anni, di paura di
rapine e di sequestri di persone. È un’Italia
che in estate, sotto l’ombrellone, canta le
canzoni di Riccardo Fogli, ma che in inverno, in
città, gira armata. Dalle 25mila licenze
richieste nel 1960 si è passati alle 172mila del
1976. La Lazio ne è un esempio: Smith and
Wesson, 38 special, Winchester. Lo spogliatoio
assomiglia a un arsenale. Ognuno pensa a farsi
giustizia da sé, come ha visto fare nei film
americani a Clint Eastwood, l’ispettore
Callaghan con la magnum 44. Anche il cinema
italiano tenta qualcosa di simile con il genere
poliziesco. Sparatorie e rincorse, omicidi e
borseggi, con le indagini portate avanti spesso
dall’attore Maurizio Merli. I titoli
costituiscono a loro volta un filone: Roma a
mano armata, Quelli della calibro 38, Torino
nera, Milano violenta, Squadra speciale
antirapina, Napoli si ribella, La mano spietata
della legge, La Polizia sta a guardare. Alle
14.30 Roma sa che all’Olimpico ci è scappato il
morto. Nel Paese la notizia arriva dalla tv, da
Domenica In, passata alla conduzione di Pippo
Baudo dopo essere nata tre anni prima con
Corrado. La capitale è sconvolta, gli assalti
dei tifosi laziali dureranno ore. Alla sera,
alcuni tenteranno di raggiungere la sede della
Roma, anche qui bloccati da un cordone delle
Forze dell’Ordine. In via Dronero non c’è più
nessuno. I fratelli di Vincenzo Paparelli sono
corsi al Santo Spirito, il piccolo Gabriele è
stato invece lasciato a dei vicini di casa, che
hanno il compito di tenerlo occupato e distratto
da quanto sta avvenendo. All’Olimpico la partita
è intanto iniziata. Sono 90 minuti privi di
razionalità, senza senso. Qualcuno scriverà
correttamente che quella partita non si è mai
giocata. Sul tabellino resteranno il gol del
laziale Zucchini, segnato dopo appena 6 minuti
di gioco, e il pareggio di Roberto Pruzzo,
arrivato al sedicesimo. In realtà quella partita
deve scongiurare altre provocazioni e i
calciatori si sono mostrati responsabili. Lo
saranno ancora di più fra tre settimane, nel
derby a squadre miste, il cui ricavato sarà
devoluto alla famiglia Paparelli. Questa lettera
del presidente Dino Viola testimonia la
disponibilità data dalla Roma alla vedova per
giocare quella partita: "Cara Signora, nei giorni
che hanno seguito la tremenda tragedia che
colpito lei e la sua famiglia, ho pensato molto
spesso al vostro dolore e vi sono stato
costantemente vicino con il pensiero. Come le è
noto, la mia società sta attivamente
adoperandosi con la SS Lazio per cercare di
concretizzare la nota iniziativa al fine di
aiutarla nel ricordo di suo marito, alla cui
memoria ci sentiamo legati come uomini, come
sportivi e come società. Spero di rivederla
presto e nel frattempo le rinnovo le mie
personali condoglianze e quelle dell’AS Roma
tutta con la speranza che ritorni in lei al più
presto la serenità pur nel ricordo del suo
compianto marito". Non esistono riprese filmate dell’amichevole
dell’amicizia, come fu chiamata, ma grazie alla
straordinaria passione di alcuni collezionisti,
siamo comunque in grado di farvi vedere le
maglie originali con cui si giocò all’Olimpico
nel pomeriggio di domenica 18 novembre 1979. Con
la casacca verde scese in campo la formazione
dei nativi di Roma, tra cui comparivano Bruno
Giordano e Agostino Di Bartolomei, in maglia
bianca, confezionata dallo stesso sponsor
tecnico che serviva le due squadre capitoline in
campionato, si esibì invece il Resto d’Italia,
ossia i giocatori nati fuori della capitale, tra
cui spiccava Roberto Pruzzo. Fu lui a decidere
la partita, con una doppietta che fissò il
risultato sul 2-1 finale.
Alle 17 l’Olimpico è
ormai svuotato, sugli spalti restano le
cartacce, le schedine del Totocalcio gettate a
terra e i resti dei pranzi al sacco. Rimane
anche il cappotto di Paparelli in curva Nord.
Quella foto è il simbolo della morte nel calcio.
Il primo morto in uno stadio di calcio italiano
non è stato Vincenzo Paparelli, ma Giuseppe
Plaitano, tifoso della Salernitana, raggiunto
dal proiettile di un carabiniere, sparato in
risposta all’invasione di campo dei tifosi. È il
1963. Ma Paparelli è il primo a morire per mano
di un altro. E non resterà l’ultimo. Il 30
settembre 1984 viene ucciso Marco Fonghessi,
anni 21, dopo un Milan-Cremonese. Poi tocca a
Nazzareno Filippini, che cade dopo Ascoli-Inter
del 9 ottobre 1988 per mano di ultras
nerazzurri. Si sarebbe sposato pochi giorni dopo
e la famiglia non ha mai avuto giustizia. Stessa
stagione e Antonio De Falchi muore per un
infarto durante una fuga prima di Roma-Milan.
Aveva solo 18 anni. Come soli 22 ne aveva
Salvatore Moschella, morto il 30 gennaio 1994.
Il 29 gennaio 1995 tocca a Vincenzo Spagnolo.
Pochi minuti prima di Genoa-Milan viene
accoltellato da un tifoso rossonero. Una lista
che corre sino a noi, sino a oggi. Antonino
Currò, Sergio Ercolano, Filippo Raciti, Gabriele
Sandri, Matteo Bagnaresi, Ciro Esposito, Daniele
Belardinelli. Morto in prossimità del calcio.
Tutti dormono sulla collina. Alle 19 Roma è
ancora sotto shock per quanto è accaduto. Le
immagini della Rai raggelano le case degli
italiani e si diffondono anche nei bar. In uno
di questi c’è il piccolo Gabriele, che tra poco
tornerà a casa e scoprirà di non avere più un
papà. Di Paparelli si parlerà per mesi ovunque:
nei luoghi di lavoro, nei temi dei bambini delle
elementari, nelle famiglie. Molte di queste
decideranno di raccogliere pochi soldi e di
mandarli - accompagnati in genere da un
biglietto di condoglianze - alla signora Vanda
Paparelli. La discussione si accende pure nel
mondo politico. Per la prima volta si prende
atto dell’esistenza di un’emergenza stadio. Quel
delitto ha obbligato il Parlamento ad aprire gli
occhi e quello che vi mostriamo è un altro
documento significativo. Si tratta della seduta
tenuta a Montecitorio il 31 ottobre, tre giorni
dopo, nelle ore del funerale. Tocca al deputato
Greggi interpellare il presidente del Consiglio,
Francesco Cossiga e il ministro dell’Interno
Virginio Rognoni, richiamando il governo a
un’azione repressiva, che in effetti si
registrerà in quelle settimane. Alle 20, quando
gli italiani ormai cenano davanti al Tg1,
Gabriele Paparelli rientra a casa. In via
Dronero ci sono decine di giornalisti,
televisioni, poliziotti, vicini di casa. Più
persone ci sono e più Gabriele, Marco e per la
madre Vanda finiscono per sentirsi soli. Il 28
ottobre 1979 sta ormai per chiudersi, ma prima
c’è ancora tempo per la Domenica Sportiva. È la
trasmissione che incolla dieci milioni di
persone, ogni weekend, davanti alle immagini del
campionato. È attesa, bramata, perché quello
sono tra le pochissime cose sportive che la Tv
di Stato mette in onda. Ma lo studio della Ds
stavolta è cupo. Quel programma è l’ultimo
appuntamento prima di andare a letto e rialzarsi
la mattina dopo per ricominciare in ufficio o a
scuola. Sta per iniziare una nuova settimana,
una settimana che vedrà il funerale di
Paparelli, con lo strazio della moglie Vanda e
la disperazione dei genitori. Ed è anche
l’inizio di una serie inaudita di offese,
ingiurie, offese alla memoria. Scritte sui muri
di Roma, urlate allo stadio. In troppi hanno
offeso senza motivo un uomo già morto, un uomo
di 33 anni ammazzato da un razzo sparato da un
ragazzo che morirà nel 1993, ironia della sorte,
a 33 anni. Ma insieme agli idioti, Vincenzo
Paparelli ha riunito i tanti, tantissimi tifosi
della Lazio che per quarant’anni hanno ricordato
e onorato ogni giorno questo sfortunatissimo
uomo. I murales, un parco che porta il suo nome,
la lapide che qualche anno fu disvelata in
quella nord nella quale Vincenzo aveva perso la
vita, lo stesso luogo in cui la domenica
sventola spesso una bandiera con il suo volto.
Oggi Vincenzo Paparelli riposa a Prima Porta, in
una tomba di famiglia, su cui tanti sono passati
in questi anni a pregare e a portare fiori. Tra
questi silenzi, in un’eternità che profuma solo
della resina degli alberi e di pace, tantissima
pace, resta il suo nome ad ammonire ciascuno noi
su cosa possono produrre l’odio, l’intolleranza
e la violenza. Paparelli morì in un’Italia in
cui si cadeva per poco. Si moriva per il colore
di una sciarpa, per un taglio di capelli lungo o
corto, per un errore stupido. La sua fine fu
così: un tragico e terribile errore. Quel 28
ottobre 1979 entrò nella storia con Vincenzo
perché fu il giorno in cui il pallone perse
all’improvviso la sua spensieratezza, la sua
meravigliosa leggerezza. E lasciò dentro di noi
qualcosa di brutto che prima non c’era. Ma
proprio perché sono passati 40 anni e perché
Silvia e gli altri bambini hanno diritto a
godere dell’essenza del calcio, che è uno dei
pochi luoghi in cui si può sorridere ed essere
felici, bisogna ricordare questo uomo, questo
padre di famiglia orgoglioso dei suoi figli e
delle sue mani sporche da meccanico. È stato
lui, un po’ per tutti, a pagare la violenza di
quegli anni, la rivalità trasformata in odio, il
tifo divenuto battaglia. Il calcio non può
diventare mai guerra. Il calcio è vita,
passione, è negazione stessa della morte. Da
Prima Porta, in questo luogo dove gli uomini
sono uguali e dove le stupide rivalità della
terra non hanno più senso, ci arriva tutto
questo. Se sapremo ascoltare dentro quel
profondo silenzio che si alza da tutto questo
marmo, capiremo. Nessuno uccida più Vincenzo
Paparelli.
28 ottobre 2019
Fonte: Sport.sky.it
© Fotografie: Sport.sky.it -
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