STORIE DI ROMA
Morte all’Olimpico, il
figlio di Paparelli 40 anni
dopo:
"La mia vita a
cancellare scritte indegne"
di Fabrizio Peronaci
Gabriele, figlio del
tifoso ucciso da un razzo in
curva Nord nel 1979: "La scritta
‘10-100-1000 Paparelli’ è la mia
ossessione. Da sempre tengo una
bomboletta in macchina: ne ho
cancellate migliaia. Io all’Ama
grazie a Veltroni".
"No, all’Olimpico non ci metto
più piede. Ormai da otto, forse
dieci anni. Ho visto cose che
non mi piacevano. Ognuno ha le
sue fobie. C’è chi ha paura dei
ragni, io del tifo violento...
Quel razzo ha distrutto la mia
famiglia. Da quand’ero
ragazzino, ho girato tenendo in
macchina o nella sella del
motorino una bomboletta spray".
Per fare ?
"Cancellare le scritte indegne
su papà. Leggere sui muri
‘10-100-1000 Paparelli’ è stata
la maledizione della mia vita.
Non posso accettarlo. Quando mi
capita di vederle, per caso o se
qualcuno me le segnala su
Facebook, dove ricevo tanta
solidarietà, corro a coprirle.
Le racconto qualcosa di molto
privato...".
Prego. "Per mamma, che ora non c’è più,
leggere quella scritta è sempre
stato un dolore immenso,
indicibile. Ci stava male ogni
volta. E io con lei. Così, per
anni, quando da Torre Gaia
andava a lavorare in macchina,
in zona Nomentano, uscivo prima,
con una scusa, e facevo lo
stesso tragitto. Controllavo se
il campo era libero...".
Riavvolgere il nastro e tornare
al 28 ottobre 1979. Sindaco era
Luigi Petroselli. Presidente del
Consiglio, Francesco Cossiga.
Pochi mesi prima un mattacchione
aveva tirato le orecchie ad
Amintore Fanfani, mentre pregava
nella chiesa del Gesù. Il clan
dei marsigliesi era stato appena
smantellato. Le Br continuavano
a sparare. Un’epoca fa. Per chi
quella domenica ha perduto suo
padre e scoperto il lato più
orrendo del mondo, però, il
tempo non passa. Gabriele
Paparelli è il figlio di
Vincenzo. Suo papà aveva 33
anni, faceva il meccanico a
Montespaccato ed è passato alla
storia come il primo morto allo
stadio. Fu un giorno di lutto e
sgomento in tutta Italia: un’ora
prima del derby Roma-Lazio un
razzo lanciato dagli ultrà della
Sud, dopo aver sorvolato il
campo, per oltre 200 metri,
colpì in pieno volto lo
sventurato tifoso laziale,
seduto in curva Nord. Vincenzo
stava mangiando pane e frittata.
Scena di guerra. Urla. Sangue.
Tifosi increduli. A fianco c’era
la moglie Wanda, che cercò di
estrarre quel tubo di ferro
arroventato dall’occhio sinistro
del marito, ma si ustionò.
Durante il tragitto in
ambulanza, gli tenne la mano
piangendo e pregando: "Amore,
non morire". Non bastò. Tra i
tanti fatti che, dal dopoguerra,
hanno portato Roma in prima
pagina, l’"omicidio
all’Olimpico", come titolarono i
giornali, è stato tra quelli che
più hanno commosso l’opinione
pubblica. Paparelli junior oggi
ha 48 anni, lavora all’Ama. Quel
pomeriggio in cui alla fine il
derby si giocò, per ragioni di
ordine pubblico (e non ha senso
ricordare il punteggio), non
potrà mai dimenticarlo.
Gabriele, sono passati
ormai 40 anni ed è una
ricorrenza triste. Violenza e
ricatti negli stadi sono ancora
realtà. Un flash di quel giorno
? "Avevo solo 8 anni, ma mi è
rimasto impresso tutto, minuto
per minuto. Un dolore
incancellabile. Era una bella
domenica, come le altre, da
vivere in famiglia. Abitavamo
tutti insieme, con zii e cugini,
nel palazzo di via Dronero, a
Boccea, costruito da mio nonno.
Facevamo tavolate
meravigliose...".
E Roma e Lazio, entrambe
partite male, si stavano per
giocare il primato cittadino... "Pensi che all’inizio papà aveva
deciso di andare a trovare i
nonni a Valmontone. Pioveva.
Poi, a metà mattinata, si
affacciò uno spiraglio di sole e
lui chiese a mamma di
accompagnarlo alla partita. Io
piantai un capriccio, piangevo.
Volevo andare con loro
all’Olimpico. Ma fu
irremovibile: Meglio di no, se
qualcuno si mena potrebbe essere
pericoloso, mi disse".
La notizia piombò nella
tribù Paparelli all’ora di
pranzo. "Erano tutti sconvolti,
gridavano. Cercarono di
proteggermi. I vicini di casa,
per distrarmi, mi portarono al
Luna Park, ma al rientro capii.
Sotto casa c’erano polizia,
ambulanze, giornalisti. Mia
madre, che aveva solo 29 anni,
si era come spenta. Non reagiva.
Fui mandato a dormire da una mia
zia, e mio fratello da
un’altra".
In curva Nord spunta
spesso un disegno con il volto
di suo padre. Le avranno detto
che le somiglia, no ? "Certo, e ne sono orgoglioso. Ma
non è stato bello, le assicuro,
portare questo cognome. Sono
cresciuto in un clima dove il
rispetto non esisteva. Ho
combattuto da sempre contro
cori, minacce...".
E la purtroppo celebre
scritta "10-100-1000...". "L’ultima l’ho cancellata poco
tempo fa, in zona Termini. Per
fortuna oggi, grazie ai Social,
si è creato un tam-tam e tanti
mi aiutano. Gabrie’, non ti
preoccupa’, provvedo io...
Giuro: ne avrò coperte migliaia.
Non provo odio, ma ogni volta è
un coltello che gira nella
ferita fresca, e trovare sempre
qualcuno che te la smuove è un
dolore in più".
Il famoso cuore di Roma
non esiste ? "Certo, c’è anche questo. Tutti
i giorni incontro gente che mi
dà pacche sulle spalle, che mi
chiede scusa per i cori e le
scritte vergognose. La tomba a
Prima Porta per anni è stata
inondata di lettere, sciarpe,
fiori. L’altro giorno mi ha
intervistato Sky per una puntata
speciale di un’ora, e abbiamo
dovuto interrompere per la
troppa commozione. Tutti e tre
gli operatori piangevano".
Suo padre è entrato
nella storia della città. "E ci resterà sempre. Mi vengono
in mente due episodi. Non molto
tempo dopo il fatto, venne
organizzata un’amichevole
Lazio-Roma: per me fu una grande
emozione sentire il suo nome
scandito da tutti, senza
divisioni. Nel 2004, inoltre,
conobbi Walter Veltroni...".
L’ex sindaco
appassionato di calcio. "Già, fummo invitati in
Campidoglio per ricevere una
targa in occasione del 25°
anniversario. Lui mi chiese cosa
facessi e io risposi che ero
precario. Allora mi prese da
parte e promise: Mi adopererò
per trovarti un lavoro. Fu di
parola: tempo dopo venni
chiamato da una società
collegata all’Ama e ora presto
servizio nell’impianto della
raccolta differenziata di Rocca
Cencia. Veltroni aiutò anche mio
fratello Mauro, che non c’è più,
facendolo entrare all’Atac. Una
persona sensibile, forse perché
anche lui ha perso molto presto
suo padre".
Cosa le ha fatto
decidere di non mettere più
piede all’Olimpico ?
"È più forte di me. Prima l’ho
frequentato a lungo, non la
curva Nord, solo i Distinti. Ma
da tanto ho smesso. Una volta mi
è volato un sampietrino sopra la
testa, fuori dallo stadio, e ho
detto basta. Mia figlia, invece,
è appassionata: la accompagna il
nonno materno. La società l’ha
invitata a festeggiare i suoi 6
anni a Formello, con i
calciatori, ed era al settimo
cielo...".
Sangue di nonno
Vincenzo... "Quando vede le bandiere con il
viso di mio padre, Giulia mi
chiede: Ma perché mettono la
foto di nonno ? E io: Perché era
un grande tifoso e gli vogliono
bene. Non mi va di toglierle
questa passione, la gioia
autentica del calcio, che è
allegria, armonia, amicizia. Gli
sfottò ci stanno, ovvio, sono il
sale. Ma ripudiando, con il
massimo impegno, qualsiasi forma
di violenza. Noi Paparelli lo
ripeteremo sempre: tifo e
violenza devono restare mondi
separati". Grazie. Con un
auspicio: che quella scritta,
sui muri di Roma, non appaia mai
più.
22 settembre 2019
Fonte: Roma.corriere.it
© Fotografie:
Storiedicalcio.altervista.org -
Corrieredellosport.it
Calcio, Paparelli e
l’eredità dello Tzigano
di Maurizio Martucci
Rullo di tamburi, il grido di
battaglia nella giungla
metropolitana: "Morirete,
morirete". I lacrimogeni
aggressivi delle guardie,
l’odore acre dei fumogeni da
incenso domenicale. Aperte le
danze, il passaggio di riti
orgiastico-collettivi
sacrificali su bare cartonate,
croci funerarie e litanie
vampiresche. Il gioco delle
parti è archeologia Ultras da
derby, un inno anni ‘70: "Rocca
bavoso i morti non resuscitano".
La scia irriverente del lutto
data 28 Ottobre 1979, sangue
allo Stadio Olimpico con offese
gratuite senza sconti.
Taccola-Re Cecconi, stelle
precocemente cadute, le
provocazioni in spray
rielaborate da rinfacciare: dopo
il corpo, la presa dell’anima.
"10-100-1000 Paparelli" sarà lo
scalpo del nemico, la preda
imbalsamata da ostentare.
Necrofila trasgressione trash
per chi non tradisce
indignazione, né sensi di colpa.
È l’inizio della fine, la
perdita dell’innocenza di una
generazione cresciuta a
striscioni e bandiere.
Coincidentia oppositorum per
opposti estremismi in gradinata
significa tribù, tabù,
disinformazione,
strumentalizzazioni e business
dei poteri forti sui teoremi
della paura nel laboratorio
sociale delle masse italiche.
Tutto è cambiato, per non
cambiare nulla. "Se vedessi un
ragazzo con dei razzi in mano
glieli farei ingoiare. Mi sono
rovinato la vita per quella
robaccia". Giovanni Fiorillo era
lo Tzigano, innescò il razzo
nautico planato sul volto inerme
di Vincenzo Paparelli, meccanico
romano, padre di famiglia, cuore
tifoso e moglie accanto
ustionata dalla combustione del
male: "Vincenzo non puoi morire,
non puoi lasciarmi sola. Abbiamo
due figli". Orrore e caos,
guerriglia urbana col fuggi
fuggi sui vecchi spalti. The
show must go on per scendere in
campo, arbitra D’Elia. Wilson
sotto la curva come analgesico,
tampona istintivamente la rabbia
senza placare il dolore.
Autoalimentazione di eventi
nefasti per crisi d’identità
senza frontiere. "Sto facendo
una vita infame - Tzigano, il
nomade emarginato - Ho tirato a
campare. Devi sempre correre,
scappare, diffidare di tutto e
tutti. I vecchi amici mi hanno
abbandonato. Perfino la ragazza
mi ha piantato". Latitanza
bergamasca e fuga in Svizzera,
esilio forzato dal Commando
Ultrà prima di costituirsi in
Questura, finendo in carcere,
tunnel della droga e un’altra
vita spezzata. La sua. Bruciata
nell’incubo sparato a 200 metri
di distanza. Lo Tzigano fu agito
da mano non premeditata,
preterintenzionalmente omicida
per una sfida incontrollabile,
troppo più grande della sua
acerba maggiore età. Populismi,
impulsi primordiali e istinti
archetipici nelle
sovrapposizioni sociali del
calcio. Lo zoologo inglese
Desmond Morris lo aveva capito
quando istituzioni e politica
nostrana, timidamente dal
letargo gridavano "Al lupo, al
lupo". Solo per fare cassetta.
"Scriverò una lettera alla
moglie e ai figli di Paparelli
per chiedere perdono. Quel
disgraziato è morto, ma sono
disgraziato anch’io che continuo
a vivere con questo peso sulla
coscienza". Damnatio memoriae
all’amatriciana: avvisati gli
emulatori. Roma-Lazio 1-1, lo
score. Da 35 anni il tifo non è
più stato lo stesso. E la morte,
sempre più uguale per tutti.
27 ottobre 2014
Fonte: Ilfattoquotidiano.it
© Fotografia: Roma.corriere.it
Santarini e l’omicidio
Paparelli
di Filippo Fabbri
"Domenica Nera" ha intitolato
Claudio Paglieri un bel romanzo
sul calcio. Chissà quale nome
darebbe alla vicenda della sua
famiglia Gabriele Paparelli.
Solo che il suo non è romanzo,
ma un fatto di cronaca sportiva
collimato con un omicidio.
Quello del padre, Vincenzo,
andato all’Olimpico, insieme
alla moglie Wanda, per vedere il
derby che vale una stagione. Una
stagione sì, la vita proprio no.
E invece succede proprio il
contrario. Prima della partita
la zona dello stadio diventa un
ring tra bande rivali. Il peggio
però avviene dentro: un razzo
parte dalla curva sud romana, si
fa 200 metri di traiettoria,
finisce nell’altra curva e
colpisce il meccanico di 33 anni
Vincenzo Paparelli, che se ne
stava seduto a mangiarsi un
panino in attesa della partita.
Sarà il primo omicidio dentro
uno stadio, purtroppo neppure
l’ultimo. La gara
incredibilmente si giocherà lo
stesso come se nulla fosse
accaduto, proprio in quello
stadio che ne sospenderà una per
una infondata voce sulla morte
di un ragazzo. Nulla però sarà
come prima. Soprattutto per la
famiglia Paparelli. Quel giorno
Gabriele, allora aveva otto
anni, sarebbe dovuto andare allo
stadio coi genitori. "Troppo
pericoloso, oggi si menano… Papà
vi porta la prossima domenica
per Lazio-Juve…", ricorda
Gabriele. Lo fa nel bel libro di
Maurizio Martucci Cuore tifoso
(Sovera Multimedia, 2009, pp.
230, euro 16). Un racconto che
dà sfogo a anni di sofferenza
vissuti nel privato di casa,
atti di autentica umiliazione
quotidiana. "Un razzo ha
distrutto la mia famiglia –
racconta il figlio – e oltre al
dolore della morte, per
vent’anni abbiamo subito minacce
di ogni genere. Siamo stati
costretti a cambiare casa e
quartiere subito dopo la
tragedia. A scuola appena mi
voltavo, trovavo il banco o il
quaderno imbrattato con
10-100-1000 Paparelli, slogan
che campeggiava in tanti luoghi
della città. Per anni ho girato
in motorino per le strade di
Roma con una bomboletta spray
sotto il giubbotto per
cancellare quelle scritte dai
muri… Abbiamo vissuto come
all’inferno". Proprio di recente
su quella vicenda è tornato uno
dei presenti a quella partita,
Sergio Santarini. Era il
capitano di quella Roma, uno che
a caldo di quei fatti allora
ebbe una dura presa di posizione
contro i suoi tifosi. "Mi
sembrava assurdo giustificare
persone che andavano allo stadio
col bazooka – ricorda oggi il
giocatore riminese – non tutto
il tifo organizzato era così,
tuttavia pensavo, e tuttora
penso, che bastava una mela
marcia per bacare il tutto. Per
questa esternazione chiesero la
mia destituzione da capitano,
Liedholm però fu deciso finché
Santarini rimane alla Roma avrà
la fascia. Ricordo che il capo
degli ultras, un certo Terenzi,
prese posizione contro di me.
Anni dopo incontrandomi per
strada mi ha dato ragione,
scusandosi".
28 novembre 2009
Fonte: Ilponte.com
© Fotografia:
Cittaceleste.it
Quel giorno all'
Olimpico quando il calcio
divenne follia
di Corrado Sannucci
ROMA - Quella domenica Vincenzo
Paparelli non volle portare i
figli alla partita. "È
pericoloso, è un derby, si
picchiano, è meglio che non
veniate. Sarà per la prossima
domenica". Gabriele ricorda
tutto di quella mattina, aveva
già otto anni, con il peso e il
dolore dell’ultimo giorno
passato con il padre e della sua
morte così pubblica. Poche ore
dopo, un razzo da segnalazioni
partito dalla curva sud colpì
Vincenzo, uccidendo lui e
l’innocenza degli stadi. Era una
partita del calcio anteriore a
quello attuale. L' Olimpico era
quello originale, i tifosi
laziali andavano ancora in Curva
sud, la Roma era da metà
classifica, la Lazio sarebbe
retrocessa a fine stagione per
lo scandalo scommesse, gli ultrà
erano ancora naif, anche se non
del tutto innocenti. "Stare allo
stadio era completamente
diverso, mio padre si alzava
continuamente per andare a
salutare gli amici, poi ci
andava a prendere la Coca,
oppure ci accompagnava al
gabinetto, la partita quasi non
la vedeva" ricorda Gabriele.
Vincenzo non si accorge di
niente mentre la tragedia fa
entrare le scenografie e i
protagonisti. Nella notte ci
sono state attività di
spionaggio, scritte fatte e
cancellate, ci sono state
infiltrazioni nei gruppi, poi
sono stati introdotti gli
striscioni, uno di questi diceva
"Rocca bavoso, i morti non
resuscitano". La curva romanista
reagisce, parte il primo razzo,
che con una traiettoria
impressionante, dalla curva sud
va addirittura oltre la curva
nord. Subito dopo parte il
secondo, ed è quello che uccide
Paparelli. Wanda, la moglie,
seguirà l’agonia di Vincenzo
fino alla corsa in ambulanza
verso l’ospedale, minuti che le
segnano l’anima per sempre e che
non vuole più ricordare. Ma
aveva raccontato a Gabriele
quelli che erano stati gli
ultimi momenti del padre. "Papà
come sempre si era alzato ed era
andato a salutare gli amici. Era
stato sempre via. Quando è
tornato, si è seduto, ha
raccolto per terra qualcosa che
gli era caduta, e nell' istante
in cui ha rialzato la testa è
stato raggiunto dal razzo".
Bastava che quella ricerca
durasse un secondo di più e si
sarebbe salvato, il razzo
avrebbe colpito un altro,
allora, ma probabilmente alle
gambe. La rabbia dei tifosi
laziali esplose, la curva sud
scese tutta verso il bordo del
campo. Nel frattempo erano
entrate in campo le squadre, il
capitano Wilson fu chiamato dai
tifosi, "non bisogna giocare",
gli gridavano. Erano sette anni
prima della tragedia
dell’Heysel, in cui si giocò, e
25 anni prima della farsa
dell’Olimpico, in cui non si è
giocato. L' arbitro D' Elia, che
non si attaccò al telefono con
il presidente della Lega come
sarebbe accaduto a Rosetti nel
marzo di quest' anno, prese una
decisione insieme al prefetto e
al questore: se voi mi garantite
l’ordine pubblico, disse, io vi
garantisco una partita regolare.
Sì giocò, per distrarre i tifosi
dalla tentazione di una
guerriglia immediata. Finì 1-1,
segnarono Zecchini e Pruzzo, in
una partita finta. Ma da quel
giorno i tifosi laziali
lasciarono per sempre la Curva
sud. Gabriele ha ancora le
lettere di Dino Viola, che con
una calligrafia un po' gotica
racconta la sua angoscia. "Vi
sono costantemente vicino nel
pensiero". Seguirono anni di
tormento.
|
"A scuola i professori avevano
un occhio di riguardo, ma poi
trovavo sempre qualche ragazzino
che ripeteva i cori contro mio
padre, imparati chissà dove. Poi
arrivava chi lo faceva tacere,
zitti, quello è il figlio".
Venticinque anni dopo, Gabriele
vive dall' altra parte di Roma,
ed è un simbolo di fuga, di
bisogno di essere altrove, ma
anche del tentativo di trovare
un nuovo rapporto con la città
che ha insultato, amato,
sbeffeggiato, venerato il nome
di Paparelli e che solo
ultimamente sembra avere trovare
un rispetto condiviso anche
dalla parte romanista. Gabriele
ha vissuto nella città nemica
che ogni tanto esponeva la
scritta, la più frequente, la
più offensiva e demenziale, 10,
100, 1000 Paparelli. "Quante ne
ho viste qui sulla Casilina". E
lui andava a cancellarle, per
difendere il ricordo del padre
ma anche la sofferenza della
madre. "Per un certo periodo mi
aveva preso fissa, giravo con il
motorino e sotto il sellino
avevo lo spray". Paparelli aveva
la passione del meccanico e di
andare la domenica alla partita
con i figli. "Il quadro di mio
padre è lui che torna la sera
dall' officina, la tuta sporca,
la puzza di grasso".
Diversamente dalle vittime di
altre tragedie da stadio, non è
mai stato dimenticato. In Curva
Nord è stato sempre commemorato,
la Sud, dopo gli insulti (si
cantò persino "Ammazzare
Paparelli è stato uno sbaglio,
Eagles Supporters è il prossimo
bersaglio"), negli anni scorsi è
apparso uno striscione di
pacificazione. "Oltre i colori,
rispetto per Paparelli". La
città ne ha fatto un eroe comune
e il nome di Paparelli è
conosciuto anche dai ragazzi di
quindici anni, che forse non
sanno cosa accadde e che neanche
sanno cosa si dovrebbe fare, ed
evitare di fare, perché sia
capito il vero messaggio di
quella morte. "Ecco perché io
vado ancora in giro, a
raccontare la storia di papà,
perché vorrei che sparisse la
violenza. Ma è tutto inutile"
dice Gabriele sconfortato. Però,
in questa città che così tanto
li ha feriti, è apparso un
fenomeno nuovo, il senso di
colpa. "Ci sono tifosi romanisti
che mi fermano, che quando sanno
chi sono mi dicono: scusaci per
quello che è successo. Li guardo
e vedo che hanno vent' anni". Ci
sono ragazzi che vogliono
portare la colpa di altri, al di
là dei colpevoli veri (Giovanni
Fiorillo, che sparò
materialmente i razzi e che è
morto nel '93, Marco Angelini,
Enrico Marcioni; più Pericle
Gigli, il commerciante che ne
vendette tre per 15mila l’uno),
che furono condannati dopo un
processo presieduto da un
magistrato importante nella
storia d' Italia, Santiapichi.
"E ci sono anche quelli che mi
dicono: "Perdonami, quel coro
sui 10, 100, eccetera Paparelli,
l’ho cantato anch' io quand' ero
ragazzo. Ora me ne vergogno".
Piccoli passi avanti di
pacificazione. Gabriele va
malvolentieri all' Olimpico,
però si occupa indirettamente di
calcio. Lavora in uno studio
audiovisivo, dove, per lo staff
tecnico del Milan, registra le
partite dei campionati esteri,
una quarantina di dvd che invia
settimanalmente a via Turati. Ha
parlato un paio di volte al
telefono con Ancelotti, che lo
conosce come Gabriele ma non
come figlio di Paparelli. Il 28
ottobre 1979 Ancelotti era in
campo.
23 ottobre 2004
Fonte: La Repubblica
© Fotografie: Laziowiki.org
La tragedia di Vincenzo
di Maurizio Martucci
"Vincenzo Paparelli è uno dei
nomi più utilizzati dai giornali
quando si scrive di violenza
negli stadi. Questo perché il
tragico evento che porta alla
sua morte ha dell’incredibile. È
il 28 ottobre 1979. Vincenzo e
la moglie sono tifosi laziali, e
come al solito si recano allo
stadio, in Curva Nord, per
assistere allo spettacolo
cittadino del derby: quel giorno
si gioca, infatti, Roma - Lazio.
Sono circa le 13:30, manca poco
più di un’ora all’inizio della
partita, quando dalla Curva Sud,
occupata dai tifosi della Roma,
parte un razzo a paracadute di
tipo nautico, che s’infrange sul
volto di Vincenzo, perforandogli
il bulbo oculare sinistro. Un
volo di circa 200 metri, da
curva a curva. La moglie si
ustiona entrambe le mani nel
vano tentativo di estrarre il
tubo di ferro incandescente.
L’uomo viene trasportato
immediatamente all’ospedale
Santo Spirito, ma per lui non ci
sarà nulla da fare. Roma-Lazio,
una stracittadina che nelle
ultime occasioni aveva già fatto
registrare allarmanti segnali di
alta tensione tra gli opposti
schieramenti. Le opposte fazioni
si scontrano passando per la
tribuna Tevere, con le forze
dell'ordine a rinforzare i punti
più caldi, e quando tutto sembra
tornare alla calma... arriva il
dramma ! Dalla Sud una scia nera
sibilante parte nei pressi dello
striscione "Club Somalia" verso
la Curva Nord, ma la traiettoria
cambiata dal vento fa slittare
il mortaio sopra il tabellone.
Poi un altro "fischio". Parabola
diversa. Va fuori lo stesso.
Infine un terzo, sempre un razzo
antigrandine. Questa volta con
traiettoria tesa, senza
parabola. Fa un percorso di
150/160 metri nell'aria... "Ho
visto arrivare il razzo dalla
Sud con la scia nera,
lunghissima, filava veloce,
credevo che andasse in alto come
gli altri, ma all'improvviso è
arrivato verso di noi.
Istintivamente mi sono scansato
e in quell'istante m'è arrivato
del sangue in faccia", racconta
rabbrividito un testimone
dell'atroce domenica, quando un
razzo va ad infilarsi proprio
nella testa di un tifoso della
Curva Nord. "Quell'uomo aveva un
panino tra le mani e lo stava
mangiando; poi la moglie ha
cominciato a urlare, e lui,
rosso di sangue, cominciò a
rotolarsi mentre tutti
scappavano". I primi a
soccorrerlo sono dei medici:
"Quel razzo era entrato
nell'occhio sinistro dell'uomo.
Metà razzo gli fu tolto da un
ragazzone. Pensate che dalla
testa continuava ad uscirgli il
fumo, una scena orribile". Sulle
verdi panchine ora macchiate di
rosso sangue s'odono per un
attimo solo le strazianti grida
di una donna sconvolta: "No, non
morire, non puoi morire, abbiamo
due figli !", è la moglie
dell'uomo. "Corsi subito nella
parte alta della curva dove la
gente s'agitava freneticamente,
andai verso quell'uomo, vidi il
razzo nel suo occhio e lo tolsi
nella speranza di salvarlo:
s'era conficcato proprio dentro
la testa. Non dimenticherò mai
di che colore diventò la mia
camicetta. Uno spettacolo
assurdo, straziante... non si
può morire così !" Arriva l'urlo
lacerante di una sirena. La
corsa al Santo Spirito. Un
inutile battaglia contro il
tempo, per un responso scritto
sul registro dell'ospedale:
quell'uomo arrivato dallo stadio
è registrato con il numero 6220,
l'atto di una fredda fase
burocratica che gli sancisce la
morte dinnanzi alla legge. Sono
le 13.45 quando la prima fila
della gradinata Nord, sopra
l'ingresso 57 nell'angolo
accanto al passaggio, viene
piantonata da 4 carabinieri con
elmetto e fucile intenti a
proteggere gli addetti che
effettuano i rilevamenti sul
luogo ove la morte s'è fermata.
Quell'uomo si chiamava Vincenzo
Paparelli, 33 anni, di
professione meccanico, abitante
a Mazzalupo, vicino Casalotti.
Era venuto allo stadio in
compagnia della moglie Vanda, ma
un razzo per imbarcazioni, gli
stronca la vita. Le reti di
Zucchini e Pruzzo passano
inosservate, anche se la Sud
continua ostinata nei suoi
"Roma, Roma", mentre la Nord si
accanisce persino su un pallone
che erroneamente arriva in
curva, rigettato in campo
squarciato dalla lama di un
coltello. Al fischio finale le
violenze si riversano per le vie
della città. "Ad incitare chi
sparò addosso a Paparelli -
scrisse "Il Corriere dello
Sport" riportando le
testimonianze dei tifosi
presenti in Sud - furono in
molti. A pochi metri c'era anche
un servizio d'ordine con tanto
di fascette di riconoscimento
legate al braccio, ma nessuno
disse niente, anzi tutti
l'applaudirono, e tutti hanno
visto quel razzo finire tra la
gente della Nord. Qualcuno
urlava ai Laziali "Morirete",
invece altri alzavano bare di
cartone, poi quando si seppe che
una persona era morta, tutti
gridarono a quel ragazzo
"Assassino, assassino" e lui è
scappato piangendo".
Fonte: "Nobiltà
Ultras" di Maurizio Martucci
1996
© Fotografie:
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Marco Piscitelli Editori
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