RENZO e
MIRCO EUSEPI
Trent'anni fa la strage.
Heysel, il dolore di chi c'era:
"Gli inglesi ci tiravano pietre, presi
i ragazzi e scappammo"
di Carmelo Domini
Renzo Eusepi, oggi 75 anni, era quel giorno
a Bruxelles con il figlio Mirco allora sedicenne.
RAVENNA
- "Pensavamo di andare a una festa e invece fu un massacro. Da quel
giorno cambiò tutto. Morirono 39 persone e per me morì anche il
calcio". Mirco Eusepi quel giorno aveva solo 16 anni. Ma l’inferno
dell’Heysel non lo dimenticherà mai. Lo custodisce in un cassetto
della sua camera da letto. Sotto una sciarpa e una berretta di lana
con i colori ormai stinti del Liverpool. Un feticcio che a 30 anni
esatti da quel massacro, inutile e incomprensibile, tira fuori quasi
con pudore. "Io c’ero", dice. "C’ero e ricordo tutto di quella notte,
ma l’unica cosa che continuo ancora a non capire è come sia stato
possibile arrivare a tanto". Accanto a Mirco c’è suo padre, Renzo,
oggi 75enne, ieri 45enne. Anche lui c’era. Padre e figlio, due tifosi,
due juventini. Due testimoni di una tragedia assurda. "L’idea di
partire fu mia - racconta il padre. Eravamo in 9 di Ravenna, partimmo
da Milano su un treno speciale. La notte in cuccetta fu una festa.
C’era gente da tutta Italia, tutti tifosi, sentivamo la coppa vicina,
la squadra c’era, eravamo i favoriti. Arrivammo a Bruxelles la mattina.
Una giornata fantastica, il sole, la gente per strada". "Sì, gli
inglesi erano tanti, ma noi di più - attacca Mirco - e all’inizio
non sembravano minacciosi. Per strada un tifoso si avvicinò a noi
e mi diede la sciarpa del Liverpool e la sua berretta. Era giallorossa
come quella del Ravenna, l’altra mia squadra del cuore, e anche
per questo accettai lo scambio. Cominciò tutto così, chi avrebbe
mai immaginato il resto"... Il resto, però, comincia a essere nell’aria
poco dopo, in metropolitana. Quando i nove di Ravenna finiscono
per caso in uno scompartimento di hooligans sulla via dell’Heysel.
"Ricordo un tizio immenso, che non finiva più. Aveva il naso insanguinato,
gli occhi rossi, era a torso nudo. Cantavano, erano ubriachi, minacciosi".
"Dissi a tutti - continua Renzo - di stare zitti e abbassare gli
sguardi, ma quel viaggio fu lunghissimo". Tre fermate più tardi
ecco lo
stadio. O almeno quella cosa indegna
che chiamavano così. C’è una foto un po’ sgranata, con colori
anni 80, che Renzo tira fuori da un cassetto e che spiega tutto,
meglio di qualsiasi immagine televisiva. Ci sono loro, i tifosi
di Ravenna, e quelle gradinate marce, divise da reti da pollaio.
"Era una cosa fatiscente - spiega ancora Renzo - se avesse
piovuto saremmo stati nel fango. I gradini si sbriciolavano,
c’erano le
sterpaglie.
E più tardi gli inglesi presero quelle pietre per tirarcele
addosso". "Per non parlare della polizia - aggiunge il figlio.
Inesistente, inefficiente. Arrivarono agenti a cavallo del tutto
inutili. Uno di quei cavalli, terrorizzato, calpestò una ragazza
di Faenza che rimase ferita". Poi ecco il massacro, dall’altra
parte dello stadio. Il settore Z. Quello dove sarebbero dovuti
finire loro. "Un nostro parente che abitava in Belgio ci cercò i
biglietti in quel settore. Non li trovò e ci salvammo per
quello". "Mancavano un paio d’ore alla partita quando vedemmo le
prime due cariche degli inglesi. C’erano solo 5 agenti a
dividerli dai nostri tifosi, che poi erano anche i più indifesi,
perché in quel settore andarono le famiglie con i bambini. I
gendarmi scapparono subito, li lasciarono soli e fu un
massacro". "Noi non capimmo subito quello che stava succedendo -
ricorda Renzo - non c’erano i cellulari o Internet. Ma avemmo la
percezione che c’erano dei morti. Le voci giravano, qualcuno
disse di aver visto corpi stesi per terra. Poi uscì Scirea, ci
disse di stare calmi e che avrebbero giocato lo stesso. Ma per
me era già tutto finito. Era un caos, un inferno. Vidi un tifoso
italiano con una pistola in mano che cercava di convincere gli
ultras ad andare contro gli inglesi. Rischiammo davvero un
massacro peggiore, io stesso venni ferito al volto da un
bastone. Un inglese ? No, uno juventino, si era scagliato contro
di me perché volevo convincerlo a non andare da quelli del
Liverpool. A quel punto presi i "miei" ragazzi e uscimmo,
scappammo, io avevo il volto insanguinato, ma rimanemmo lucidi.
E fu la nostra salvezza. In albergo chiamammo a casa. Mia moglie
era nel panico. Fu lei a dirci che Pizzul aveva parlato di
almeno 30 morti. Rimanemmo sbalorditi, distrutti. Poi attendemmo
il treno in stazione fino, alle 4, quando uscirono i giornali. I
morti erano diventati 39. Su quel treno eravamo gli unici ad
aver già avvertito casa. Le linee erano collassate. Quando
arrivammo a Domodossola il treno si fermò un’ora per far
telefonare tutti, per fargli dire che eravamo ancora vivi. Scesi
un minuto anche io. Ricordo un ragazzo che prese la bandiera e
la strappò in due: buttò il bianco sui binari e lasciò solo il
nero. Era il colore del lutto. Poi scoppiò a piangere".
30 maggio 2015
Fonte: Corriereromagna.it
A-Z |
|
TONY EVANS
"Crollò una barriera
e scoppiò l’inferno. Odiavamo gli italiani"
di Tony Evans
"Un
muro è crollato, tutto qui". Io queste parole le ho sentite
e le ho ripetute tantissime volte. Ma sono menzogne. C'è un
momento di quel giorno a Bruxelles che più di qualsiasi altro
continua a tormentarmi. Il nostro treno era da poco arrivato
alla stazione di Jette e una lunga colonna di tifosi del Liverpool
si era incamminata giù dalla collina verso il centro. Mi fermai
a guardarli, bandiere a scacchi rossi e bianchi al vento...
Dissi tra me e me: "Oggi possiamo fare tutto ciò che ci pare.
Nessuno può fermarci". Era un giorno caldo e soleggiato, ma
nell'umore generale si captava un sottofondo oscuro. Quelle
bandiere a scacchi le avevamo preparate per la finale dell’anno
precedente, contro la Roma allo Stadio Olimpico. E nonostante
la conquista della quarta Coppa dei Campioni nessuno, tra quelli
di noi che erano stati a Roma, ricorda con affetto quel giorno.
Prima della gara, gruppi di giovani in motorino avevano dato
la caccia ai nostri tifosi, coltelli in mano. E, dopo la partita,
fummo vittima della rabbia di Roma, tra sangue, angherie e umiliazioni.
Ci eravamo detti che la storia non si sarebbe ripetuta. La nostra
rabbia non era diretta solo agli italiani. La stampa britannica
aveva praticamente ignorato gli eventi dell'Olimpico l'anno
prima... Liverpool, in quegli anni, era una città marginalizzata
e odiata dal resto del Paese, un anacronismo che c'entrava poco
con l'Inghilterra. Ero con mio fratello quando, in un vicolo
del centro, ci siamo imbattuti in un gruppo di tifosi juventini,
sei o sette, quasi tutti ventenni. Erano seduti davanti a un
bar, atteggiandosi un po' da duri, un po' da fichi. Il mio sguardo
incrociò uno dei loro. "Dai, brutto stronzo, dimmi qualcosa..."
Ringhiai. Lui, niente. Ma ormai il tono, l'umore di quella giornata
era stato fissato. La Grand Place era relativamente priva di
tensione. Noi del Liverpool eravamo in tanti e ci sentivamo
sicuri. Bevevamo e cantavamo a torso nudo sotto il sole. Era
quasi idilliaco. Ma poi, complice l'effetto dell'alcol, tutto
cambiò. I bar cominciarono a chiudere, forse impauriti da ciò
che avremmo potuto fare... Partimmo a piedi per lo stadio. Ovunque
c'erano tafferugli. In circostanze normali, tutto ciò non sarebbe
avvenuto. Ma quel giorno era diverso... Eravamo ubriachi ma
anche in quello stato capimmo che lo stadio era fatiscente.
Alle entrate non vi erano praticamente controlli. Tutt'ora,
25 anni dopo, ho ancora intatto il biglietto di quella serata.
Eravamo nel settore Y, accanto al maledetto settore Z, e si
capì subito che eravamo in troppi. La folla ci spinse avanti,
verso il campo, crollò una prima barriera. La polizia reagì
con i manganelli. Vidi un ragazzo - uno dei nostri - rimasto
imbrigliato nel filo spinato mentre cercava di scavalcare un
muro. E vidi un poliziotto che lo manganellava. Mi avvicinai
e gli diedi un pugno in faccia. Scappò via. A quel punto, quasi
tutta la polizia si era dileguata. E così noi ci concentrammo
sul bar, dove un povero cristo vendeva patatine e panini. In
pochi secondi avevamo saccheggiato tutto. Tra settore Y e settore
Z vi era un fitto lancio d'oggetti. In realtà, per gli standard
di quegli anni, non era nulla di inusuale. Guardammo con invidia
gli spazi nel settore Z che era mezzo vuoto, mentre il nostro
settore Y, complici i molti tifosi senza biglietto, era strapieno.
Mi assentai per qualche minuto per fare la pipì. Al ritorno
vidi che la rete che separava i due settori era caduta e che
molti dei nostri erano passati al settore adiacente... Più sotto
e nell'angolo più lontano stavano morendo 39 persone. Della
partita non ricordo nulla. Del dopo-partita ricordo la paura
di essere accoltellato dagli juventini. E ricordo il poliziotto
belga che, preso dall'ira, lanciò un lacrimogeno dentro un autobus
di tifosi del Liverpool. Arrivammo a Ostenda per prendere il
traghetto, tristi e depressi, ma ancora ignari. Solo dopo, sulla
Manica, cominciò a spargersi la voce. A casa cominciammo a trovare
antidoti per la nostra vergogna, raccontandoci le solite bugie...
Una lunga catena di eventi ha portato all'Heysel. Gli accoltellamenti
e i pestaggi subiti a Roma, l’alcol, la nostra aggressività,
l'inefficienza della polizia e uno stadio fatiscente. Senza
uno di questi anelli nella catena maledetta forse quel giorno
sarebbe passato senza incidenti. Oggi i tifosi dell'Everton
ci dedicano uno sfottò: "Trentanove italiani non possono avere
torto". Un modo per dire che l'Heysel è colpa di noi del Liverpool.
Hanno ragione. Il torto era nostro. Il torto era mio. (Tony
Evans è stato per tanti anni un tifoso militante del Liverpool,
ora è responsabile delle pagine sportive del Times)
26 maggio 2010
Fonte: La Stampa
A-Z |
|