28 aprile 1963: Morte
allo stadio Vestuti
di Mimmo Mastrangelo
Sono
anni che la Salernitana non
gioca più al Vestuti, da quando
nel giugno del 1990 i granata
capitanati dal compianto
Agostino Di Bartolomei
conquistarono la cadetteria dopo
24 stagioni spese in Serie C. Ma
lo stadio sta ancora lì in
Piazza Casalbore, nel centro di
Salerno, il suo terreno di gioco
ormai ospita solo le partite
delle compagini cittadine
militanti nelle serie minori. Un
catino in cemento armato -
architettonicamente niente di
che - costruito nel 1931 in
pieno regime fascista,
battezzato non a caso Stadio
Littorio, sbattezzato nel
dopoguerra e, infine, dedicato
nel 1952 a Donato Vestuti
padre-fondatore del club
campano. Nel 1962 lo stadio in
mezzo alla città fece anche da
set per alcune sequenze esterne
del film di Nanni Loy "Le
quattro giornate di Napoli", ma
purtroppo ciò che ha reso famoso
il vecchio Vestuti, come lo
chiamano ancora i salernitani, è
una tragedia.
È
domenica 28 aprile 1963, in
tutto il Paese si vota per il
rinnovo delle Camere (dalle urne
uscirà un Partito Comunista in
crescita di consensi e una
Democrazia Cristiana in leggero
calo, ma comunque prima). Ospite
della Salernitana nel match
valido per il girone C della
Serie C è il capolista "Potenza
dei miracoli", allenato da
Egizio Rubino. La Salernitana
sogna il colpo gobbo contro i
rossoblù lucani e prova giocarsi
le sue ultime chance per
rientrare in corsa per la
promozione. Partita delle grandi
occasioni, dunque, e gli spalti
del Vestuti sono gremiti
all’inverosimile. Le cronache
del tempo riportano 19.000
spettatori, anche se il numero
appare esagerato perché sommate,
tribuna, distinti e curva, ne
possono al massimo contenere
dodicimila-tredicimila. La prima
mezzora del match se ne va senza
particolari azioni di rilievo.
Al 42’ il Potenza gela il
Vestuti e si porta in vantaggio
con l’ala sinistra fiorentina
Vincenzo Rosito, che approfitta
di una respinta del portiere
Pezzullo ed insacca. I granata
protestano per un presunto
fuorigioco, ma per il direttore
di gara Gandiolo di Alessandria
è tutto regolare. Nella ripresa
la Salernitana ritorna in campo
più decisa, padroneggia le trame
di gioco e pressa il Potenza
nella sua metà campo nel
tentativo di ripristinare
l’equilibrio. Finché intorno
all’ 80′ il fattaccio: il
centrocampista Visentin viene
atterrato in piena area di
rigore, sull’accaduto l’arbitro
sorvola e il pubblico impreca
forsennatamente. All’improvviso
uno spettatore si apre un varco
nella rete di cinta e corre per
raggiungere l’arbitro, ma le
forze dell’ordine lo fermano.
Non passano che pochi minuti e
il terreno di gioco è invaso da
altri tifosi locali inviperiti
con il signor Gandiolo, il quale
non può fare altro che
sospendere la partita. A questo
punto tutto degenera, la
contestazione dei sostenitori
granata non si riesce più a
contenere e le forze dell’ordine
oppongono resistenza come
possono. Il catino del Vestuti
diventa il film di una quasi
guerriglia, tant’è che nel
parapiglia generale parte un
colpo vagante dall’arma di un
rappresentante delle forze
dell’ordine. Il proiettile
colpisce ed ammazza il tifoso
granata Giuseppe Plaitano, in
quel momento seduto sulle
gradinate della tribuna. Una
morte assurda per cui mai nessun
responsabile finirà davanti a un
giudice o condannato. Giuseppe
Plaitano aveva quarantotto anni,
lasciò la moglie e quattro
figli, oggi uno dei club più
blasonati della Salernitana
porta il suo nome (Quella di
Plaitano è spesso riportata come
la prima morte di un tifoso
all’interno di uno stadio
italiano. La prima morte in
assoluto risale però al maggio
del 1920, quando a Viareggio
Augusto Morganti, ex ufficiale
di complemento che si era
prestato a fare il guardalinee,
fu colpito da un proiettile
esploso dal carabiniere Natale
De Carli. Qui trovate un
riassunto più dettagliato).
Sullo sfondo della tragedia le
cronache raccontano che
l’arbitro Gandiolo e suoi
collaboratori di linea rimasero
asserragliati negli spogliatoi
per sette ore. Il giudice della
Lega sancì il 2-0 a tavolino per
il Potenza che a fine stagione
avrebbe staccato il traguardo
della Serie B. Al vecchio Donato
Vestuti toccarono, invece,
quattro turni di squalifica e
alla Salernitana un finale di
campionato anonimo.
Fonte:
Calcioromantico.com
Giuseppe Plaitano:
"Il mio ricordo di quel
28/4/1963
Quel proiettile
dovuto a una tragica
fatalità…"
di Giuseppe
Pucciarelli
Ieri,
nel corso della trasmissione
"Quarantena Granata" in onda
sulla pagina ufficiale
Facebook di
SalernoGranata.it, si è
ricordato il 28 aprile 1963
e quel tragico
Salernitana-Potenza, con
l’invasione di campo dei
tifosi, l’intervento delle
forze dell’ordine e quel
proiettile vagante che
uccise Giuseppe Plaitano,
seduto in tribuna e
diventato il primo morto
negli stadi italiani. Una
vicenda triste, ripercorsa
anche grazie a suo nipote
Giuseppe Plaitano, gradito
ospite della trasmissione
ieri. Queste le sue
principali dichiarazioni.
Sul
suo ricordo di quel 28
aprile 1963: "Ho un ricordo
vago, avevo 6 anni e arrivò
una telefonata a casa, a
Castellammare di Stabia,
città dove vivo. Mio padre,
fratello maggiore di
Giuseppe, lasciò tutto e
andò via. Noi non capimmo
cosa stesse succedendo, poi
con il tempo abbiamo
realizzato cosa stesse
accadendo". Su un suo
ricordo dello zio:
"Purtroppo mancò, come
detto, quando avevo 6 anni
quindi i miei ricordi sono
vaghi. Mio zio era molto
presente nella vita di mio
padre, era una persona mite
ed era stato in Marina come
tutti noi della nostra
famiglia. Non a caso, lui si
trovava tra i "tranquilli",
seduto al suo posto in
tribuna nonostante in campo
stesse accadendo di tutto.
Fu una ferita che lasciò
esterrefatti tutti". Sulla
sua descrizione
dell’episodio: "Era un
giorno particolare, dato che
era alta la posta in palio
(la Salernitana si giocava
con la capolista Potenza le
ultime possibilità di
un’eventuale promozione in
B, ndr). Purtroppo, fu una
tragica fatalità. Nel mentre
dei tafferugli, un
rappresentante delle forze
dell’ordine intervenuto per
sedare il tutto, sparò un
colpo in aria. Ma, proprio
nell’attimo in cui stava
premendo il grilletto, il
suo braccio venne colpito e
questo fece sì che il
proiettile indirizzato in
aria andò verso la tribuna e
colpì alla tempia mio zio,
che, fatalità vuole, proprio
in quel frangente si era
girato verso destra per
osservare l’uscita dal
terreno di gioco dei
calciatori". Sulla vicenda
giudiziaria dovuta a
quell’episodio: "Come
sapete, nonostante sia
passato molto tempo, mio
cugino Umberto si sta ancora
battendo per la riapertura
delle indagini affinché si
scoprano nuovi elementi
sulla morte del padre".
Sulla sua "convivenza" delle
passioni per Salernitana e
Juve Stabia: "Posso dire che
quando Salernitana e Juve
Stabia si incontrano, mi
farebbe piacere che nessuna
vinca o che vincessero tutte
e due. Il pareggio sarebbe
la cosa più ideale. Sono di
origini salernitane, mio
padre è di Salerno e la
Salernitana è una parte del
mio cuore, così come lo è la
Juve Stabia, vivendo da
sempre a Castellammare".
Sulle differenze tra il tifo
del passato e il tifo
odierno: "Forse prima non
esisteva il tifo degli
ultras, ma vi erano elementi
di folclore in più. Negli
anni ’50-’60, a
Castellammare, per esempio,
vi erano sostenitori vestiti
in particolari modi che
eseguivano riti
scaramantici. C’era più
bonarietà. Il mio rapporto
con il calcio oggi ? Sono un
tifoso "non praticante", lo
vivo in maniera più
distaccata. Sono un tifoso
da salotto". Sul suo
archivio fotografico: "Il
mio archivio è tutelato dal
Ministero per i Beni e le
Attività Culturali in quanto
considerato di rilevanza
nazionale. Spazia dalla fine
del secolo scorso fino agli
anni ’50 e si rifà a
Castellammare e tutto ciò
che concerne la storia della
cittadina stabiese, con
moltissimo materiale che
riguardante i vari delle
navi, essendo Castellammare
storica sede dei Cantiere
Navali. Ovviamente, spazio
anche alla Juve Stabia. Vi
sono anche diverse foto di
Juve Stabia-Salernitana,
risalente alla stagione
1951-1952". Sull’ubicazione
troppo centrale dello stadio
Menti di Castellammare di
Stabia: "Sì, è un impianto
che è ubicato lungo
un’arteria principale di
Castellammare, ma non vi è
spazio in città per un altro
stadio. Forse, solo sulle
colline di Varano, ma è
difficile in quanto in
quella zona sono presenti
ville romane soggette a
vincolo".
29 Aprile 2020
Fonte:
Salernogranata.it
© Fotografia: Stabiachannel.it
Il racconto del
figlio Umberto a 57 anni
dalla morte del papà
LA MEMORIA: "Un
proiettile da centrocampo e
Plaitano morì: era mio
padre"
"Un giorno triste e di lutto
per il calcio italiano,
Vincenzo De Luca, all'epoca
sindaco di Salerno, mi
chiese di pagare il funerale
di un ragazzo. Era l'ultras
del Brescia, Roberto Bani.
Lo chiese a me, un Plaitano,
ufficio ragioneria del
Comune di Salerno". Umberto
Plaitano, figlio di
Giuseppe, primo tifoso morto
in uno stadio (al Vestuti),
parla di ricordi, tormenti.
Il 4 maggio, quando lo sport
riaprirà la porta agli
allenamenti individuali,
dopo il lockdown per
coronavirus, gli ultras di
Salerno e di Brescia
ricorderanno la data di una
infausta partita. Il 4
maggio 1997, Roberto Bani
cadde rovinosamente sui
gradoni del settore ospiti,
dopo una lite, battendo la
testa. Morì il 10 maggio al
Ruggi. "Fu per me un segno
del destino occuparmi da
ragioniere capo del Comune
di predisporre il bonifico
per il pagamento del
funerale di quel povero
ragazzo. Il Comune, anni
prima, si era adoperato
anche per noi, per lui, per
Giuseppe, mio padre, ucciso
da un proiettile calibro
7,65 mentre guardava verso
la curva nuova del Vestuti,
seguendo con lo sguardo la
fuga dei calciatori di
Salernitana e Potenza e
dell'arbitro Gandiolo,
quest'ultimo rincorso dalla
folla durante una tumultuosa
invasione di campo per il
calcio di rigore non
concesso".
LA TRAGEDIA - Era il 28
aprile 1963, era giorno di
elezioni, era... oggi e sono
passati 57 anni da quel
"papà, dammi cinque
sigarette" che il 19enne
Umberto chiese e ottenne in
tribuna dal proprio
genitore, il 48enne
Giuseppe, maresciallo
maggiore della Marina
Militare, telemetrista. "Non
potrò andare al cimitero,
dobbiamo restare
distanziati. Eravamo a
distanza anche quella volta,
sui gradoni di piazza
Casalbore. Entrai con la
scoppola, con la pacca sulle
spalle, perché sapevo che
all'ingresso avrei trovato
come maschera il bidello
dell'Istituto Genovesi.
Frequentavo il quinto anno,
avrei dovuto diplomarmi
ragioniere. Lo feci ma mio
padre non c'era più, ucciso
- dice Umberto Plaitano -
Magari per sbaglio, ma
ucciso da un proiettile
esploso da centrocampo e non
per compressione toracica
come vollero farci credere.
Vidi la perizia balistica e
l'esito dell'esame
autoptico. Tutto sparito. Le
carte non ci sono più. Resta
una fotografia, recuperata
di recente, nella quale si
vede chiaramente mio padre
riverso in una pozza di
sangue, sugli spalti, nei
pressi della tribuna stampa.
Il tenente Gaetano Parasole
che sparò fu trasferito in
Sardegna, trasferiti anche
il Questore e il Prefetto.
Due anni fa ho scritto al
Ministro della Giustizia, ho
chiesto di far riaprire il
caso. All'epoca, due
avvocati penalisti non
vollero difenderci. Ancora
oggi non porto rancore ma mi
assale dispiacere: ci sono
morti di Serie A e morti di
Serie B. Lo Stato non ci ha
mai risarciti". Però una
busta arrivò: "Non abbiamo
mai saputo né capito se si
trattasse di poliziotti.
Qualche giorno dopo la morte
di mio padre, si
presentarono alcune persone
a casa: a parziale
conguaglio, offrirono soldi.
Mia madre, sdegnata, rifiutò
tutto. Che cosa avrebbe
dovuto farsene dei soldi ?
Lei aveva perso mio padre;
lei, da consolidata
abitudine, era scesa in
strada nei pressi del cinema
Apollo, un quarto alle 17, e
lo attendeva di ritorno
dallo stadio per la
passeggiata. Invece si
ritrovò in camera mortuaria
a vegliare il cadavere del
marito. E io davanti a loro,
in via Vernieri, condotto lì
dal sesto senso e da parole
lasciate a metà, del tipo mi
pare che ho visto tuo padre,
mi pare che si è fatto male
alla gamba".
I MESI SUCCESSIVI - Dopo i
funerali nella chiesa
dell'Immacolata, la bara fu
sottratta dalla folla e
portata a spalla, per atto
dimostrativo, da piazza San
Francesco a piazza Amendola,
davanti a Palazzo di Governo
(con i poliziotti dentro e i
carabinieri fuori a
presidiare). La vedova
Plaitano, la signora Maria
Vigilante, fu convocata dal
Comune di Salerno, alcuni
giorni dopo. "Voleva
assumerla il sindaco Menna
ma in Comune mi presentai io
- dice il figlio Umberto - e
dissi che mia madre avrebbe
dovuto continuare a badare a
4 figli. Se avessero voluto
e potuto, avrebbero dovuto
attendere due mesi, il tempo
del diploma, e mi sarei
presentato io al posto suo.
Così, il primo giorno di
lavoro, entrai a Palazzo di
Città con la giacca
arrovotata, cioè girata, di
mio padre. Era l'1 agosto
1963". A Giuseppe Plaitano
sono stati intitolati la
"curva vecchia" del Vestuti
e un club di tifosi nel
1978.
(Fonte: il Mattino)
28 Aprile 2020
Fonte:
Tuttosalernitana.com
LA RICORRENZA
Plaitano, 55 anni di
dolore: "Riaprite
quell’indagine"
Il figlio Umberto:
"Nessun rancore, solo amarezza.
Scrissi al ministro Orlando".
di Pasquale Tallarino
SALERNO
- Salernitana-Brescia si
giocherà il 28 aprile. È la data
della memoria: il 28 aprile
1963, giorno di elezioni, di
invasioni e di spari dei
poliziotti per disperdere la
folla, il tifoso granata
Giuseppe Plaitano morì
sull’ultimo gradino della
tribuna del "Vestuti", colpito
da una pallottola all’encefalo
sinistro. "Sono passati 55 anni
ma non provo rancore, piuttosto
amarezza. Cinque mesi fa ho
scritto al ministro Orlando
perché venga riaperto il
fascicolo", racconta Umberto
Plaitano, il figlio del primo
tifoso italiano morto in uno
stadio. Il giorno di
Salernitana-Potenza, sfida
promozione, lui aveva 20 anni
"ed entrai con la… scoppola:
"passa guagliò", mi disse
all’ingresso il bidello del
Ragioneria. Mio padre era al mio
fianco, col biglietto. Gli
chiesi cinque sigarette. Le sue
ultime parole: "Resta con gli
amici. A me dà fastidio essere
pressato alle spalle e mi siedo
in cima". Fu la sua condanna: la
prima invasione, la seconda di
un isolato spettatore fermata
con manganellate. La camicia
bianca del tifoso divenne rossa:
chiese aiuto alla tribuna e le
recinzioni caddero. Scapparono
squadre e arbitro: mio padre
girò la testa verso destra -
dunque colpito alla tempia
sinistra - perché seguiva
l’uscita dei calciatori. Lo
speaker Enzo Costantini annunciò
gli spari. Poi mi ritrovai nella
camera mortuaria". Seguirono
giorni terribili: "Ai funerali,
pagati dal sindaco Menna, alcune
persone presero la bara e la
portarono in Piazza Amendola,
sotto la Questura. Menna assunse
mia madre ma doveva tirar su i
miei fratelli Raffaele, Gennaro
e Annamaria. Ad agosto ’63, dopo
il diploma, presi servizio al
Comune". I ricordi si
incrociano: "C’è Salernitana-
Brescia e proprio a me, un
Plaitano al settore ragioneria,
il sindaco dell’epoca, De Luca,
chiese di ottemperare al
pagamento dei funerali del
povero Roberto Bani, tifoso
bresciano morto. Pure gli ultras
si distinsero per solidarietà,
si è cementata un’amicizia tra
curve. Adesso c’è maretta con
Lotito ma ascolto cori di civile
protesta: la tifoseria è
maturata. Sarebbe bello leggere
una dedica sugli spalti, 55 anni
dopo. Dispiace non vedere più lo
striscione Ultras Plaitano da
qualche anno. Sono certo, però,
che il ricordo di mio padre sia
scolpito nel cuore dei
salernitani".
25 aprile 2018
Fonte:
Lacittadisalerno.it
Dall’omicidio Plaitano a
capitan Di Bartolomei:
amori, tragedie e
aneddoti al Vestuti di Salerno
di Simone Meloni
Questa
è la storia di una moltitudine
di cuori che si sono fermati in
riva al Tirreno. Ma anche di
migliaia di sciarpe tese al
cielo a solfeggiare sulle note
di "Vattene amore" (colonna
sonora del ritorno della
Salernitana in B, nel 1990) e di
uno stadio bollente, che per
circa sessant’anni ha fatto da
proscenio alla passione
viscerale - quasi psichedelica -
di una città per la sua squadra
di calcio… (Omissis Articolo
Completo). Ma lo stadio Donato
Vestuti è anche celebre per un
triste record: il primo morto
del calcio italiano. Giuseppe
Plaitano, ucciso da un
proiettile vagante il 28 aprile
del 1963, durante
Salernitana-Potenza. Così
ricorda quella giornata uno
storico tifoso: "La partita era
determinante per andare in B -
dice. Una sfida fino a quel
momento tranquilla. Potentini e
salernitani erano mischiati, non
c’era tifo organizzato. Il 28
aprile era una giornata
importante, perché segnata dalle
elezioni politiche.
Contemporaneamente al San Paolo,
dove il Napoli era impegnato con
il Modena, ci furono incidenti e
invasioni di campo, molto
probabilmente legate proprio
alla tornata elettorale.
Tuttavia quanto successo al
Vestuti va assolutamente
astratto da quel contesto. Io
avevo dodici anni. Nel secondo
tempo - ricostruisce - non viene
dato un rigore alla Salernitana.
Un tifoso scavalca in campo dai
distinti, agevolato dalla totale
assenza di inferriate, e prende
la bandierina del calcio
d’angolo. Due poliziotti lo
fermano, tirando fuori i
manganelli e conducendolo fuori
dal campo. Lo pestano a sangue
arrestandolo, lui si rivolge
alla tribuna e grida: "Avete
visto cosa mi hanno fatto ?". Da
quel momento inizia un
parapiglia. Allora si andava
allo stadio in giacca e
cravatta, così ricordo tutti
questi signori ben vestiti
scendere in campo alla ricerca
dell’arbitro - il signor
Gandiolo di Alessandria - il
quale rimedia un cazzottone
riuscendo però a rifugiarsi
negli spogliatoi. Tuttavia la
miccia è ormai innescata e nel
campo si consumano violenti
scontri con le forze
dell’ordine. Sono i primi veri
scontri da stadio in Italia. A
questo punto entrano le jeep
della polizia e cominciano un
grande carosello per tutto il
campo. Addirittura il Questore
viene travolto. Altri poliziotti
lanciano lacrimogeni a raffica
mentre altri sparano in aria per
sedare la folla inferocita". Uno
di questi proiettili colpisce
proprio l’inerme Giuseppe
Plaitano, 48 anni ex Maresciallo
della Marina. È il primo morto
del calcio italiano. "Per due
giorni la polizia non poté
uscire per Salerno, furono i
soli Carabinieri a mantenere
l’ordine pubblico", ricorda il
tifoso. I supporter campani lo
omaggeranno con uno dei gruppi
più importanti della curva: gli
Ultras Plaitano. Logico che per
un bambino questo rimanga un
ricordo difficile da scalfire…
(Omissis: Articolo completo).
11 luglio 2017
Fonte: Iogiocopulito.it
Giuseppe Plaitano, morte
allo stadio
di Pietro Nardiello
"Questo
giorno me lo sono sempre
immaginato, entrare in questo
stadio mano nella mano con papà.
Sul prato verde ci sarà la
nostra Salernitana, la squadra
di questa città. Maglia granata,
il colore delle mie giornate. In
fondo io alzo gli occhi al cielo
e l’azzurro sembra tingersi di
granata. Ieri a scuola la
maestra ci ha chiesto di fare un
disegno. Ci ha chiesto di
disegnare ciò che vediamo
affacciandoci dalla finestra di
casa. Ed io non ci ho pensato
più di qualche istante. Una
finestra, un cielo, qualche
gradinata, un prato verde e la
nostra squadra che rincorre il
pallone. Ma certo, prima o poi
qualcuno farà goal ed io mi
riempirò di gioia, urlerò,
abbraccerò papà che adesso mi
tiene stretto con la mano.
Ancora un passo e finalmente
eccoci qua, insieme in questo
stadio che sembra una piccola
bomboniera. Sarà forse
l’emozione della prima volta,
l’attesa che si respira, la
paura di doverla vincere per
forza questa partita. Dobbiamo
vincere per rimetterci in
cammino e, finalmente,
conquistare un’altra volta la
promozione in serie B. Mi guardo
intorno e non c’è spazio più per
nessuno. Urla asfissianti.
Imprecazioni. Incoraggiamento
per i nostri calciatori. Eccoli,
papà mi fa cenno di guardare
quel buco che si apre verso le
viscere. Mi dice che si chiama
sottopassaggio. Un tunnel che
porta agli spogliatoi dove il
nostro mister avrà spiegato loro
la tattica da adoperare per
questa partita. Vincere, non
abbiamo possibilità di scelta.
Ma qui la calca è tanta. C’è
tanta frenesia e qualcuno ha
iniziato a spingere. Mamma si è
raccomandata tanto, ha chiesto a
papà di stare attento, di non
perdermi mai di vista. Ma papà è
tranquillo, non è un esagitato.
Guarda sempre la partita con
attenzione, sembra non volersi
perdere nemmeno un istante
dell’incontro. Quando rientra a
casa mi racconta sempre tanti
particolari, ma io aspetto
sempre e con trepidazione il
momento del goal. Le squadre
sono in campo, finalmente. Mi
guardo ancora intorno. Uno
sguardo rivolto a questi spalti
e un altro, invece, al campo di
gioco. Papà dice che in campo le
due squadre si danno battaglia,
nessuno porge il fianco. Ma no !
Gli avversari sono passati in
vantaggio. Mi volto verso papà e
cerco conforto. Sussurrando mi
rassicura e mi dice che nel
secondo tempo la Salernitana
riuscirà a recuperare il
risultato. Ed eccoli nuovamente
in campo. Sono sicuro anche io,
la Salernitana mi renderà
felice. Rigore !! Tutto lo
stadio invoca il calcio di
rigore. Ma l’arbitro dice di no.
Ehi, ma che succede. Mi ritrovo
per terra. Una folla inferocita
si avvicina alle inferriate.
Urlano qualcosa, inveiscono
contro l’arbitro. Papà mi dice
di sedermi, di starmene
tranquillo vicino a lui. Ma che
succede. I giocatori sono
scappati negli spogliatoi, i
tifosi hanno raggiunto il campo
di gioco, tra le mani stringono
mazze di legno e di ferro. Si
picchiano con i poliziotti che
hanno indossato i caschi. Inizio
a respirare male, questo fumo mi
fa lacrimare… E poi un rumore
strano, che fa così: bu, bu, bu
! Mi volto verso papà. È steso
per terra". Il 28 aprile del
1963, Giuseppe Plaitano morì al
Vestuti di Salerno mentre
assisteva a Salernitana-Potenza,
ucciso da un proiettile sparato
in aria, da metà campo da un
agente. Plaitano era in Tribuna
col figlio Umberto quando, in
seguito alle decisioni
dell’arbitro Gandiolo di
Alessandria, si scatenò
un’invasione di campo e
disordini inauditi. La polizia
utilizzò i lacrimogeni e le
camionette delle forze
dell’ordine entrarono in campo.
Durante i disordini un
tenente esplose tre colpi di
pistola in aria, da centrocampo,
a scopo intimidatorio. Uno dei
proiettili, calibro 7 e 65,
raggiunse Plaitano alla tempia,
uccidendolo. Questo è un
racconto di fantasia, dedicato a
quella tragedia e tutte le altre
avvenute negli stadi di calcio.
28 aprile 2017
Fonte:
Chiacchieregranatablog.wordpress.com
28 aprile 1963: un
giorno da dimenticare
di Aldo Bianchini
SALERNO
- Quel giorno del lontano 28
aprile 1963 pur non essendo
ancora maggiorenne avevo
stazionato per diverso tempo
dinnanzi ai seggi elettorali di
Torrione. Si votava per le
politiche dopo la caduta
dell’ennesimo "governo Fanfani"
ed il Paese era in un
comprensibile stato di
agitazione, niente a che vedere
con i tempi di oggi ma la
tensione c’era anche allora.
Alla fine stravinse, o quasi, la
DC scaraventandomi ancora per
una volta in uno stato di
insoddisfazione, ero di sinistra
e la cosa mi dava sinceramente
fastidio; mai e poi mai avrei
pensato che di lì a qualche anno
sarebbe decollato il famoso
"centro-sinistra" come preludio
al famigerato "compromesso
storico" degli anni ‘70. Passai
la seconda parte della
mattinata, insieme ai miei amici
del quartiere, nell’attesa
spasmodica del grande evento
sportivo del pomeriggio; difatti
allo stadio Donato Vestuti
(costruito nel 1932 come "Stadio
Littorio") si giocava
Salernitana-Potenza, una partita
di calcio che andava ben oltre
la dimensione prettamente
sportiva. Noi eravamo tutti
lucani e, quindi, era d’obbligo
il tifo per il forte Potenza.
Era l’epoca della grande
transumanza dei lucani verso
Salerno, un fenomeno
etico-sociale che avrebbe
segnato in positivo la storia
della Città nei decenni futuri;
in pratica l’emigrazione lucana
diede vita, in buona parte, al
periodo della "grande
cementificazione" anche un po’
selvaggia, se vogliamo, ma
certamente esaustiva dal punto
di vista economico e con
riflessi fino ai nostri giorni.
Per noi ragazzi non c’erano,
però, i soldi o almeno non
c’erano i soldi per una partita
di calcio, anche se di cartello.
Andammo, comunque, tutti allo
stadio con la speranza di
entrare con qualche adulto o di
arrampicarci sul muro di cinta
della curva nord. Non portammo
con noi alcun segno distintivo,
il tifo dei salernitani era
troppo esasperato già per le
strade della città che nessuno
di noi se la sentiva di
rischiare. Lungo Via Irno a
causa di un gruppo nutrito di
facinorosi, per non farci
riconoscere, per la prima volta
incominciammo anche noi a
gridare per la Salernitana.
Ricordo distintamente che la
cosa non ci pesò più di tanto,
segno inequivocabile che l’amore
per Salerno (città in cui
vivevamo già da alcuni anni)
incominciava a penetrare nei
nostri cuori. All’esterno dello
stadio era tutta una bolgia,
slogan, striscioni, spintoni ed
anche qualche immancabile
scazzottata tra tifosi. Non
riuscimmo ad entrare con gli
adulti, ripiegammo, quindi,
verso il muro di cinta. Sul muro
dovemmo fare a turno perché
erano in tanti quelli che
salivano e scendevano dalla
scomodissima postazione. Fui
fortunato, ma non so fino a che
punto, perché tra i vari turni a
me toccò anche quello dei minuti
finali della partita. Capii poco
o nulla di quanto stava
accadendo, mi resi soltanto
conto che gli spettatori della
tribuna stavano entrando sul
terreno di gioco avvolto in una
nuvola di fumo. Scesi rapidamente e allertai i miei
compagni e tutti ci precipitammo
verso Piazza Casalbore per
vedere e capire. C’era poco da
vedere e da capire perché non si
vedeva e non si capiva più
nulla. Al centro della piazza
c’erano un paio di auto che
bruciavano e la gente gridava di
fuggire verso le traverse
laterali. Io (con Pietro,
Michele, Tonino ed altri)
riuscii ad imboccare Via
Conforti ed a raggiungere dopo
qualche minuto il dopolavoro
ferroviario (io e Tonino eravamo
figli di ferrovieri in servizio
nella stazione di Salerno) ed a
rifugiarci al suo interno. Fuori
fu una vera e propria "caccia
all’uomo"; giungevano voci di
assedio intorno agli spogliatoi
dello stadio. Soltanto nei
giorni successivi compresi i
contorni di quell’amara e brutta
vicenda. L’arbitro alessandrino
Gandiolo non aveva concesso un
calcio di rigore evidentissimo
su Oliviero Visentin (famosa ala
destra dei granata) lanciato
verso la porta avversaria e le
recinzioni vennero giù, anche a
causa della brutalizzazione di
un tifoso da parte della polizia
per impedirgli di invadere il
campo. La partita viene sospesa
al 30’ della ripresa sul
risultato di 1 a 0 per il
Potenza e poi venne data vinta
ai lucani a tavolino; la Lega
inflisse tre giornate di
squalifica al Vestuti, scontata
nel campionato successivo 63-64.
Un tenente della polizia,
Gaetano Parasole, aveva esploso
tre colpi di pistola, verso
l’alto, da metà campo per
cercare di fermare i più
scalmanati. Uno spettatore in
tribuna, Giuseppe Plaitano
(quarantottenne tifoso della
Salernitana, uomo mite e
stupendo capo-famiglia) morì.
Quel giorno anche allo stadio
San Paolo (Napoli-Modena)
accaddero gravi incidenti. Il
bilancio era stato tragico: 1
morto, 219 feriti e 250 fermati
e 33 arrestati. Con lo sport si
miscelarono anche frustrazioni e
rivendicazioni di carattere
politico. Il ministro
dell’interno, Taviani, inviò a
Salerno un super ispettore
(Fiorita) e il prefetto Germini
convocò una conferenza stampa.
Tutto fu inutile, non si venne
mai a capo della verità. Con il
tempo è scomparsa ogni traccia
della relazione autoptica del
prof. Palmieri, della perizia
balistica, dei verbali
d’interrogatorio e dell’’intero
fascicolo processuale. Il caso è
passato alla storia come un
altro dei misteri della
Repubblica.
28 aprile 2013
Fonte:
Ilquotidianodisalerno.it
Cinquant’anni fa la
morte di Plaitano, la famiglia:
"Salerno non dimentichi
eventi luttuosi"
Il 28
aprile ricorrerà il
cinquantesimo anniversario della
morte di Giuseppe Plaitano. La
famiglia chiede di ricordare
quel triste giorno e che sia da
monito per le giovani
generazioni: "Il 28 aprile p.v.
ricorre il 50° Anniversario
della morte di Giuseppe
Plaitano, avvenuta a seguito
degli incidenti verificatisi in
occasione della partita di
calcio Salernitana-Potenza del
28.04.1963. Tale Anniversario
non può e non deve essere
dimenticato, soprattutto da
quanti spesso continuano a
confondere una sana giornata di
sport con l’occasione di
scaricare le tensioni, le
frustrazioni, i turbamenti
accumulati durante la vita
quotidiana e dare, così, libero
sfogo alla violenza ed alla
degradazione a livello di
bestie. Inoltre, ritengo, che è
bene che non si dimentichi,
perché dovrà costituire per le
giovani generazioni un
ammonimento: far di tutto per
evitare che una giornata di
sport si trasformi in tragedia
come lo fu per me, la mia
famiglia, come credo, per lo
sport in generale, per la città
e per gli autentici sportivi. Lo
sport deve esaltare i valori
della vita, non sopprimerli".
23 aprile 2013
Fonte: Solosalerno.it
Anni ’60, Oliviero
Visentin si racconta:
"Ero in campo quando
morì Plaitano"
di Alfonso Maria
Avagliano
Approdare a Salerno quasi
controvoglia e poi ritrovarcisi
a vivere per oltre cinquant’anni
con moglie, anch’essa
salernitana, e due figli, una
insegnante e un violinista. È la
storia di Oliviero Visentin,
professione centravanti da
Gorizia, oggi settantasettenne
che ricorda con piacere le sue
tre stagioni da calciatore della
Salernitana: sessantacinque
partite per lui, condite da
dodici gol in granata, tutti
decisivi. "Ricordo ancora il mio
primo giorno a Salerno - ricorda
Visentin in esclusiva ai nostri
microfoni. Ero con altri tre o
quattro giocatori, avevo una
radiolina portatile in attesa di
entrare in sede, all’epoca
situata a fianco del Bar Varese,
per parlare coi dirigenti. La
città mi è subito piaciuta e ho
fatto subito amicizie, qualcuno
al nord parlava male dei
meridionali: beh, oggi sono
ancora qui soddisfatto di tutto.
Tutti i tifosi ti riconoscevano
per strada, non potevamo
muoverci. Se ti vedevano con la
fidanzata dicevano che non
dovevi farlo perché poi non
avresti giocato bene. Io sono
stato sempre benvoluto, ho
sempre rispettato tutti e
conservo ricordi indelebili".
Giocava nella Lazio, in massima
serie, prima ancora con Mantova,
Ortona e Fermana. Proprio i
biancocelesti giocarono una gara
amichevole di fine stagione
contro la Salernitana nel 1960:
fu l’inizio della scintilla.
"Giocammo senza pensieri,
divertendoci - ricorda Visentin.
Realizzai un bel gol e il
presidente Pasquale Gagliardi
chiese subito informazioni su di
me. L’anno dopo venne con
un’auto di lusso fino a Roma per
convincermi ad andare alla
Salernitana: stavo per andare a
Livorno, ma la Lazio decise di
darmi in prestito alla
Salernitana che poi mi
riscattò". Girone C di Serie C,
stagione 1961/62, la prima di
Visentin alla Salernitana
chiusasi con un onorevole terzo
posto. "Quell’anno fu allestita
una rosa ricca di elementi che
avevano militato anche in B ed A
come Vergazzola, Joan, me,
Scarnicci e Gambino – dice.
Anche l’anno dopo fu un
campionato che ricordo con
piacere: segnai sei gol e fui il
capocannoniere della squadra.
Un’annata macchiata dai fatti di
Salernitana-Potenza". Un triste
primato quello di Salerno, con
il primo morto in uno stadio,
Giuseppe Plaitano: quel 28
aprile del 1963 Visentin non
solo era in campo, ma subì anche
il netto fallo in area che
l’arbitro Gandiolo non considerò
rigore. "Era una bellissima
giornata di sole - ricorda l’ex
attaccante - ho immagini nitide.
L’invasione fu provocata
dall’arbitro, che fischiava a
senso unico a favore degli
avversari, diceva "non mi fate
paura". Un po’ di decisioni
discutibili, il Potenza in
vantaggio e già avevano
cominciato a smontare la rete,
bastava poggiarsi e far venir
giù tutto. A quel punto
entrarono su di me in area
mentre mi involavo verso la
porta, non fu fischiato il
rigore e non si capì più nulla:
all’improvvisto le reti di
recinzione cominciarono a
sgretolarsi e tutti entrarono in
campo. In un battibaleno fu
baraonda, la polizia sparava
lacrimogeni ed entrava sul
terreno di gioco con le
camionette. C’erano anche
bambini in campo, quelli
dell’orfanatrofio. Una
camionetta passò sulle gambe di
un ragazzino: si fece male,
urlava e fu portato negli
spogliatoi. Vidi del sangue, i
poliziotti picchiavano coi
manganelli, scene da fare
impressione. Scappai
praticamente con i vestiti in
mano a casa di alcuni familiari
di Bruno Carmando, la gente
pensava mi fosse successo
qualcosa, poi partii subito per
Gorizia perché dovevo tornare a
casa per votare alle elezioni".
Plaitano fu colpito da un
proiettile sparato in aria. Una
brutta pagina. Dotato di buona
elevazione e tiro potente,
Oliviero Visentin era l’uomo
dell’ 1-0: cinque dei sei gol
che fece nel 62/63 fruttarono
ben dieci punti, coi due punti a
vittoria. "Non è facile
ricordare quale sia stato il gol
più bello, sono passati troppi
anni. Piacevolmente però mi sovviene un particolare: contro
il Crotone, sia in casa che
fuori vincemmo 1-0 e segnai io
in entrambe le occasioni. Ero da
solo in attacco, dovevo
arrangiarmi perché poi ci
eravamo chiusi in difesa: il mio
compagno Mazzoni quando eravamo
in casa giocava con me in
avanti, mentre fuori casa si
posizionava addirittura dietro
ai terzini - dice sorridendo.
All’epoca la tattica quasi non
esisteva, anzi ce n’era una
sola: quando si riusciva a
segnare ci si ritirava in difesa
a fare catenaccio e al massimo
ci si affacciava in avanti in
occasioni di palle inattive.
Scarnicci era alto e saltava
bene, come lui Marin, Joan,
Gambino e Voltolina, che tirava
rimesse laterali lunghissime
quasi come dei corner. Anche
Nardi, l’ala destra, era
bravino. Un calcio diverso ?
Altroché, era più genuino, non
andavamo mica in palestra, né
riguardavamo filmini per
analizzare gli errori ! Ci si
allenava correndo, facendo
zig-zag tra i paletti e saltando
con la corda, al massimo".
Pasquale Gagliardi aveva
letteralmente salvato la
Salernitana dal fallimento
nell’estate del 1960. Anni
certamente un po’ particolari,
dal punto di vista dirigenziale
e anche qui, quante differenze !
O forse no. "Guadagnavamo tra le
due e le trecentomila Lire, è
impossibile fare paragoni con
gli ingaggi di oggi: per l’epoca
era un ottimo stipendio per
vivere, anche se non per fare
grandi cose - commenta Visentin.
Io ero ben pagato, del resto
venendo dalla Lazio il discorso
con la dirigenza era stato
chiaro da questo punto di vista,
per cui potevo affrontare le
volte in cui rimanevamo qualche mese senza stipendio. All’epoca
non c’erano manager o
procuratori che ti assistevano e
l’ultimo anno fu un po’
scabroso: avanzavamo 6 mesi di
stipendi, c’erano le spese da
pagare. Mi richiesero squadre di
alta Italia di categoria
superiore ma non si misero
d’accordo con la Salernitana,
cosicché spuntò fuori
l’ambizioso Internapoli e la
dirigenza mi disse che o sarei
andato lì oppure mi avrebbero
tenuto fuori. Io ci rimasi male,
dopo aver dato tanto come
giocatore e come uomo, e me ne
andai non tanto volentieri,
costretto ad andare in D anche
perché di richieste più
importanti ce n’erano". Poi la
Pro Salerno, la Paganese, la
Sanseverinese e la chiusura di
carriera. Perché nel frattempo a
Salerno era arrivato anche
l’amore. "L’avevo visto già alla trasmissione "Il musichiere" di
Mario Riva, che aveva ospitato
la Lazio in trasmissione. Lui
era tifoso biancoceleste, andava
sempre a vedere gli
allenamenti", racconta la
moglie. "Fulvio Bernardini era
l’allenatore all’epoca ma devo
tanto anche a Guglielmo
Trevisan, mio allenatore
all’Ortona che era stato
nazionale negli anni Quaranta -
ribatte Visentin. A Salerno
ricordo Pasinati su tutti,
essendo lui triestino e io di
Gorizia c’era feeling, e poi mi
faceva giocare dove mi piaceva e
rendevo di più, come centravanti
col numero 9. E poi c’era Bruno
Carmando. Non un allenatore ma
quasi un Team Manager: era uno
spettacolo stare con lui, gli
facevamo scherzi,
gavettoni, ma
lui aiutava sempre tutti e dava
sempre tutto ciò che aveva.
Abbiamo continuato a frequentarci anche quando non
giocavo più, era una persona
buona, legatissima alla
Salernitana, guai a chi gliela
toccava". Appese le scarpe al
chiodo, Visentin ha allenato
giovani e dilettanti. "C’erano
tanti giocatori interessanti,
potevano tranquillamente giocare
nelle attuali Serie B o C ma non
sfondarono perché le società
richiedevano cifre esorbitanti
per i cartellini: Salerno è
amante dei forestieri, non so
perché ma i ragazzi salernitani
sembra che non valgano mai e
sono costretti ad andare fuori
per dimostrare le loro doti.
Sono convinto che se alcuni di
loro fossero andati in altre
città avrebbero sfondato nel
calcio, come Pasquale Smaldone,
Orientale e Rizzo, che per un
anno andò alla Nocerina", si
rammarica Visentin, che pur
essendo legato sempre alla
Salernitana racconta di essere
andato per l’ultima volta allo
stadio nel 1999, in Serie A:
"Ricordo che dei tifosi mi
parlavano male di un giocatore,
non ricordo chi, che poi durante
la partita fece gol. "Hai visto
che è bravo ?" - mi dissero
subito dopo - racconta l’ex
attaccante classe 1936. Salerno
è bella anche per questo, quando
si vince tutto è bello, quando
la squadra va male ci si
demoralizza tutti. E i giocatori
ne soffrono. Ho apprezzato tanto
Delio Rossi, un tecnico che sa
il fatto suo: un gioco
offensivo, spumeggiante, che si
basa anche sulla psicologia
perché se riesci a tramortire
gli avversari poi si buttano
giù". Oggi si vince, con
Mezzaroma e Lotito. "Lo so -
conclude Visentin - ma Lotito è
venuto anche per tirar fuori dei
ragazzi validi per la Lazio. Del
resto Salerno è una piazza
ottima per fare calcio, ci sono
molti tifosi, più che sportivi,
e c’è anche la possibilità di
far salire la squadra di
categoria. Ha tirato fuori la
squadra dai macelli fatti
precedentemente, speriamo bene".
Anche noi, Oliviero. Perché
oltre a un futuro da tenere ben
in vista, c’è anche un passato
da onorare…
(Ha collaborato Matilde
Pisaturo - © Fotografie:
Wikipedia.org)
17 gennaio 2013
Fonte: Solosalerno.it
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