Noi, padri di quei
ragazzi da stadio
di Carlo Verdelli
Da dove uscivano quei ragazzi
che correvano bardati e bendati
nella notte di Catania, tra il
fumo di lacrimogeni e le strade
sporche di sassi ? Da che case
venivano, da che scuole, da
quali bar ? Ancora non lo
sapevano, ma sulla coscienza di
tutti loro, e di tutti noi,
c’era il peso di una sera
stupidamente atroce, e un
poliziotto dilaniato. Un
poliziotto, segnatevi il nome:
Filippo Raciti. Uno di quelli
intervenuti per cercare di
placare gli scontri scoppiati
intorno allo stadio. Uno come
Luigi Silvestre, che due
settimane fa, scampato per
miracolo a una bomba che gli era
arrivata tra i piedi, aveva
inutilmente pronosticato, dal
letto d’ospedale dove si trovava
con un buco nella gamba: "Ma
cosa aspettano a muoversi ? Che
ci scappi il morto". Adesso si
sono mossi, sull’onda anche
della vergogna di quanto
accaduto qualche giorno fa, con
il corpo del povero Ermanno
Licursi preso a calci in faccia
in uno spogliatoio di Terza
categoria, e morto lì, morto
così. Morto senza neanche la
consolazione, la domenica dopo,
di un minuto di silenzio in suo
onore (minuto di silenzio che è
arrivato, per atroce paradosso,
proprio ieri sera in apertura di
Catania-Palermo). Il calcio si
ferma, per un turno, due,
chissà: non per un soprassalto
di dignità ma per spossatezza,
per impotenza, per aver perduto,
non da oggi, non da ieri sera,
il senso profondo per cui era
nato. Da dove uscivano quei
ragazzi di Catania, che cosa
avevano in testa quando sono
entrati a vedere la loro
partita, di quale maledizione
erano e sono intrise le loro
bandane, e le bandiere, e i
fazzoletti, e gli slogan urlati
sempre contro qualcosa e
qualcuno ? Di chi sono figli, da
quale benzina vengono
alimentati, chi e cosa trasforma
la loro passione per lo sport in
furia, la loro voglia in odio ?
Non sono domande retoriche. Sono
domande che in molti dovrebbero
cominciare a porsi molto ma
molto seriamente, anche dentro i
giornali, le televisioni, la
rete di Internet. Italia,
abbiamo un problema. E non
riguarda tanto i tifosi di
calcio. E non riguarda nemmeno
l’ordine pubblico. Riguarda il
tessuto profondo di questo
Paese, riguarda chi ci governa e
chi organizza la nostra scuola,
riguarda le nostre case e le
nostre famiglie. Riguarda il
Paese grottescamente campione
del Mondo di calcio. Riguarda
ognuno di noi, padre a suo modo
di ciascuno di quei ragazzi
della notte di Catania, che
passeranno alla storia ignobile
di questo Paese con un merito
tremendo ma indiscutibile:
l’averci costretto ad aprire gli
occhi. E a provare un brivido di
pena per quello che siamo
diventati.
3 febbraio 2007
Fonte: La Gazzetta dello
Sport
© Fotografia: Lasicilia.it
"Noi poliziotti:
abbandonati, derisi"
di Sebastiano Vernazza
Dal nostro inviato. CATANIA -
Hanno facce stanche, tirate.
Sono incazzati, masticano una
rabbia agra. Sono i colleghi (e
le colleghe) dell’ispettore
Filippo Raciti, poliziotti che
hanno condiviso con lui la
"linea del fuoco", i tanti
scontri con i delinquenti del
Cibali. Stanno davanti alla
Questura, in piazza Santa
Nicolella, e sono soli, non un
cittadino che esprima loro
solidarietà. Vestono abiti
borghesi, osservano con distacco
la foresta di microfoni e
telecamere attorno all’auto del
capo della Polizia, Gianni De
Gennaro, impegnato in un vertice
dentro l’ufficio del Questore.
Catania pensa alla festa di
Sant'Agata, la Cattedrale
troneggia poco distante e via
Etnea è pronta per la
processione. Mezzogiorno amaro,
le voci dei poliziotti di
Catania si sovrappongono. Ne
viene fuori un concerto di
testimonianze, accuse e sfoghi.
Parole vere, "di pancia", che
riportiamo senza legarle a nomi
e cognomi, ché tanto non
servono. PRIMA O POI "Raciti è
un morto annunciatissimo.
Omicidio premeditato. Al derby
col Messina gli ultrà catanesi
ci attirarono in trappola,
simularono un ferimento, ci
avvicinammo per soccorrere e
fummo attaccati a tradimento. In
dicembre, per Catania-Udinese,
ci tirarono addosso 67 bombe
carta. Uno dei nostri è vivo per
miracolo, una "cipolla"
(micidiale petardo, ndr) si era
incastrata nel colletto del
giubbotto e se fosse esplosa gli
avrebbe squassato la testa. Lo
salvò un collega, che rischiò di
perdere una mano scaraventando
via l’ordigno, deflagrato poi
lontano. Gli ultrà cantavano:
"Sono contento solo se vedo
morire un poliziotto". Il nostro
sindacato scrisse una lettera al
Questore: guardate che ci scappa
il morto. Niente. Lo sapevamo
che sarebbe successo, che
qualcuno dei nostri ci avrebbe
lasciato la pelle. "U"
sentivamo". LAMPADARIO "Gli
ultrà catanesi ce l’avevano con
noi, non con quelli del Palermo.
E non scrivete le solite cose
sui pochi isolati teppisti.
Quali pochi ! Qui ci sono
centinaia di canaglie. Avete
visto come si è svuotata la
curva Nord quando sono arrivati
i palermitani ? Tutti fuori, a
cercare lo scontro con noi
dietro la finta scusa dei nemici
rosanero. Dal balcone di una
casa ci hanno lanciato addosso
un lampadario. La gente è ostile
o indifferente. Il cittadino
aggredito urla: "Aiuto, polizia
!". Il cittadino indenne si gira
dall’altra parte e poi dice che
la polizia esagera. Una signora,
però, ha offerto una sedia a un
graduato contuso allo sterno".
TAPPI PER LE ORECCHIE "A noi
della Questura forniscono caschi
e scudi, ma negano le tute
imbottite con para-gomiti e
para-gambe, riservate al Reparto
Mobile. Lo sapete che cosa
significa ? Che ogni pietra
tirata ad altezza tibia ti può
spezzare un osso. Venerdì i
nostri cadevano come mosche
sotto la pioggia di sassi,
tondini, biglie di ferro. Non
eravamo attrezzati per la
guerriglia urbana. Servirebbero
gli idranti, i gettiti d’acqua
disperdono la folla e non
ammazzano, ma in Italia sono
vietati. Per contrastare le
bombe carta ci hanno rifornito
di tappi per le orecchie,
anti-rumore. Si può ? Presi per
il culo, ecco". DISNEY CHANNEL
"Io sono rientrato a casa alle
cinque della mattina e ho
trovato la figlia di dieci anni
in lacrime. Mia moglie aveva
cercato di tenerla buona con
Disney Channel, ma la bambina
pensava che fossi morto e aveva
le crisi isteriche, di paura. I
nostri ragazzi terrorizzati per
colpa di una partita: ma si può
?". STIPENDI "Venerdì siamo
stati in strada per 16-17 ore di
fila. Prima la prevenzione, poi
gli scontri. Siamo andati in
straordinario, ogni ora in più
ce la pagano 12 euro lordi. A
fine mese i giovani prendono
stipendi da mille e cento euro,
quelli con venti-trent' anni di
servizio arrivano a mille e 500.
Io sono poliziotto per scelta,
credo nell’ordine, ma a Catania
lo Stato ha perso l’autorità.
Non c’è più rispetto per le
divise, in Settentrione è
diverso. Qui ci cantano
"Bastardo col casco blu" oppure
"Poliziotto primo nemico". Non
possiamo entrare nella curva
Nord per un tacito accordo, i
signori ultrà rossoazzurri hanno
fatto sapere che se varcassimo i
cancelli del loro territorio si
riterrebbero vittime di una
provocazione. Lo Stato non
governa più un pezzo del Cibali,
la curva Nord non fa più parte
della Repubblica Italiana, è un
territorio a sé dove non si
osservano le leggi del
Parlamento. A me questo fatto mi
fa impazzire. Possibile ? E devo
inghiottire gli sfottò di
centinaia di ragazzini teppisti,
intoccabili perché minorenni".
CALCIATORI "A noi i calciatori
ci stanno un po' qua, con tutti
quei milioni che incassano.
Rischiamo la vita per salvarli e
loro fanno i furbi. Uno non
aveva il pass e voleva lo stesso
parcheggiare allo stadio. Diceva
che lui era un giocatore - vero,
l’ho riconosciuto - e che non
aveva bisogno del permesso, però
io gli ho risposto che sono
poliziotto e devo far rispettare
le disposizioni, così la
macchina del signor calciatore
ha fatto la retromarcia". MANI
LEGATE "Abbiamo le pistole, ma
non le possiamo usare, ci
mancherebbe. Quelli là tirano di
tutto e noi li inseguiamo con i
manganelli, che sono sfollagente
e non fanno tanto male. Le
nostre regole d’ingaggio dicono
che il teppista lo puoi colpire
a spalle, braccia e gambe. Cazzi
tuoi se gli dai una botta in
testa e quello va in
rianimazione. Lo Stato ti molla
e tu devi risarcire il
"poveretto", che il colpo alla
capa se l’era beccato perché ti
aveva preso a pietrate. Abbiamo
le mani legate e dopo il G8 di
Genova è peggio perché la
maggioranza degli italiani pensa
che noi siamo degli assassini
torturatori. Che certi
"benpensanti" venissero a
passare mezz'ora con noi, quando
impazza il tafferuglio".
RICHIESTE "Chiediamo leggi dure
e la certezza delle pene. Non
che andiamo a testimoniare ai
processi e poi gli accusati
patteggiano, escono e ci
minacciano. E non prendeteci in
giro con le diffide a entrare
negli stadi. A Catania non le
rispetta nessuno, le "maschere"
del Cibali sono compiacenti,
forse perché ricattate: fanno
entrare i senza biglietto e pure
i diffidati".
4 febbraio 2007
Fonte: La Gazzetta dello
Sport
© Fotografia: Palermo.gds.it
L’Amaca
di Michele Serra
Caro piccolo sciacallo che,
sopra un muro di Livorno, hai
inneggiato alla morte dello
"sbirro" Filippo Raciti: ma come
fai a non sapere che lo sbirro
sei tu ? Raciti era un
lavoratore di 38 anni, che per
uno stipendio da operaio andava
a farsi sputare addosso da
quelli come te. Soldatacci,
sbirraglia da curva, branco
armato che per provare il
brivido di essere qualcuno
trasforma la miserabile identità
di "tifoso" in valor militare.
Tu sei lo sbirro, tu il
repressore, tu il persecutore
delle vite altrui, tu e tutte le
cosche mafiose che, in tutti gli
stadi italiani, presidiano il
territorio della domenica
(rubandolo agli altri) per
dimenticare di essere uno zero
tutti gli altri giorni. Credi di
essere "di sinistra", magari
"rivoluzionario", ma hai la
tipica testa del maschio
reazionario, piena delle parole
retoriche e sceme della
sedicente "cultura ultrà":
onore, gloria, vittoria, cascami
di un linguaggio di guerra che
ormai fa ridere anche nelle
caserme, dove i tuoi coetanei la
pelle la rischiano davvero.
Magari avrai vent' anni, ma sei
un vecchio. Un vecchio violento
e ipocrita, che per ammantare di
qualche ideale la tua
frustrazione, la tua prepotenza,
te la passi da ribelle. Non sei
un ribelle, sei un conformista.
Un piccolo conformista dal cuore
vuoto. Vuoto quanto basta per
diventare sbirro.
4 febbraio 2007
Fonte: La Repubblica
Catania divisa tra il
lutto e la festa e i fedeli non
applaudono la Polizia
di Emanuela Audisio
CATANIA - Se questo è un morto.
Se questa è la sua famiglia. Se
questa è la sua città e la sua
patrona. Applausi. Ma non alla
polizia di Catania. Nella
cattedrale non si battono le
mani alla legge. Sant' Agata,
una delle feste più partecipate
del mondo. Mai annullata, se non
nel '91 per la Guerra del Golfo
quando gli F-16 rigarono il
cielo e monsignor Bommarito la
ridusse a una piccola
processione. Il fercolo: 18
tonnellate, costruito tra il
1514 e il 1519. Portato a spalla
fino al 1713, poi sistemato su
grosse funi e montato su pattini
di metallo. Fercolo spogliato
nel 1890 da 160 chili d’argento,
furto a opera dei soliti ignoti,
aiutati dal custode. Distrutto
dai bombardamenti del '43,
rimesso a nuovo e cesellato in
argento ornato da filigrane. Per
questo il busto della santa,
saccheggiata pure lei, è
custodito nel sacello con una
porta blindata con tre
serrature. È l’alba, il cielo è
grigio, piove. Per i devoti è
Sant' Agata che piange. Per la
cronaca è una giornata un po'
kafkiana e molto pirandelliana:
veglia funebre alla mattina,
inno alla vita di sera. Catania
onora la sua santa e il suo
morto da stadio. Un po' festa e
un po' lutto. Sacro e profano.
Religione e paganesimo. Omelia e
bancarelle. Tuniche bianche e
palloncini rossi. Assurdità e
mestizia. Fanatismo e
compostezza. La reliquia del
passato e un corpo del presente.
Una santa martirizzata perché
non volle cedere la sua
verginità, un ispettore ucciso
perché non volle cedere agli
ultrà. Lei, amputata dei seni e
bruciata. Lui, con il fegato
spappolato. Sprangati tutti e
due. Ognuno ha le sue camere
ardenti, quella di Filippo
Raciti, 38 anni, è all’ingresso
del decimo reparto mobile della
polizia, con le bandiere a mezz'
asta. La fila è lunghissima,
arriva anche Emanuele Filiberto
di Savoia. Per la città una
festa con il freno a mano:
niente candelore, niente
carrozze, niente fuochi
d’artificio. Perché in Italia
una decisione vera non c' è mai,
tutto è sempre a metà, così
tutti sono un po' scontenti e un
po' contenti. Anche se per Pippo
Baudo, catanese, la festa doveva
essere annullata. Agata doveva
restare in chiesa, come la bara
dell’ispettore. Alle 4 e mezza
di mattina c' è già una folla di
devoti che preme sul cancello
della cattedrale. All’interno il
sacrestano si fa il segno della
croce, batte tre volte sul
portone, si mette da parte. È il
segnale. È come la corsa dei
tori, i devoti, quasi tutti da
ragazzi, si scatenano, corrono a
occupare i primi posti. Le
tuniche sono bianche perché
quando le spoglie della santa
tornarono in nave da
Costantinopoli era l’alba e i
fedeli scesero al porto con la
camicia da notte, la papalina e
il fazzoletto in mano. Alle 6
l’omelia di Salvatore Gristina,
arcivescovo di Catania,
occhialini calati sul naso.
"Siamo profondamente feriti
dagli episodi di
Palermo-Catania". Veramente si
giocava a Catania. Infatti si
corregge. "Alla vedova, ai
figli, ai familiari di Filippo
va la nostra solidarietà".
Chiede: "Come è stato possibile
che tutto ciò sia accaduto ?".
Velata polemica contro un’opera
di prevenzione che non c' è
stata ? "Siamo soggetti alla
tentazione, sperimentiamo la
nostra fragilità. Cosa fare di
fronte e tanto disagio ? È
capitato altrove, è una vergogna
nazionale. Non dobbiamo
scoraggiarci, né arrenderci".
Silenzio. "Coraggio, Marisa, il
Signore non ti abbandona e
Filippo dal cielo prega per te,
Alessio e Fabiana". Applausi,
partecipazione, commozione. Per
la vedova, per il figlio di 9
anni e la figlia di 15.
L’arcivescovo continua:
"Coraggio, forze dell’ordine".
Silenzio. Gelo. Freddo sotto le
navate. Molti ragazzi, molte
facce da ultrà, molti corpi
usciti dalla guerriglia e
ricoperti dal sacco stanno
rigidi. L’arcivescovo pretende
una solidarietà che non c' è,
non da parte di tutti. Raciti
era un poliziotto. E qui
l’insulto peggiore è: cornuto e
sbirro. Allora supplica:
"Facciamo un applauso". Come
Biscardi quando al Processo
chiedeva un applauso spontaneo.
Gristina sente che deve
specificare, che quel vuoto tra
città e forze dell’ordine deve
essere colmato: "Carabinieri, vi
vediamo come persone, non siamo
contro di voi". Un tentativo di
far fare pace in nome di sant'
Agata almeno in cattedrale. E
ancora: "Coraggio, responsabili
dell’istituzione. Dobbiamo
esserci ed esercitare le
responsabilità.
|
Coraggio, perché
Catania non deve essere
deturpata dal male". Stavolta
l’applauso c'è. Anche perché
questo discorso ricorda quello
di Papa Wojtyla che nel '94 in
una stagione nera per gli
omicidi di mafia venne e incitò:
"Catania, alzati. E rivestiti di
luce e giustizia". Parole
ricordate in una targa in piazza
Duomo. Il busto della santa
ondeggia, è pronto ad uscire. La
folla stavolta è composta, in
molti restano a pregare nella
cattedrale. Fuori un’altra
omelia, del nuovo parroco,
Barbaro Scionti: "Catania non si
sente rappresentata da chi usa
violenza, scusaci Agata, piango
per te, per quello che devi
vedere". Perché qui Agata è come
una sorella, una santa a cui si
dà del tu. "Agata, perdonaci".
Applausi sentiti. Agata non era
una sbirra, si ribellò, ma
accettò il martirio. Agata
tutelò la sua purezza, Catania,
ma non solo Catania, non può
più. Soprattutto perché a sera
quando la festa affronta la
salita dei Cappuccini, stavolta
a passo lento, il capomastro
ferma la processione perché si è
tranciato un cordone del
fercolo. Si riparte, verso i
quartieri più popolari, si passa
davanti alle putie dove si
arrostisce la carne di cavallo.
Fette e polpette. Vanno a fuoco
anche le certezze di chi pensa
che gli ultrà siano solo poveri
giovani disgraziati. Il
procuratore Renato Papa,
titolare dell’inchiesta sulla
morte dell’ispettore Raciti,
dichiara: "Tra gli indagati ci
sono anche figli di buona
famiglia, di medici e
poliziotti, persone forse
trascinate da altri, ma che
vengono da un ambiente sano". Il
branco da stadio è trasversale.
Viene dalla periferia e dai
salotti con i bicchieri di
cristallo. Fanatismo dei piani
alti, non solo bassifondi. A
Sant' Agata tocca finire il giro
serale con questa notizia. Oggi
i funerali di Raciti saranno
celebrati alle 12 nella
cattedrale, in contemporanea con
il Pontificale della festa. Non
era mai capitato che la santa
dovesse condividere questo
momento con altri morti.
Sull’altare un derby religioso:
l’arcivescovo di Catania e
monsignor Paolo Romeo che il 10
febbraio si insedierà come
arcivescovo di Palermo. Ci sarà
anche Amato, ministro
dell’Interno. Di notte risuonano
le parole di Gristina: "Cercare
di vincere il male che è in noi
e attorno a noi". Sant' Agata,
aiuto.
5 febbraio 2007
Fonte: La Repubblica
© Fotografie: Ilgiornale.it
Bisognerebbe portare
Marisa Raciti nelle scuole
di Candido Cannavò
Nella scia della tragedia di
Catania, c’è un agghiacciante
corteo di minorenni. Delinquenti
a 15 anni: per povertà,
incultura, per odori di mafia in
famiglia o semplicemente perché
questo mondo sgangherato ha
procurato loro il gusto
dell’odio senza bersagli, contro
tutti. Filippo Raciti, padre di
famiglia, poliziotto dal cuore
buono, li guardava con sgomento.
Tornando a casa diceva alla
moglie: "Sai Marisa, hanno l’età
di nostra figlia". Forse l’età
stessa di Fabiana aveva anche
l’omicida che gli ha spappolato
il fegato. Era uno o forse erano
due, al peggio non c’è fine.
Sulla scena italiana si è
affacciata una donna siciliana
che non urla, non si lascia
andare alle scene strazianti che
danno teatralità antica al
dolore della gente del Sud. No,
Marisa è una vedova che
trasforma il suo lutto nella
fierezza di essere stata moglie
di un grande uomo. E capisce che
la tragedia di una folle serata
catanese non è soltanto sua:
appartiene a una città che ha
perso la rotta della legalità, a
una generazione che ha smarrito
il senso del vivere. "Stanno
arrestando tanti minorenni -
dice - e io soffro perché, come
mi diceva Filippo, hanno l’età
di mia figlia. Penso al dolore
delle loro famiglie". Credo che
il volto, la dignità e le parole
di questa signora abbiano più
efficacia di prediche, convegni,
dibattuti e nebulose omelie.
Bisognerebbe portare Marisa
nelle scuole perché spieghi dal
vivo cos' è la vita, la legge,
cos' è un poliziotto che rischia
la vita, e talvolta la perde,
per il bene collettivo. La
ministro Giovanna Melandri, in
quella sorta di tribunale di
Norimberga che ha annunciato in
tv le terribili pene del
decretone anti-violenza, ha
trovato spazio anche per il
problema educativo. C’è la
proposta di introdurre nella
scuola l’ora di cultura
sportiva. Un’illuminazione in
ritardo di almeno mezzo secolo.
Dopo tanto tempo sprecato, oggi
bisognerebbe istruire non solo i
ragazzi, ma anche i genitori.
Siamo dinanzi a un’incultura di
seconda o terza generazione. Da
ascoltatore mattutino della
radio, ho captato ieri
un’intervista di Gigi Agnolin
sulle scuole calcio. Lui diceva:
"L’educazione sportiva noi la
insegniamo". Poi è intervenuta
una signora: "Io ho ritirato mio
figlio per disperazione. Non
tolleravo certe mamme che
sbraitavano contro l’arbitro,
l’allenatore, gli avversari".
Così molti ragazzi si perdono. E
non si sa dove vanno a finire.
Ma sì, portate nelle scuole la
signora Marisa.
9 febbraio 2007
Fonte: La Gazzetta dello
Sport
© Fotografia:
Rosaria Schifani:
"Incontrerò Marisa Raciti"
di Francesco Caruso
La vedova dell’agente
ucciso nell’attentato a Falcone:
"Mi sento molto vicina alla
famiglia dell’ispettore di
Catania".
L’assassinio di Filippo Raciti,
il dolore accorato e dignitoso
della moglie Marisa hanno
riaperto una cicatrice dura da
rimarginare, un capitolo
angoscioso della vita di Rosaria
Costa, la vedova dell’agente di
polizia Vito Schifani morto
nella strage di Capaci nel quale
persero la vita anche Giovanni
Falcone, la moglie Francesca
Morvillo e gli altri agenti
della scorta. Era il maggio del
1992. Pochi mesi dopo toccò al
magistrato Paolo Borsellino. Ma
nella memoria di tutt' Italia è
rimasto indelebile il ricordo
dell’accorato appello di Rosaria
Schifani ai funerali di Stato.
Un grido di dolore, non
compassionevole nei confronti
degli assassini del marito, ai
quali quella ragazza spaurita
era pronta a concedere il suo
perdono purché s'
inginocchiassero per chiedere
scusa. VIA DA PALERMO - Le
parole della vedova Raciti hanno
fatto riaffacciare nella mente
di molti quel pianto senza
conforto di 15 anni fa. Donne
diverse ma ugualmente
struggenti. La vita ha indurito
la scorza ma non il cuore di
questa palermitana che oggi è
coetanea guarda caso dell’altra
siciliana, Marisa Raciti. Da
molto tempo ormai ha lasciato la
sua terra, forse per rimarginare
le ferite: "Ci torno una volta
l’anno, ma non per Natale, per
me le feste non esistono più, le
ho cancellate dal mio
calendario. Persino dal Giappone
son venuti a cercarmi. Ma io
credo che tutte le morti siano
uguali, tutti i dolori
strazianti e bisognevoli di
conforto e cure. Una volta venne
a trovarmi la moglie di un
poliziotto della stradale
rimasto anche lui vittima
durante il suo lavoro e mi
chiese come mai lei era rimasta
sola, nell’indifferenza di
tutti. Domande a cui non seppi
dare risposte". VICINANZA -
Rosaria ha seguito in tv i
funerali di Filippo Raciti,
ucciso allo stadio Cibali di
Catania il 2 febbraio, e si è
commossa, ha pianto e si è
immedesimata nella sua coetanea
Marisa: "Ho patito insieme a
lei. Mi sento molto vicina a
quella famiglia. Fra qualche
tempo vorrei mettermi in
contatto con la signora Raciti
perché so quanto sia utile in
questi frangenti sentire il
calore e la solidarietà del
nostro prossimo, soprattutto
quando il tempo tende a
ricacciare tutto nel
dimenticatoio. Dopo qualche
tempo ci si ritrova soli, come è
stato nel mio caso. Ed è a quel
punto che bisogna cominciare a
fare i conti con un’altra
realtà. Con un altro modo di
vivere. Spero che non li
abbandonino. La signora Raciti
mi sembra comunque una donna
matura e forte, sono fiduciosa
che riuscirà a venirne fuori con
coraggio". LIBRI - Rosaria ha
anche scritto un paio di libri
insieme a Felice Cavallaro, il
primo "Vi perdono ma
inginocchiatevi" è stato forse
l’elaborazione del suo lutto: "È
stato soprattutto un modo per
cercare di raccontare la mia
Sicilia. Purtroppo però credo
che sia cambiato poco. Ma la mia
speranza è immutata, il mio
auspicio è lo stesso: continuo a
confidare nel cambiamento, in
una trasformazione delle
coscienze degli uomini".
16 febbraio 2007
Fonte: La Gazzetta dello
Sport
© Fotografia: Livesicilia.it
Hanno ucciso mio marito
dovrei usare i carri armati ?
di Massimo Norrito
Signora Raciti, domenica
sarà in tribuna al "Massimino".
Ha chiesto e ottenuto che venga
osservato un minuto di
raccoglimento in memoria di suo
marito.
"Credo sia una forma di
rispetto. Di memoria e di
civiltà proprio nel giorno in
cui lo stadio di Catania riapre
dopo la morte di mio marito. Un
giusto riconoscimento per chi ha
dato la vita. Un minuto di
silenzio non è nulla nel
contesto di una partita, ma per
la mia famiglia e per il ricordo
di mio marito significa tanto".
Per Catania sarà un
giorno di festa. Lei come lo
vivrà ?
"Nel
dolore, come questi ultimi sette
mesi. Per la città sarà un
momento di gioia, ma è giusto
che sia ricordato anche quel che
è successo. Perché non accada
più".
Perché ha deciso di
andare nello stadio in cui suo
marito ha trovato la morte ?
"Devo farlo. Voglio vedere con i
miei occhi se è cambiato
qualcosa".
Ma questa voglia di
cambiare l’ha vista nel mondo
del calcio ?
"Sarà la
tifoseria con il suo
comportamento a rispondere,
anche se dopo il calcio
dell’allenatore del Catania i
segnali mi sembrano diversi".
Di quel calcio hanno
parlato in tanti, lei come lo
giudica ?
"Come si
fa a rispondere con un gesto
violento a un insulto ? A me
hanno rubato la vita di mio
marito. Cosa avrei dovuto fare ?
Sarei dovuta andare in giro con
un carro armato e uccidere tutti
quanti ?".
Invece lei come ha
deciso di rispondere ?
"A tanta
inciviltà bisogna rispondere con
la civiltà, la saggezza e il
dialogo. Io non cerco vendette".
Baldini ha detto di
avere sbagliato proprio perché è
l’allenatore del Catania.
"Ha sbagliato in quanto
allenatore e basta. In più c’è
l’aggravante che di Catania è
stata data un’immagine distorta
in tutto il mondo. Per colpa di
alcuni balordi si è dimenticata
la gente perbene e civile di
questa città. Si è dimenticato
che tra questi c’era anche mio
marito. Che Filippo era
catanese".
Come giudica le misure
anti violenza prese subito dopo
la morte di suo marito ?
"Mi fanno considerare l’Italia
un paese da terzo mondo. In un
paese civile è inammissibile un
tale grado di repressione per
garantire la sicurezza. Sono il
sintomo d’ignoranza e inciviltà.
La costituzione garantisce i
diritti di tutti i cittadini.
Non solo degli abbonati. Questi
diritti non sono stati garantiti
a mio marito e a chi indossa la
divisa".
Domenica con chi andrà
allo stadio ?
"Riporterò al "Massimino" mio
suocero che è un appassionato di
calcio. Io invece questo sport
non lo seguivo. È un mondo nel
quale sono stata coinvolta nel
modo peggiore possibile".
Porterà anche i suoi
figli ?
"No. È
già un trauma per me e mio
suocero. Mio figlio l’8
settembre compirà gli anni. Sarà
il primo compleanno senza suo
padre. Diventerà adolescente e
poi uomo senza avere il padre al
fianco. Per cosa poi ? Suo padre
è morto per niente e non si può
morire per niente. Non è
giusto".
29 agosto 2007
Fonte: La Repubblica
© Fotografia: Lasicilia.it
Raciti: "Quelle
magliette oltraggio a mio padre,
non ce la faccio più,
vado via dall'Italia"
di Giorgia Mosca
Parla la figlia
dell'agente ucciso a Catania nel
2007: "In questi giorni ho
pianto a dirotto, per me si è
riaperta una ferita profonda".
CATANIA - "SPERO solamente che
la tua morte spinga la società a
cambiare, perché tu sei un
eroe". Di Fabiana Raciti tanti
ricordano queste parole commosse
dedicate al papà Filippo nel
Duomo di Catania sette anni fa,
il giorno dei funerali
dell'ispettore ucciso durante
gli scontri del derby
Catania-Palermo. Allora Fabiana
aveva 15 anni e voleva smettere
di mangiare, di bere. Ma è
andata avanti. Oggi tutto
ricomincia. L'oltraggio e il
dolore. Piange ripensando a
quella maglietta con la scritta
"Speziale libero": "Sono
indignata, sotto shock. Voglio
andar via dall'Italia. Ho
sopportato troppo in questo
Paese".
Fabiana, che cosa ha
pensato dell'Italia in questi
giorni ?
"Da
figlia è terribile leggere su
una maglietta il nome di chi ha
ucciso tuo padre. Me lo hanno
tolto quando avevo appena
quindici anni. Le magliette sono
l'ultimo sfregio: uno sfregio a
un grande uomo, un grande padre,
un grande marito. Questo è uno
schiaffo morale alla mia
famiglia, quelle magliette
vogliono difendere un assassino
e offendere chi crede nella
giustizia. Non lo posso
tollerare, ho pianto molto in
questi giorni, si è riaperta una
ferita profonda. Ho pensato
anche a questo ragazzo, Ciro,
alla sua famiglia, all'ennesima
tragedia in nome di una partita.
Perché io ho voglia di libertà,
desiderio di felicità e
soprattutto di sicurezza, ma
tutto questo l'Italia non me lo
permette più. Qui tutto peggiora
di giorno in giorno e non vorrei
far crescere i miei figli in un
ambiente del genere: sogno un
posto dove le regole vengano
rispettate".
Quelle magliette sono
un'umiliazione alla memoria di
suo padre. Come ha vissuto quel
che è successo l'altra sera
fuori e dentro l'Olimpico ?
"Gli spari prima della finale di
Coppa Italia mi hanno fatto
pensare ad un altro poliziotto
vittima di una partita di
calcio. Io non dimentico mio
padre, naturalmente, e mai lo
dimenticherò ma avevo messo da
parte quelle emozioni
insopportabili. L'altra sera il
dolore è tornato come allora:
non riesci a scacciare i
fantasmi. Non ho dormito, non ce
l'ho fatta. I ricordi sono
riaffiorati, tutti in una volta,
tutti insieme, fino a farmi
disperare. Perché i ricordi,
purtroppo, sono tanti. I dolori
per la mia famiglia non sono
finiti quella sera allo stadio
Massimino, ma sono continuati
per anni. Abbiamo subito di
tutto".
A cosa si riferisce ?
"C'è stato, ed evidentemente c'è
ancora, un accanimento nei
confronti della mia famiglia che
non riesco a spiegarmi. Quando
papà è morto io andavo al liceo
e ho ricevuto intimidazioni
tremende: dei ragazzini del
gruppo Acab scrissero davanti
alla mia classe "Raciti al
rogo". E all'Università di
Catania purtroppo non è stato
diverso: un gruppo di ultrà mi
ha preso a pugni la macchina. Mi
sono sentita sola. Noi non siamo
certo colpevoli di niente,
abbiamo solo subito un dramma
che non auguro a nessuno. E
siamo stati doppiamente
torturati".
Sono passati sette anni
dall'omicidio ma sembra che per
voi il tempo si sia fermato.
"Sì, è da quella sera del 2
febbraio che continuo a
chiedermi "perché ?". Ero
davanti alla tv, in cucina:
volevo vedere mio padre, sapevo
che era lì e speravo che lo
inquadrassero, e invece ho
scoperto che era morto. Non
provavo rabbia, ero incredula e
nella testa avevo solo quel
disperato "perché". Si può
morire per una partita di calcio
? Si può uccidere per una
partita di calcio ? Io sono
cresciuta senza un papà, non
vado più allo stadio e vedo mio
fratello orfano come me. La mia
famiglia è stata distrutta e io
sono cresciuta prima del tempo".
Com'è cambiata la vita
da quel giorno ?
"Non ho
più pensato a divertirmi, anche
se avevo quindici anni, ma solo
a stare vicino a mia madre e a
mio fratello, perché avevano
bisogno di me. Le feste, i
concerti, i momenti di svago con
gli amici non avevano più lo
stesso significato e la mia
infanzia è svanita così nel
nulla, per una partita di
calcio. Poi il tempo mi ha
aiutato, mi ha dato forza e mi
ha trasmesso la voglia di
cambiare le cose. Ho pensato che
era importante dare dei messaggi
belli ai più piccoli, che a
volte non si rendono conto di
quello che fanno. Lo sport
dovrebbe trasmettere sentimenti
di gioia non di violenza".
Cosa direbbe agli ultrà
che vanno in giro con la
maglietta "Speziale libero" ?
"Non ho niente da dire, davvero.
Offendere è sintomo di rabbia e
io non provo rabbia ma solo
indignazione. Li guarderei in
silenzio perché non meritano
nemmeno di sentire la mia voce.
Penso che lo Stato dovrebbe
educare i suoi cittadini come fa
un buon padre di famiglia con i
propri figli, ma questo non
avviene. Lo sport è allegria,
valori, passione positiva. Ma
spesso le cose non vengono
vissute così. Purtroppo i
ragazzi trovano nello sport uno
sfogo alle proprie frustrazioni,
ai propri fallimenti interiori,
alla repressione che pensano di
subire. Forse succede perché non
hanno famiglie veramente forti
che li sostengono. Quelle
magliette sono una sconfitta
anche per gli onesti, dovremmo
ribellarci tutti e non
soccombere stando in silenzio.
L'arma più efficace è la parola,
mai la mano violenta".
7 maggio 2014
Fonte: Repubblica.it
© Fotografia:
Laspia.it
Il caso Speziale a
tredici anni dalla morte di
Filippo Raciti
di Domenico Rocca
Ricorre oggi
l'anniversario di una tragedia
dai tratti oscuri.
Nella fredda serata del 2
febbraio 2007 va in scena allo
Stadio Massimino l’infuocato
derby di Serie A tra Catania e
Palermo, catalogate dalla
questura alla voce partite ad
alto rischio. Durante gli
scontri avvenuti nel
post-partita all’esterno
dell’impianto perde la vita
l’Ispettore di Polizia Filippo
Raciti. Secondo la ricostruzione
dei fatti, riportata dalla tesi
della procura, è il
diciassettenne Antonino Speziale
che, utilizzando un
sopra-lavello a mo’ d’ariete,
uccide il funzionario di Polizia
in servizio. La vicenda, però,
già nelle ore successive, inizia
a suscitare qualche perplessità,
specie riguardo alle dinamiche.
Dubbi legittimi che nel corso
dell’iter processuale si
moltiplicano, attorniando la
vicenda di testimonianze
ritrattate, giudizi capovolti e
molta disinformazione da parte
dei mass media. Il caso è
tutt’altro che chiaro. Lo
scrittore Simone Nastasi ne
parla accuratamente nel libro
Il caso Speziale.
L’autore, attraverso lo studio
degli atti processuali,
evidenzia le molte incongruenze
giungendo, in fine, alla
postulazione di una domanda
fondamentale: Verità giudiziaria
e verità storica possono
coincidere ? Tra le anomalie del
caso, la più eclatante sembra
proprio quella legata alle
dinamiche dell’incidente. È
proprio un collega di Raciti,
Salvatore Lazzaro, in un primo
accertamento, a dichiarare che
il poliziotto, muovendosi in
retromarcia nei concitati
momenti degli scontri fuori
dallo Stadio, sente un brusco
colpo nella parte retrostante
del veicolo e vide l’Ispettore
recarsi le mani al capo
dolorante. Per l’accusa è il
giovane Speziale, insieme al
complice Daniele Micale, ad aver
preterintenzionalmente sferrato
il colpo che stroncherà la vita,
due ore dopo in ospedale, a
Filippo Raciti. Nella successiva
perizia richiesta dal GIP
Alessandra Chierego al RIS di
Parma, però, emerge come il
trauma riportato nello sviluppo
dell’incidente da parte
dell’agente non risulti idoneo
con la tesi del sotto-lavello.
La tesi della difesa apre quindi
ad un’ipotesi amica, che
vedrebbe l’agente vittima di un
tragico e fatale errore. Se non
fosse che poco dopo lo stesso
Salvatore Lazzaro, dinnanzi alla
Magistratura si allontanerà
dalla versione riportata ai suoi
colleghi, allungando un processo
durato sino al Novembre 2012,
quando la cassazione si
pronuncerà definitivamente nei
confronti di Speziale e Micale
condannandoli rispettivamente a
9 e 11 anni.
Paradossalmente, a Micale
vengono inflitti 2 anni di
reclusione in più di quello che,
sempre secondo l’accusa, è
l’esecutore materiale
dell’omicidio.
Qualche mese fa è apparso
all’esterno dello stadio Renzo
Barbera di Palermo uno
striscione di vicinanza nei
confronti di Antonino Speziale.
Sono seguiti una serie di
piccoli manifesti attaccati alle
vie del centro storico di
Palermo, da parte del centro
sociale Anomalia, che invitavano
gli interessati a partecipare ad
un dibattito dal titolo storia
di un’ingiusta detenzione. In
entrambi i casi le forze
dell’ordine, guidate dalla
Digos, hanno rimosso il vario
materiale ed ostacolato
notevolmente le iniziative
organizzate. Non è facile,
quindi, comprendere questo
atteggiamento da parte delle
autorità - nonché delle
istituzioni - nel reprimere
totalmente ogni tentativo, da
parte della sfera civile, di
intraprendere un’analisi critica
ed oggettiva nei confronti della
vicenda. Sarà forse per questo
che, quando si tratta il caso
Speziale, in molti giornalisti
subentra quasi il timore di
esprimere apertamente le
contraddizioni e le criticità di
un iter giudiziario complesso e
travagliato. "I giornalisti che
si sono voluti occupare di
questo caso sono stati trattati
da "eretici". Come se appunto
questo caso non andasse trattato
per principio. Ma basta leggersi
le carte del processo per capire
che gli elementi di discussione
ci sono eccome" (Simone
Nastasi). Il mondo ultras si è
sin da subito interessato alla
vicenda, garantendo supporto ed
evidenziando in più occasioni -
attraverso eventi, pubblicazioni
e manifestazioni - una totale
vicinanza alle sorti di
Antonino, nonché il desiderio di
fare chiarezza sull’episodio.
Secondo il parere del prima
citato, Simone Nastasi: "Il
fatto che a interessarsi del
caso sia stato soltanto il
cosiddetto "mondo ultras" ha
ridotto la vicenda a una
posizione di parte. Gli ultras -
continua Nastasi - si sono
limitati a dare risalto ad
elementi che mettevano in
discussione la sentenza, che la
stampa non ha voluto prendere
nella giusta considerazione. E
mi riferisco ai passaggi della
vicenda che invece sarebbero
dovuti essere raccontati per
dovere di cronaca. Le difficoltà
sono arrivate proprio dal
carattere mediatico assunto dal
processo. Una costante nella
storia giudiziaria del nostro
Paese, un difetto che andrebbe
corretto nella tutela delle
persone coinvolte. Ritengo, a
mio modesto avviso, che delle
vicende giudiziarie, quando sono
ancora in corso, bisognerebbe
parlarne con maggiore
equilibrio". Il caso Speziale
non è ovviamente paragonabile a
quello di Aldrovandi, di Sandri,
di Cucchi, e per una semplice
ragione: mentre queste sono
vittime, uccise dalle forze
dell’ordine, quello è stato
l’omicida di una delle forze
dell’ordine presenti quella sera
al Massimino. E se le oscurità
rimangono tantissime, al momento
non possiamo che affidarci alla
conferma della cassazione.
2 febbraio 2020
Fonte: Rivistacontrasti.it
© Fotografie:
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