IL DONO e IL DESTINO
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Erika Pioletti è originaria di Beura Cardezza,
un piccolo paese di circa 1400 abitanti nel
Verbano a pochi chilometri da Domodossola e dal
confine con la Svizzera, da dove inizia il parco
nazionale della val Grande e dove abita la sua
famiglia. Lei, invece, vive e lavora a
Domodossola, impiegata in uno studio di
commercialisti ("Canuto & Associati") in via
Caduti di Nassiriya. Da 5 anni si è trasferita
in un palazzo del quartiere della Cappuccina a
convivere con il suo amato compagno, Fabio
Martinoli e approfitta del fine settimana per
ritornare a trovare i genitori in paese. Non è
mai stata appassionata di calcio, a differenza
del suo fidanzato, tifoso della Juventus che le
ha chiesto di accompagnarlo a Torino per
assistere alla finale di Champion’s League
contro il Real, proiettata sul maxischermo
allestito in Piazza San Carlo il 3 giugno 2017.
È il giorno del compleanno di Fabio: il dono di
una giovane innamorata accontentarlo e seguirlo
lì assieme a un gruppo di amici. È sabato e
molti altri tifosi di Verbano e Ossola hanno
raggiunto il capoluogo piemontese per questa
partita mescolandosi tra la folla giunta da ogni
parte d’Italia. Si calcolano non meno di 30.000
persone. Dopo le 22.20, quando esplode la follia
di massa, anche lei incomincia a correre
atterrita insieme agli altri, ma un violento
trauma le causa lo schiacciamento della cassa
toracica e un infarto. La soccorre primo fra
tutti un vigile del fuoco, Antonio Mazzitelli,
poi coadiuvato da un poliziotto e altri
volontari. Per una mezz’ora buona si tenta,
sotto i portici, di rianimarla con il massaggio
cardiaco. Arriva anche un defibrillatore da un
privato. Erika, riprende il battito, ma le
condizioni appaiono davvero molto critiche già
prima della corsa in ambulanza all’ospedale San
Giovanni Bosco. La giovane ossolana sembra aver
subito un danno neurologico gravissimo e viene
intubata nel reparto di terapia intensiva, in
rianimazione, attaccata alle macchine in
sedazione profonda e una leggera ipotermia,
sottoposta a vari trattamenti di protezione
cerebrale e di supporto cardiocircolatorio. Le
condizioni sono disperate. Una prima diagnosi
riscontra un gravissimo trauma toracico. Questo
il testo del referto pubblicato dai medici: "arresto cardiaco da compressione della cassa
toracica". Nelle ore a seguire si procederà ad
un risveglio graduale per testarne le
funzionalità respiratorie. Il rischio di danni
encefalici irreversibili appare molto alto.
LA SPERANZA SENZA RABBIA -
Intanto, al suo capezzale, si alternano il
compagno, la mamma Anna e una zia. La Sindaca
ogni mattina si reca in ospedale a sincerarsi
delle sue condizioni e salutare i familiari che
l’aggiornano ogni tanto sulle condizioni della
ragazza. "Purtroppo non abbiamo buone notizie"
in un filo di voce alla stampa, prima di un
nuovo trincerato silenzio nell’altalena delle
speranze. La preghiera non cede mai alla
disperazione, se pur incombente. I giorni
passano mentre ci si arrovella alla ricerca di
una risposta alla domanda che di più li
martella: "Perché ?". Un incidente assurdo, una
dinamica ancora più folle. Gli effetti analoghi
di un attentato ma senza i terroristi ! Fra 1500
feriti proprio lei… La maggior parte se l’è
cavata, con piccole fratture, tagli ed
escoriazioni, lo choc per lo spavento. Lei no…
Perché ? … La calca l’ha travolta, pigiandole lo
sterno come fossero alla vendemmia. Però, in
quella sala d'attesa della rianimazione non si
respira l’odio: "Colpa di qualcuno ? Non
sappiamo niente, non sappiamo cosa dire. Forse
era semplicemente destino" - dice Giulio, il
padre. Al telefono con i parenti sua madre che
non si è rassegnata risponde: "Certo possiamo
ancora sperare…". "Purtroppo non sappiamo
nemmeno bene quello che è successo lì. Noi non
c'eravamo" - dicono quasi in coro, entrambi con
le lacrime agli occhi. "Erika era in piazza San
Carlo per accontentare il suo compagno, non era
nemmeno tifosa della Juventus. I medici ci hanno
detto di aspettare un’altra decina di giorni,
solo allora sapremo le sue reali condizioni. Era
andata soltanto per trascorrere una serata
diversa col suo compagno. Anche lui è stato
travolto, ma non ha riportato ferite gravi" -
chiarisce, casomai ce ne fosse altro bisogno,
uno zio. C’è un intero paese ammutolito che
attende il risveglio della sua Erika: "Una
ragazza d’oro. Buona come il pane". La
solidarietà del ministro dell'Interno Marco
Minniti non si è fatta attendere. Sale in
reparto, al 3° piano dove incontra la famiglia
in un colloquio strettamente riservato. Da
qualche ora i medici moltiplicano gli esami per
valutare il quadro neurologico. Il sospetto di
danni subiti durante l’arresto cardiaco era
fondato dall’assenza di funzioni vitali, non
respirava autonomamente. Provano a ridurre i
sedativi ma l’organismo della donna manifesta
segni di sofferenza e la inducono nuovamente in
coma farmacologico. Poi è la volta di un
elettroencefalogramma che non risulta
attendibile ed una risonanza magnetica. Alle
incalzanti domande dei giornalisti, sospirando,
Giulio Pioletti risponde: "Non sappiamo ancora
niente di preciso. Possiamo solo aspettare e
sperare" … "Erika è viva. Lo ripeto fino allo
sfinimento, è viva" - ripete sua sorella
maggiore Cristina ai giornalisti.
LA RESA - Alla metà del
mese di giugno, la situazione clinica precipita.
Alle ore 12 del 15 giugno 2017 i medici
sentenziano in una drammatica nota ufficiale che
"gli esami effettuati hanno accertato un
gravissimo danno cerebrale e prognosi pessima.
Purtroppo ci si aspetta il decesso della
paziente in un brevissimo periodo temporale".
Azzerate le residue speranze di salvarla, la
famiglia chiede loro di evitarle qualsivoglia
accanimento terapeutico. Sergio Livigni, il
direttore della terapia intensiva dell’ospedale
Giovanni Bosco, parlando di "desistenza
terapeutica", chiarisce: "Ricorriamo ad
interventi di carattere prevalentemente
palliativo, il problema respiratorio e
cardiocircolatorio non viene più inseguito".
Questione di ore, "morte cerebrale", l’ultimo
abbraccio dei cari nella stanzetta della
Rianimazione, poi la resa. Alle 21.56, staccate
le macchine che la mantengono artificialmente in
vita, è annunciata la morte della giovane donna
della Val d’Ossola. I suoi genitori,
rispettandone le volontà, autorizzano l’espianto
degli organi che non sarà possibile dato il
probabile mandato della magistratura per l’esame
autoptico. Infatti, il procuratore capo di
Torino, Armando Spataro, scrive in una nota che
"in data odierna sarà conferito incarico di
consulenza tecnica per accertare le cause della
morte della signora Pioletti". La morte di Erika
aggiunge la parola "omicidio" nel quadro
accusatorio della Procura di Torino in piena
fase delle indagini giudiziarie. Procede a
tappeto su due fronti per la ricerca di
eventuali responsabilità: la piazza e i palazzi
delle istituzioni cittadine. "Lesioni plurime
gravi e gravissime e omicidio colposo" l'ipotesi
di reato del fascicolo al momento a carico di
ignoti.
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LA POLITICA - Puntualmente
compaiono in rete i comunicati e i messaggi di
cordoglio autorevoli. Chiara Appendino, la prima
cittadina di Torino, subito scrive: "In un
momento di così profondo dolore, ogni parola
sarebbe superflua. Posso solo esprimere le più
sincere condoglianze mie e di tutta la Città a
famigliari e amici di Erika. Per il giorno dei
funerali sarà proclamato il lutto cittadino". Il
Presidente della Regione Piemonte, Sergio
Chiamparino: "Quanto successo pesa sul nostro
cuore. Confidiamo che le indagini facciano al
più presto chiarezza". A parte le dovute frasi
di condoglianze, la politica non manca
cinicamente di speculare rimestando nella
tragedia per screditare l’amministrazione
comunale dei 5 stelle.
LA JUVENTUS - La società
bianconera pubblica: "Juventus Football Club
esprime il proprio cordoglio per la scomparsa di
Erika dopo una lunga sofferenza. I fatti della
sera del 3 giugno sono nel cuore di tutti i
dirigenti, i tesserati, i dipendenti della
Società che si uniscono al dolore della Città".
Le fanno eco anche le parole dei suoi campioni
più amati e dell’allenatore del club: "Rabbia.
Dolore. Sconcerto. Sono vicino a tutti i
familiari, parenti e amici di Erika. La mia
preghiera e il mio pensiero" (Gianluigi Buffon)
… "Una tragedia atroce e assurda. Non ci sono
parole per quanto successo ad Erika. Solo
silenzio e rispetto di fronte a una morte
inaccettabile" (Leonardo Bonucci) … "Purtroppo
Erika non ce l’ha fatta. Non ci sono parole per
esprimere il dolore. Solo silenzio, vicinanza
alla famiglia e rispetto" (Claudio Marchisio) …
"Sono vicino ai familiari e agli amici di Erika:
morire così, a nemmeno 40 anni, è davvero
assurdo, e non ci sono parole" (Massimiliano
Allegri).
IL VESCOVO
- Nei giorni
precedenti sui social tante persone comuni le
dedicavano un pensiero, auguri e preghiere:
"Forza Erika non si molla... Fino alla fine…"
fra i più condivisi. Ora, invece, proliferano
tanti post con la richiesta di annullare i
prossimi festeggiamenti del Patrono (San
Giovanni). Non tarda la nota di cordoglio
dell’Arcivescovo di Torino, Mons. Cesare
Nosiglia: "È con grande dolore che ho appreso la
morte di Erika dopo lunghi giorni di agonia in
seguito alle conseguenze tragiche della sera di
sabato 3 giugno. Prego perché il Signore
l’accolga nel suo regno di pace e di amore e
prego per i suoi cari affinché siano sostenuti
dalla materna tenerezza della Madonna Consolata
di cui stiamo celebrando la Novena. La morte di
Erika aggrava ancora più profondamente lo
scoramento del nostro animo, ma anche il
giudizio già severo formulato dopo quanto è
accaduto in piazza San Carlo. La ferita al cuore
stesso della città resterà come un marchio che
pesa sulla nostra coscienza di cittadini e su
quanti sono stati la causa diretta o indiretta
degli assurdi incidenti capitati in quello che
doveva essere un sereno e gioioso incontro di
tifosi e ha avuto invece delle conseguenze di
grave sofferenza per centinaia di feriti e ora
anche della morte di Erika. Oggi comunque non è
tempo di sterili polemiche o accuse o promesse
che la cosa non accadrà più. L’inchiesta avviata
farà il suo corso e trarrà le conseguenze in
ordine alle gravi responsabilità di ciascuno;
ora è il momento della solidarietà di tutta la
città che è chiamata a stringersi attorno alla
famiglia di Erika per un abbraccio fraterno a
Lei e ai suoi cari, insieme alla preghiera e al
ricordo incancellabile che porteremo nel nostro
cuore per sempre".
LA FAMIGLIA - Intanto in
Ospedale stanno accorrendo i parenti stretti e
gli amici più cari, quelli d’infanzia. Prevale
in tutti la compostezza, nonostante il dolore e
l’angoscia che pervade gli animi. Ora che dopo
questi 12 lunghi giorni il tempo straziante
dell’attesa è compiuto, le preghiere non
esaudite lasciano il campo allo stordimento e al
pianto. La mamma di Erika non si è mai mossa da
lì… Le notti passate sulla poltrona-letto del
reparto di Terapia intensiva del Giovanni Bosco.
Per tutti l’Amministrazione comunale ha messo a
disposizione 2 camere al Miramonti (un hotel 5
minuti a piedi dall’ospedale) e le auto di
rappresentanza. Sussurra in un filo di voce la
sua verità, come un mantra: "Non so cosa è
successo in quella piazza e forse non mi
interessa saperlo. So soltanto che non avrò più
mia figlia"… "E tutto questo solo per una
partita di pallone" - aggiunge lo zio. Il papà,
guarda fisso un punto nel vuoto, smarrito,
affermando alla stampa: "Sono un uomo distrutto.
Non ha più senso nulla: io guardo attorno a me e
vedo tanta gente che si agita che dice che fa e
che farà. E non capisco più nulla… Sa, una cosa
così, in una notte di festa, non te la aspetti.
Pensi che tua figlia stia bene, che sia felice
poi ti chiamano e ti dicono che è in ospedale
e... A chi sta facendo le indagini ho chiesto
giustizia, ma in Italia si sa come vanno a
finire le cose"… Non molte altre parole da loro,
sceglieranno il silenzio da questo momento in
poi e un profilo molto basso rispetto ai fatti
di cronaca e giudiziari.
I SINDACI - Descrive bene
questa famiglia il sindaco di Beura, Davide
Carigi: "Sono persone riservatissime e in questo
momento la sofferenza li porta a scegliere il
silenzio. Ho chiamato il papà stamane, era
conosciuto in paese perché faceva il barbiere.
Gli ho fatto le condoglianze, era veramente
provato. Nonostante il dolore, ad entrambi aveva
fatto molto piacere sentire la vicinanza della
sindaca di Torino e del prefetto. Erika era una
ragazza in gamba. Noi il lutto cittadino non lo
faremo, credo che i familiari non vedano l’ora
di essere lasciati tranquilli. Questa sera ci
sarà il primo Consiglio comunale e faremo un
minuto di silenzio in suo ricordo. La famiglia
vuole non vuole clamore attorno a questa vicenda
e vogliamo seguire la sua volontà, per questo
non sono previsti per il momento altre
iniziative. È una tragedia assurda, di fronte
alla quale non resta che unirsi al dolore di chi
sta soffrendo". Anche il sindaco di
Domodossola, Lucio Pizzi, si è fatto partecipe
del dolore della sua comunità, inviando loro un
telegramma: "Certo di interpretare i sentimenti
dell’intera cittadinanza, a nome
dell’amministrazione comunale e mio personale
esprimo profondo cordoglio e solidale vicinanza
in questo triste momento. Di fronte a una tale
tragedia, a un destino così crudele, non ci sono
altre parole ma solo un rispettoso silenzio. Non
dichiariamo lutto cittadino per mantenere un
profilo basso come vuole la famiglia". Anche in
questo caso previsto un minuto di silenzio in
Comune al primo consiglio insediato.
IL COMPAGNO - Fabio
Martinoli, il suo compagno, è inconsolabile:
"Era il giorno del mio compleanno, Erika mi
aveva fatto un regalo accompagnandomi a vedere
la finale in piazza San Carlo. Ho compiuto 38
anni quella sera, potete immaginare i miei
pensieri d'ora in poi quando mi faranno gli
auguri... Erika lo aveva fatto per me: io non
sono un tifoso sfegatato, sono juventino perché
lo era mio nonno ma sarò andato due o tre volte
in vita mia allo stadio. Quando la Juve vince
sono contento, avevo anche un braccialetto
bianconero, che adesso ho tolto. Per tutto
l'anno avevamo seguito la coppa con alcuni
amici, si rideva, ci si prendeva in giro. Quella
per la finale doveva essere una festa, non
immaginavamo di trovarci in mezzo alla bolgia.
Io non avevo un'idea precisa di cosa avrei
trovato in piazza ma non era quello che mi ero
immaginato: era tutto disorganizzato, c'erano
venditori abusivi, entrava chiunque senza
controllo, c'erano bottiglie dappertutto...
Siamo un Paese così, non abbiamo imparato nulla,
bastava copiare quello che avevano fatto gli
spagnoli con la proiezione dentro lo stadio.
Invece qui è come se la sindaca avesse lasciato
aperta la porta di casa sua senza rendersi conto
che entravano trentamila persone. E quando il
fattaccio ormai è accaduto dice "scusate, mi
spiace, pensavo sarebbero venute solo due
persone per un caffè". Ecco, "mi spiace" sono
parole che non riusciamo a sentire… Aveva voglia
di vivere... Ho finito le lacrime non so cosa
pensare: su trentamila persone perché proprio
lei ? Non so se sia stato il destino, non so se
arrabbiarmi... Ma a cosa serve la rabbia ?
Questo è un Paese in cui le cose devono
succedere prima che qualcuno pensi a come
prevenirle: ma non si poteva immaginare tutto
questo ? Potete scrivere che ci dovevano pensare
prima ?". E non mancano gli sciacalli nei
momenti come questi. In reparto, durante le
tante veglie al capezzale della sua amata gli
hanno rubato il telefonino…
AMICI e CONOSCENTI - La
ricorda, così, Tony Delfino, un amico della
coppia: "Ero collega di Fabio, siamo andati a
volte a cena insieme. Erika era una ragazza
semplice, molto simpatica, amava stare in
compagnia. Era davvero una brava persona. Quella
sera era andata a Torino più che altro per stare
insieme a fidanzato ed amici, non era una
fanatica della Juve. Non li vedevo entrambi da
un po’, ieri sera ho saputo la tragica notizia.
E così stamattina ho chiamato Fabio, gli ho
detto, ma è vero quel che dicono al tg. Mi ha
detto sì. Io mi chiedo come sia possibile, per
una partita, tenere una piazza senza vie di
uscita. Ci sarà stato qualche pirla coi petardi
e sarà successo il finimondo. L’unica poverina
che ci ha rimesso è stata la Erika, che non
c’entrava proprio nulla". Il vicino di casa, la
ricorda così: "Viveva qui da anni, prima da sola
poi con questo compagno. Una ragazza a modo,
davvero. E non è soltanto per dire. Era fatta
così, un po’ schiva, ma gentile". Rivela un
triste particolare Domenica Romeno, una sua
amica: "Ci eravamo viste al mercato mi aveva
detto che con tutto quello che si sente in giro,
degli attentati e via discorrendo, un po’ le
faceva impressione l’idea di stare in mezzo a
tutta quella gente".
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L’ULTIMO SALUTO - Due
giorni dopo il decesso, eseguita nelle prime ore
del mattino dal medico legale Roberto Testi,
l’autopsia conferma quanto riscontrato
dall’equipe nei giorni precedenti: "asfissia
meccanica per compressione del torace con
successivo arresto cardiaco". Da questo il
"gravissimo danno cerebrale". Poi viene
rilasciata l’autorizzazione per i funerali, ma
non per l’espianto degli organi, compromesso
dopo la perizia autoptica. I suoi familiari
comunicano che la salma sarà cremata già nel
primo pomeriggio al Tempio crematorio del
Cimitero Monumentale. Il Comune ha preso in
carico tutte le procedure burocratiche per
accelerare i tempi. Le esequie si terranno in
forma privata e lontano dalle telecamere nel
paese della famiglia. Non sono previste altrove
cerimonie. Lunedì 19 a Torino ci sarà la
giornata ufficiale di lutto cittadino. La foto di papà Giulio
accanto all’Appendino in lacrime, all’uscita dal
Cimitero con in mano l’urna cineraria della
povera Erika è l’immagine più straziante di
questa vicenda assurda e soprattutto evitabile.
Tenera e terribile, allo stesso tempo, quanto la
dignità in quello sguardo paterno.
Una
lezione di rara e dolce umanità, come quel
contegno mantenuto insieme a tutta la famiglia
prima e dopo la morte di sua figlia. Un’auto di
rappresentanza del Comune la riporterà a casa, a
duecento chilometri da dove è morta, nel paese
dove è nata e cresciuta. A Domodossola non c’è molta
voglia di parlare con i giornalisti. Il custode
del cimitero dice qualcosa: "Io la Erika non la
conoscevo bene, ma sapevamo che parecchi erano
partiti da qui per andare a vedere la finale a
Torino… Ma quattrocento persone c'erano di
sicuro. Quando abbiamo saputo del disastro è
come se il mondo si fosse fermato". A Beura, il
suo piccolo paese, tutti ovviamente la
conoscevano, ma per pudore e riservatezza della
gente del posto, discreta come il silenzio di
queste montagne, si fatica davvero a raccogliere
nero sul bianco dei taccuini. Aveva già
avvisato, Fabio, il suo compagno, qualche ora
prima: "Ora lasciateci soffrire da soli. Il
dolore è nostro e non lo possiamo e non lo
vogliamo divedere con nessuno. Erika non c’è
più, e questa è la sola cosa che conta". Angelo
Rossi, consigliere comunale e parente dei
Pioletti, chiarisce, casomai ce ne fosse
bisogno: "Adesso decideranno suo padre e sua
madre che cosa fare. Io non sapevo neanche ci
fosse già stata la cerimonia della cremazione".
LE TESTIMONIANZE
- La
Polizia Scientifica effettua rilevamenti sul
portone al fianco dello storico ex negozio di
Paissa dove presumibilmente sarebbe rimasta
schiacciata la giovane travolta dalla seconda
ondata di panico dopo il crollo della ringhiera
del parcheggio. Il compagno sarà ascoltato in
qualità di testimone dalla procura per cercare
una seria ricostruzione dei fatti. L’ha persa di
vista, travolto dalla calca mentre la gente
premeva contro il portone di legno massello.
Un’anta si è aperta, sull’altra rimasta bloccata
probabilmente Erika fu schiacciata dalla spinta
della folla. Un 47enne testimone,
Alessandro Bovero, racconta agli inquirenti e
alla stampa di aver incrociato per qualche
momento la donna: "Ci siamo ritrovati a terra,
schiacciati. Ci siamo guardati, ma non ci siamo
visti tanta era la paura in quel momento. Mi
sono rialzato e sono corso via, in cerca di
riparo, in cerca di aiuto. Solo molti giorni
dopo ho capito che quella donna stesa accanto a
me era Erika e che lei non era riuscita a
rialzarsi e scappare. Saranno state le 22 e 15.
Io ero sul lato sinistro della piazza. Ad un
tratto ho sentito un rumore fortissimo, era il
calpestio della gente che fuggiva. Mi sono visto
arrivare addosso un esercito di persone. Sono
caduto e mi sono rialzato. Pochi metri dopo ero
sotto i portici e sono di nuovo caduto, le
persone mi camminavano addosso. Erika è stata
sbalzata contro il portone. Un colpo fortissimo,
poi è caduta a terra battendo la faccia. Io sono
caduto di nuovo, quando ho visto la seconda
ondata di gente sono fuggito. Credo che Erika
sia rimasta a terra e sia stata calpestata. Non
lo so. Ero terrorizzato. Se mi fossi rialzato
pochi secondi dopo, molto probabilmente sarei
rimasto schiacciato come lei. Ho avuto paura di
morire. Ho una frattura al braccio e dolori
persistenti, ma soprattutto ho continui incubi
notturni. La notte mi sveglio urlando, altre
volte è il mio compagno a svegliarmi perché mi
lamento e grido nel sonno. Rivivo quei momenti e
mi assale il panico. A volte sogno il volto di
Erika, rivedo i suoi occhi e la sua paura.
Qualche giorno dopo hanno fatto vedere la sua
foto al telegiornale e l’ho riconosciuta. Mi
spiace molto e mi sento molto vicino alla sua
famiglia. Non oso immaginare il loro dolore". Cinquanta giorni dopo la
morte della ragazza si presume un più atroce
particolare: "La ferita al collo è compatibile
con l'ipotesi che lo schiacciamento sia stato
provocato da una transenna" - conferma Testi, il
medico legale dell’autopsia. In fase d’indagine
il tenente dei carabinieri (in pensione)
Maurizio Rafaiani aveva testimoniato: "L'ondata
si è portata via tutto. Quando tutto è finito
abbiamo dovuto soccorrere molte persone rimaste
incastrate in mezzo alle transenne. Qualcuno
sicuramente con gli arti fratturati".
IL SILENZIO
- Le indagini
dei mesi e anni successivi non smuoveranno
l’atteggiamento della famiglia che ha preso le
distanze da ogni forma di rabbiosa
rivendicazione. I genitori non esigono un
risarcimento per la vita spezzata
incredibilmente alla figlia. Opposta la scelta
di Fabio Martinoli, il suo compagno che si è
costituito parte civile al processo. Il padre
Giulio si è chiuso nel mutismo. È lo zio, Angelo
Rossi, a commentare l’arresto dei giovani
rapinatori della banda dello spray al
peperoncino: "Sapevamo che le indagini stavano
continuando a ritmo serrato, avevamo capito
negli ultimi mesi che forse si stava chiudendo
il cerchio, ma di certo una notizia così forte è
stata una sorpresa". Poi riferendosi ai
Pioletti: "Hanno sempre chiesto molta
discrezione e anche noi familiari ci sentiamo di
rispettare il loro dolore. Ci auguriamo che
questa sia la verità e che la giustizia possa
fare il suo corso, ma di una cosa siamo sicuri:
Erika, purtroppo, non ce la restituisce
nessuno". Poi, a proposito della targa richiesta
dalla tifoseria in piazza, conclude: "Ci è stato
detto che vogliono posare una targa per Erika,
lì in piazza San Carlo dove è successa la
disgrazia. È un gesto che fa piacere".
3 giugno 2017
Fonti: Ansa.it -
Lastampa.it - La Repubblica -
Ilfattoquotidiano.it - Corriere.it -
Torino.repubblica.it
- Nextquotidiano.it
© Fotografie:
Corriere.it - Twitter - Ossola24.it - Lastampa.it
Si chiama
Erika, non Heysel
di Domenico
Laudadio
Al contrario di
quanto scritto un po’ ovunque e degli spettri
evocati da più parti questa tragedia, secondo
me, non va assolutamente confusa con quella di
Bruxelles del 29 maggio 1985.
Abbiamo sperato,
pregato e imprecato fino all’ultimo, poi la
sentenza della nera signora: Erika è salpata per
le stelle, lasciandoci un insegnamento che
vanifica ogni retorica di parole vuote nei
dintorni della sua morte, una lezione autentica
di amore. Era il giorno del compleanno del suo
Fabio, non tanto quello della finale di
Champions League per la Juventus, perché lei non
era neanche una tifosa, ma il suo cuore batteva
soltanto per il suo uomo, non per un pallone.
Ciò nonostante, raffreddando il presentimento di
un attentato, ha voluto donargli la sua presenza
accanto, in quella bagnarola di folla d’anime
infocate bianca e nera. I suoi sorrisi
incoraggianti al compagno nonostante l’atmosfera
di tensione in quella ressa emotivamente
sudaticcia, il caldo e l’alcool, poi è calato un
sipario dall’inferno, il cuore ha ceduto al
terrore d’acchito e il ritmo della vita è
scaduto al battito di tamburo lento della sua
condanna in una lunga agonia. Mi fermo qui… Di
lei ci rimarrà una splendida fotografia che vale
più di un testamento etico d’autore. Ci ha
insegnato come si può amare. Semplicemente. È
tutto. I media e i tifosi hanno accostato
l’Heysel all’incidente del 3 giugno in Piazza
San Carlo a Torino, una fuga come l’altra. Il
sangue su stendardi e persone ne è tragica
replica certamente, ma bisogna distinguere con
lucida analisi fra l’una e l’altra mattanza. Il
panico serpeggiato è un effetto in comune da non
confondere con la causa. L’orda barbarica e
sanguinaria dei tifosi inferociti del Liverpool
avrebbe potuto fermarsi invece di riprendere a
più riprese con tecniche militari e scagliarsi
sugli innocenti spremendoli vigliaccamente
contro il muretto del Settore Z. Il terrore
esploso all’improvviso per un presunto attentato
invece non poté fermarsi da solo prima che la
razionalità vagasse un tempo variabile
nell’allucinazione. Lo alimenta l’immaginazione.
Forse la vittoria dell’infame Isis è questa:
quando noi stessi diveniamo il primo terrorista
a sconquassarci dentro, a violentare il nostro
evo, la nostra cultura profonda che si nutre di
conoscenza, comunione di incontri e di svago. E
per lui è inutile farci giustizia sommaria,
invocare una esecuzione capitale o ordire un
processo esemplare: ci abita e ci mal governa
subdolamente, si prende i sogni ipotecandoci il
futuro nero dei nostri figli.
|
È vero: le massime
autorità comunali di Torino dovevano fare di
meglio per prevenire l’imponderabile accadimento
dietro l’angolo di una latente psicosi
collettiva, organizzando una più oculata e
scrupolosa gestione degli spazi e dei soggetti
presenti in piazza. È giusto: ne rispondano
nelle sedi istituzionali e giuridiche ai suoi
cari. Oggi la rabbia è ancora tanta ma prima o
poi dovrà fare i conti con la maga dell’oblio
che ammalia tutto e tutti nel nostro paese sin
dalla prima Repubblica. E insieme ai cocci
insanguinati delle bottiglie di birra che
crocifissero bambini, donne e uomini nella
piazza torinese verrà spazzata anche questa
storia e insieme la ragione. Ma l’Heysel fu
altra cosa. La paura quando rompe gli argini
dell’autocontrollo non si argina, ma una
tifoseria brutale, con uomini e mezzi idonei,
sì. Bastava il getto degli idranti…
Paradossalmente quella tragedia si poteva
evitare molto più di questa… Come esorcizzare,
dunque, questo demone che ci sconvolge la mente
? C’è un solo modo. Godersi gli istanti brevi o
lunghi della nostra passeggiata terrestre. Tanto
il futuro resta un’ipotesi a prescindere.
"Succhiare il midollo della vita", direbbe Henry
David Thoreau, perché solo la poesia può salvare
la grande bellezza che ci circonda. Il sorriso
di Erika è la risposta ad un mondo che è ferito
ed in pericolo, ma che non è ancora caduto, non
è vinto. Allora arruoliamoci nelle falangi
dell’orgoglio al fianco di una civiltà che non
opprime le donne, non sevizia spose bambine, non
decapita statue millenarie. Difendiamola come
fosse la nostra unica progenie e perché non ne
potremo avere altre. Lo dobbiamo anche alla
dolce Erika, prima vittima di un attentato ad
opera della autosuggestione così come ai caduti
del Bataclan e di Manchester, di Bruxelles, di
Nizza, di Berlino, di Londra… Pertanto diamo
all’Heysel quanto è dell’Heysel e ad Erika ciò
che gli appartiene: memoria, onore e silenzio…
Non manipoliamo la sacralità della sua vita
tramontata in rincorse faticose alla demagogia e
alle avversioni politiche. Lei non lo merita. In
punta di piedi, come una ballerina scalza,
leggera è danzata via…
20 giugno 2017
Fonte:
Giulemanidallajuve.com
© Fotografie: Quelli di... Via Filadelfia -
Torino.repubblica.it
"Mia figlia
Erika uccisa dalla psicosi dell’Isis"
di Federico Callegaro,
Simona Lorenzetti, Niccolò Zancan
Parla il padre della
ragazza schiacciata dalla calca di piazza San
Carlo a Torino.
"Erika è una vittima
dell’Isis. Credo di aver capito questo, alla
fine. È vittima di una cosa terribile che ci
sembrava lontanissima, invece era vicina. Io e
mia moglie guardavamo gli attentati in
televisione e, come tutti, provavamo paura. Ma
commentavamo quasi con distacco. Ci sembrava
impossibile che il terrore potesse colpire anche
noi di questo paesino". Pomodori nell’orto
davanti all’ingresso di una palazzina di due
piani. La bandiera italiana e quella svizzera
sventolano pigramente lungo la provinciale. Fra
le montagne di un verde immacolato, sta passando
un treno, ed è l’unico rumore nella valle. Per
un attimo quasi copre la voce di Giulio
Pioletti, 70 anni, parrucchiere in pensione. È
il padre di Erika, la donna travolta nella ressa
di piazza San Carlo a Torino, la notte della
finale di Champions League fra Juventus e Real
Madrid. La donna morta giovedì scorso, dopo
dodici giorni di agonia.
Cosa vi hanno detto gli
investigatori sulle ragioni che hanno scatenato
il panico ?
"Ci hanno assicurato che
faranno ogni cosa per arrivare alla verità".
Prova rabbia ?
"Al contrario, provo una
profonda gratitudine. Vorrei ringraziare i
medici straordinari del reparto di terapia
intensiva del San Giovanni Bosco. Gli agenti
della Digos, il capitano dei carabinieri Andrea
Iannucci, la sindaca e il suo portavoce: tutti
ci sono stati vicini e hanno promesso il massimo
impegno nel cercare di capire cosa sia successo
veramente quella notte. Voglio ringraziare anche
le persone che hanno prestato i primi soccorsi a
Erika in piazza, il 3 giugno".
Come fa a non essere
arrabbiato ?
"Lo so, avrebbero potuto
mettere il maxischermo allo stadio. E se Erika
avesse chiesto il mio parere, le avrei detto di
non andare in piazza San Carlo. Poteva guardare
la partita a casa, come ho fatto io. Era più
sicuro. Ma non credo che mi avrebbe dato retta.
Aveva 38 anni, era il compleanno del suo
fidanzato, voleva accompagnarlo, anche se aveva
paura".
Paura di cosa ?
"Della folla, della calca.
Della morte. Aveva come un presentimento. Era
come se fosse chiamata a quell’appuntamento. Io
non credo a questo genere di cose, ma lei sapeva
che sarebbe successo: era molto preoccupata.
L’aveva detto alla sua migliore amica, anche
alla sorella. Frasi precise, a ripensarci
adesso. Abbiamo trovato una lettera di qualche
mese fa indirizzata a sua madre: "Se io muoio,
voi tre state sempre vicini. Siete
meravigliosi".
Quando l’avete sentita
l’ultima volta ?
"Erika ha chiamato la mamma
alle 5 di sabato pomeriggio per dire che era a
Torino. Ci avvisava sempre quando era arrivata
nei posti".
E poi ?
"Per voce del suo
fidanzato, sappiamo che mancavano dieci minuti
alla fine della partita e lei voleva andarsene.
Ha chiesto di spostarsi dal centro della piazza
verso il lato, perché sperava di essere più
tranquilla, al sicuro. Ma proprio lì,
all’improvviso, è arrivata l’ondata di panico
che l’ha travolta. L’autopsia deve chiarire se
l’infarto sia arrivato prima o dopo".
La sindaca Appendino cosa
vi ha detto ?
"Quello che sappiamo è che
il Comune ha concesso l’uso della piazza, ma
sono stati altri ad organizzare la serata. Con
la sindaca non abbiamo parlato di queste cose,
la sua è stata una vicinanza molto concreta nei
giorni dell’ospedale".
L’Isis, diceva. Il terrore
che si propaga a distanza. Ne discutevate in
famiglia ?
"Io sono sempre stato un
padre molto apprensivo. Per la prima volta
quest’anno Cristina, l’altra nostra figlia, che
ha due bambini, ci aveva convinti ad andare
qualche giorno in Sardegna con loro. E la prima
cosa che ho chiesto è stata: ci sono le
scialuppe di salvataggio ? Ho pensato che
qualcuno, magari, avrebbe potuto mettere una
bomba sul ferry-boat".
Come descriverebbe Erika ?
"Era una ragazza magrolina,
ma voleva sempre sentire un abbraccio stretto.
Forte, sincero. Era una ragazza indipendente e
orgogliosa. Aveva voluto andare via di casa a 25
anni, e per noi era stata una mezza tragedia.
Tanto che prima di andare su a Domodossola, a
vedere il suo appartamento, ce ne ho messo di
tempo. Erika lavorava come ragioniera da 13
anni, chiamata senza raccomandazioni, perché
aveva voti belli ed era molto scrupolosa. Amava
viaggiare. E più di tutto, voleva aiutare gli
altri. Oggi sono dovuto andare a casa sua. Ho
ritrovato tanti pezzi di vita. Foto di viaggi.
L’Egitto. Lettere. I manuali per il pronto
soccorso".
Perché ?
"Più di tutto avrebbe
voluto fare del bene. Ha frequentato il corso da
infermiera, ma si commuoveva facilmente e stava
male se vedeva il sangue. Quando ha fatto la
volontaria con la Croce Rossa,
sull’autoambulanza, al primo intervento hanno
dovuto soccorrere lei. Era molto emotiva come
me".
Quando l’ha vista l’ultima
volta ?
"Passavo in quel corridoio
d’ospedale, vedevo i suoi capelli sul cuscino e
non avevo la forza di avvicinarmi. Mia moglie è
stata sempre lì dentro, dodici giorni e dodici
notti, erano legatissime, e io continuavo ad
andare avanti e indietro. Voglio ricordarla
com’era quando veniva qui a pranzo. Ogni volta
correvo sul balcone. E lei, prima di salire
sulla sua Citroen, faceva ciao con la mano".
Qual era il sogno di Erika
?
"Non aveva figli. Voleva
andare a trovare il bambino che aveva adottato a
distanza. Io le dicevo: "Ma guarda che in Africa
ti faranno vedere un altro bambino, uno a caso".
E lei: "No, papà, guarda che lo riconosco, sono
sicura, ha una piccola cicatrice sul viso. Andrò
a vedere proprio il mio".
23 Giugno 2017
Fonte: Lastampa.it
© Fotografie: Ossola24.it -
Torino.diariodelweb.it
Fabio Martinoli: "In
quella calca ho perso
Erika ma dal Comune mai
una telefonata"
di Jacopo Ricca
Parla il compagno della
donna venuta a mancare dopo 12 giorni di agonia
per essere stata schiacciata dalla folla di
piazza San Carlo: "Ripensando dopo a quello che
ho visto coi miei occhi quella notte ho capito
che c'erano tantissime cose che non andavano".
TORINO - Sono passati
cinque mesi dal compleanno più tragico di tutta
la sua vita, "ma sembra ieri. Sono stati mesi
tremendi. Non mi rendo conto ancora oggi che lei
non c'è più. Sento che le indagini sono a una
svolta, quello che chiedo è solo che sia fatta
giustizia ". Per Fabio Martinoli, il compagno di
Erika Pioletti, la donna di Domodossola morta
dopo 12 giorni di agonia per essere stata
schiacciata dalla calca di piazza San Carlo,
quella del 3 giugno doveva essere una festa. Per
il suo trentottesimo compleanno e perché da
Domodossola era arrivato a Torino dove sperava
di vedere la sua Juve trionfare in Champions
League: "Ripensando dopo a quello che ho visto
coi miei occhi quella notte, ho capito che
c'erano tantissime cose che non andavano in
piazza - racconta - Ma noi eravamo lì per altri
motivi, doveva essere un momento di gioia".
Cosa ricorda di quella sera
?
"Quando è scoppiato il caos
io ed Erika eravamo vicini, la gente ha iniziato
a scappare e spingere. Avevo visto un portone
aprirsi sotto i portici di piazza San Carlo e
stavamo cercando raggiungerlo perché mi sembrava
un posto sicuro, ma poi una seconda ondata ci ha
travolti. Siamo stati divisi dalla calca che ci
ha schiacciato. La vedevo a pochi metri da me,
con le persone cadute sopra di lei che la
schiacciavano, ma non potevo far nulla per
aiutarla. Ho pensato di morire. Sono riuscito a
tirarmi fuori, ma poi sono di nuovo caduto e per
molti minuti mi sembrava di non riuscire a
respirare. Lei l'hanno rianimata a lungo, ma non
è bastato".
Cosa si aspetta da questa
inchiesta ?
"Personalmente quello che
mi aspetto è che qualcuno paghi per quello che è
successo. Niente mi ridarà indietro Erika, ma
non è possibile che ci vogliano tragedie come
quella che ci ha colpito perché si faccia
qualcosa. C'è troppo menefreghismo in Italia,
pensare che quel giorno avevamo un esempio che
ha funzionato da copiare, proprio in Spagna dove
i tifosi del Real Madrid erano allo stadio
Bernabeu a vedere la partita di Cardiff. Perché
qui non è stato fatto lo stesso ?".
Pensa ci siano delle
responsabilità nelle istituzioni ?
"Noi eravamo lì per
divertirci, ma con il senno di poi credo di sì.
Questa è la cosa che mi fa più rabbia che
nessuno ci abbia pensato prima. Quel giorno
c'era troppa gente in piazza. Troppa calca, ma
nessuno ha fatto nulla. Era pieno di venditori
abusivi e tutti quei vetri per terra e nessuno è
intervenuto. Mi aspetto che sia fatta
giustizia".
Ha più sentito la sindaca
Appendino ?
"So che durante i giorni
del ricovero di Erika all'ospedale Giovanni
Bosco è stata vicino ai genitori della mia
compagna, ma con me non si è mai fatta viva.
Sinceramente neanche mi interessa. Non mi cambia
nulla e non mi aspetto nulla né da lei, né dagli
altri. Non voglio usare parole retoriche, ma per
me Erika era una persona speciale, eravamo lì
per divertirci e in un niente l'ho persa per
sempre. Per me è stato un trauma enorme".
4 novembre 2017
Fonte: Torino.repubblica.it
© Fotografie: Notizie.tiscali.it -
Lapresse.it
IL RACCONTO
Piazza San Carlo, la
solitudine del fidanzato
di Erika: lo sguardo sul portone dove
venne travolta
di Massimiliano Nerozzi
Nel giorno della cerimonia
con le istituzioni cammina da solo, nessuno lo
riconosce: depone un mazzo di rose nell’angolo
dove la ragazza venne ferita a morte.
TORINO - Arriva con un
mazzo di rose bianche, come il fiocco, e una
rossa, e s’aggira vicino ai cordoni porpora
della cerimonia, quasi fosse una persona
qualsiasi: invece Fabio Martinoli, 39 anni ieri,
perché nelle tragedie il destino sa essere
beffardo e diabolico, qui ha perso la sua
amatissima compagna, Erika Pioletti. Un anno fa
erano venuti in piazza San Carlo per vedere la
finale di Champions, anche se l’unico tifoso
bianconero, sfegatato, era Fabio: Erika l’aveva
accompagnato per amore, e per il regalo di
compleanno. Adesso, quel che resta della sua
fidanzata è dentro il suo cuore, e in quella
corona di fiori gialli e blu della Città di
Torino. Che sono così vicini eppure così
lontani, perché al massimo ci andrà di fronte a
cerimonia finita, per un paio di minuti. Così
come sembrano distanti la famiglia di Erika e la
sindaca, Chiara Appendino, che mai l’ha
chiamato: che ci sarebbe stata la cerimonia di
ricordo e, un giorno, una targa, l’ha saputo
leggendo i giornali. Cammina da solo, con il
conforto, discreto, della mamma, l’unica che
l’ha accompagnato fin qui, in macchina. Se ne
sta mischiato tra curiosi, tifosi, gente che
passa per caso, anche durante il silenzio
suonato dalla tromba, e la deposizione delle
corone di fiori. In fondo, con il proprio
dolore, bisogna imparare a fare i conti da soli,
in silenzio: cercandolo, e non escludendolo.
Quel che fa poi Fabio: "So bene dove mettere
questi fiori". Da solo, che più non si può, si
avvicina al portone di legno del civico 182, un
paio di pilastri a sinistra di dove le
istituzioni hanno lasciato le corone, si china e
posa il mazzo di rose. Lì è dove tentarono di
rianimare Erika, che la calca gli aveva
strappato, e poi schiacciato, mentre lui,
sommerso dai corpi, nulla poteva. Poco prima,
aveva chiesto a un paio di vigili urbani se
fosse possibile aprirlo, quel portone, perché
dentro il cortile provarono a salvare il suo
amore: niente, non si riesce, perché di
domenica
mattina è tutto chiuso. Pazienza, il cippo della
memoria sarà in quell’angolo. Abbandonate le
rose, Fabio si allontana un paio di passi, e se
ne sta fermo, solissimo, a guardare e piangere,
per diversi minuti. Neppure la mamma si
avvicina. Lo faranno, poco più tardi, i
microfoni delle televisioni: "Mi spiace, ma non
ho nulla da dire". Insistere non serve: "Non
vorrei che mie parole venissero travisate.
Rispondo di non voler dare interviste, eppure
c’è chi poi scrive lo stesso, quel che gli
pare". Preferisce tenersi dentro il dolore,
lontano dall’abbraccio delle istituzioni. Lui e
la mamma sarebbero comunque tornati a Torino per
l’anniversario, anche se non ci fosse stata
questa cerimonia. Conta quello che provi. Erika,
impiegata in uno studio di commercialisti, e
Fabio, serramentista, si erano conosciuti,
piaciuti subito e andati a convivere, da cinque
anni. Quando poteva, quasi sempre nei fine
settimana, la donna tornava a Beura, paese
natale, per andare a trovare la mamma Anna, che
qui non c’è, il papà Giulio, barbiere, e la
sorella Cristina, ragioniera: che ora stanno là,
a metri che sembrano chilometri. A sera, Fabio
posterà sul web la foto di un braccialetto, di
un cuore e l’emoticon di un angelo. L’unico
commento, è il post di un’amica: "Lei è qui".
4 giugno 2018
Fonte:
Torino.corriere.it
© Fotografie:
Torino.repubblica.it - Corriere.it
DOPO DUE ANNI Vittoria
per i familiari
Una targa per
Erika Pioletti e Marisa
Amato
Via libera alla targa
per ricordare la
tragedia di Piazza San
Carlo e le sue due
vittime innocenti.
Sono passati quasi due anni dal quel 3 giugno
2017 in piazza San Carlo. Torino ricorda ancora
le urla, l'immensa folla che sbatte su sé stessa
e la conta delle vittime di quella tragica
notte, quando sul maxi schermo veniva proiettata
la finale della Champions League tra Juve e
Real. E affinché il monito di quei fatti rimanga
indelebile nelle menti di chi passa di lì, ieri
è stato ufficializzato il via libera per
installare una targa commemorativa per Erika
Pioletti e Marisa Amato, le due donne che
persero la vita a causa dalla folla impazzita.
Il consenso all'unanimità della Commissione
toponomastica è arrivato dopo la richiesta
dell'Associazione Quelli... di via Filadelfia.
Erika Pioletti, 38 anni, era andata a vedere la
partita assieme al fidanzato ed è morta una
decina di giorni dopo a causa dello
schiacciamento della cassa toracica. Stesso
destino fatale, eppure con una storia diversa da
raccontare, per Marisa Amato, 65 anni. Quella
sera era in locale di una delle vie parallele a
mangiare la farinata con il marito. È rimasta
tetraplegica fino al 25
gennaio 2019, data della scomparsa. "Ovviamente
siamo onorati di questo gesto simbolico della
città. Il ringraziamento più grande va fatto
però a Beppe Pranzo e alla sua associazione
"Quelli... di Via Filadelfia" che per primi si
sono mossi per l'apposizione della targa. E un
gesto che non ci farà tornare indietro ma almeno
ci assicura che mia mamma, Erika e tutti i
feriti di quella notte non verranno
dimenticati", spiega Danilo D’ingeo, uno dei
figli di Marisa Amato. E prosegue: "Per quanto
riguarda il punto di vista personale la targa
manterrà vivo in noi famigliari il ricordo e il
grande cuore che ha avuto in questi mesi di
sofferenza mia mamma". Ma i famigliari della
vittima non si sono fermati per via della
tragedia che li ha colpiti. Infatti, "in questi
mesi abbiamo anche dato vita ad una ONLUS, I
sogni di nonna Marisa, cominciando ad impegnarci
nel sociale per dare un aiuto concreto alle
persone che ne hanno bisogno, anche se partendo
dal piccolo. Abbiamo già portato a termine
alcune raccolte fondi e recentemente abbiamo
donato un apparecchio all'unità spinale del Cto.
Lo stesso reparto dove era ricoverata mia mamma.
Crediamo sia il modo migliore per onorare il suo
ricordo e fare qualcosa per chi ha bisogno",
conclude D'Ingeo. Presto la targa farà parte di
quella grande memoria storica composta dai
monumenti e dalle targhe affisse sui muri di
Torino. Un primo passo, tra la certezza che a
causare il panico fu la banda dello spray al
peperoncino nell'intento razziare gli spettatori
della partita. E le responsabilità dei
funzionari pubblici su cui ancora molti si
interrogano. Infatti, cosa è andato storto
durante quella fatidica notte è ad oggi materia
del processo in corso.
(C. Nan - E.
Cigolini)
15 maggio 2019
Fonte: Il
Giornale del Piemonte e
della Liguria
© Fotografia:
Torino.repubblica.it
Il fidanzato di
Erika Pioletti:
"La condanna non
cambia
nulla ma
ognuno farà i
conti con la
propria
coscienza"
di Federica
Cravero
Fabio Martinoli
era con la
vittima in
piazza San Carlo
per festeggiare
il compleanno:
"Da allora la
mia vita è una
tortura".
"Aspettavo
proprio di
sapere come
sarebbe andata.
Un anno e mezzo:
si bruciano la
condizionale e
per loro cosa
cambia ? Non
succede niente.
Non so quanto
abbiano capito
davvero di
quello che è
accaduto: ognuno
ha la sua
coscienza e a
quella deve
rispondere. Se
ce l’ha".
Fabio Martinoli,
41 anni, la sera
del 3 giugno
2017 era in
piazza San
Carlo, a Torino,
assieme alla
fidanzata Erika
Pioletti. La
folla presa dal
panico li
travolse, Erika
rimase
schiacciata, il
suo cuore si
fermò per 40
minuti prima di
tornare a
battere, ma la
giovane non si
riprese mai e
morì dopo 12
giorni di coma,
a 38 anni.
Quella lunga
serie di
immagini è
impressa in modo
indelebile nella
mente di
Martinoli, che
ha ripercorso
nei dettagli
quando è stato
chiamato a
testimoniare
nell’altro
processo, che
sta continuando
per gli imputati
che hanno scelto
il dibattimento
anziché il rito
abbreviato.
"Quel giorno era
il mio
compleanno -
ricorda - A me
non è mai
interessato
molto
festeggiare i
compleanni, ma
si può
immaginare come
sia stato da
quell’anno in
poi… Quella data
me la ricordo
ora più di
quanto non
facessi prima".
A distanza di
tre anni e
mezzo, quali
sono i suoi
pensieri su
quella serata ?
"Ogni tanto mi
arrovello sui
"se". Se non
fossimo andati a
vedere quella
finale, se non
ci fossimo
spostati in quel
punto della
piazza, se non
fossimo scappati
da quella parte…
Ma è una tortura
devastante. Il
calcio e la
Juventus erano
la mia passione
e Erika mi
assecondava,
piaceva anche a
lei venire
andare assieme a
vedere la
partita. Dopo
questo tempo ho
provato a
metabolizzare la
sofferenza, ma
ci penso
spessissimo e
sto male".
Lei fin
dall’inizio
aveva sollevato
la
disorganizzazione
che regnava
nella piazza.
Questa sentenza
restituisce
giustizia per
quello che è
accaduto ?
"Non saprei, un
anno e mezzo di
pena per quello
che è accaduto…
Ci sono tante
persone a
giudizio in
questa vicenda e
la
responsabilità è
stata divisa tra
tante persone.
Ci sono stati i
ragazzi dello
spray, ci sono
gli
amministratori,
gli
organizzatori, i
tecnici. Se ci
fosse stato solo
un colpevole
sarebbe andata
allo stesso modo
? Che sia emersa
una colpa è già
un risultato,
anche se con una
pena che non
avrà conseguenze
per loro".
È ancora andato
in quella piazza
dopo la tragedia
?
"Una volta
soltanto, l’anno
dopo, per la
cerimonia di
commemorazione.
Poi mai più. Io
adesso sono
andato anche via
da Domodossola,
dove abitavo con
Erika e sono
tornato a
Omegna. A Torino
ci passo ogni
tanto per
lavoro, ma ci
vado il meno
possibile e sto
lontano da quel
posto. Già solo
leggere il nome
della città mi
fa venire un
brivido e mi fa
stare male".
27
gennaio 2021
Fonte:
Torino.repubblica.it
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