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Piazzale
Stadio
"Roi
Baudouin"
Bruxelles 29.05.2018 |
33° Anniversario Strage
Stadio Heysel Bruxelles |
Orazione
e Omaggio Floreale alla Lapide
in Memoria delle 39 Vittime |
Commemorazione a Cura della
Tifoseria Juventina Belga |
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Heysel, 33
anni dopo: ma cos’è davvero la memoria ?
di Sébastien
Louis
La memoria è una
tematica importante nel mondo del tifo, che sia
fatta di ricordi felici come quando c’è da
celebrare una vittoria sportiva o per ricordare
un evento più difficile come un lutto. Per il
popolo juventino il 29 maggio coincide
contemporaneamente con questi due sentimenti
contrapposti. Quel maledetto giorno del 1985 si
disputò infatti l’infame partita tra la Juventus
e il Liverpool. Una partita importantissima per
diverse ragioni, prima di tutto perché fino a
quell’anno le squadre inglesi dominavano il
continente a livello calcistico, come testimonia
la finale dell’anno prima in cui il Liverpool
s’impose allo stadio Olimpico contro la Roma.
Per tanti italiani in Belgio, che in larga parte
tifavano Juve, quella partita rappresentava un
sogno. Quello di vedere da vicino la loro
squadra e i tanti talenti che essa annovera,
come Michel Platini, figlio di immigrati
italiani proprio come loro. Mercoledì 29 maggio
questi tifosi bianconeri convogliarono a
Bruxelles, a qualche decina di chilometri delle
diverse città minerarie della Vallonia dove i
loro padri erano arrivati a vendere la propria
forza lavoro, da Liegi ma anche Marcinelle,
Charleroi o La Louvière. Immigrati provenienti
da tutto lo Stivale, meridionali e
settentrionali venuti a lavorare in condizioni
difficilissime, in questo Paese. Questo
mercoledì soleggiato del 1985 sembrava davvero
diverso, le temperature erano calde nella
capitale belga e per un giorno non esistevano
"maledetti immigrati", come venivano considerati
da una parte della popolazione locale. Non
esistevano calabresi, siciliani, friulani,
pugliesi o toscani ma un unico popolo, quello
bianconero, orgoglioso di riabbracciare i propri
connazionali venuti apposta dall’Italia e
tutt’insieme celebrare l’eventuale agognato
trionfo della loro squadra in campo.
Mario era uno di
questi, nello specifico uno dei tanti tifosi
della Juve riusciti nell’impresa di trovare
biglietti inizialmente destinati al pubblico
neutrale belga. Biglietti dunque non della curva
destinata al cuore pulsante del tifo organizzato
bianconero, ma in un settore distante, di fronte
al grosso degli juventini, accanto alla curva
riservata ai britannici. Poche ore separano
questa gente dall’ingresso nella storia. Non per
il loro tifo caloroso, per il loro entusiasmo ma
semplicemente perché si ritroveranno nel settore
sbagliato. Il loro dramma si consumerà in
mondovisione, l’unica colpa è quella che per
caduta subiscono per le disastrose lacune degli
organizzatori e per gli assalti degli hooligan
inglesi. Nemmeno capiranno quanto andrà
succedendo nel settore adiacente e di sicuro
quello che vedono non c’entra niente con l’idea
che avevano di vivere lo stadio e partecipare a
questa partita. Mentre alcuni giovani tifosi
inglesi cercheranno di aggredirli, li divide da
loro solo una rete di pollaio; gli agenti che
dovrebbero garantire la loro incolumità non ci
sono, le poche uniformi presenti non servono a
niente. La memoria del popolo dei Reds è
diversa. L’anno prima erano stati vittime di
aggressioni e agguati a Roma. Non si aspettavano
questa accoglienza ostile nella Capitale
italiana. Ma, sul campo sono stati loro a
vincere e alzare la Coppa dei Campioni. I più
pensano che adesso, a questi "maledetti
italiani", toccherà ricordare quel giorno, è
venuto il tempo della vendetta per loro. Il
famoso "Taking the End" (prendi la Curva,
avversaria ovviamente), da una decina d’anni lo
sport preferito degli hooligan in un vetusto
stadio come l’Heysel trova sicuramente campo
aperto d’attuazione.
Joey ed i suoi amici
arrivati senza biglietti, capiscono subito
quanto facilmente siano aggirabili i controlli e
in pochi minuti si ritrovano tutti insieme
dentro la curva rossa. La giornata per la banda
di Joey era già perfetta, a chiudere il cerchio
mancavano solo due cose: una sciarpa bianconera
da portare come vessillo agli amici rimasti a
Liverpool, una vittoria simbolica ovviamente,
alla quale far poi seguire quella sul campo
sportivo. Sulla Grand-Place alcuni ragazzi
italiani, con uno stile particolare e striscioni
offensivi si erano già fatti avanti per lo
scontro, ma la polizia belga presente in centro
aveva subito convinto tutti a rimandare il
confronto a quando la situazione lo avrebbe
permesso. Quello che la banda di Joey ancora non
sa è che il settore accanto a loro, pieno di
italiani e non di spettatori belgi, come era
previsto dagli organizzatori, non c’entra niente
con i ragazzi visti in mattinata, pronti allo
scontro e che per ironia della sorte, come nome
di battesimo hanno l’inglesissimo "Fighters".
Quando Joey e i suoi amici decidono di caricare,
l’eccitazione collettiva motiva tanto quanto la
memoria dell’anno prima. L’accoglienza ostile di
Roma, le aggressioni sulla strada dello Stadio
Olimpico, la bandiera del Liverpool rubata e
buttata nel Tevere, gli accoltellati, tutte
immagini ancora vive per loro. E così come
tanti, come troppi, spingono la rete e appena
questa cade si precipitano a picchiare il primo
tifoso che trovano di fronte, senza chiedersi
perché nessuno di loro risponda alle
provocazioni. In pochi minuti il panico si
diffonde nel Settore Z. Sotto l’occhio delle
telecamere, questa porzione di stadio diventa
famosa nel mondo intero. Questo pezzo di cemento
vecchio e cascante, già pieno di sciarpe e di
bandiere bianconere lasciate cadere a terra.
Questi tifosi juventini che cercano disperati
una via di fuga. La polizia belga prova ad
impedire ai tifosi italiani in fuga di entrare
sul campo: gli ordini sono ordini, così in sella
ai loro cavalli, manganelli alla mano, prova a
respingerli.
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Mario, ventidue anni è
uno di questi tifosi. Originario di Turi aveva
lasciato la sua città, la sua famiglia e gli
amici per cercare un avvenire migliore. Seguendo
un cugino venuto alcuni anni fa a Charleroi che
l’estate, quando torna al Paese con il suo
macchinone, fa sempre una certa impressione. Al
di là delle suggestioni, Mario non aveva tanta
scelta, l’immigrazione è l’unica via per
un’esistenza degna. Poi, con i soldi che
guadagna nella pizzeria del cugino può aiutare
la sua famiglia rimasta in Italia. I primi mesi
in Belgio sono stati difficilissimi. La
popolazione non è molto accogliente con questi "Macaroni",
come vengono soprannominati gli italiani. La
regione di Charleroi non c’entra niente con i
bei paesaggi della Puglia. Per non parlare del
clima. Tutto sembra grigio e il calore della sua
terra, della sua gente manca ancora di più. Ad
attutire fortunatamente la nostalgia ci pensa il
bar, il circolo dove la domenica, fra
connazionali, si segue il calcio italiano e
soprattutto quella Juve per la quale Mario ha
una grande passione. Questa stagione in cui la
squadra bianconera è arrivata fino in finale di
Coppa Campioni, rende più sopportabili le
umiliazioni e le difficoltà della vita
quotidiana in Belgio. Quest’anno poi, Mario
potrà vedere la sua amata Juve dal vivo ed è un
incentivo in più a tenere duro. La finale della
Coppa dei Campioni si disputa infatti a
Bruxelles, a sessanta chilometri della sua città
di adozione. Mario si è organizzato con gli
amici dello "Juventus Club Belgio", ha preso un
giorno di ferie per godersi una giornata
storica. I biglietti non sono stati un problema,
procurati da un collega di lavoro sul mercato
nero: i bagarini ci sono anche qua e non sono
mica tutti italiani… Biglietti in tasca e
sciarpa al collo, in questo caldo 29 maggio,
Mario si sente diverso. Non più un "terrone", un
"Macaroni", ma un tifoso della Vecchia Signora
come tutti. Stasera il popolo bianconero vuole
dimenticare l’umiliazione di due anni prima ad
Atene e riprendersi quella coppa perduta con
l’Amburgo. La Juventus deve vincere per salvare
la sua stagione. In campionato non è mai
riuscita ad inserirsi nella lotta per lo
scudetto. Mario ricorda il cammino europeo
seguito passo passo sul televisore del circolo.
La semifinale col Bordeaux è stata più difficile
dal previsto, ma alla fine ce l’hanno fatta. Ce
l’abbiamo fatta, come usano dire i tifosi
sentendosi parte in causa nel tutto. Sarà in
finale, un anno dopo avere vinto la Coppa delle
Coppe. Poi di fronte c’è il Liverpool che la
Juve ha già incrociato quattro mesi prima, nella
finale di Supercoppa Europea.
Il 16 gennaio i
bianconeri si imposero 2-0 contro i Reds, grazie
a due goal di Zbigniew Boniek, divenendo così la
prima squadra italiana a vincere questo trofeo.
Con tanti sogni nella testa, Mario approda a
Bruxelles, tra migliaia di connazionali, alcuni
in Belgio da decenni, altri venuti apposta
dall’Italia, ma anche dalla Germania, dalla
Francia, dal Lussemburgo e dall’Olanda. Riesce a
riconoscere persino gli accenti della sua
provincia. Anche i tifosi del Liverpool sono
tanti. Si fanno notare subito, quasi tutti a
torso nudo, arrossati sotto il sole di maggio.
Le bottiglie vuote si contano a centinaia per le
vie della capitale belga e tante cominciano a
volare per aria. La giornata appare subito più
tesa del previsto così Mario, col suo biglietto
in tasca, decide di avviarsi verso lo stadio
Heysel, quattro ore prima della partita. Con suo
cugino decidono di entrare al più presto nel
Settore Z di cui possiedono il biglietto, anche
perché vogliono guadagnarsi un posto con la
visuale migliore sul campo. Per la partita si
aspettano 60.000 spettatori. Quando Mario entra
nella curva, resta sbalordito di fronte alla
struttura: è vero che non frequenta da tanto gli
spalti, ma questo stadio sembra davvero molto
vecchio. Accanto a loro ci sono i tifosi dei
Reds. Fuori li avevano già incrociati e Mario ha
preferito nascondere la sua sciarpa bianconera
dovendo passare in mezzo a loro che aspettavano
di fronte ai Settori X e Y, ritenendo la
provocazione inutile e quando raggiunge la porta
d’ingresso del settore Z è piuttosto contento.
Dentro è un tripudio di bandiere bianconere e
tante sono quelle rosse alla sua sinistra. Dopo
qualche minuto le memorie e le storie personali
di Mario e di Joey andranno ad incrociarsi.
Ognuno avrà ovviamente una versione posteriore
molto diversa, ma una cosa è sicura: questa
serata rimarrà dentro di loro per tutta la
durata delle loro vite.
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Facciamo ora un
poderoso salto in avanti, dal 29 maggio 1985 al
29 maggio 2018. Sono passati esattamente 33 anni
da questa storia che ho tentato di ricostruire
in maniera verosimile, intrecciando con la
fantasia due destini ipoteticamente
contrapposti. Mi ritrovo così alle ore 19.00
all’entrata di quello stesso stadio, presso la
tribuna, invitato da un ragazzo attivo
all’interno della sezione Belgio del gruppo
"Tradizione", ho dunque la possibilità di vedere
da vicino la commemorazione di quella tragedia.
Come tutti i nati negli anni ’70 ricordo quella
serata. La memoria mi porta indietro a quando
ero un bambino di sette anni e vedevo scorrere
le immagini degli incidenti di quella partita.
Non capivo niente di quello che stava succedendo
a Bruxelles. Oggi invece sappiamo tutto di
quanto avvenuto in quei momenti. E devo dire la
verità: è un po’ strano essere lì. Ho sempre
problemi con le commemorazioni, perché dentro
ognuno di noi la memoria non funziona mai allo
stesso modo. Si può dire tutto quello che
vogliamo, ma dietro il senso di colpa latente e
indefinito che ci obbliga a rimanere in silenzio
per un minuto o più, cos’è davvero la memoria ?
Siamo in pochi, una trentina di persone. A dire
il vero, non mi ero minimamente posto il
problema del numero dei presenti. Ci sono
soprattutto ragazzi del Belgio, juventini,
ultras e tifosi, ma anche due ragazzi venuti
apposta dall’Italia e qualche ragazzo dei "Green
Boys", ultras de La Louvière, una squadra che
milita nel 4° livello del calcio belga. Ci viene
permesso accesso al luogo della cerimonia per
meno di mezz’ora. Sembra quasi un favore che ci
fanno e fa riflettere che nel 2018 la sicurezza
sia diventata una ragione di Stato. Ma
soprattutto serva come pretesto a tanti per non
farti entrare in un luogo dove non è previsto
nessun evento di rilievo e questa fretta indotta
puzza un po’ di censura e non meno di cinismo.
La sezione Belgio di "Tradizione" ha fatto
confezionare una corona di rose. Si passa il
portone e entriamo. Del vecchio stadio
dell’Heysel, edificato nel 1930 per il
centenario del regno del Belgio, non rimane
quasi più niente, tranne un pezzo della sua
facciata d’origine. All’inizio degli anni ’90,
il governo locale decise di ricostruire
totalmente l’impianto che venne pure
ribattezzato "Roi Baudouin", alla morte del re
del Belgio nel 1993. Arriviamo alla lapide sulla
tribuna con i nomi delle 39 vittime, inaugurata
nel 2005 per il ventennale della catastrofe. C’è
pure il nome del sindaco che l’ha fatta
affiggere, una cosa che sicuramente si potevano
risparmiare. Non ho mai visto su nessun
monumento il nome del sindaco che l’ha
inaugurato.
Cosa deve ricordare
davvero la storia ? I suoi attori principali o
chi tenta di usarla per proprio tornaconto ? Ma
lascio perdere queste domande retoriche e mi
fisso a guardare i nomi delle vittime. Li leggo
uno a uno e penso che queste 39 persone non si
sono più svegliate la mattina del 30 maggio
1985, che 39 famiglie sono state ferite per
sempre, che 39 esseri umani hanno visto
interrompersi il loro destino e tutto questo per
il solo fatto di essere andati allo stadio. Ci
fermiamo lì e dopo qualche minuto ci spostiamo
in un altro luogo, presso il famigerato Settore
Z. I ragazzi tirano fuori i loro striscioni e li
mettono attorno alla seconda targa. Ci sono i
drappi della sezione Belgio di "Tradizione", lo
striscione dell’ex gruppo "Bruxelles
Bianconera", quello dei "NCS" (Noi Ci Siamo),
uno stendardo con i colori gialloverdi dei
gemellati del Den Haag e una sciarpa di un
ragazzo del "Nucleo". Poi, vicino la targa
fissata sul luogo dove una volta c’era il famoso
muro del Settore Zeta, un ragazzo di "Bruxelles
Bianconera" fa un piccolo discorso. Le sue
parole ricordano la lotta del "Comitato per le
vittime dell’Heysel" affinché fosse commemorato
degnamente quell’evento drammatico. Perché nei
mesi e negli anni che si sono succeduti, tanti
avrebbero preferito dimenticare quanto accaduto.
Senza l’ostinazione di quella gente che ha reso
simbolicamente ma eterno il ricordo,
racchiudendolo in una lapide, in una targa
quelle morti sarebbero state pian piano
metabolizzate e poi dimenticate. Come dice
giustamente questo ragazzo: "Dobbiamo essere qua
per non fare dimenticare al Belgio, allo Stato,
anche alla Juve e ai tifosi la nostra storia, da
dove veniamo e quello che il nostro popolo ha
vissuto". Ecco, la maledetta memoria, quella che
permette che non cadano nel nulla questi 39
nomi, queste 39 vite. E dunque oggi forse ci
saranno "solo" trenta persone di fronte alla
targa sul muro del Settore Zeta a Bruxelles, ma
questa gente ha di sicuro la fortuna e il pregio
di sapere cosa voglia dire, trentatré anni dopo,
la memoria. Poi, dopo un minuto di silenzio che
sembra durare molto di più, torniamo alla lapide
dove la cerimonia sta per finire. I due ragazzi
juventini, venuti apposta dall’Italia, vengono
invitati a farsi avanti e leggere uno per uno i
nomi delle vittime. Sono due voci che nessuno,
tranne una trentina di persone, può sentire, ma
non importa se siano in pochi a sentire
pronunciare questi nomi, l’importante è che
queste persone in un modo o nell’altro ci siano
ancora.
Fonte: Sportpeople.net © 12
giugno 2018
Fotografie: Mimmo Lombardi ©
Lamarseillaise.fr ©
Bruxelles Bianconera ©
Video: Mimmo Lombardi ©
(NdR:
un grato riconoscimento al
Sig. Mimmo Lombardi
per la concessione del materiale multimediale)
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