Strage a Mogadiscio
I pretoriani di Siad
sparano nello stadio
di Alessandro Oppes
Un incontro di calcio
che si trasforma in una violenta
contestazione del regime. le
forze di sicurezza somale che
reagiscono aprendo il fuoco
sulla folla. Allo stadio di
Mogadiscio è finita in strage
una festa dello sport: sette i
morti secondo i dati ufficiali,
dieci a quanto hanno riferito a
Repubblica fonti diplomatiche
nella capitale somala, almeno
ottanta secondo fonti
dell’opposizione a Roma. In
programma, venerdì pomeriggio,
c'era l’incontro di apertura del
XVI torneo annuale
interregionale, che è ripreso
dopo due anni di interruzione:
in campo, le squadre delle
province di Jubba e Shabelle. In
tribuna, il presidente Mohammed
Siad Barre. La contestazione è
partita appena Siad ha
cominciato a pronunciare il suo
breve discorso inaugurale. Dal
pubblico sono giunti i primi
fischi, poi urla e slogan contro
il regime. La protesta è
arrivata anche all’esterno, alle
porte 4 e 8, dove era schierato
un fitto cordone di agenti:
dagli insulti si è passati al
lancio di pietre, e i berretti
rossi hanno reagito sparando i
primi colpi in aria per tentare
di fermare sul nascere la
protesta. Ma il risultato è
stato del tutto opposto. Perché
il fragore degli spari è
rimbalzato ovviamente
all’interno dello stadio, che ha
una capienza di 45 mila
spettatori, creando il panico e
provocando un inasprimento della
contestazione. La folla si è
avvicinata al palco
presidenziale dove Siad Barre
tentava invano di completare il
suo breve discorso di
circostanza. La scintilla che ha
fatto scattare il massacro è
stata il lancio delle prime
pietre contro la tribuna di
Siad. Mentre il presidente,
vedendo i contestatori che
tentavano di forzare il cordone
di sicurezza, raccoglieva in
fretta e furia i suoi fogli
allontanandosi precipitosamente
dallo stadio, i berretti rossi
hanno aperto il fuoco, sparando
questa volta ad altezza d'uomo.
Il primo bilancio ufficiale
diffuso dal governo somalo con
una dichiarazione letta alla
radio nazionale parlava di tre
persone morte dopo che le forze
di sicurezza avevano sparato in
aria per sedare disordini dovuti
all’affollamento dello stadio.
Ma già ieri mattina fonti
dell’ospedale di Medina
riferivano di sette morti e 18
feriti. In realtà, il numero
delle vittime potrebbe essere
molto più alto: testimoni
oculari hanno parlato alla
Reuters di decine di morti. E
dello stesso avviso è il
portavoce di un gruppo
dell’opposizione, il Movimento
nazionale somalo, secondo il
quale i morti sono ottanta e i
feriti circa trecento. In un
comunicato diffuso a Roma anche
a nome di altri gruppi che
lottano contro il regime di Siad
Barre, il Mns denuncia la nuova
palese violazione dei diritti
umani, la ferocia e la barbarie
del regime di Siad Barre,
ricordando che la strage dello
stadio avviene quasi in
coincidenza con il primo
anniversario del massacro di
Mogadiscio del 14 luglio '89: i
morti in quell’occasione furono
350. Al governo e al Parlamento
italiano si chiede solidarietà,
ma anche la sospensione degli
aiuti al regime di Siad e il
blocco della partenza per
Mogadiscio, prevista per la
prossima settimana, dei docenti
e tecnici italiani
dell’università somala. Ma, per
il momento, non c’è stata
nessuna presa di posizione
ufficiale da parte della
Farnesina. I rapporti tra Roma e
Mogadiscio hanno raggiunto nelle
ultime settimane un livello di
grande tensione dopo
l’assassinio, nella cella di una
caserma militare nella capitale
somala, di Giuseppe Salvo, un
ricercatore dell’Istituto
superiore di sanità. Le autorità
di Mogadiscio avevano tentato di
far passare per un suicidio
l’impiccagione, il 17 giugno
scorso, del biologo italiano. Ma
l’autopsia ha dimostrato che si
è trattato di un omicidio. E il
ministero degli Esteri ha dovuto
decidere nei confronti del
governo di Mogadiscio un primo
passo di protesta che potrebbe
preludere a una completa
ridefinizione dei rapporti con
un regime che negli ultimi tempi
si è dimostrato sempre più
feroce nella repressione
dell’opposizione. Siad Barre ha
tradito tutte le promesse di
graduale apertura, di evoluzione
verso il pluralismo politico, di
rinuncia ai metodi repressivi,
di rispetto per i diritti umani.
Le pressioni internazionali,
comprese quelle del governo
italiano dal quale Mogadiscio
riceve consistenti aiuti
economici, avevano portato lo
scorso anno il presidente somalo
a promettere la convocazione di
elezioni libere. Ma non se n'è
fatto niente. Anzi, il regime si
è ulteriormente irrigidito nei
confronti degli oppositori:
neppure un mese fa, circa
settanta tra intellettuali ed
esponenti politici dei gruppi
che lottano contro il governo di
Siad sono finiti in carcere. E
pochi mesi prima, per le
critiche al presidente erano
stati arrestati artisti e autori
di teatro. Per il regime, cresce
l’isolamento internazionale: in
prima fila, l’amministrazione
Bush che ha già deciso una netta
riduzione degli aiuti economici
e un raffreddamento dei rapporti
politici.
8 luglio 1990
Fonte: La Repubblica
La folla fischia il
dittatore somalo in tribuna:
secondo l'opposizione i morti
sono almeno 80.
Mogadiscio strage alla
partita di calcio
Spara la guardia di
Barre
MOGADISCIO - A
Washington lo hanno definito il
"macellaio dell'Africa". E
l'altro ieri il presidente
somalo Mohammed Siad Barre ha
dato un'ennesima conferma della
spietatezza sulla quale si regge
il suo regime: secondo
l'opposizione somala, almeno
ottanta persone sono state
uccise e circa trecento sono
rimaste ferite, quando le forze
di sicurezza hanno aperto il
fuoco in modo indiscriminato
sulla folla che contestava il
leader somalo durante una
partita allo stadio di
Mogadiscio. Alcuni testimoni
della strage hanno raccontato
che gli incidenti sono
cominciati quando il pubblico
dello stadio - che ha una
capacità di 45 mila posti ha
fischiato e ha scandito slogan
contro Barre, impedendogli di
pronunciare un discorso per
l'inaugurazione di un campionato
di calcio regionale. Dopo aver
sparato le prime raffiche contro
la folla - ha reso noto a Roma
il portavoce del Movimento
nazionale somalo - i "Berretti
rossi" (le guardie del corpo del
presidente) hanno "continuato a
far fuoco contro le migliaia di
persone in fuga verso l'uscita".
Fonti dell'ospedale di Medina
avevano stilato un primo
bilancio di sette morti e di
diciotto feriti. Ma
successivamente alcuni testimoni
hanno riferito all'agenzia
"Reuter" che la sparatoria dei
pretoriani di Barre ha provocato
decine di vittime e il portavoce
dell'opposizione somala - in
contatto con i dissidenti a
Mogadiscio - ha fatto salire il
numero dei morti ad almeno
ottanta. Di fronte alle
dimensioni della strage,
Mogadiscio non ha potuto tacere:
in una dichiarazione letta alla
radio nazionale, il regime ha
ammesso l'intervento delle forze
di sicurezza, ma ha precisato
che i colpi sono stati sparati
in aria - a puro titolo di
avvertimento - per sedare i
disordini causati
dall'affollamento dello stadio.
I morti, secondo la versione
ufficiale, sono tre. In un
comunicato diffuso anche a nome
delle altre forze d'opposizione,
il portavoce del Movimento
nazionale somalo ha denunciato
ieri "la nuova palese violazione
dei diritti umani, la ferocia e
la barbarie del regime di Siad
Barre" e ha ricordato che "la
nuova strage avviene a poco meno
di un anno dal "massacro di
Mogadiscio" del 14 luglio 1989
che provocò 350 morti".
Nell'estremo tentativo di
occultare le vere dimensioni di
questo nuovo omicidio di massa,
il regime, inoltre, impedirebbe
ai familiari delle vittime di
recuperare i cadaveri, che
verrebbero raccolti dai soldati
e immediatamente gettati in
fosse comuni. L'opposizione
somala ha chiesto poi "la
solidarietà del governo e del
Parlamento italiano", oltre che
"la sospensione degli aiuti al
regime di Barre e, in
particolare, della partenza per
Mogadiscio, la prossima
settimana dei docenti e dei
tecnici italiani dell'Università
somala". È un chiaro riferimento
all'assassinio di Giuseppe
Salvo, il biologo italiano
dell'Istituto superiore di
Sanità massacrato nella notte
tra il 16 e il 17 giugno nella
camera di sicurezza di una
caserma di Mogadiscio. Un
omicidio dai contorni ancora
oscuri e sul quale il regime di
Barre ha tentato di montare una
clamorosa quanto inconsistente
messinscena. Nel tentativo di
simulare un suicidio, il
cadavere del biologo è stato
appeso a una trave della cella e
gli è stato messo al collo un
rudimentale cappio. Poi è
seguita una serie di false
notizie fornite alle autorità
italiane sullo "strano
comportamento del professor
Salvo": "Era irrequieto, non
sembrava normale". Falsità
presto smentite dall'autopsia
che ha stabilito che Salvo è
morto in seguito a un trauma
cranico. Una settimana più tardi
il regime si è macchiato di un
altro omicidio, quello di un
tecnico tedesco della Lufthansa,
responsabile della manutenzione
dei velivoli ceduti dalla
compagnia di bandiera tedesca
alla compagnia
"Somali-Airlines". A uccidere
l'uomo è stato un commando che
prima di abbandonare
l'appartamento in cui la vittima
viveva ha violentato la sua
compagna. Orrori e violenze che
si trascinano in una situazione
di guerra civile: già alla fine
dello scorso anno, un gruppo di
professori italiani
dell'Università nazionale somala
aveva tracciato un quadro delle
atrocità del regime di Barre.
Risale all'ottobre scorso
l'ultima denuncia. Il dossier
richiamava l'attenzione sul
"clima di incertezza, tensione e
repressione" in Somalia. Era da
poco avvenuta la "sanguinosa
repressione di una pacifica
dimostrazione studentesca" e
l'assassinio del vescovo di
Mogadiscio, Pietro Paolo
Colombo, e i docenti si ponevano
dubbi "sulle motivazioni e i
principi che regolano i rapporti
tra il governo italiano e il
regime somalo". Dubbi che sono
esplosi proprio dopo la morte di
Salvo e che stanno facendo
precipitare i rapporti tra il
nostro governo e Mogadiscio. E
che stanno orientando Roma alla
linea dura contro un regime che
è ancora uno dei maggiori
beneficiari di aiuti italiani
nel quadro della Cooperazione
allo sviluppo. (e. st.)
8 luglio 1990
Fonte: La Stampa
Il governo minimizza
"Macché strage. Sono
cose che accadono in tutti gli
stadi".
MOGADISCIO - Siad Barre,
ovviamente, minimizza. Per
sottolineare la scarsa
importanza del fatto, ha
incaricato un rappresentante non
di primo piano del governo
somalo - il ministro del Lavoro,
Sport e Affari Sociali Abdi
Warsameh Isaaq - di smentire che
a Mogadiscio la polizia abbia
sparato sulla folla uccidendo
almeno 80 persone. Vari
testimoni hanno riferito che la
guardia del corpo di Siad Barre
avrebbe sparato sulla folla ad
altezza d'uomo per proteggere il
presidente che era stato
bersagliato con pietre. Una
valutazione condivisa da alcuni
diplomatici in servizio a
Mogadiscio: contattati
telefonicamente da Nairobi,
hanno precisato che, a loro
parere, gli spettatori avevano
contestato la presenza di Siad
Barre che con un breve discorso
aveva inaugurato un torneo di
calcio locale e la guardia del
corpo del presidente, credendolo
in pericolo, aveva aperto il
fuoco sulla folla. Ebbene, il
ministro ha affermato che "non è
vero. Cose di questo genere
succedono per caso in tutti gli
stadi del mondo". E ha aggiunto
- citando i dati ufficiali
dell'ospedale Medina della
capitale somala - che solo tre
persone hanno perso la vita e
altre tre sono rimaste ferite
nella calca prodottasi dopo che
i "berretti rossi" della guardia
presidenziale avevano sparato in
aria "per garantire l'ordine e
la calma". Lo stesso Abdi
Warsameh Isaaq, ha inviato
messaggi di condoglianze ai
familiari delle vittime di
quello che il governo definisce
"incidente" allo stadio. Di
parere opposto Fatuma Haji
Yassin, presidente della
comunità somala in Italia: "Il
massacro allo stadio di
Mogadiscio costituisce l'ultima
sanguinosa risposta di un regime
dispotico e corrotto alla
insofferenza del popoIo".
"Mentre giungono le prime
adesioni all'appello che abbiamo
rivolto ai partiti e alle forze
democratiche italiane nel corso
del sit-in di protesta davanti
all'ambasciata somala a Roma -
ha aggiunto - intendiamo
testimoniare la volontà
democratica dei somali in Italia
con 5 giorni di mobilitazione
che si concluderanno giovedì con
un voto democratico". Haji
Yassin ha preannunciato che
nelle principali città italiane
la comunità somala organizzerà
un referendum contro la
dittatura di Siad Barre: "Ai
seggi e alle operazioni di
scrutinio dei voti - ha detto -
saranno invitati esponenti delle
comunità straniere e
particolarmente dei rifugiati".
Sul piano internazionale, è in
programma invece un vertice dei
Paesi dell'Igad (ente per lo
sviluppo a cui aderiscono
Etiopia, Sudan, Somalia, Gibuti,
Kenya e Uganda) per discutere
della pace nel Corno d'Africa.
L'incontro si terrà oggi ad
Addis Abeba, prima dell'apertura
del summit dell'Organizzazione
dell'unità africana (Oua). Tutti
i capi di Stato dei Paesi membri
dell'Igad, tranne quello somalo,
hanno confermato la loro
presenza alla riunione,
organizzata su iniziativa del
presidente dell'Etiopia Mengistu
Haile Marian. Questo incontro
costituisce una risposta
all'appello americano-sovietico
rivolto da Bush e Gorbaciov per
una conferenza internazionale
sui problemi del Corno d'Africa
sotto la supervisione dell'Onu.
9 luglio 1990
Fonte: Stampa Sera
Strage di Mogadiscio
oltre sessanta i morti
di Leopoldo Fabiani
NAIROBI - Gli incidenti
di venerdì scorso allo stadio
municipale di Mogadiscio, dove
la guardia presidenziale ha
sparato sulla folla per
proteggere il presidente
Mohammed Siad Barre, hanno
provocato 62 morti e 200 feriti
gravi. Lo si è appreso da varie
fonti diplomatiche contattate da
Nairobi dalla agenzia France
Presse. Ma il numero dei morti
preciso, secondo altre fonti
diplomatiche, non si potrà
sapere, perché chi è morto
immediatamente è stato portato
in fosse comuni. Sabato, un
portavoce dell’ospedale di
Mogadiscio aveva detto che nello
stadio avevano trovato la morte
sette persone. Le fonti
diplomatiche hanno fornito la
seguente versione degli
incidenti allo stadio: i 30.000
spettatori presenti nelle
tribune hanno cominciato a
fischiare quando Siad Barre si è
rivolto alla folla. Alla fine
del primo tempo, varie centinaia
di spettatori hanno tentato di
mettersi a pregare sul campo di
gioco, dato che era venerdì,
giorno di festa religiosa per i
musulmani. L’esercito è allora
intervenuto, sparando alcune
salve in aria per disperdere la
folla. Gli spettatori sono corsi
verso le uscite 4 e 8 dello
stadio. Vari proiettili, pietre
e bottiglie, sono volati in
direzione della tribuna
presidenziale. I Berretti rossi
della guardia presidenziale, che
erano fuori dallo stadio,
sentendo le salve e credendo a
un attentato contro Siad Barre,
si sono precipitati all’interno
e hanno aperto il fuoco sulla
folla.
ROMA - Gli ultimi
avvenimenti di Mogadiscio,
venerdì la strage allo stadio e
prima l’uccisione in carcere del
ricercatore Giuseppe Salvo,
stanno lentamente portando il
governo italiano a riconsiderare
la propria politica verso il
regime somalo. E a interrompere
il flusso degli aiuti economici
che ancora viaggia da Roma a
Mogadiscio a un ritmo di 100
miliardi l’anno. Così assicurano
fonti diplomatiche, che si
affrettano però a spiegare che
la decisione non può che essere
politica e che dunque per
qualsiasi decisione occorrerà
attendere il rientro in Italia
di Giulio Andreotti e Gianni De
Michelis. Presidente del
Consiglio e ministro degli
Esteri sono tutti e due a
Houston, per il vertice dei
Sette paesi più
industrializzati, fino a
mercoledì. La posizione
ufficiale italiana sugli ultimi
avvenimenti è stata espressa
domenica da un comunicato del
ministero degli Esteri. La
situazione interna somala dice
il comunicato viene da tempo
seguita con attenzione e
preoccupazione dalla Farnesina,
soprattutto dopo il caso Salvo e
gli arresti di oppositori
firmatari della lettera al
presidente Barre. Quest’ultimo è
un episodio che ha contribuito
non poco a inasprire i rapporti
tra il regime di Barre e il
governo italiano. Il 2 giugno
scorso per la festa della
repubblica l’ambasciata italiana
ha invitato quasi trecento
persone a un ricevimento, tra
cui i 114 oppositori che hanno
firmato il manifesto del 15
maggio. Una lettera in cui
diverse personalità somale
(estranee alla guerriglia)
chiedevano la transizione alla
democrazia senza però pretendere
pregiudizialmente la fine del
potere di Siad Barre. Il 2
giugno la polizia somala li ha
identificati tutti e ha impedito
loro di partecipare al
ricevimento. E pochi giorni dopo
ne ha arrestati una settantina.
A seguito degli eventi
registratisi a Mogadiscio
prosegue il comunicato la
situazione viene esaminata in
stretto collegamento con i
partners comunitari (a loro
volta preoccupati per tali
sviluppi), anche in vista di una
presa di posizione comune a
scadenza ravvicinata. Questo
significa che molto
probabilmente dal Comitato
politico della Cee, che si
riunirà giovedì prossimo, uscirà
un documento di condanna della
dittatura somala, reso
inevitabile dagli avvenimenti
degli ultimi giorni. Ultimi
rimasti Per quanto riguarda in
particolare conclude il
comunicato gli incidenti nello
stadio della capitale somala,
non risulta, all’attuale stato
delle informazioni, che alcun
italiano sia stato coinvolto.
Informazione confermata ancora
ieri sera dall’ambasciata
italiana di Mogadiscio. Ma la
decisione politica più attesa è
quella che riguarda gli aiuti
economici italiani, gli unici a
essere rimasti in piedi dopo che
anche la Germania ha deciso di
interromperli a seguito
dell’uccisione di un tecnico
della Lufthansa pochi giorni
dopo l’assassinio di Giuseppe
Salvo. Fino a oggi sono circa
1.500 miliardi (poco meno
dell’intero prodotto lordo del
paese) tra doni e crediti d'
aiuto per progetti speciali, a
cui bisogna aggiungere poi
l’assistenza tecnica dei 23
militari italiani e l’Università
nazionale somala finanziata e
gestita dal 1973 dal governo
italiano. Un flusso di soldi che
ha sempre corrisposto a una
precisa politica dell’Italia
verso la sua ex colonia e che
porta affari per le imprese
italiane, un rapporto
previlegiato che da sempre fa
considerare nella comunità
internazionale il governo di
Roma garante di ciò che accade
in Somalia, qualcuno dice
l’ultimo puntello di un regime
dittatoriale e sanguinario. E
che ha un aspetto particolare
nel versante della politica
interna italiana. Se fino al
golpe del 1969 di Siad Barre è
la Democrazia cristiana a
gestire tutti i rapporti con la
Somalia, dopo la rivoluzione
sono i comunisti ad avere
relazioni speciali con
Mogadiscio. Ma alla fine degli
anni Settanta Siad Barre attacca
l’Etiopia in Ogaden, l’Unione
Sovietica difende Addis Abeba e
Barre passa armi e bagagli dal
campo sovietico a quello degli
Stati Uniti. Allora in Italia il
suo interlocutore diventa il Psi
di Bettino Craxi, primo
presidente del Consiglio
italiano a compiere, nel 1985,
una visita ufficiale in Somalia.
Un legame che diventa
imbarazzante per tutti quando si
comincia a sapere come il regime
somalo rispetti poco i diritti
umani e quando Amnesty
International diffonde il suo
rapporto con i dati su torture
ed esecuzioni a danno degli
oppositori interni. Per non
parlare delle accuse di
corruzione contro il dittatore e
la sua cerchia e le polemiche
sugli aiuti italiani, spesso
sospettati di finire in progetti
poco chiari. Comunque la
diplomazia italiana ha
continuato a lavorare nella
speranza che sia possibile la
transizione a un regime interno
diverso. Ha premuto perché passi
un progetto di revisione
costituzionale, steso con la
consulenza di giuristi italiani,
che assicuri libertà politiche e
civili. E perché il regime
accetti un dialogo con le forze
dell’opposizione, specie dopo
che la guerriglia ha conquistato
posizioni nel paese a Nord come
a Sud, lasciando a Barre
solamente il controllo della
capitale, tanto che il
presidente ormai viene chiamato
il sindaco di Mogadiscio.
Opposizione divisa. La
guerriglia è però ancora troppo
divisa e manca di un progetto
comune, per poter essere
considerata un interlocutore
solido. In particolare gli
esponenti del Movimento
nazionale somalo, attivo nel
Nord del paese, non hanno
contatti con gli altri gruppi.
La diplomazia italiana
nell’ultimo anno non ha cessato
di invitare al dialogo (tanto
fra governo e oppositori, quanto
fra i diversi gruppi in cui
l’opposizione è divisa) nella
speranza di poter finalmente
giungere a una transizione
morbida verso la democrazia. Ma
gli avvenimenti degli ultimi
giorni sono venuti a
interrompere questo disegno. E
forse a portare una svolta nella
politica del governo italiano
verso la Somalia.
10 luglio 1990
Fonte: La Repubblica
Somalia, bloccati i
professori italiani
ROMA - Il ministero
degli Esteri italiano ha deciso
di sospendere l'invio in Somalia
di 120 professori universitari e
di liceo che avrebbero dovuto
recarsi nei prossimi mesi a
Mogadiscio. È il primo
provvedimento italiano dopo il
massacro di oppositori avvenuto
venerdì scorso nello stadio
della capitale somala. Il
settore universitario è stato
nei decenni passati uno dei
punti cardine dell'assistenza
italiana alla Somalia.
Dall'inizio degli Anni Settanta
l'Italia ha organizzato a
Mogadiscio facoltà di medicina,
veterinaria, agraria,
ingegneria, geologia, chimica,
matematica e fisica e biologia.
I professori inviati dalla
Farnesina soggiornano
normalmente in Somalia per sei
mesi e percepiscono stipendi di
16 milioni al mese (gli
insegnanti universitari) o di 10
milioni (gli insegnanti di liceo
che curano l'anno propedeutico
che dà accesso all'università).
Complessivamente gli aiuti
italiani alla Somalia sono
stati, in questi anni, pari a
circa 1.500 miliardi di lire. La
sospensione dell'invio degli
insegnanti è stata decisa dopo
la conferma del massacro allo
stadio. Venerdì scorso la
guardia presidenziale ha sparato
sulla folla che fischiava il
presidente Mohammed Siad Barre,
provocando 62 morti e 200 feriti
gravi. Lo hanno confermato varie
fonti diplomatiche. Sabato, un
portavoce dell'ospedale di
Mogadiscio, diramando notizie in
forma ufficiale secondo i voleri
di Barre, aveva detto che nello
stadio avevano trovato la morte
"solo sette persone". Le fonti
diplomatiche hanno fornito la
seguente versione degli
incidenti allo stadio: i 30.000
spettatori presenti nelle
tribune hanno cominciato a
fischiare quando Siad Barre si è
rivolto alla folla, dalla
tribuna presidenziale, per fare
l'elogio della democrazia nel
Paese. La partita tra le squadre
di Giuba e Scebeli è poi
iniziata, e la situazione si è
un po' calmata. Ma alla fine del
primo tempo, varie centinaia di
spettatori hanno tentato di
mettersi a pregare sul campo di
gioco, dato che era venerdì,
giorno di festa religiosa per i
musulmani. L'esercito è allora
intervenuto, sparando alcune
salve in aria per disperdere la
folla. Sempre secondo le fonti
contattate da Nairobi, gli
spettatori si sono precipitati
verso le uscite dello stadio e
alcuni sono morti asfissiati
dopo essere stati schiacciati
vicino alle porte quattro e
otto. Pietre e bottiglie sono
state allora lanciate verso la
tribuna presidenziale. I
berretti rossi della guardia
presidenziale, che erano fuori
dallo stadio, sentendo le salve
sparate dai loro commilitoni e
pensando ad un attentato contro
Siad Barre, si sono precipitati
all'interno aprendo il fuoco
sulla folla.
10 luglio 1990
Fonte: Stampa Sera
In Somalia ucciso un
marine americano
Sono più di cento le
vittime della strage allo Stadio
NAIROBI - Un caporale
dei marine americani è stato
ucciso ieri a Mogadiscio, in
piano centro, da una banda
armata, come riferisce l’agenzia
ufficiale somala Sonna. Secondo
la Sonna, il caporale Bernard Mc
Leish, è stato ucciso perché
aveva cercato di opporsi ai
banditi che volevano rapinarlo
di una collana d'oro. Uno degli
aggressori, aggiunge l’agenzia
somala, ha estratto un'arma e
sparato a bruciapelo ferendo
mortalmente all’addome il
soldato americano. Sale così a
quattro, dal marzo scorso, il
numero delle vittime straniere
delle bande di Mogadiscio che,
secondo diverse fonti
diplomatiche, sono direttamente
legate alla guardia
presidenziale di Siad Barre, i
cosiddetti Berretti rossi. È
salito intanto a centonove il
numero delle persone massacrate
allo stadio di Mogadiscio dalla
guardia personale di Siad Barre.
Lo riferiscono fonti
diplomatiche di Nairobi. E lo
confermano anche fonti
dell’opposizione somala. Secondo
il portavoce in Italia del
movimento nazionale somalo,
altre venti persone sarebbero
morte negli ultimi due giorni
negli ospedali somali per le
ferite subite in seguito alla
sparatoria nello stadio, dove la
guardia presidenziale ha aperto
il fuoco venerdì sera. I morti
dichiarati dagli ospedali fino a
lunedì erano sessantadue, ma la
cifra è certamente approssimata
per difetto. Infatti le persone
rimaste subito uccise nella
sparatoria non sono state
portate in ospedale, ma
seppellite in fosse comuni. È
questo anche il motivo che rende
impossibile un calcolo esatto
dei morti. Il portavoce del Mns,
una delle principali forze di
opposizione, cita il racconto di
un testimone oculare somalo,
fuggito in Tanzania subito dopo
la strage, che ha riferito di
aver visto a terra nello stadio
circa duecento persone, tra
morti e feriti. Intanto la
Farnesina ha deciso di
sospendere la partenza per
Mogadiscio delle 120 persone,
tra docenti e tecnici, destinate
all’università nazionale somala.
11 luglio 1990
Fonte: La Repubblica
Alcuni spettatori
rompono il muro di omertà:
ricostruita la strage di
Mogadiscio.
Il massacro segreto di
Siad Barre
Testimoni svelano: allo
stadio fu una carneficina.
di Mimmo Candito
MOGADISCIO DAL NOSTRO
INVIATO - Se si può apprezzare
la differenza tra paura e
terrore, si riuscirà allora a
capire bene come oggi Mogadiscio
sia spaccata in due di netto,
due città estranee anche se non
nemiche. Una è la città della
paura, che è quella di noi
bianchi, che andiamo per strada,
facciamo il nostro lavoro,
chiacchieriamo con la gente, ci
lasciamo andare a quest'aria
antica, pastorale, di un
oltremare da cartolina, ma se di
fuori appariamo tranquilli, in
realtà dentro abbiamo una buona
paura. Il professor Salvo e gli
altri tre ammazzati nelle ultime
settimane, poi le bombe ogni
notte, poi le minacce anonime al
telefono, l'altro ieri
un'imboscata a quattordici
tedeschi finita solo per caso
senza un massacro (gli hanno
sparato addosso due caricatori
di Kalashnikov, ma loro sono
riusciti a battersela): la
spirale dell'intimidazione non
c'è dubbio che ci si stringa
addosso, e le ambasciate europee
e americana hanno chiamato lo
stato d'allerta numero due,
invitando i bianchi che stanno
in Somalia a uscire di casa
"soltanto se strettamente
necessario". Ma assai diversa,
più angosciata, chiusa,
silenziosa ormai per una lunga
lezione di repressione, è la
città nera, quella del terrore.
Come in ogni dittatura che duri
più di una generazione, anche
qui una sorta di mutazione
culturale ha modificato, quasi
geneticamente, l'antico costume
nomade della comunicazione
orale: e vent'anni di regime, e
un uso legale della violenza di
Stato contro qualsiasi forma di
dissenso, hanno sigillato ormai
le bocche della gente. Amnesty
International ha sempre
denunciato questo Stato del
terrore; e anzi, le sue denunce
non erano che la punta,
verificabile, di un infinito
iceberg più difficile da
accertare. Il nostro governo,
però, che qui ha un ruolo e un
peso come in nessun'altra parte
del mondo, ha preferito ignorare
quasi sempre il valore
drammatico di questa
documentazione e delle denunce
dell'opposizione, affidandosi
solo alle pratiche della
cooperazione come strumento
utile a favorire la crescita
della società. C'è il sospetto
fondato che questa politica
privilegiasse, in realtà, scelte
di partito e interessi di
specifici comparti della nostra
economia; ma nell'ultimo mese,
comunque, cioè da quando
qualcuno ha ammazzato in una
caserma il professor Salvo e il
governo di Mogadiscio ha cercato
di menarci per il naso facendo
credere che quel poveretto si
era impiccato, il governo
italiano ha finalmente assunto
un ruolo adeguato all'influenza
politica che può esercitare su
questo Paese, e la Farnesina ha
fatto, una volta tanto, la voce
grossa. L'altro ieri sono andato
a colloquio col ministro degli
Esteri, nel suo bel salottino di
velluto a fiori damascati che un
uragano di aria condizionata
trasformava nell'interno morbido
di un frigorifero. Ahmed Jamaal
Abdullah, "Jenghelli" per gli
amici, era molto gentile ma
anche assolutamente indignato.
Ce l'aveva anzitutto col governo
italiano: "Mi ha comunicato che
se entro sette giorni non si
mandavano in libertà i 45
prigionieri politici del
cosiddetto Comitato di
riconciliazione, allora Roma
avrebbe rivisto drasticamente i
programmi di cooperazione. Ma
questa è una violazione della
nostra sovranità,
un'interferenza negli affari
somali: e perciò è
inaccettabile". Confortare il
signor ministro era doveroso, e
così è stato fatto riconoscendo
la fondatezza del suo rilievo;
ma era altrettanto doveroso
ricordargli che le ragioni
dell'irrigidimento di Roma
ricavavano dagli ultimi
drammatici episodi di cronaca
politica una giustificazione
incontrovertibile anche per lui,
e che anzi si arrivava a questo
fin troppo tardi.
"Jenghelli" ha sorriso
con comprensione, e ha detto:
"Ma noi sappiamo perdonare".
Grazie, signor ministro.
Argomento d'indignazione numero
due del ministro erano i
giornali italiani, "sì, voi, che
avete raccontato storie e
notizie senza accertarne
l'autenticità". A quel momento,
il povero giornalista aveva tra
le mani solo il triste episodio
di Salvo, e l'unica cosa che
poteva ribattere all'indignato
funzionario era che, se qualcuno
c'era da accusare di scarsa
accuratezza, era proprio il
governo di Mogadiscio e il suo
infelice tentativo di nascondere
la realtà dei fatti. Oggi però,
dopo giorni e giorni di
spossante ricerca, è finalmente
possibile aggiungere altro per
il signor ministro, dell'altro
che quel mattino, in quel
frigo-salotto, non era ancora
stato possibile avere perché la
città del terrore taceva, muta.
Voglio dire la strage allo
stadio, venerdì 6 luglio. Di
quel grave episodio il governo
somalo ha detto ufficialmente, e
ripetuto, che si tratta di un
incidente dovuto alla confusione
di un colpo d'arma sparato in
aria, e che sono morte
schiacciate solo sette persone.
Fuori dalla Somalia si è avuto
il sospetto che non fosse così;
una volta sbarcato a Mogadiscio,
si trattava di tentare
un'indagine per ricostruire la
verità. Mi sono trovato subito
di fronte al muro del terrore:
in questi giorni ho contattato,
direttamente o indirettamente,
149 persone che quel venerdì
erano allo stadio, ma questa
fragile, impaurita, catena di
sant'Antonio mi si spezzava
continuamente tra le mani, in
una fuga disperata nel buio di
chi non osava aprire bocca
nemmeno dopo le più referenziate
garanzie di segretezza e di
anonimato. Con pazienza, con
fortuna, con il coraggio dei
somali che alla fine hanno
saputo battere la mutazione
genetica del terrore, sono
riuscito alla fine ad avere tre
testimonianze oculari,
circostanziate, concordanti:
altro che incidente e colpo
isolato, allo stadio c'è stata
una strage. Non è stata una
strage voluta, cioè ordinata e
programmata in anticipo; è nata
da un incidente, ma a provocarla
è stato il clima di terrore e di
repressione militare che questo
regime ha imposto al Paese. È
bastato che un soldato perdesse
il sangue freddo, mentre la
gente gli premeva addosso e lo
ostacolava nel suo tentativo di
arrestare un ragazzo, perché dal
colpo sparato in aria dal suo
fucile partisse poi una
sparatoria generale dentro e
fuori dello stadio. Sparavano i
soldati, sparava la polizia
militare, sparavano le
mitragliatrici pesanti che fanno
sempre da scorta al signor
presidente Siad Barre. Le
raffiche, folli, cieche, sono
andate avanti per quasi
mezz'ora, falciando qualsiasi
cosa che si muovesse, un
ragazzo, una camicia colorata,
un vecchio. Alla fine sul
terreno c'erano parecchie
centinaia di corpi. Il governo
di Mogadiscio lo sa ma tace,
anzi tenta di coprire con la
menzogna quello che qui tutti
sanno bene e però hanno paura di
dire. Le due Mogadiscio oggi
ancora si sfiorano, ma i misteri
che la paura e il terrore celano
non dovranno forse restar
nascosti ancora a lungo. Siamo
già dentro la fine di un regno.
27 luglio 1990
Fonte: La Stampa
Voci dalla fortezza
della paura. Le convulsioni di
un regime che sente avvicinarsi
l'ultimo assalto.
Somalia, la verità sul
massacro
Testimonianze sulla
strage allo stadio
di Mimmo Candito
Il nostro inviato, di
ritorno dalla Somalia, conclude
il reportage sul dramma di quel
Paese da cui è stato cacciato
per i suoi articoli su "La
Stampa".
In vetta alla collina di
Mogadiscio, è ancora bianca e
misteriosa come negli anni
imperiali la Villa Somalia, che
così continua a chiamarsi anche
per i somali e custodisce il
potere di questo Paese. Lo
custodisce con la riservatezza
diffidente che a ogni latitudine
protegge i dittatori neri, alti
muri di cinta, cannoncini che
guardano il cielo tra le foglie
immobili delle palme, guardie
sbracate ma fedelissime sui
cancelli d'entrata. Scorre
ancora intatto il tempo del
governatorato di Graziani. In
questa terra ormai alla fine di
un regno, il monsone caldo
dell'Africa, gli antichi codici
tribali, le scogliosità di una
cultura che s'avverte percorsa
da transumanze di popoli,
appaiono temperati dalla stanca
eredità italiana. Il misto di
caratteri e di atmosfere che se
ne mostra assume però una
tragica dimensione
pirandelliana, con i somali
trascinati a recitare una
vogliosa tensione politica di
segno decisamente italiano, e i
nostri connazionali che vagano
nella torpida risonanza di un
costume consunto, dove le
faccette nere e gli stivali sono
una categoria labile ma
frequentata della coscienza
comune. Nella nostra Africa
Orientale, che aveva mobilitato
epopee di cartone e retoriche
canzonettistiche più che
incisioni reali sul terreno
sconosciuto di un lontano
impero, il tempo ha avuto sempre
una sua dimensione fittizia,
quasi inesistente. Emanuela,
molti anni fa, aveva saputo
cogliere il profumo ambiguo di
questo mondo alla deriva, e il
suo ormai introvabile Settimana
Nera può rappresentare ancora
oggi la società spossata della
Mogadiscio nerobianca, le sue
ricche case di vecchie memorie
musulmane, le stradine di
polvere, i cortili ombrosi di
palme giganti e di papaie
gialle, i boys che custodiscono
come cani muti la porta e
passano la notte su una stuoia
di paglia col fucile accanto. Lo
scorrere del tempo non ha inciso
molto sulla fedeltà dello
scenario di Emanuelli, anche se,
certamente, alcune note oggi ne
appaiono ben diverse, con
l'ossessione adesso diffusa tra
i bianchi di una violenza
vendicativa che li minaccia, le
nuove e vecchie paure di un
assalto inferocito degli uomini
di colore, una resa dei conti
che comprima nello spazio breve
di un'esplosione popolare il
lungo itinerario della nostra
storia coloniale. Rispetto a un
passato sonnacchioso, la sola
novità è proprio questa: che
oggi il terrore domina
Mogadiscio; e tra la paura
razziale dei bianchi e il
terrore politico dei neri si
salda nel silenzio di notti
insolitamente vuote e solitarie
la storia africana di un regime
che finisce. Assediato dietro i
suoi muri bianchi, Mohammed Siad
Barre lancia dall'interno
misterioso di Villa Somalia i
proclami che imbellettano
l'ultima agonia. Le sue parole
ricordano gli annunci che da
questa sponda un inacidito
quadrumviro De Vecchi inviava a
Mussolini per raccontare la
realtà che non esisteva, della
pacificazione, dell'ordine
sovrano, di un Paese felice
sotto l'egida di un comando
rispettato e perfino amato.
Quando Barre racconta le sue
favole e parla di giornali
(citando La Stampa) che non
dicono la verità, anche lui come
già De Vecchi sta parlando a
Roma, per disegnare una Somalia
inesistente.
A pochi giorni dalla
rivolta
Se ordine e pace oggi
s'incontrano in Somalia, questi
sono l'ordine e la pace che solo
una violenta repressione può
imporre; e sotto la superficie
consunta della verità ufficiale,
traspare un Paese a pochi giorni
dalla rivolta generalizzata.
Barre mi ha accusato di "aver
raccolto per strada" le
informazioni del reportage
pubblicato in queste settimane
da La Stampa. Ha ragione, e
questa raccolta non è stata
facile: la gente ha paura, sente
dappertutto orecchie indiscrete,
vede gli spioni che seguono il
giornalista. Immagina anche più
di quello che poi in realtà c'è.
Il terrore diventa un cerchio
infernale che chiude in un'unica
stretta società e regime. La
strage dello stadio, un mese fa,
ne è la tragica verifica. Su
quel venerdì di sangue Barre
continua a raccontare la sua
versione dei 7 morti
incidentali, io ho potuto
"raccogliere per strada" la
verità che lui tace; è la prima
ricostruzione che sia stato
possibile fare, ma per vincere
il muro impaurito delle bocche
cucite e avere testimonianze
oculari inoppugnabili, ho dovuto
contattare quasi 150 persone,
tutti spettatori allo stadio.
Tutti si tiravano indietro. In
tre soltanto, su 149, alla fine
hanno accettato di parlare, e in
clandestinità e con ogni
garanzia di anonimato. Quello
che mi hanno detto conferma che
i morti dello stadio sono il
prodotto della disperata
condizione di violenza che è
ormai la natura di questo regime
alla fine. Il terrore cieco
dell'autodifesa, e la paura
perfino delle proprie ombre,
hanno infatti trascinato i
pretoriani di Siad Barre a
sparare contro gente inerme e
schiacciata dal panico, in un
massacro senza motivazioni, una
sorta di agghiacciante tiro al
bersaglio per il timore che
qualcuno avesse attentato contro
il presidente. La folla degli
spettatori che, vicino al
cancello 8, premeva addosso a un
Basco Rosso e lo spingeva e lo
strattonava per impedirgli di
arrestare un ragazzo con un
misterioso ordigno in mano (poi
si scoprì che era un walkman), è
diventata in quel pomeriggio la
massa simbolica dei Nemici che
assaltavano il Potere: e il
soldato ha sparato, angosciato
dai fantasmi.
E sulla gente fuoco a volontà
Mossi dall'ossessione
contagiosa di un regime
assediato, allora tutti gli
altri soldati hanno preso anche
loro a tirare contro qualsiasi
cosa in movimento sulle
gradinate. Alla prima scarica
dei Baschi Rossi che avevano
visto partire il colpo dalla
tribuna che sta sotto la torcia
olimpica, la gente ha cominciato
a scappare terrorizzata verso le
uscite, e l'altro centinaio di
pretoriani che stava all'esterno
dello stadio, con autoblindo e
mitragliatrici automontate, gli
sparava addosso, immaginando un
attentato. Siad Barre si è
buttato a terra, ricordando la
morte di Sadat, e ha corso per
qualche metro carponi, perdendo
anche gli occhiali neri. Poi il
ministro dello Sport e una
guardia del corpo lo hanno preso
sotto le ascelle e lo hanno
portato via dalla tribuna.
Mentre tutti urlavano
schiacciandosi e spingendosi
verso le uscite, e mentre i
Baschi Rossi sparavano
all'impazzata per proteggere il
loro presidente, Barre usciva
dalla scalinata principale,
inciampava due volte nei corpi
dei morti che stavano già sul
terreno, e alla fine veniva
infilato dentro un'autoblindo
che partiva a razzo,
accompagnata dalle raffiche
delle Pkm che tagliavano
braccia, gambe, i corpi dei
disgraziati che non riuscivano a
buttarsi a terra. "Laaya
kufaarta", Ammazzate questi
bastardi, gridava Barre mentre
veniva spinto nell'autoblindo, e
nemmeno lui, evidentemente,
aveva ancora capito che cosa
stesse accadendo. La sparatoria
è continuata per venti lunghi
minuti, mentre le auto dei
dignitari e le autoblindo
sgommavano via passando sui
corpi stesi, travolgendo chi
scappava, continuando la loro
corsa cieca anche sulla strada
fuori dalla cinta dello stadio
(un vecchio con un bastone e la
figlia che l'accompagnava sono
morti così, urtati e schiacciati
poi dal corteo delle auto in
fuga). Due dei miei tre
testimoni oculari - che erano
vicini alle porte n. 4 e n. 8 -
quando l'altro giorno mi
raccontavano questo pomeriggio
di un mese fa sono scoppiati
ancora in lacrime, a ricordare
tutti quei corpi per terra, le
urla, il sangue, le raffiche
senza fine.
Sepolti dalle ruspe
La verità ufficiale di
Barre ignora tutto questo, e
costa un'espulsione a chi non se
ne accontenta. Ma prima di esser
cacciato via dalla Somalia stavo
lavorando su un altro aspetto
ancora di questa strage: le
fosse comuni. A Mogadiscio "ho
raccolto per strada" molte voci
sull'interramento clandestino
dei morti dello stadio, più di
150 cadaveri sepolti da ruspe
militari presso Gezira, forse
anche presso Afgoi; la mia
ricerca di fonti certe e
inattaccabili, come per la
sparatoria, era già a buon punto
quando sono stato mandato via,
ma per la partenza improvvisa
non ho potuto completare
l'inchiesta. Quindi ora non è
possibile accusare Barre anche
di questo crimine. A Mogadiscio,
nei giorni scorsi, avevo chiesto
di intervistarlo e mi avevano
fatto presentare per scritto le
domande che intendevo fargli;
erano 12 domande, non vi si
parlava ancora delle fosse
perché ci stavo investigando. A
questo punto, ne vorrei
aggiungere una: il presidente è
a conoscenza di una fossa comune
per i morti dello stadio ?
Intende svolgere un'indagine e
comunicarne pubblicamente il
risultato ? Ma io non ho
l'impazienza che oggi invece
mostra la gente della Somalia.
"È tutto un Paese che sta per
sollevarsi contro il regime", mi
dice il generale Mohammad Abshir
Mussa. Il generale ha 70 anni, è
un vecchio diritto e fiero,
tutto ossa, con una chiostra
bianca di denti e un gran
sorriso aperto. "Io sono rimasto
un carabiniere" mi dice, e
sembra parlare della leggenda
del suo corso alla scuola
allievi di Firenze. Era compagno
di Barre, s'è fatto 12 anni di
galera per non aver voluto
appoggiare il golpe del '69; ora
guida il cartello di tutte le
opposizioni, raccolte nei
programmi politici del Manifesto
n. 1. "Noi non siamo contro
Barre personalmente, siamo
contro il regime. Ma se l'Italia
aiuta Barre, l'Italia allora
aiuta il regime", dice il
generale Abshir in un ufficetto
pieno d'ombra e di gente che
dice di sì con la testa; e tutti
mi guardano con riprovazione,
perché sono italiano e sto dando
una mano a Barre. Tento di
spiegare che forse non è così,
che se l'Italia tiene ancora un
filo col dittatore conserva
anche la possibilità di premere
su di lui, di influenzarlo. Ma
loro, nell'ombra quieta
dell'ufficetto vuoto, tutti in
piedi, tutti asciutti, tutti
severi e uguali, scuotono la
testa. Dicono di no. In realtà
sanno che già siamo alla resa
dei conti. La conferma l'ho
avuta in questi giorni di
Somalia incontrando, in una
località che non posso dire, e
in un giorno che non posso dire,
una specie di Mazzini somalo.
Questo Mazzini nero sono in
realtà tre persone, tre leaders
del Manifesto mandati a nome di
tutta l'opposizione a pacificare
le tribù ostili e preparare
l'attacco unitario contro il
potere: Ali Mahdi, Mali Haji
Imam, e Munin Omar, hanno
viaggiato per 2 mesi dentro la
Somalia in guerra, rimontando la
jungla e le savane fino al Mudug
e al Nugaal, hanno incontrato
ogni tribù, si sono seduti con i
capi sotto l'ombra spinosa delle
acacie e hanno parlato e
spiegato. "E la pace è stata
fatta", mi ha detto questo
Mazzini triumvirale. L'assalto a
Villa Somalia allora è prossime,
imminente; forse la risposta
sulle fosse comuni arriverà da
altri, e non dal presidente
Barre.
18 agosto 1990
Fonte: La Stampa (Fonte
Fotografie Stadio:
Wikipedia.org)
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