La storia di Augusto
Morganti: un secolo fa nella sua
Viareggio
fu il primo caduto nella
storia della violenza nel calcio
italiano
di Stefano Massa
Il 2 maggio 1920 si
giocò l’incontro di ritorno
della Semifinale del trofeo
messo in palio dal Comitato
Regionale Toscano tra il
Viareggio e la Lucchese dove fu
ucciso il guardialinee.
Domenica 13 maggio 1990 (la
domenica precedente l’HDZ, la
Comunità Democratica Croata,
partito nazionalista, di Franjo
Tudzman, aveva vinto il secondo
turno delle elezioni nella
Croazia, uno degli stati della
federazione comunista jugoslava)
allo "Stadion Maksimir" di
Zagabria il big match della
penultima giornata del
Campionato Jugoslavo 1989/1990
tra la locale Dinamo e la Stella
Rossa di Belgrado
(rispettivamente seconda e
matematicamente campione
nazionale e nella successiva
stagione vincitrice della Coppa
dei Campioni) non ebbe mai
inizio per gli scontri tra le
opposte tifoserie e per quelli
della polizia, etnicamente ed
ideologicamente filoserba, con i
calciatori e i tifosi della
squadra che giocava in casa:
tale avvenimento fu l’emblema
della fine della Jugoslavia e il
preludio della guerra
d’indipendenza croata. Tra il
giugno e il luglio di ventuno
anni prima si era passati dalle
semifinali del raggruppamento
dell’America
Centro-Settentrionale per la
Coppa Rimet 1970 (con spareggio
giovedì 26 giugno all’"Estadio
Azteca" di Città del Messico
vinto per 3-2 dopo i tempi
supplementari da El Salvador,
poi qualificatosi,
sull’Honduras) a quella che il
celebre giornalista polacco
Ryszard Kapuscinski chiamò "la
guerra del football": prima del
retour-match di domenica 15
giugno all’"Estadio de la Fior
Blanca" di San Salvador venne
lapidato il giovane
accompagnatore salvadoregno
della nazionale honduregna, due
tifosi della quale lo avrebbero
di lì a poco seguito allo stadio
nel tragico destino di morte; il
conflitto tra le due nazioni,
svoltosi dal 14 al 18 luglio,
produsse circa seimila morti
(duemila soldati e tremila
cittadini dell’Honduras e cento
soldati e seicento civili di El
Salvador).
Il fatto che avvenne a Viareggio
all’inizio di maggio del 1920
anticipò, per fortuna - se così
si può dire - "in scala ridotta"
(si registrò un unico morto, il
viareggino Augusto Morganti, che
è il primo collegato alla
violenza nel calcio italiano,
domenica 2 e la città versiliese
fu sotto il controllo dei
dimostranti fino alla mattina di
mercoledì 5) quanto sarebbe
avvenuto durante gli eventi
soprammenzionati in letali
cocktails di calcio e politica.
Era in programma in quel
famigerato 2 maggio 1920
l’incontro di ritorno della
Semifinale del trofeo messo in
palio dal Comitato Regionale
Toscano tra lo Sporting Club
Viareggio e l’Unione Sportiva
Lucchese (la formazione
rossonera, vincitrice per 2-1
nell’incontro di andata,
arbitrato da Morganti, disputato
tre settimane prima, avrebbe poi
conquistato la "coppa
insanguinata", sconfiggendo
nelle finali 3-0 in casa
domenica 27 giugno e 1-0 in
trasferta domenica 4 luglio il
Prato). Andati al riposo con uno
0-2 al passivo, i lucchesi, che
schieravano tra le loro fila due
attaccanti (entrambi esordienti
con la Nazionale Italiana
nell’incontro pareggiato 1-1 a
Ginevra contro i rossocrociati
domenica 6 novembre 1921) del
calibro di Ernesto Bonino II e
Giovanni "Johnny" Moscardini (il
primo giocatore della Nazionale
Italiana, per la quale in nove
presenze segnò sette reti, nato
oltre i confini patri, essendo
venuto al mondo nel 1897 a
Falkirk, in Scozia, da due
emigranti di Barga ed uno dei
quattro "aggregati" alla tournée
del Genoa in Argentina ed
Uruguay dell’estate 1923),
reagirono, riuscendo a
riportarsi in parità con una
rete a una decina di minuti dal
termine su una punizione dal
limite dell’area di rigore
concessa - secondo i viareggini
in maniera ingiusta -
dall’arbitro dell’accesa sfida,
il quale, come spesso accadeva,
non era quello designato (che si
era guardato bene dal
presentarsi a dirigere una
partita, prima della disputa
della quale il Comitato
Regionale Toscano si era
premurato di emanare un
comunicato per dissuadere i
sostenitori della Lucchese a
seguirla a Viareggio, visti i
tumulti registratisi nella
partita di domenica 11 aprile),
ma un suo sostituto dell’ultimo
minuto, il ten. Mario Rossini,
socio del sodalizio lucchese.
Mercoledì 19 giugno 1968 la Rai
trasmise nella sua rubrica
"Almanacco" un lungo filmato
(visibile su internet) sui fatti
di quarantotto anni prima a
Viareggio, in cui intervistò gli
ormai attempati Paolo Guidi ed
Elisio Barsanti (il quale aveva
un fratello tra i compagni di
squadre ed era probabilmente
imparentato con quel Giorgio
Barsanti, viareggino della
classe 1919, passato alla storia
del Derby della Lanterna come il
primo ex in assoluto, avendo
militato tra le fila rossoblù
nel 1937/1938), che in quel
Viareggio, che stava portando a
termine la sua prima stagione
agonistica, svolgevano le due
funzioni topiche di estremo
difensore e di "bomber".
Barsanti dichiarò: "Al secondo
goal della Lucchese ci furono
(sic!; fu) un sacco di fischi
dei tifosi (viareggini), perché
non parve regolare; allora (da)
un giocatore della Lucchese
venne fatta una mossa (di
scherno) al pubblico (di casa)
non troppo corretta, al che il
Morganti, che era guardalinee,
lo riprese così con la
bandierina (mimando il gesto
della percossa), più che altro
uno stecco di bandiera; beh,
insomma, bastò quello perché si
accendessero discussioni e (poi)
successe quel che successe".
Laconicamente Guidi confermò il
racconto dell’ex compagno di
squadra, affermando: "La
scintilla (per lo scoppio degli
incidenti) fu quella lì !".
Vista la situazione da Far West
che si era creata, l’arbitro, il
cui operato era stato
apertamente contestato da
Morganti, guardalinee di parte
viareggina (lato sensu…),
fischiò la fine dell’incontro
con un paio di minuti d’anticipo
(a seguito di un’animata
discussione tra un giocatore
della Lucchese e Morganti, che
ne aveva segnalato una
scorrettezza, contribuendo ad
accendere ulteriormente gli
animi degli spettatori) e,
mentre il terreno di gioco
veniva invaso dai tifosi locali
inferociti con le forze
dell’ordine (rappresentate da
poco più di una decina di
persone, tra agenti e
carabinieri) incapaci di tenerli
a bada, il direttore di gara e i
calciatori ospiti vennero
scortati negli spogliatoi dai
dirigenti viareggini, che misero
a loro disposizione tre
autovetture per farli tornare
incolumi a Lucca, evitando loro
di rischiare agguati nel
tragitto verso la stazione
ferroviaria e all’interno di
essa. Un carabiniere che era
riuscito a fuggire dalle
aggressioni dei tifosi locali,
che avevano disarmato i tutori
dell’ordine, andò a chiamare
rinforzi in caserma: i sette
agenti, guidati dal maresciallo
Taddei, contribuirono a
riportare un po’ di calma
nell’impianto sportivo di Villa
Rigutti con gli spettatori che,
ancorché alterati,
progressivamente sciamavano
verso le proprie abitazioni. Il
carabiniere Natale De Carli, che
probabilmente aveva perso la
serenità che deve caratterizzare
anche nelle situazioni più
difficili il comportamento di un
rappresentante delle forze
dell’ordine, pensò male di non
riporre nella fondina la pistola
d’ordinanza, ma di esibirla agli
ormai pochi astanti per
invitarli a disperdersi, andando
sciaguratamente a farne sentire
materialmente la presenza a una
spalla di Morganti: dopo averla
toccata con la canna per due-tre
volte, partì il colpo di pistola
che, fracassandogli la mascella,
nel giro di pochi minuti pose
fine alla vita del membro delle
locali sezione del Partito
Popolare Italiano e "Guardie
Bianche".
"La Gazzetta dello Sport" di
lunedì 3 maggio 1920, sulla
scorta di frammentarie notizie
provenienti da Viareggio, riferì
che il carabiniere era stato
colpito da una pietra alla testa
mentre sparava in aria per
disperdere la folla al termine
della partita e che, nonostante
un’accesa discussione avuta con
Morganti, erroneamente
identificato come arbitro
dell’incontro, il suo gesto
fosse completamente
involontario, ma successivamente
corresse tale versione sulla
base sia di nuove informazioni
sia della ricostruzione fatta
dal Comitato Regionale Toscano,
"sposando" la tesi dell’omicidio
politico, ma, vista la
"colorazione" della fede
politica (collegata a quella
religiosa, visto che era un
fervente cattolico) dell’ucciso,
non particolarmente invisa ai
carabinieri, si può dire che la
politicizzazione della vicenda
iniziò dall’omicidio, diventando
uno degli episodi più
significativi del cosiddetto
"Biennio Rosso", e non ne fu
causa. Richiamata dalle urla
dalle finestre delle donne, la
folla cittadina invase le strade
viareggine e, al grido di "Fare
come in Russia !", tentò di
appiccare un incendio alla
caserma dei carabinieri,
chiedendo, senza ottenerlo, che
le fosse consegnato l’omicida;
assaltò, senza incontrare
resistenza, la caserma del 32°
Battaglione di Artiglieria;
bloccò i trams; costrinse alla
chiusura i negozi quel giorno
aperti e saccheggiò quello di
armi del sig. Morandi, obbligato
a consegnare ai rivoltosi circa
cento fucili (ai quali se ne
aggiunse una trentina trafugata
al Balipedio della Regia Marina
Italiana) con adeguate
munizioni; impose ai
carabinieri, che chiesero
rinforzi a Lucca e a
Pietrasanta, di abbandonare la
città, nella quale vennero
innalzate delle barricate e
vennero fermati i treni della
linea costiera Genova-Pisa, che
non poterono andare né a nord né
a sud (il "Guerin Sportivo" di
sabato 15 maggio 1920 riferì che
il difensore del Torino
Francesco Morando II, di ritorno
dal Dodecaneso, dove aveva
prestato servizio militare
durante e dopo la Grande Guerra,
era stato costretto a scendere
dal treno su cui viaggiava alla
stazione di Viareggio e vi aveva
dovuto trascorrere obtorto collo
due intere giornate), con i
ferrovieri minacciati di morte
se non avessero arrestato i
convogli (quando si poté,
vennero fatti transitare per
Parma) e la stazione presidiata
da un centinaio di rivoltosi.
Chiamato in città dalla Camera
del Lavoro, a maggioranza
anarchica, il deputato
socialista massimalista (e
comunista dal 1921 dopo la
scissione del Congresso di
Livorno), avv. on. Luigi
Salvatori, che era il maggior
esponente politico cittadino e
si trovava in Garfagnana per un
comizio che aveva tenuto nel
pomeriggio, si assunse, pur
disapprovando il carattere
improvvisato della rivolta,
l’onere di guidare la città
della Versilia, facendosela
consegnare dal commissario
prefettizio che aveva preso il
posto della giunta comunale in
una vacanza di potere e
proclamando uno sciopero
generale ad oltranza. Il
commissario prefettizio "fece
buon viso a cattivo gioco", ma
prima di lasciare il Palazzo del
Comune informò degli eventi la
Prefettura di Lucca e il Governo
Italiano, all’epoca presieduto
dall’on. Francesco Saverio
"Cagoia" (impietoso soprannome
di matrice dannunziana) Nitti.
La cosiddetta "Repubblica di
Viareggio", in cui la bandiera
rossa del socialismo sventolò a
fianco di quella nera
dell’anarchismo, fu, in pratica,
anche se per pochi giorni,
l’unica esperienza in una città
italiana della classe operaia
capace di prendere il potere e
gestirlo in completa autonomia
attraverso proprie istituzioni
(il Comitato Permanente
Rivoluzionario e le "Guardie
Rosse") e non solamente di
prendere possesso di fabbriche.
Trovandosi in zona, anche un
altro deputato socialista
massimalista, l’on. Policarpo
Scarabello, giunse in città,
rischiando, però, di essere
ferito a morte al suo arrivo
alla stazione ferroviaria da dei
colpi di fucile (la sua vita si
sarebbe prolungata ancora di sei
mesi, essendosi tragicamente
conclusa, a soli trentasette
anni d’età, mercoledì 4 novembre
per l’esplosione di una bomba a
mano nei locali del Comune di
Verona - che gli avrebbe
dedicato una via nel 1979 -
assediato dai fascisti).
Dal mattino seguente si capì che
la rivolta, non godendo degli
invocati supporti esterni, non
aveva futuro, anche perché su
Viareggio convennero truppe
dell’esercito ed una nave
militare mossasi da La Spezia,
sicché Salvatori trattò la resa,
ai funerali di Morganti (che si
svolsero con grandissimo
concorso di folla nel pomeriggio
di martedì 4) avvenuti,
ottenendo dal Governo Italiano
la promessa, poi non disattesa,
di pene miti per i rivoltosi,
che non avevano ammazzato
nessuno, ma solamente ferito un
tenente dei carabinieri e due di
artiglieria (ci fu, invece,
mentre a Viareggio si
celebravano i funerali di
Morganti, un secondo morto,
Flaminio Mazzantini, che venne
ucciso in una manifestazione di
solidarietà con la rivolta
versiliana tenutasi a Livorno, e
il cui feretro venne seguito da
circa sessantamila persone !).
Dopo che giovedì 12
maggio era stato fatto divieto
dalla F.I.G.C. alle squadre
toscane di affrontare il
Viareggio, giunse, vista
l’elezione a presidente federale
dell’ing. Francesco Mauro,
l’amnistia per la società
versiliana, che poté affrontare
e sconfiggere 3-1 il Club
Sportivo Firenze a Villa Rigutti
in un’amichevole disputatasi
domenica 11 agosto 1920. Ad onta
del rapporto dell’Ispettore
Generale di Pubblica Sicurezza,
Gaudino ("Trattasi di episodio
isolato senza conflitto fra
popolazione e carabinieri e
rimane esclusa (sic !; rimangono
escluse) provocazione e
legittima difesa"), De Carli
venne assolto dal Tribunale
Militare di Firenze giovedì 13
ottobre 1920 con la motivazione
che l’omicidio da lui commesso
era stato determinato dalla
legittima difesa e delle spese
processuali per la sua difesa si
fece carico il Ministero
dell’Interno; i ventuno
processati con accuse di minacce
a pubblici ufficiali,
danneggiamento, violenza,
tentato omicidio, istigazione a
delinquere, porto abusivo di
armi da fuoco, insurrezione
contro i poteri dello Stato,
costituzione di banda armata
subirono con la sentenza di
sabato 19 marzo 1921 pene non
particolarmente pesanti, la più
severa - aggravata dal suo
tentativo di fuga - delle quali
(ventidue mesi di reclusione)
colpì Enrico "il Puccetto"
Foschi.
Nota del redattore: per scrivere
questo articolo, che va a
ripercorrere una pagina poco
ricordata della storia d’Italia
più ancora che dello sport
nazionale (o, se si preferisce,
regionale, con riferimento alla
Toscana), mi sono servito degli
articoli pubblicati all’epoca
dal quotidiano milanese "La
Gazzetta dello Sport" e dal
settimanale torinese "Il Guerin
Sportivo" e, soprattutto, degli
interventi reperibili su
internet dello storico
viareggino Andrea Genovali, che
ha dedicato e continua a
dedicare moltissime energie alla
ricostruzione di quegli eventi
con molte pubblicazioni (per
ricordarne una: "FARE COME IN
RUSSIA" La Repubblica
viareggina: i disordini nel
derby con la Lucchese e
l’insurrezione del 1920: una
storia del "biennio rosso", Red
Star Press Editore, Roma, 2018)
ed iniziative (le Giornate del
Maggio Viareggino, a partire dal
2016, e la richiesta, votata
all’unanimità dal Consiglio
Comunale di Viareggio, di
sostituire il nome di Piazza del
Mercato Vecchio con Largo 2
Maggio 1920) e anche progetti
cinematografici (un film di
finzione ed uno documentaristico
diretti da Gualtiero Lami).
2 Maggio 2020
Fonte:
Pianetagenoa1893.net
© Fotografie: Pianetagenoa1893.net
- Carabinieri.it -
Lagazzettadiviareggio.it
Viareggio-Lucchese,
molto di più di una partita di
calcio
di Paolo Bruschi
Il 2 maggio 1920, i
tafferugli che seguirono il
sentito derby toscano
innescarono la rivolta popolare
che si inserì nei disordini del
"biennio rosso".
I movimenti operai e socialisti
sono sorti fra il XIX e il XX
secolo, contemporaneamente
all'emergere e all'affermarsi
dello sport moderno, che dalla
Gran Bretagna si diffuse al
resto del pianeta. La
coincidenza non è casuale, dato
che erano, gli uni e l'altro,
sviluppi coerenti della cultura
che si era imposta dalla metà
dell'Ottocento, con l'avvento
del liberalismo, il pieno
dispiegarsi della rivoluzione
industriale e l'insorgenza della
borghesia quale classe dominante
a livello economico e politico.
Per quanto i diversi filoni
della sinistra abbiano espresso
valutazioni articolate sullo
sport e sulla sua rilevanza
politica e sociale, in principio
- e molto a lungo rispetto a
correnti politiche di diversa
estrazione - la visione
progressista delle nuove
attività ludico-atletiche era
contraddistinta da un profondo
sospetto, quando non da un
aperta avversione
"antisportista": i socialisti
ritenevano che lo sport
rappresentasse una pratica
borghese, un diversivo rispetto
alla lotta di classe, una
pratica caratterizzata da
aspetti alienanti e competitivi
propri del capitalismo, e come
tale da rigettare in toto,
perché d'ostacolo alla piena e
consapevole espressione
dell'antagonismo di classe e
dell'impegno sociale di
militanti e simpatizzanti: dei
costumi moderni, in cui vanno
annoverati anche gli spettacoli,
i divertimenti familiari e
conviviali, bollati
sprezzantemente come "oppio dei
popoli", i partiti socialisti
diffidavano alquanto e cessarono
di criticarli solo allorché
riuscirono a canalizzarli - a
scopo "pedagogico" - nei propri
circuiti organizzativi. Un
esempio precoce della
commistione fra calcio e
politica rimanda a una
dimenticata partita fra Sporting
Club Viareggio e Lucchese, pochi
mesi prima della scissione fra
riformisti e rivoluzionari che
al congresso di Livorno del 1921
diede i natali al Partito
comunista d'Italia. Si trattava
della gara di ritorno di una
coppa regionale, dopo che
all'andata i viareggini si erano
lamentati di un'accoglienza non
proprio improntata al fair-play
da parte della tifoseria
lucchese. Anche durante
quell'epoca pionieristica,
quando i calciatori erano
studenti, bagnini, impiegati o
artigiani, e le masse stavano
ancora familiarizzando con uno
sport relativamente
misconosciuto (il Viareggio era
stato fondato nel 1919), il
derby era uno scontro
sentitissimo, in cui si
concentravano ben altre ragioni
di contrasto. Lucca aveva una
vocazione commerciale, che
rifletteva un'immagine di
benessere e agiatezza. I
viareggini invece erano portuali
e piccoli artigiani legati alla
cantieristica, colpiti duramente
dagli strascichi della Prima
guerra mondiale, che aveva fatto
esplodere il carovita, dimezzato
la flotta mercantile e acuito la
disoccupazione, peggiorata anche
dalla decisione della provincia
di trascurare lo scalo
versiliese a beneficio di quello
di Livorno. Alle fondate ragioni
di disagio del proletariato
costiero, si aggiunsero il
fascino e l'attrazione suscitate
dalla vittoriosa rivoluzione
bolscevica, che aveva portato al
potere nell'immenso ex regno
zarista i soviet operai e
contadini. Nell'estate del 1919,
mentre già le spiagge erano
affollate dal bel mondo che poco
si curava delle acute traversie
del popolo, la Camera del Lavoro
a maggioranza anarchica e
socialista indisse uno sciopero
generale e provvide alle
requisizioni dei generi
alimentari, organizzandone la
vendita a prezzi calmierati. La
proclamazione delle repubbliche
socialiste in Germania e in
Ungheria alimentò lo spirito
combattivo dei militanti
socialisti, che si schierarono
simbolicamente a fianco degli
operai tedeschi e magiari. Il
governo Nitti rispose con
l'invio dell'esercito: la città
fu blindata, non si usciva, né
si entrava. Alle forze
dell'ordine si affiancarono le
"guardie bianche" costituite
dagli allarmati ceti borghesi,
che esigevano che agli
scioperanti venissero tolte le
tessere annonarie. Ma lo spirito
combattivo dei dimostranti non
si placò e, all'inizio del 1920,
gli operai occuparono i cantieri
Ansaldo, cercando di sostituirsi
alla direzione nella gestione
della fabbrica. Questo era
dunque il clima sociale,
ulteriormente infiammato dalla
ricorrenza del 1° maggio, resa
memorabile dal comizio della
poetessa e anarchica milanese
Virginia D'Andrea, che chiamò
alla ribellione contro i
padroni, lasciando sbigottiti
tutti quanti, che mai si era
vista una donna arringare una
folla di proletari. L'indomani,
ebbe luogo la gara.
I padroni di casa, costretti a
recuperare l'1-2 del primo
incontro, partirono all'attacco
e chiusero i primi 45 minuti di
gioco con il doppio vantaggio.
Nella ripresa, subirono però il
ritorno degli ospiti, che
impattarono sul 2-2. Prima del
novantesimo, una contestata
decisione arbitrale sfociò in
un'invasione di campo, nella
fine anticipata dell'incontro e
in una precipitosa fuga dei
lucchesi, peraltro agevolata
dalla dirigenza viareggina.
Informati da uno dei colleghi
che aveva assistito
all'invasione, i carabinieri
arrivarono sul posto quando la
calca si era già dispersa. Solo
pochi capannelli si erano
attardati a discutere, senza
particolare animosità. Verso uno
di questi si diresse il
carabiniere Natale De Carli,
intimando agli uomini di
disperdersi. Fra questi era
Augusto Morganti, orgoglioso
tenente dei bersaglieri, amato e
benvoluto da tutti in città, che
durante la partita aveva agito
da guardalinee. De Carli batté
un paio di volte la pistola
sulla spalla di Morganti, un
colpo partì trapassando la
mascella dell'ex ufficiale, che
perì sulla via per l'ospedale.
Fu il segnale della rivolta:
"fare come in Russia" divenne la
parola d'ordine. Furono raccolte
armi, assaltata la caserma,
erette barricate, interrotte le
vie di comunicazione, chiusi i
pubblici esercizi. Mentre
affluivano in città un
contingente militare e i
rinforzi spediti dal Ministero
dell'Interno, la Camera del
Lavoro prese in mano le redini
dell'insurrezione e, con la
mediazione dell'avvocato e
parlamentare socialista Luigi
Salvatori, intavolò una
trattativa con le autorità
civili e militari. Pur sotto la
minaccia di un bombardamento dal
mare e di un bagno di sangue,
Salvatori riuscì a far prevalere
una soluzione conciliatoria: i
rivoltosi avrebbero
"riconsegnato" la città dopo il
funerale di Morganti, nella
giornata del 5 maggio, in cambio
i tribunali avrebbero avuto la
mano leggera con i capi della
rivolta. E così avvenne. Il solo
caso di una città italiana
occupata e gestita in modo
incruento dai militanti operai
durante il "biennio rosso" si
meritò un trafiletto sul New
York Times di quei giorni,
qualche articolo sulla stampa
nazionale e poi finì nell'oblio,
senza incidere sui successivi
sviluppi dei movimenti
socialista e comunista, né come
spunto di elaborazione
concettuale, né tantomeno come
prassi d'azione. Sul versante
sportivo, la storia si concluse
senza la squalifica del campo di
Villa Rigutti ma con un bando
triennale alle stracittadine fra
Viareggio e Lucchese, che invece
furono invitate a giocare
un'amichevole di
riappacificazione poco più di un
anno dopo.
2 maggio 2019
Fonte: Gonews.it
© Fotografie:
Comune.viareggio.lu.it
Maggio 1920: le
"giornate rosse", cronaca di una
rivoluzione impossibile
di Paolo Fornaciari
Nel
maggio del 1920, Viareggio visse
un’avventura drammatica ed
esaltante. L’uccisione di
Augusto Morganti da parte di un
carabiniere, in seguito agli
incidenti che si verificarono al
termine di una partita di
calcio, disputata tra la
rappresentativa viareggina e
quella lucchese sul terreno di
gioco di Villa Rigutti, fu la
scintilla di una spontanea e
violenta rivolta popolare contro
le istituzioni. Per tre giorni,
dal 2 al 4 maggio, estromessa
ogni forma di autorità,
Viareggio fu isolata dal resto
del territorio, e mentre sul
palazzo del Municipio sventolava
il nero vessillo dell’anarchia,
improvvisate "guardie rosse" si
opponevano dietro precarie
barricate allo Stato che,
mobilitati esercito e marina,
cingeva in assedio la città
facendo sfoggio di forza, ma
anche dimostrando incertezze
decisionali ed incapacità di
azione. Per meglio comprendere
il clima in cui si verificò
questo drammatico "incidente",
che fu poi la scintilla che
dette origine alle cosiddette
"giornate rosse", è utile
conoscere alcuni importanti
antefatti. Il giorno 11 aprile,
Lucca ospitò lo Sporting Club di
Viareggio per la gara di andata
tra le due squadre di calcio. In
quella circostanza ai viareggini
fu riservata un’accoglienza
ostile e violenta e sembra che
la tifoseria bianconera avesse
promesso di rendere la pariglia
ai lucchesi, in occasione
dell’atteso match di ritorno. La
cosa preoccupò i dirigenti della
squadra lucchese che si
rivolsero al Comitato regionale
toscano di calcio il quale
invitò i lucchesi a non
accompagnare la propria squadra
a Viareggio, per evitare
incidenti tra le opposte
tifoserie. Così, il 2 maggio,
l’Unione Sportiva Lucchese si
presentò a Viareggio seguita
solo da un esiguo numero di
sostenitori. A dirigere questa
partita, che aveva tutte le
premesse per essere considerata
potenzialmente "a rischio", fu
incaricato l’arbitro lucchese
Rossini, mentre svolse le
funzioni di guardalinee il
viareggino Augusto Morganti, ex
ufficiale di complemento in
congedo. Le tensioni che avevano
caratterizzato la vigilia
dell’incontro non si attenuarono
con il fischio di inizio della
partita e i numerosi spettatori,
quasi tutti sostenitori della
formazione locale, seguirono,
con esasperata passione, il
match disputato con intenso
agonismo, caratterizzato da un
gioco troppo rude e dal
risultato sempre incerto. Il
primo tempo si chiuse con la
formazione locale in vantaggio
di due reti, poi nella ripresa
la Lucchese riuscì a recuperare,
terminando la gara in pareggio.
A giudizio dei tifosi locali
questo risultato fu ottenuto
anche grazie ad alcune decisioni
arbitrali abbastanza "sospette"
ed aspramente contestate. A
pochi minuti dal termine della
partita, il Morganti segnalò un
fallo commesso dal giocatore
della Lucchese Bonino, che per
tutta risposta offese malamente
il guardalinee. Mentre fra i due
si accendeva un animato
diverbio, l’arbitro decretò la
fine della gara a tempo non
ancora completamente scaduto e
mentre la Lucchese sembrava
subire il gioco dei viareggini,
che non avevano mai cessato di
sperare di vincere l’incontro.
Questa decisione non piacque al
Morganti che protestò
energicamente nei confronti del
direttore di gara, mentre nel
campo i giocatori delle due
squadre vennero alle mani. Lo
spettacolo che si consumava in
campo infiammò gli animi del
numeroso pubblico, tanto che
circa quattrocento spettatori si
riversarono nel rettangolo di
gioco dando origine ad una
colossale rissa, con scambio di
pugni ed anche di bastonate. Per
cercare di ristabilire l’ordine
intervennero il Commissario di
P.S. dottor Martorelli, con
alcuni agenti, ed il tenente dei
carabinieri Dogliotti, con sette
militari, che, a fatica,
riuscirono a portare all’interno
di Villa Rigutti i giocatori
della Lucchese con il loro
esiguo seguito, trattenendo la
folla infuriata fuori del
cancello della villa. La notizia
dell’accaduto volò di bocca in
bocca, cambiando ogni volta
versione ed assumendo sempre più
vaste proporzioni, tanto che
alla caserma dei carabinieri
giunse voce che il tenente
Dogliotti era stato percosso e
che la folla stava per
sopraffare la forza pubblica.
Allora il maresciallo Taddei,
con i sette militari ancora
presenti in caserma, si
precipitò al "campo del Puosi",
dove si era disputata la
partita. Percorsa la via Fratti
si trovarono di fronte la folla
minacciosa che assediava la
villa e che accolse il loro
arrivo con urla e fischi. Il
maresciallo fece disporre i suoi
uomini in "linea di fronte" e
comandò di sgombrare l’ingresso
della villa per poter
raggiungere il tenente Dogliotti
e mettersi ai suoi ordini.
All’avanzare dei carabinieri, la
folla lentamente indietreggiò,
urlando nuove minacce nei
confronti dell’arbitro, dei
giocatori della Lucchese e della
forza pubblica, intervenuta in
loro difesa. Proprio quando
sembrava scongiurato il pericolo
di uno scontro tra i militari ed
i tifosi bianconeri, successe il
dramma. Un colpo esploso dalla
rivoltella del carabiniere
Natale De Carli raggiunse al
volto, quasi a bruciapelo, il
guardialinee Augusto Morganti,
ferendolo mortalmente.
L’improvviso sparo ebbe
l’effetto di disorientare la
folla che si sparpagliò in tutte
le direzioni in cerca di un
riparo per poi ritornare quasi
subito, ammutolita e sgomenta,
dove il Morganti era caduto,
senza vita, in un lago di
sangue. Per un attimo nessuno
sembrò interessarsi più dei
carabinieri e dei giocatori
lucchesi asserragliati nella
villa. Tanto bastò al tenente
Dogliotti per riunire i suoi
uomini e per riportarli incolumi
in caserma. Anche i tifosi ed i
giocatori lucchesi ne
approfittarono per uscire dallo
spogliatoio e per allontanarsi
dal campo da una porticina posta
sul retro, e raggiungere a piedi
Massarosa. Intanto il Morganti
fu portato all’infermeria della
Croce Verde, in via Machiavelli,
con la carrozza di Fortunato
Summonti, detto "Pio Nono",
giungendovi ormai senza vita.
Gli avvenimenti che seguirono si
svolsero a ritmo frenetico,
sull’onda dell’eccitazione,
della commozione ma anche della
rabbia. La notizia della brutale
uccisione di Augusto Morganti
corse di bocca e in bocca e di
lì a poco una moltitudine di
persone, uomini e donne, prese
d’assedio la caserma dei
carabinieri reclamando la
consegna di chi aveva
sconsideratamente fatto fuoco.
Il tentativo di giustizia
sommaria fu sventato dalla
reazione energica dei
carabinieri, che esasperò
maggiormente gli animi dei
tumultuanti che si posero alla
ricerca di armi. Divisi in
gruppi si recarono nei locali
del Tiro a Segno,
dove
si impadronirono di tutti i
fucili che vi erano depositati,
successivamente irruppero nella
caserma del 32° Artiglieria,
adiacente alla Torre Matilde,
dove riuscirono a disarmare i
militari senza che questi
opponessero alcuna resistenza.
Poi, mentre veniva nuovamente e
con più violenza presa d’assalto
la caserma dei carabinieri,
gruppi di popolani armati, dopo
aver percorso le strade
cittadine, imponendo la chiusura
dei pubblici esercizi e
interrompendo la circolazione
dei tram, occuparono la stazione
ferroviaria bloccando il
transito dei treni e quindi
sbarrarono le principali vie
d’accesso con improvvisate
barricate per impedire
l’ingresso delle truppe, che
sarebbero state inviate di lì a
poco a Viareggio per ristabilire
l’ordine. Gino Sartori,
Commissario Regio che dal 27
ottobre 1919 amministrava il
Comune di Viareggio, appena fu
informato del tragico epilogo
dell’incontro di calcio e di
come era degenerata la
situazione informò il Prefetto
di Lucca che dispose l’immediato
invio di un primo contingente di
militari e richiese più
consistenti rinforzi al
Ministero dell’Interno. Nel
frattempo i rappresentanti della
Camera del Lavoro, dopo aver
dichiarato lo sciopero generale
ad oltranza, avevano preso in
mano le redini della rivolta ed
iniziato, con l’aiuto
dell’autorevole opera di
mediazione dell’on. Luigi
Salvatori, una difficile
trattativa con le autorità
politiche e militari dello Stato
per concordare le modalità di un
ritorno all’ordine senza il
ricorso all’uso della forza e
per scongiurare gravi
conseguenze per chi in qualche
modo aveva partecipato ai
disordini o comunque aveva
aderito alla protesta. L’eco di
quanto stava accadendo a
Viareggio giunse a Roma in modo
frammentato, in ritardo rispetto
al rapido evolversi degli
eventi, con una serie di
informazioni poco chiare e
comunque non sufficienti a
fornire un quadro preciso della
reale entità degli avvenimenti
in corso. La preoccupazione del
Governo fu comunque subito
grande, tanto da richiedere al
Prefetto e alle autorità
militari un’azione di "vigore e
di fermezza", ipotizzando anche
che dietro i fatti di Viareggio
potesse esservi una regia
occulta di origine straniera. Il
comportamento del Prefetto, che
invece di prendere decisioni
"ferme e vigorose" scelse la via
del dialogo con i rappresentanti
dei "rivoltosi" per un ritorno
alla normalità senza fare
ricorso all’uso della forza, fu
valutato negativamente. Con un
telegramma di poche righe Nitti,
Presidente del Consiglio sospese
dall’incarico il Prefetto, per
"l’incapacità dimostrata", e
passo tutti i poteri al generale
Nobili con l’ordine di
ristabilire immediatamente la
legalità. Per la cronistoria
dettagliata di quei giorni si
rimanda al "quaderno di storia e
cultura" "Le giornate rosse",
edito a cura del Centro
Documentario Storico. Anche se
la "rivoluzione" viareggina fu
un episodio circoscritto, gli
effetti che produsse varcarono i
confini locali ed interessarono
tutto il territorio nazionale.
La cronaca di quei giorni di
fuoco, mette in evidenza il
carattere spontaneo della
"rivoluzione" viareggina. Una
rivoluzione senza capi, che
divampò inizialmente spontanea,
assolutamente priva di regia e
di finalità eversive, ma
piuttosto come la forte risposta
di un popolo dallo spirito fiero
e libertario di fronte alla
violenza ingiustificata e ai
soprusi, e che si esaurì senza
un epilogo drammatico solo
grazie al ruolo responsabile e
all’opera di mediazione che
svolsero le associazioni
politiche e sindacali
viareggine, che davanti al fatto
compiuto seppero controllare il
concitato evolversi di
situazioni ed eventi, e che
ebbero nell’avvocato Luigi
Salvatori, deputato socialista,
il loro carismatico ed
autorevole rappresentante.
Ma torniamo alla cronaca di quei
giorni di fuoco. Alle ore 16 del
4 maggio, fu celebrato il
funerale di Augusto Morganti,
con la partecipazione di quasi
tutta la popolazione viareggina,
delle rappresentanze delle forze
politiche e sindacali e dei
gruppi anarchici appositamente
giunti in città da tutta la
Versilia, ma anche da Pisa e
Livorno. Poi, dopo le esequie
funebri, in un comizio tenuto
davanti al Municipio fu
comunicata la cessazione di ogni
agitazione e la decisione della
regolare ripresa del lavoro in
tutti i cantieri e le fabbriche.
Durante la notte i numerosi
anarchici che erano confluiti a
Viareggio abbandonarono la città
che fu occupata dalle prime ore
dell’alba da un ingente
quantitativo di truppe, nel
timore di nuovi disordini. Nei
giorni successivi le forze
dell’ordine furono impegnate
nella ricerca delle numerose
armi che i "rivoltosi" avevano
tolto ai militari, perquisendo
le abitazioni degli "individui
più temibili", scandagliando i
fondali delle darsene e del
canale, ma nonostante questa
operazione minuziosa e in larga
scala, dei quasi 100 fucili ne
furono recuperati solo 23.
Inoltre, tra l’8 e il 12 maggio
furono denunciati ed arrestati,
con gravi imputazioni (tentato
omicidio, resistenza e violenza,
formazione di banda armata)
quelli che furono ritenuti i
"maggiori responsabili" della
sommossa: Raffaello Fruzza,
Alfredo Santarlasci, Cesare
Corrieri, Guido Patalani, Maria
Anna Genovali, Rosa Bertelli
detta "Beghera", Guerrino
Fancelli, Uliano Albiani,
Lelio
Antinori, Gaspere e Pertinace
Summonti, Alessandro Bandoni,
Alfeo Pelliccia, Gino Gerard,
Giuseppe Di Ciolo, Giulio
Simonini, Margherita Pivot,
Michele Orlando e Romeo Biagini.
Nel corso dei vari gradi di
giudizio le responsabilità
penali dei vari imputati, quasi
tutti semplici popolani che non
ricoprivano ruoli importanti
all’interno di nessuna
organizzazione politica o
sindacale, furono notevolmente
ridimensionate. Dopo i
provvedimenti emessi dal
Tribunale di Lucca il 25
novembre 1920 e dopo le
decisioni della Corte di Appello
del marzo 1921, gli imputati
furono tutti assolti ad
eccezione di Bandoni, Pelliccia,
Gerad e Biagini, che furono
condannati per reati minori a
pene comprese fra 3 e 8 mesi,
anche questi rimessi in libertà
in quanto avevano già scontato
la pena in carcere in attesa di
giudizio. Per individuare le
responsabilità dei
rappresentanti delle autorità
politiche e militari, colpevoli,
con il loro comportamento troppo
remissivo, di non aver
"mantenuto alto il prestigio
dello Stato", furono avviate tre
inchieste: una promossa dal
Ministero della Guerra a carico
delle gerarchie militari, due
dal Ministero dell’Interno che
interessò funzionari di governo
e di Pubblica Sicurezza.
Particolarmente pesanti furono
gli addebiti mossi nei confronti
dei rappresentanti delle forze
armate, a partire da quelli di
grado superiore: alcuni generali
furono esonerati dal comando,
diversi ufficiali di vario grado
sospesi dal servizio e posti
"agli arresti" e numerosi
soldati denunciati al tribunale
militare. Per Viareggio il
ritorno alla normalità non fu
immediato e non senza problemi.
Il mancato recupero di tutti i
fucili, nonostante le accurate
ricerche e le insistenti
sollecitazioni alla riconsegna,
era causa di gravi
preoccupazioni perché si temeva
che queste armi potessero essere
utilizzate per altri e più gravi
disordini. Per precauzione la
città fu per alcuni mesi
presidiata da un ingente
quantitativo di truppe ed
inoltre furono adottati alcuni
provvedimenti che limitavano la
libertà della popolazione.
Infatti, il Prefetto vietò
"cortei pubblici, comizi,
assembramenti e la libera
circolazione agli automezzi", e
questa disposizione, che rimase
in vigore fino alla fine di
giugno, ebbe subito una ricaduta
negativa sull’attività turistica
legata alla stagione balneare.
Questi provvedimenti suscitarono
le immediate ed unanimi proteste
delle categorie economiche e
commerciali viareggine e furono
oggetto anche di alcune
interrogazioni parlamentari
presentate dall’on. Luigi
Salvatori alle sedute della
Camera dei Deputati del
7 maggio e 24 giugno 1920. I
timori che le ceneri delle
"giornate rosse" potessero
generare nuovi e più gravi
fuochi di protesta risultarono
completamente infondati.
Viareggio, nei giorni che
seguirono, riprese la vita di
sempre ed allora, anche per non
ostacolare ulteriormente la
stagione balneare in corso,
tutte le misure restrittive
adottate furono gradatamente
revocate: il 1 luglio fu abolito
il divieto di circolazione; il 4
agosto tutte le truppe furono
ritirate dalla città. Per
concludere ritorniamo
sull’episodio che generò le
"giornate rosse": l’uccisione di
Augusto Morganti da parte del
carabiniere Natale De Carli.
Questi, il 13 ottobre 1921, fu
processato dal Tribunale
Militare di Firenze, dove fu
assolto per "avere agito per
legittima difesa", con una
sentenza che sconfessò la prima
ricostruzione dell’incidente
trasmessa al Ministero
dell’Interno in data 10 maggio
dove si può leggere proprio che:
"trattasi di episodio isolato
senza conflitto fra popolazione
e carabinieri e rimane esclusa
provocazione e legittima
difesa". Per la storia,
successivamente il Ministero
dell’Interno rimborsò al De
Carli la somma di L. 1200 spese
per l’onorario dell’avv.
fiorentino Villella, che lo
difese al processo. Anche se
l’idea rivoluzionaria che
entusiasmò subito il popolo
viareggino non riuscì a superare
l’assedio in cui fu stretta la
città, l’episodio delle
"giornate rosse" è comunque una
pagina "eroica" della storia di
Viareggio che testimonia
l’avversione verso ogni sopruso
e lo spirito libertario ed
anarcoide, che da sempre
caratterizzano l’animo dei
viareggini. Quello di un popolo
che, per Luigi Salvatori, "sotto
la spinta di una emozione, può
diventare eroico e che sotto una
unità di visione può rendere
gigantesche, oltre il
verosimile, quelle forze, che
all’osservatore di giorni quieti
apparivano normali e modeste".
13 novembre 2012
Fonte:
Comune.viareggio.lu.it
(NDR: Paolo
Fornaciari, nella foto
sopra, è stato Direttore del
Centro Documentario Storico
"Francesco Bergamini" di
Viareggio fino al 2011,
successivamente direttore
del Museo del Carnevale di
Viareggio)
|