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ANTONIO DE FALCHI
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Antonio De Falchi 4.06.1989
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04/06/1989: il buio a San Siro

di Domenico Rocca

Un manipolo di ragazzi marciava lungo i binari della stazione Termini di Roma. Era quasi sera, ma il tramonto regalava al cielo della capitale ancora splendide sfumature arancioni e rosse. C’era chi, zaino in spalla, rincorreva il treno per accaparrarsi lo scompartimento migliore di quei convogli battezzati "treni speciali", ma che di speciale avevano solo il fatto di essere sporchi, lenti e poco sicuri. Un decennio dopo, intorno al maggio 1999, sarebbero stati eliminati con un provvedimento ad hoc da parte dell’allora governo D’Alema. Una decisione maturata a seguito della terribile vicenda che vide come sfortunati protagonisti alcuni tifosi della Salernitana: ci riferiamo alla tristemente nota "strage della Galleria Santa Lucia", in cui persero la vita quattro giovanissimi ultras granata per un incendio scaturito all’interno di un vagone.

Quel caldo sabato di inizio giugno a prendere posto sul treno per Milano c’era anche Antonio De Falchi, come sempre. Un ragazzetto alto e dai capelli lunghi che faceva parte di quella magica generazione di pischelli i quali, a migliaia, tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta accompagnavano la lupa in tutte trasferte. Una classe di mezzo, per molti versi distante dall’eccezionale spinta contestatrice che aveva contraddistinto i giovani del panorama extraparlamentare nel decennio precedente, ma che non aveva ripudiato del tutto la lotta. Rispetto alle generazioni successive, questa gioventù non si era ancora arresa al totale annichilimento ed in lei era sopravvissuta una potente carica eversiva che, inevitabilmente, aveva finito per proiettarsi nelle curve. Nonostante fossero conclusi i tempi di Roma capitale della lotta armata e degli estremismi politici, la violenza era ancora insita nel tessuto sociale urbano, provato da anni di tensione e logoramento. Qualche mese dopo quel maledetto Milan-Roma, l’abbattimento del Muro di Berlino avrebbe segnato la conclusione di una fase storica anche in Italia: non solo per la sinistra - dal PCI alle altre formazioni minori - ma anche per la Democrazia Cristiana e l’intero sistema partitico del Paese. Intanto anche il calcio viveva un significativo periodo di transizione, lasciandosi velocemente alle spalle un decennio largamente definito con la formula de i favolosi anni ’80. Superati i mondiali di Italia 90, gravemente lacunosi sul piano infrastrutturale ed organizzativo, sarebbe stata seppellita definitivamente quella familiare sensazione di vicinanza e coinvolgimento verso uno sport che, oramai, era lanciato sulla via della degenerazione finanziaria e commerciale. Il movimento ultras, al contrario, attraversava una fase particolarmente positiva: cresciuto a dismisura negli anni precedenti, iniziò a delinearsi in maniera più concreta, sia sul piano estetico che su quello organizzativo. In questo periodo molti gruppi si ridefinirono, altri si diedero una precisa impronta politica, altri ancora non riuscirono a trarre nuova linfa dal ricambio generazionale. Il treno giunse nella città meneghina in mattinata, troppo presto per precipitarsi in zona stadio. Così Antonio si defilò dal gruppo e, con altri tre ragazzi, decise di approfittare dell’anticipo e spostarsi verso il centro per una visita a Piazza del Duomo, i Navigli e per una cartolina a mamma Esperia. Alle 11.45 ecco il tram verso la "Scala del calcio", che si presentava come un enorme cantiere a cielo aperto: gli imminenti mondiali avevano imposto a molti stadi importanti interventi di restauro, mentre in altri casi si erano costruiti impianti nati già fatiscenti, oppure autentiche cattedrali nel deserto. Intanto, raggiunto il piazzale antistante San Siro, i ragazzi si muovevano guardinghi, consapevoli che il pericolo di un’aggressione era dietro l’angolo per chi viaggiava in trasferta. Per sicurezza, le sciarpe giallorosse erano nascoste sotto i bomber nonostante il caldo di mezzogiorno, reso ancora più inclemente dal passo accelerato per raggiungere il settore ospiti, situato in curva nord. Nello stesso momento circa una ventina di ragazzi presidiava l’esterno del Meazza; ovviamente erano milanisti e alcuni di loro appartenevano al gruppo "Brasati", contraddistinto da uno stile skinhead in un periodo in cui Dr Martens e teste rasate spuntavano copiosamente nelle due curve milanesi. Antonio, Fabrizio, Alfredo e Angelo si accorsero di essere stati notati e affrettarono il passo, nella speranza di raggiungere l’ingresso del settore ospiti qualche decina di metri più in là. Dal gruppo dei rossoneri, però, si staccò un ragazzo che raggiunse i quattro capitolini; il milanista chiese ad Alfredo prima l’ora e poi una sigaretta, ma alla seconda domanda il romano non riuscì a mascherare l’accento: "Siamo solo quattro. Ma che volete ?!". Mentre i ragazzi tentarono di scappare, il gruppo di locali scattò all’inseguimento. Alfredo ed Angelo riuscirono a dileguarsi, Fabrizio venne bloccato e colpito più volte, ma riuscì a divincolarsi e lanciare un mattone contro i suoi aggressori. Purtroppo Antonio rimase indietro: sgambettato cadde e sul suo corpo si riversarono i calci di una decina di persone. Passata la scarica, riuscì ad alzarsi, ma poi rovinò nuovamente a terra. Dopo circa trenta secondi dall’inizio del pestaggio, gli aggressori si dispersero all’arrivo degli uomini della Celere. In un primo momento Antonio riuscì a reggersi sulle proprie gambe, nonostante fosse pallido e sotto shock, ma all’improvviso crollò a terra vittima di un arresto cardiaco. Il tentativo di soccorso da parte di un agente risultò inutile e, quando l’ambulanza giunse all’Ospedale San Carlo, il giovane era oramai privo di vita. Il 4 giugno 1989, Antonio De Falchi rimaneva ucciso da un’azione barbara e vigliacca.

All’epoca, San Siro non era certo un palcoscenico per l’amore strappalacrime o il misericordioso perdono, sia in campo che fuori. Gli incontri disputati contro il Milan erano spesso frustranti per gli ospiti: quel giorno non fece eccezione la Roma, che venne battuta per 4-1 da un diavolo che si apprestava a celebrare la Coppa Campioni appena vinta a Barcellona. Tuttavia il trofeo non fece alcun giro di campo ed i festeggiamenti furono annullati. All’arrivo dei pullman delle due squadre, la notizia iniziò a diffondersi: "È morto un ragazzo, un tifoso della Roma, aveva 18 anni". La partita non venne sospesa, ma si giocò con circa un’ora di ritardo. Ci si limitò al minuto di silenzio in un San Siro glaciale, mentre le due tifoserie non esposero gli striscioni e non intonarono cori. I presidenti Berlusconi e Viola palesarono un grave disagio nel dover commentare davanti alle telecamere un evento così tragico. A fine gara, la rabbia del tifo giallorosso esplose all’esterno dello stadio, costringendo il servizio d’ordine di polizia ad un faticoso lavoro di contenimento. Erano lontani gli anni dei lutti di Acca Larenzia e di Piazza San Babila, ma a Milano e Roma si moriva ancora così, per strada, a diciotto anni: la violenza non era svanita, era invece sopravvissuta adattandosi ai diversi contesti, pronta a sprigionarsi per mano di nuovi protagonisti. In quel periodo, come Antonio De Falchi, furono molte le vittime di aggressioni irrazionali, disorganizzate e vili. Qualche anno dopo, un episodio dalle dinamiche simili causò la morte del tifoso genoano Claudio Vincenzo Spagnolo, ferito mortalmente da una coltellata fuori dallo stadio Marassi. Nuovamente l’assassino apparteneva ad un gruppo di rossoneri, la cosiddetta "Banda del Barbour", cellula che non si muoveva insieme alla Fossa dei Leoni ed alle Brigate, il duopolio che organizzava il tifo rossonero. Purtroppo la lunga lista di martiri del pallone, di vittime domenicali, si sarebbe protratta sino al giorno d’oggi, come ha testimoniato la tragica serata di Inter-Napoli nel gennaio 2019.

A Torre Maura, il mercoledì seguente, venne dato l’ultimo saluto ad Antonio de Falchi. Tra i moltissimi presenti anche alcuni calciatori della Roma, quali Peruzzi, Nela e Giannini, ed il Presidente Dino Viola, che si fece carico delle spese funerarie. Il Patron giallorosso, autentico gentiluomo d’altri tempi, considerava la Curva Sud come una grande famiglia, di figli turbolenti ma appassionati, e rimase profondamente provato alla vista del fratello di Antonio che stringeva a sé la maglia numero 3. Questa apparteneva al difensore Sabino Nela, ed era stata afferrata proprio dal defunto tifoso al termine di Como-Roma qualche settimana prima; da quella trasferta era custodita gelosamente nella sua camera, come una reliquia di inestimabile valore. Nel processo che si svolse a Milano, l’accusa fu di omicidio preterintenzionale per i tre imputati: (Omissis) di 18 anni, (Omissis) di 21 e (Omissis) di 28 anni. Quest’ultimo ricopriva il ruolo di impiegato nel servizio organizzativo della società Milan, come membro del gruppo ultras Fossa dei Leoni. Il clima in cui si sviluppò il dibattimento divenne sin dall’inizio molto teso e già dalle prime udienze si respirò un’aria intimidatoria. Molti parlarono di "una sensazione di omertà quasi malavitosa" causata dall’atteggiamento di alcuni testimoni, tanto che una serie di minacce costrinse il giudice ad ordinare la scorta per la famiglia di Antonio durante il tragitto tra l’aeroporto Linate ed il tribunale. La difesa basò la sua linea sull’esistenza di una malattia cardiaca di Antonio, nonostante l’esame autoptico avesse evidenziato esclusivamente qualche piccola anomalia asintomatica. Dopo un lungo iter processuale, nel dicembre 1992 la Corte di Cassazione sancì la pena di 7 anni di reclusione per il solo (Omissis), mentre gli altri due ragazzi vennero prosciolti da ogni accusa già in primo grado. I familiari di Antonio, affranti ed addolorati da un giudizio quasi sommario, ebbero la sensazione di essere stati abbandonati dallo Stato italiano. In particolare mamma Esperia non se ne fece mai una ragione e continuò a lottare a modo suo, mostrando la camera di Antonio a tutti i giornalisti che si presentavano davanti alla porta di casa a Torre Maura. La signora continuò a difendere la memoria del figlio, incessantemente, fino alla dipartita nell’ottobre del 2019: nel frattempo era diventata madre d’adozione per tutti i ragazzi della Curva Sud, che negli anni non hanno mai smesso di renderle omaggio. Raffigurato sui due aste, sui bandieroni e nelle coreografie, il giovane romanista continua a seguire ovunque i suoi amati colori. D’altronde, di fronte a tragedie simili, si moltiplica all’ennesima potenza il senso di appartenenza e di militanza che accomuna i ragazzi sui gradoni. L’immagine che si tramanda alle future generazioni è quella di un ragazzo che veste la maglia giallorossa e canta con gli occhi socchiusi, rapito dalla passione. Il volto del tifo più sincero ed autentico, come un eterno amore adolescenziale.

4 giugno 2020

Fonte: Rivistacontrasti.it

© Fotografia: Laroma24.it

C’è un cuore che batte. Antonio De Falchi, trentuno anni dopo

di Mattia Zucchiatti

Come ogni 4 giugno, da ormai una quindicina di anni, il cuore giallorosso pitturato in strada sotto quella che è la casa della famiglia di Antonio De Falchi è tornato a risplendere. E così farà i prossimi anni, perché la tifoseria della Roma non ha mai dimenticato il tifoso vittima di un agguato a San Siro di alcuni ultrà del Milan trentuno anni fa. L’eccezione l’ha dettata il Covid e a differenza degli anni passati, la Curva Sud non potrà organizzare l’abituale torneo di calcio a 5 in memoria di Antonio che ha sempre visto la partecipazione di altre tifoserie, da Palermo a San Benedetto del Tronto fino a sconfinare in Grecia (Panathinaikos) e Spagna (Atletico Madrid). Ma allo scoccare della mezzanotte gli ultras giallorossi di ogni età si sono radunati nel piazzale del quartiere di Torre Maura in occasione dell’anniversario più triste, il primo senza Mamma Esperia, scomparsa lo scorso ottobre. "Antonio, anche tra cent’anni il tuo cuore pulserà nella Curva Sud", è il contenuto dello striscione firmato dal gruppo "Roma" ed esposto nella notte. È quanto resta oggi di Antonio De Falchi, oltre al ricordo di chi gli voleva bene e di chi ha imparato a volergliene, ad un bandierone sempre presente nel settore più caldo della Curva Sud e ad un piccolo parco di periferia che gli è stato intitolato. Anche la Roma ha voluto ricordare il tifoso scomparso con la foto della coreografia che la Curva Sud sfoggiò in occasione del trentesimo anniversario della sua morte, lo scorso anno in occasione di Roma-Milan. Trenta stendardi col volto di Antonio e la scritta in basso come firma: "Curva Sud Antonio De Falchi". Tanto per ricordare che la memoria, quella no, non la spegne nemmeno un vile agguato.

4 giugno 2020

Fonte: Sportface.it

© Fotografia: Laroma24.it

Antonio De Falchi, morte a San Siro.

"Non soffriva di cuore, fu ucciso"

di Fabrizio Peronaci

Giugno 1989, tifoso morto prima di Milan-Roma. La sorella Anna: "Gli aggressori furono protetti, aspettiamo ancora giustizia". La cameretta rimasta identica 31 anni dopo, con tutte le sue cose: "Lui dorme qui...".

Il viaggio nel dolore della famiglia di Antonio De Falchi, il tifoso romanista ucciso a 18 anni fuori dallo stadio San Siro, quando al centro dell’attacco giocava Rudi Völler e il muro di Berlino non era ancora crollato, inizia appena la sorella apre la porta di casa. Viale di Torre Maura, ultimo lembo a est della capitale: la borgata salita alla ribalta dei tg per le rivolte anti-rom è la stessa che non l’ha dimenticato, il suo ragazzo della Sud. Vittima di un agguato di ultrà rossoneri che lo riconobbero dall’accento, chiedendogli una sigaretta, prima di quel Milan-Roma della vergogna (la partita si giocò ugualmente, e non importa come finì). Sotto le torri ex Gescal, una scritta inneggia a lui. "4 giugno 1989: Antonio vive". Lo scorso anno, nel trentennale, gli amici della curva hanno moltiplicato per cento la sua faccia da pischello, tenendo alti gli striscioni con la foto. Pochi mesi fa, quando se n’è andata mamma Esperia, ai funerali c’era pure Sebino Nela, il calciatore sensibile diventato una specie di parente acquisito. Edificio D in fondo al cortile, quarto piano. L’uscio a fianco all’ascensore. "Entri, prego". Sorride. È emozionata. Sul mobile d’ingresso, le foto incorniciate di un bimbetto di 4-5 anni. "Qui era vestito da Arlecchino, qui da Robin Hood...". E adesso Anna De Falchi, che a 54 anni ci è arrivata, rinunciando però a una vita piena ("Io sposata ? E come potevo ? Dovevo badare a mamma"), mi fa strada nel salotto con la vetrinetta e le statuine di ceramica. Apre la portafinestra. Lo indica quasi con orgoglio. "Guardi, questo era il suo Boxer. Si chiamava così, giusto ?" Già. Lo scooter della Piaggio più amato - assieme al Ciao - dai teenager degli anni ‘80. Un pezzo di cuore di Antonio. Arrugginito. Senza pedali. Con il sellino squarciato e l’adesivo della Lacoste sul fianco. Da quasi 31 anni è qui, parcheggiato in balcone. Affacciato sul raccordo anulare e sui prati degli spacciatori. Il sogno di libertà di un ragazzo di periferia trasfigurato in una reliquia metallica. Sospira, la sorella maggiore. "Quando Antonio tornava dal lavoro non pensava che al motorino: stava sempre a lucidarlo, aggiustarlo, coccolarselo. Per questo mamma non l’ha voluto buttare. Le piaceva tenerselo vicino…". Anna, sediamoci. Se la sente di raccontare ? Antonio era partito per Milano e... "Noi gliel’avevamo detto che era pericoloso ! Ma alla Roma non rinunciava. Pensi che la sera prima, quando passò il suo amico per andare alla stazione Termini, io attaccai il citofono, ma lui aveva sentito lo squillo e scappò giù. Mia madre gli aveva preparato la parmigiana di melanzane, però non ha fatto in tempo a mangiarla...". La famiglia. "Eravamo 8 figli e Antonio era l’ultimo, il piccolo di casa. Sveglio, allegro. Dopo le medie, aveva trovato lavoro da tappezziere e poi come fabbro, in un’officina di infissi. Quando successe il fatto, papà non c’era già più. Tre anni prima aveva avuto un crollo nervoso, per un avvelenamento da funghi. Si buttò di sotto...". Anna indica lo stesso terrazzino dello scooter. Ha gli occhi lucidi. "Si chiamava Enrico. Faceva l’addetto d’ascensore alla Rinascente di via del Corso. Accoglieva i clienti e pigiava i pulsanti. Su e giù. Un mestiere che non c’è più".

Quel 4 giugno. "Era mezzogiorno passato, la tv non l’aveva ancora detto. Come sempre per le cose brutte, vennero le guardie a casa. Mamma strillava "se siete qui significa che Antonio è morto !", e loro negavano, dicevano che era in ospedale, ma solo per consolarci". Il riconoscimento. "Partimmo per Milano. Mamma nella camera mortuaria lo abbracciò e gridò: "Pulcino mio, ti riporto a casa !" Era chiaro che gli avevano menato: aveva la testa fasciata e il corpo pieno di lividi. Ma a voi giornalisti raccontarono che era morto per una disfunzione cardiaca. Falso ! Aveva una coronaria più piccola, un fatto congenito. Senza complicazioni. Antonio stava bene, faceva culturismo. Aveva superato la visita militare. La vuole vedere le foto del cadavere con i segni del pestaggio ?" Anna va a prendere un faldone alto due palmi. Sfoglia gli atti giudiziari. Trova un’immagine del fratello nudo, con addosso solo gli slip, sul tavolo dell’obitorio. Si vede poco, si intravedono ematomi. "La canottiera era a brandelli, strappata a calci. Altro che malformazione !". Il processo. Un ultrà milanista venne condannato a 7 anni di carcere, due furono assolti. "Si accordarono. Uno si prese la colpa, dicendo che gli altri non erano presenti, e in cambio fu aiutato a uscire dopo pochi mesi. Li difendevano avvocati importanti, principi del Foro". Il procuratore di Milano era Francesco Saverio Borrelli, di lì a poco impegnato nell’inchiesta Manipulite. Sul caso De Falchi dichiarò: sono dispiaciuto, i testimoni non hanno collaborato. "Pesce grande mangia pesce piccolo, ci disse il nostro avvocato…". I ricordi. Anna si alza. "La camera di Antonio la vuole vedere ? È rimasta identica. Per noi è come se dormisse ancora qui...". Entriamo. Da brividi. La memoria di un giovanotto di borgata museificata negli oggetti che ha toccato, baciato, amato. Ci sono le foto alle pareti, Dino Viola, Bruno Conti, Zibì Boniek... La maglia che gli regalò Sebino Nela. Gli scarpini, le sciarpe, i gagliardetti. La sovraccoperta con il suo viso stampato a colori. Come se si fosse appena buttato sul letto, contento, di ritorno dall’Olimpico. E poi le targhe, le coppe, i pupazzetti... Una cripta giallorossa. Manca solo l’altoparlante che scandisca le formazioni, con i boati dei tifosi in sottofondo. Il luogo dei sogni, dell’attesa della domenica. Ma pur sempre una cripta. Perché lui non c’è. "Era alto un metro e 90 ma nell’animo era rimasto un bambino, mio fratello. Non aveva la fidanzata. La Roma era la sua vita. E l’amore che ci regalano ancora oggi gli amici della curva è immenso. Pensi che ci hanno aiutato con una colletta a riscattare il fornetto a Prima Porta...". Anna si blocca. Le viene in mente qualcosa. "Ma lei lo sa che giorno era nato ?" No, perché ? Scuote la testa. "Il 2 novembre. Antonio con nostra madre ci scherzava sempre: "Senti ma’, sicuro che non porta jella ? Non potevo nasce’ il giorno dopo?"...

2 febbraio 2020

Fonte: Roma.corriere.it (Testo e Video)

© Fotografie: Sportface.it - Roma.corriere.it

La morte di Antonio De Falchi, il racconto della tragedia

di Adriano Stabile

Il 4 giugno 1989, per i colori giallorossi, resterà per sempre legato all’uccisione di Antonio De Falchi, 18enne tifoso romanista barbaramente aggredito e ammazzato in occasione di un Milan-Roma di campionato. Agli atti di quel delitto resta un colpevole condannato per omicidio preterintenzionale, ma in tanti l’hanno fatta franca e molte ombre resteranno eterne su questa tragedia.

Antonio De Falchi muore a Milano - Antonio De Falchi è un ragazzo maggiorenne da otto mesi, longilineo, dai capelli lunghi, un bel viso e grande tifoso della Roma. Vive a via di Torre Maura (omissis), in un quartiere popolare, con la madre Esperia Galloni De Falchi e gli altri sette figli. Dopo la terza media ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare come fabbro in una bottega della borgata Finocchio. Papà Enrico, impiegato in un negozio di abbigliamento a piazza Colonna, non c’è più da quasi tre anni: in preda a una crisi di nervi si è suicidato lanciandosi dal balcone del suo appartamento al quarto piano. Da un po’ di tempo Antonio, che è il più piccolo di sei fratelli e due sorelle, segue la Roma con assiduità, anche fuori casa. Non è un facinoroso, è incensurato, anche se qualche mese prima, durante una trasferta ricca di disordini (razzie di ogni genere, aggressioni e un romagnolo accoltellato) in occasione di Cesena-Roma del 20 novembre 1988, era stato arrestato e poi posto in libertà provvisoria, con altri quattro romanisti, perché accusato di furti e danneggiamenti a bar e negozi. La vicenda poi si era conclusa senza conseguenze penali per lui. L’agguato dei tifosi milanisti - Sabato 3 giugno, in serata, Antonio parte da Torre Maura con alcuni amici e prende un treno notturno a Termini, diretto alla stazione di Milano Centrale e carico di un centinaio di tifosi romanisti. Arrivati nel capoluogo lombardo poco prima delle 9 di domenica mattina, Antonio si stacca dal gruppo insieme a tre amici 17enni, Angelo, Alfredo e Fabrizio, per fare un giro in città: i ragazzi passeggiano nel centro di Milano, visitano piazza del Duomo, Antonio compra una cartolina della celebre cattedrale meneghina e la spedisce alla mamma. Poi, con il tram numero 24, i quattro giovani arrivano in zona San Siro poco prima delle 11.45. Lo Stadio Giuseppe Meazza, all’epoca, è un cantiere per i lavori di ristrutturazione in vista dei Mondiali di Italia ’90. I quattro tifosi romanisti camminano da soli, nascondendo prudentemente le sciarpe sotto il bomber. Superata piazza Axum, passano non lontano dalla Curva Sud milanista diretti verso la Nord, generalmente destinata ai tifosi ospiti. All’altezza dell’ingresso 16 del Meazza, Antonio De Falchi, Angelo, Alfredo e Fabrizio sono notati da una ventina di supporters milanisti, seduti su alcuni blocchi di cemento armato. "Sono romani", sussurra uno di loro, mentre un altro, con una maglietta bianca, si avvicina chiedendo prima l’ora e poi una sigaretta ad Alfredo con l’intento di comprendere meglio l’accento di Antonio e dei suoi amici. Alla prima domanda Alfredo cerca di imitare l’accento milanese, poi, spaventato e compreso che si tratta di una trappola, sbotta: "Ma che volete ? Siamo solo in quattro". L’aggressione mortale - A quel punto il tifoso milanista con la maglietta bianca fa un gesto con la mano agli altri, come a dire "venite", mentre Alfredo inizia a correre gridando agli amici "scappamo". Angelo, Antonio e Fabrizio corrono verso la stessa direzione, inseguiti dai milanisti, mentre Alfredo si dilegua subito, saltando una recinzione. "Prendilo, prendilo - urlano gli ultras rossoneri - sono romani !". Angelo viene strattonato, ma riesce a liberarsi e a scappare via, Fabrizio è bloccato da un milanista, ma si salva lanciandogli contro un mattone prima di essere fermato da un agente della polizia, Antonio De Falchi invece resta indietro, viene sgambettato, cade a terra, poi contro un cancello e rimane incastrato. Quindi è raggiunto dai suoi inseguitori, una decina di ragazzi, che gli vanno addosso colpendolo più volte con calci e pugni. Antonio riesce ad alzarsi per un attimo, poi viene sgambettato di nuovo e ricade sull’asfalto, colpito a ripetizione. Passano non più di 30 secondi e arriva la polizia del reparto mobile, richiamata dalle grida, mentre gli aggressori si disperdono, tranne qualcuno che resta a guardare a distanza di sicurezza. Il decesso per infarto - Antonio è a terra sull’asfalto, poi prova a rialzarsi aiutato da un agente di polizia che gli dice: "Stai calmo, non ti picchiano più, adesso ci siamo noi; è tutto finito, stai tranquillo". Antonio però è cianotico, fatica a respirare e, mentre l’agente si volta per un attimo, crolla privo di conoscenza, vittima di un attacco cardiaco. Il poliziotto tenta di rianimarlo con il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, ma non c’è niente da fare. Dieci minuti più tardi arriva un’ambulanza che porta il ragazzo all’Ospedale San Carlo di Milano, dove i dottori provano ancora la rianimazione prima di constatare il decesso. Il medico legale spiegherà che lo sforzo fisico per la corsa e la paura per la violenta aggressione hanno provocato un infarto ad Antonio De Falchi, ucciso a soli 18 anni e mezzo da un assalto vigliacco. Sul corpo del giovane vengono rilevate alcune escoriazioni, soprattutto sulla parte sinistra. La tragedia di mamma Esperia - La notizia della morte di De Falchi, certificata intorno a mezzogiorno, si diffonde velocemente e viene battuta dall’Ansa alle 13.58. Milan-Roma si gioca ugualmente alle 16.30, ma i tifosi delle due squadre evitano di intonare cori e ritirano gli striscioni in segno di lutto. A poco conta che la squadra rossonera, fresca di vittoria in Coppa dei Campioni, si imponga per 4-1. "Me l’hanno ammazzato, Antonio, Antonio, bello mio, bello de mamma. Ma perché ? Perché l’hanno fatto ? Perché l’hanno fatto ?", grida mamma Esperia, 59 anni compiuti il 14 marzo, quando le comunicano la morte del figlio. All’arrivo a Milano per il riconoscimento della salma, la donna, accompagnata da due figli, è sconvolta: "Pulcino, non sei morto, ora ti riporto a casa", dice piangendo. Nela piange al funerale - Mercoledì 7 giugno 1989 Antonio De Falchi viene salutato con una cerimonia funebre nella chiesa di San Giovanni Leonardi a Torre Maura. Sono presenti migliaia di persone tra cui i calciatori della Roma Angelo Peruzzi, Giuseppe Giannini e Sebastiano Nela, il presidente Dino Viola e la formazione dei Giovanissimi giallorossi. Nela, in lacrime, si ferma a parlare con un fratello di Antonio che tiene in mano la maglia numero 3 di Sebino che il giovane tifoso scomparso aveva a casa come un cimelio prezioso, dopo averla presa in trasferta qualche settimana prima, a Como, il 30 aprile 1989. Viola invece abbraccia la mamma di De Falchi alla fine del funerale, facendosi carico delle spese per la cerimonia e la sepoltura al cimitero Flaminio di Prima Porta.

La fame di vendetta - All’esequie manca una delegazione del Milan, ma soltanto perché il questore di Roma ha consigliato di non venire, per evitare tensioni. Intorno alla chiesa non mancano infatti scritte e messaggi minacciosi: "Vigliacchi uscite adesso: ve lo facciamo noi un bel processo" si legge su uno striscione firmato Fedayn. Un ragazzino di 16 anni, fuori dalla chiesa, distribuisce volantini su cui è scritto: "Il prossimo anno colpiremo sia a Roma che a Milano per vendicare la morte del compagno Antonio De Falchi". Le indagini, tre milanisti in carcere - Le indagini sull’omicidio di De Falchi procedono velocemente e, a poche ore dalla morte del tifoso giallorosso, il cerchio dei sospettati si restringe a tre tifosi milanisti: (Omissis), 21 anni, figlio di un farmacista e studente universitario al secondo anno di Giurisprudenza, (Omissis), 28 anni, ragazzone che ama il culturismo, lavora alle Poste di piazzale Lugano ed è nientemeno che impiegato nel servizio organizzativo del Milan come membro del gruppo ultras Fossa dei Leoni, e (Omissis), 18 anni, fattorino pony express. (Omissis), quando viene bloccato dagli agenti, ha ancora avvolta intorno alla mano una cinghia con una grossa fibbia metallica da usare come arma. Il fatto che (Omissis) abbia una delega del club rossonero suscita scalpore: al momento di essere fermato viene trovato in possesso di un’autorizzazione con nome e foto per entrare allo stadio prima degli altri e sistemare gli striscioni. I tre passano la notte in questura, sottoposti a una lunga serie di interrogatori incrociati, insieme a una trentina di altre persone, in gran parte ultras che prendono posto allo Stadio Meazza dietro lo striscione "brasati": sono tutti giovani che vestono come gli "skinheads" inglesi, capelli cortissimi, jeans e giubbotti neri. La mattina presto del 5 giugno, alle ore 6, il sostituto procuratore della Repubblica Daniela Borgonovo formalizza l’arresto dei tre sospettati per concorso in omicidio. (Omissis), (Omissis) e (Omissis) restano in carcere fino al processo che inizia il 20 giugno a Milano. Il processo a Milano - Il processo per direttissima per l’uccisione di Antonio De Falchi, nato il 4 novembre 1970 e morto il 4 giugno 1989, inizia il 22 giugno. (Omissis), (Omissis) e (Omissis) vengono rinviati a giudizio in quanto "imputati del delitto previsto e punito dagli articoli 110, 112 n° 1, 584, 61 n° 1 del Codice Penale per avere commesso, in concorso tra loro ed altre persone allo stato non identificate, facendo parte di un gruppo di tifosi della squadra di calcio Milan che si era riunito per aggredire tifosi della squadra di calcio Roma, convenuti a Milano in occasione della partita Milan-Roma, con atti diretti in danno di De Falchi Antonio, il delitto di lesioni volontarie, colpendo quest’ultimo con pugni e calci, cagionando la morte del medesimo avvenuta per arresto cardiaco conseguente al trauma psichico; con le aggravanti dell’aver commesso il fatto in più di cinque persone e dell’aver agito per motivi futili. In Milano, il 4 giugno 1989". L’accusa principale per i tre tifosi del Milan è, di fatto, omicidio preterintenzionale (articolo 584 del Codice Penale). Omertà e tifo calcistico in aula - Il dibattimento si svolge in un clima di grande tensione, con alcuni ultras di Milan e Inter che assistono al processo e "fanno il tifo" per i tre accusati, che negano ogni addebito e tentano di scagionarsi a vicenda. Sin dalle prime udienze emerge un clima di omertà quasi malavitosa da parte di alcuni testimoni. Esperia, la mamma di Antonio, e i suoi famigliari si costituiscono parte civile con un avvocato pagato dal presidente Viola, ma lamentano una serie di minacce. Per questo motivo vengono messi sotto protezione da una scorta che li segue costantemente nel tragitto tra il tribunale e l’aeroporto di Milano. La difesa degli imputati prova a sostenere che Antonio fosse malato di cuore, ma l’esame autoptico riscontra soltanto qualche anomalia asintomatica "delle arterie del circolo coronarico", non una vera patologia. Durante un’udienza la madre di (Omissis) si avvicina al figlio, dietro le sbarre, portandogli un cornetto e un cappuccino mentre la madre di De Falchi sbotta: "Gli fai fare colazione ? E io ? Che mio figlio l’ho perso". Un solo condannato: 7 anni di carcere - Il 5 luglio, quando viene ascoltato in aula, (Omissis) implora il presidente della quarta corte d’assise di Milano: "Signor presidente adesso ho paura di perdere la mia ragazza, ma so che Dio non mi abbandonerà perché lui crede a me e sa che sono innocente. Prego perché mi aiuti a vivere anche se dovessi rimanere rinchiuso per anni". Il 13 luglio si conclude il processo di primo grado, disturbato da alcuni ultras milanisti che in aula urlano "romanisti bastardi", tentando di aggredire giornalisti e fotografi. (Omissis) viene condannato a 7 anni di reclusione e 50 milioni di lire (equivalenti a 26 mila euro) di risarcimento alla parte civile per l’omicidio preterintenzionale di Antonio De Falchi; (Omissis) e (Omissis) sono assolti per insufficienza di prove. "A me non sta bene, la giustizia fa schifo. Questi devono pagare perché hanno ucciso mio figlio" dice ai giornalisti mamma Esperia. Pur condannato, (Omissis), in attesa dei successivi gradi di giudizio, viene rimesso in libertà (dopo quasi 40 giorni di detenzione) perché non ha precedenti penali e perché non è ritenuto un soggetto pericoloso al di fuori del contesto del tifo calcistico. In vista dell’appello il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli difende il lavoro degli inquirenti, ma ammette che il clima di diffusa omertà tra i testimoni ha impedito di trovare altri responsabili dell’aggressione a De Falchi. La profonda reticenza è ampiamente denunciata anche nella motivazione della sentenza, in cui il giudice Guido Piffer spiega che Antonio De Falchi è deceduto per un infarto, ma che "la causa della sua morte può essere identificata nella condotta del gruppo di milanisti, che sottopose il ragazzo a un’eccezionale sollecitazione cardiaca, con la quale agì come fattore concorrente l’anomalia cardiaca della quale il ragazzo soffriva". Peraltro il magistrato rileva che "questa anomalia non aveva impedito al ragazzo di tenere una vita assolutamente normale e di svolgere attività sportive senza lamentare disturbi cardiaci e che non gli aveva impedito di superare la visita militare". Appello e Cassazione confermano il verdetto - In vista dell’appello l’avvocato di parte civile, che tutela la famiglia De Falchi, chiede che il processo venga spostato a Roma, ma l’istanza non ha esito. Il 13 marzo 1992 i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano confermano la sentenza di primo grado, condannando (Omissis) a 7 anni e assolvendo (Omissis) e (Omissis) per non aver commesso il fatto (la formula dubitativa, nel frattempo, è stata eliminata dal nuovo Codice di procedura penale). L’11 dicembre 1992 la Corte di Cassazione rende definitiva la pena di 7 anni di reclusione per (Omissis) che, dopo tre anni e mezzo di liberà provvisoria, viene portato in carcere… (Omissis)

Il ricordo di Antonio De Falchi nel tempo - Sono state tante, nel corso dei decenni, le iniziative alla memoria di Antonio De Falchi. Una settimana dopo la sua morte, domenica 11 giugno 1989, la Roma affronta in casa la Fiorentina allo Stadio Flaminio giocando con il lutto al braccio e, prima del match, viene celebrato un minuto di silenzio mentre gli ultras giallorossi gridano "Antonio ! Antonio !". In tribuna viene srotolato uno striscione in cui si legge "Antonio sarai sempre nei nostri ricordi". Il 25 febbraio 1990, in occasione di Roma-Milan 0-4 allo Stadio Flaminio, gli ultras romanisti espongono lo striscione "Antonio è morto per quella maglia, onoratela". Il 14 novembre 1992, in memoria di Antonio De Falchi, viene organizzato un quadrangolare di calcetto, con la partecipazione di una squadra romanista, al palazzetto dello Sport Mario Argento di Napoli. Il 10 marzo 2002, in occasione del derby vinto 5-1, il tifoso di Torre Maura viene ricordato con un vistoso striscione al centro della Curva Sud, insieme con gli ultras che sono scomparsi da tempo, ma che devono sentirsi a tutti gli effetti "campioni d’Italia". La commemorazione si ripete anche a Milano, in occasione della finale di ritorno di Coppa Italia del 31 maggio 2003 tra Milan e Roma, quando gli ultras giallorossi srotolano un grande striscione per De Falchi nel settore ospiti di San Siro. A Torre Maura lo ricordano con una grande scritta bianca: "Antonio De Falchi vive !". Sotto la giunta di Walter Veltroni, nel 2005, viene intitolato a De Falchi anche un parco, tuttora esistente, costeggiato da via di Torre Spaccata, nel quartiere dove viveva il tifoso ucciso nel 1989. Nella stagione 2003-04 si forma in Curva Sud il gruppo di ultras "Brigata De Falchi" di Monteverde, sciolto dopo pochi anni, mentre il 14 luglio 2009, a vent’anni dalla morte del tifoso di Torre Maura, il Roma Club Campidoglio e l’associazione di volontari Fase 4 organizzano il Memorial Antonio De Falchi sul campo della Pro Roma. Durante Roma-Milan 0-0 del 6 marzo 2010 i tifosi capitolini espongono lo striscione "Il significato del ricordo, il peso della memoria… De Falchi presente !". Il 7 maggio 2011, in occasione di un’altra gara casalinga pareggiata 0-0 con i rossoneri, la Curva Sud espone una grande coreografia con il nome De Falchi scritto in rosso su sfondo giallo. Il cuore pulsante del tifo romanista si ripete il 3 febbraio 2019, prima di Roma-Milan 1-1, dedicando una bellissima coreografia al tifoso di Torre Maura, con tanti stendardi raffiguranti il suo volto, per ricordare i 30 anni dalla sua scomparsa. Tra gli striscioni della Curva Sud in suo onore ci sono anche, nel corso degli anni: "Nulla sarà dimenticato: Antonio De Falchi con noi" - "A difesa del tuo ricordo: Antonio romanista attivo per sempre" - "Caduto per la Roma, i miei ultras mi rendono l’eternità".

3 giugno 2019

Fonte: Storiadellaroma.it

(Video di repertorio sulla morte di Antonio De Falchi, tifoso della Roma assassinato a Milano fuori allo stadio di San Siro il 4 giugno 1989 (Tg1 - 90° Minuto - Domenica Sportiva - Sfide). Un sentito ringraziamento al Canale di Youtube "Capmilord" per la disponibilità di alcune immagini)

Omicidio De Falchi: è stata fatta giustizia ?

di Luigi Pellicone

Milan-Roma non è mai una partita come le altre. Una sfida dal sapore antico, match memorabili alla Scala del Calcio. Ma Milan-Roma è anche una partita triste per il popolo giallorosso e l’Italia tutta. Un ricordo stretto al cuore che ci riporta alle soglie degli anni 90. Il 4 giugno del 1989, Antonio De Falchi, tifoso giallorosso, moriva. Vittima di un agguato dei tifosi milanisti a San Siro. La storia è nota: un’aggressione brutale, senza possibilità di scampo. Antonio perde la vita alle 11.45 circondato da trenta teppisti che lo hanno pestato. Il referto medico stabilisce la morte per arresto cardiaco. É morto di botte e di paura. L’esito dell’inchiesta condanna solo un indagato. 13 luglio 1989 il tribunale di Milano stabilisce il verdetto. (Omissis), condannato a 7 anni di reclusione. Il Pm ne chiede otto. L’imputato, ora colpevole, paga una cauzione di 50 milioni. La Corte d’Assise concede il beneficio della remissione in libertà. Solo poche ore di carcere. Torna a casa. Libertà vigilata. Assolti per insufficienza di prove gli altri imputati, (Omissis) e (Omissis). Nessun testimone li aveva notati o riconosciuti. La sentenza solleva polemiche: la mamma di Antonio De Falchi, la signora Esperia, che ha già perso il marito, concede solo poche parole. "Questa è la giustizia ? È uno schifo. A me questa sentenza non sta bene. Loro dovevano pagare, anche se nessuno mi può riportare il povero Antonio". Poi si chiude nel silenzio. Come sta, oggi, la famiglia De Falchi ? Cosa ha fatto lo Stato per loro ? Come è ricordato oggi Antonio ? Tante domande e poche risposte. Una famiglia numerosa, quella di Antonio, composta da otto fratelli. Maria, Luisa, Alvaro e Massimo vivevano già per conto loro al momento della tragedia. Maurizio, Marco e la sorella Anna hanno vissuto il dolore insieme alla madre nella casa di Via Torre Maura. I funerali, a spese della Roma, sono stati celebrati il 7 giugno del 1989, nella Chiesa di San Giovanni Leonardi. Di quel giorno, un’istantanea. Dino Viola, il presidente della Roma, accanto alla signora De Falchi. Un giovanissimo Peruzzi e Sebino Nela si avvicinano commossi. Nessun risarcimento alla famiglia da parte dello Stato. La giustizia ha compiuto il suo corso. E non sono previsti rimborsi, da quella sentenza. Il tempo passa. Il ricordo di Antonio De Falchi è tenuto vivo soprattutto dalla "sua" Sud. Più dalla curva, che dalle istituzioni. Roma, intesa come città, gli dedica un Parco, un’area verde, su viale di Torre Maura. Si dimenticano, però, di inaugurarlo. E anche di metterci una targa. Il parco è rintracciabile su qualsiasi stradario e anche sulle mappe digitali. Quando si arriva sul posto, però, non c’è né una dicitura, né un segnale.  Un’area verde anonima. Un destino amarissimo. E l’Olimpico ? La sua Sud ? Neanche lì, è stato possibile mettere una targa. Sino a qualche anno fa, Antonio De Falchi però è stato una bandiera. Nel senso pieno del termine. Il suo viso volava in Curva. Non basta, ovviamente, a mamma Esperia, ormai avanti con gli anni. Anche se, sabato 29 giugno 2013, su un campo della Tiburtina, accade un qualcosa di molto importante… Torneo di calcio a 5 in memoria di Antonio. In tanti si stringono intorno alla signora, la mamma di tutti, quel giorno. E le consegnano "quella" bandiera. "Mamma Esperia, Antonio è sempre qui". Un sorriso riesce a fare capolino fra le rughe e un viso provato dal dolore. 400 ragazzi, 25 squadre. Inutile allora come oggi, provare a intervistarla. Piange. Si commuove. Come fa da 26 anni.  In un composto silenzio. Non alza la voce. Non chiede giustizia. Non va a caccia dei riflettori. Non scrive libri. Non fonda associazioni. Gli basta un ricordo e l’affetto della gente che amava Antonio. Quel giorno le viene consegnata una targa: "Ieri, oggi, domani, eternamente nel cuore della tua gente. Alla famiglia di Antonio. Gli ultras della Roma". Ha pianto, Mamma Esperia. Ha ringraziato. E poi è tornata a casa. Dove sicuramente ha pianto. Come al solito. In silenzio. Stringendo con amore, un drappo, un anelito. Stringendo Antonio. C’è Milan-Roma. Non dimenticatelo.

2 ottobre 2017

Fonte: Iogiocopulito.it

4 giugno 1989 - 4 giugno 2017: Antonio De Falchi, tifoso romanista

di Simone Meloni

C’è una scritta non distante da casa mia. La vedo spesso quando il semaforo mi impone l’alt, o quando percorro quella strada a velocità sostenuta. Sta su un muretto basso, che fa da parapetto al capolinea degli autobus in Viale di Torre Maura, nella periferia sud-est di Roma. "4-6-1989: Antonio De Falchi vive". È messa là, non per caso. Antonio è cresciuto in quelle strade, ha respirato l’odore della periferia impregnandosi con i colori giallorossi. Da queste parti essere della Roma è quasi obbligatorio. Bastava passarci qualche anno fa, quando il calcio era ancora in perfetta armonia con il popolo. Bandiere giallorosse ovunque e quel pizzico di ruvidezza tipica del romano scalcinato e ironicamente malinconico. Ho pensato a lui le prime volte che mi sono avvicinato alle entrate del Meazza, percorrendo a piedi quel pezzo di asfalto che divide Piazzale Lotto dalla Scala del Calcio. Ho rivisto le sue foto, gli striscioni a lui dedicati, i cori. Roma. Milano. Una rivalità che andava ben oltre il calcio. Un modus vivendi differente, di due popoli, due entità e due città agli antipodi. Stereotipate, certo. Ma con tante verità di fondo. Dall’una e dall’altra parte. Antonio De Falchi è morto in maniera meschina. Infame. Senza una logica, senza un perché e senza una giustificazione. E a noi non interessa star qui a fare retorica o, peggio ancora, morale. Perché forse non ne abbiamo neanche il diritto. E perché della morale ce ne sbattiamo, quando sanno tutti come andarono le cose nei mesi, negli anni, seguenti a quella maledetta domenica. Il processo farsa, la libertà comprata a suon di milioni, i colpevoli subito a piede libero. Un’altra umiliazione per la famiglia De Falchi. Chi ha il diritto di dire a qualcun altro cosa è moralmente giusto e cosa non lo è ? La signora Esperia, la mamma di Antonio, ha smesso da tempo di chiederselo. Lei, la sua famiglia, forse lo rivedono partire allegro per la trasferta, al seguito della Roma. Non sapendo che sarebbe stata l’ultima. Non sapevano che carissimi gli sarebbero costati quei pochi passi compiuti da Piazzale Axum, dove il tram per lo stadio faceva capolinea, al cancello numero 16, quello riservato ai tifosi ospiti. Una domanda: "Che ore sono ?", il suo accento inconfondibile, e la carica di oltre trenta persone nascoste dietro un muretto improvvisato per i lavori di ristrutturazione in vista dei mondiali 1990. Trenta contro tre. Se non c’è giustizia nel cadere inermi a diciotto anni, c’è ancora più viltà nel farlo così. Per mano di chi voleva dimostrarsi uomo a tutti gli effetti. Duro e puro. Mostrando al mondo, invece, l’esatto opposto. Morire in un giorno di festa. Morire in piena gioventù. Le lacrime che scendono a mamma Esperia sono le stesse da ventotto anni. Asciugate dai ragazzi e dalle ragazze che tengono vivo il ricordo di Antonio, che ne onorano la memoria e che lo hanno reso un’icona del romanismo. Anche oggi che la Curva Sud è in difficoltà, divisa e spaccata in due. Con il cuore che pulsa ancora sangue, ma fa una fatica terribile. In ogni coro, in ogni partita, in ogni trasferta gli ultras hanno deciso che Antonio De Falchi ci deve essere. E il suo ricordo si è tramandato. Silente ma forte. Di generazione in generazione. Sì, lo hanno deciso gli ultras. Perché lontani sono i tempi di Dino Viola. Presente ai funerali nella chiesa di San Giovanni Leonardi, a Torre Maura. Il Presidente si fece carico della funzione, cercando di stare vicino a un cuore di mamma straziato dal dolore. Dopo di lui nessuno si ricordò più di Antonio. Mai una parola, mai un mazzo di fiori, mai un messaggio. E allora giusto che a tutti questi anni di distanza viva solo nel ricordo di chi è stato ed è come lui. Di chi ogni volta che la Roma gioca a Milano gli dedica un pensiero, passando davanti al punto dove i suoi occhi si chiusero per sempre. Perché neanche la batosta sportiva più atroce subita in terra meneghina potrà essere paragonata alla morte di un ragazzo da poco maggiorenne. Oggi avrebbe quarantasette anni. E probabilmente indosserebbe ancora la sciarpa giallorossa per sostenere la sua città, la sua squadra e il suo popolo. Che mai lo dimenticherà.

4 giugno 2017

Fonte: Iogiocopulito.it

Calcio: De Falchi - Ogni giorno al cimitero da mio figlio

Roma, 30 gen. (Adnkronos) - ''Proprio come Antonio mio''. È distrutta dal dolore la signora Esperia Galloni, mamma di Antonio De Falchi, il giovane romano ucciso a 18 anni, vicino ai cancelli di San Siro, poco prima della partita Milan-Roma del 5 giugno '89, dai tifosi ultrà rossoneri. ''Per lui non si rinunciò nemmeno a giocare, lo spettacolo doveva andare avanti e quando ci sono di mezzo i soldi non ci si ferma mai, neanche davanti al sangue di un ragazzo assassinato'', dice al telefono all'Adnkronos, prima di recarsi - come ogni giorno, da allora - al cimitero per portare fiori freschi nella tomba del suo Antonio. ''Da Torre Maura a Prima Porta sono quasi tre ore, con i mezzi pubblici. Un mesto pellegrinaggio che faccio ogni mattina: prendo il trenino, poi il bus, e resto in camposanto per tutta la giornata. Poi, nel pomeriggio torno a casa, dove mi aspettano altri due figli. Mio marito era morto qualche anno prima della tragedia di Antonio''. Un' abitudine che non è solo un triste rito: ''Per me è come se Antonio vivesse ancora. A Natale gli ho portato un panettone, ma poi ho saputo che qualcuno lo ha rubato. Non c'è rispetto neanche per i morti. Ora che si avvicina Carnevale gli metterò vicino un sacchetto di coriandoli. Ogni domenica gli regalo una sciarpa giallorossa, la deposito vicino al "fornetto", proprio come faceva lui quando se la metteva al collo, prima di andare a vedere la sua Roma''. Cosa vuol dire alla famiglia genovese che ieri ha incontrato la sua stessa sorte ? ''Le parole da sole non bastano. Purtroppo, penso che tutto continuerà ad andare così: troppi interessi in ballo, troppo menefreghismo, a chi può interessare la vita di qualche giovane ? Qualche articolo sul giornale e poi si scorda tutto. Ma io non posso dimenticare; finché il Signore mi darà vita, penserò sempre al mio Antonio. Era forte, pieno di vita, stava per partire per il servizio militare e già lavorava in officina per aiutare la famiglia ad andare avanti. E ora non c'è più, ucciso a Milano dall'odio, come se fosse andato in guerra. Sul comò c’è ancora la cartolina con il Duomo che mi aveva spedito prima di recarsi allo stadio. Ma lui, lui non c’è più'''.

30 gennaio 1995

Fonte: Adnkronos

Romanista ucciso a Milano

Una vittima anche a Catania: un tifoso cade da un pullman e un altro lo schiaccia.

Un’altra tragedia nella domenica del calcio. Un tifoso della Roma è morto all'ingresso dello stadio di San Siro, ucciso a calci e pugni da teppisti che indossavano sciarpe e magliette del Milan. Si chiamava Antonio De Falchi, 18 anni. La disgrazia a mezzogiorno: Antonio è stato avvicinato da un giovane che gli ha chiesto una sigaretta. Un attimo dopo, una trentina di complici del "tifoso" milanista si sono lanciati all'assalto. De Falchi è stato raggiunto da calci e pugni: trenta secondi dopo, quando la polizia ha sedato la zuffa, si è rialzato a fatica, poi è stramazzato. È morto durante il trasporto all'ospedale. Doveva essere un giorno di festa per il Milan campione d'Europa. Invece, le bandiere sono scomparse dalle gradinate, prima dell'incontro si è osservato un minuto di silenzio. La polizia ha fermato tre giovani. Tragedia anche a Catania. Un tifoso della Reggina è caduto dal pullman che lo trasportava al "Cibali" (dove i granata dovevano giocare con l'Empoli). Un altro autobus lo ha schiacciato. Si chiamava Orazio Buta, aveva 23 anni.

5 giugno 1989

Fonte: Stampa Sera

Violenza assassina: prima della gara Antonio De Falchi, 18 anni, colpito a pugni e calci da 30 teppisti con sciarpe milaniste.

S. Siro teatro di morte per un tifoso della Roma

di Giampiero Paviolo

MILANO - Ammazzato davanti allo stadio. Ammazzato a calci e pugni, o forse, sarà l'autopsia a raccontarci la verità, ucciso dalla paura, lui che si era allontanato dagli altri tifosi per non correre il rischio di trovarsi in mezzo a una rissa. Si chiamava Antonio De Falchi, 18 anni e mezzo, romano. È morto a mezzogiorno, a due passi dal cancello 16 di San Siro. I suoi assassini sono teppisti che indossavano sciarpe e magliette del Milan. La polizia ne ha fermati tre, un fermo tecnico in attesa di approfondire le indagini. Così si è iniziato il "giorno di festa" per il Milan campione d'Europa. Ed è proseguito con altri incidenti, feriti, contusi, arresti. Dalle gradinate sono scomparsi gli striscioni, i tamburi hanno taciuto. Non c'è stato il previsto giro d'onore dei rossoneri. Al suo posto, un minuto di silenzio che a tutti è parso lungo un'eternità. I responsabili dei Milan clubs, i presidenti delle società. Berlusconi e Viola, hanno pronunciato parole durissime. Tutti hanno deplorato, deprecato, stigmatizzato. A quell'ora, le 10, il corpo senza vita di Antonio era all'obitorio dell'ospedale "San Carlo". La vittima abitava all'83 di via Torre Maura: operaio, ultimo di otto fratelli, famiglia già segnata per la tragica morte del padre. Una macchia recente, fermato per lutto e rissa durante la trasferta di Cesena: "Ma aveva rubato soltanto un'arancia" dicono gli amici. Che lo definiscono "tranquillo, grande appassionato di calcio, mai violento". Anzi, proprio il suo desiderio di star lontano dai guai gli è costato la vita. Sono le 11.49, quando Antonio e tre compagni si staccano dal corteo di 150 tifosi diretto allo stadio sotto la attenta sorveglianza della polizia. "Spostiamoci, non vorrei che finisse a botte". Il quartetto è a pochi metri dalla porta 16, quando un ragazzo si avvicina ad Antonio, che oltre alla sciarpa della Roma ne indossa una nerazzurra (una leggerezza, senza dubbio): "Scusa, hai sigarette ?". Il ragazzo si fruga in tasca, non vede che l'altro ha richiamato l'attenzione di un gruppo di "tifosi" rossoneri. È un attimo, venti-trenta persone "caricano" i quattro. Antonio finisce a terra, mentre gli amici riescono a fuggire inseguiti da una decina di persone. La zuffa dura trenta secondi, poi gli agenti che pattugliano la zona riescono a riportare la calma. Racconterà uno di loro: "Il ragazzo respirava con affanno, gli ho detto di stare calmo, che era tutto finito". Antonio si alza, barcolla, poi stramazza. Il poliziotto capisce, tenta la rianimazione bocca a bocca, mentre una "volante" chiede l'intervento dell'ambulanza. Inutile la corsa al "San Carlo". Dirà più tardi il questore di Milano, Umberto Lucchese: "Un fatto terribile, compiuto da delinquenti puri. Altro che tifosi". E aggiungerà: "I ragazzi romani non avevano fatto nulla che giustificasse l'aggressione". Intanto, l'episodio scatena una ridda di voci incontrollate. Allo stadio si diffonde la notizia che i morti sono due, poi che la vittima è una sola, ma un altro tifoso è in coma. Alle 14, un gruppo di tifosi romanisti sta risalendo le gradinate quando gli piove In testa una gragnuola di sassi. I carabinieri arrestano due sostenitori del Milan: Umberto Lanzani, 24 anni, e Paolo Antonio Ferrari, 22 anni. Dal "San Carlo" giungono notizie contrastanti. C'è chi dice che Antonio è stato ammazzato a sprangate, chi racconta che lo ha ucciso un pugno allo sterno. In serata, la precisazione della questura: "Non ci sono segni di colpi che possano aver causato la morte. Ma la vittima aveva capelli lunghi, un ematoma al capo potrebbe anche passare inosservato al primo esame". L'ipotesi dell'infarto è credibile, ma non ci sono conferme. Per i responsabili dell'episodio, però, cambierà ben poco. Ammesso che la polizia riesca a identificarli. I tre fermati potrebbero aver fatto parte del commando", ma tra loro non c'è il giovane che per primo si è avvicinato ad Antonio: "Di lui abbiamo una descrizione dettagliata, diffonderemo un identikit" spiega il questore. Alle 16, arrivano allo stadio i presidenti delle due società. Silvio Berlusconi sembra sul punto di scoppiare in lacrime: "Ero con Viola quando ho appreso la notizia. Ci siamo guardati negli occhi, sconvolti, pieni di amarezza. Abbiamo fatto tanto per rendere più sicuri gli stadi. Purtroppo, queste tragedie capitano sempre più spesso fuori dai cancelli. Credo, spero che chi ha compiuto questo gesto non faccia parte dei clubs". Dino Viola è choccato, ma consapevole delle responsabilità che tutto il mondo del calcio dovrà assumersi.

5 giugno 1989

Fonte: Stampa Sera

Fonte: Il Messaggero

La polizia cerca i cinque complici degli assassini del tifoso romanista

(Omissis), uno dei fermati, è un ultras del Milan e, per la società svolge, il servizio d'ordine a San Siro. Il tifoso ucciso, orfano, era il minore di otto fratelli. La posizione del club.

MILANO - Nuovi sviluppi sarebbero imminenti nelle indagini sulla morte del giovane tifoso romanista Antonio De Falchi, ucciso a calci e pugni domenica mattina nei pressi dello stadio di San Siro. Dopo i primi tre fermi gli agenti della Digos sono sulle tracce di altri cinque giovani che, secondo le diverse testimonianze raccolte, avrebbero partecipato all'aggressione. Ma la notizia più sconcertante è che (Omissis), 29 anni, uno dei tre fermati con l'accusa di concorso in omicidio, appartiene al servizio d'ordine del Milan. La circostanza raccontata dalla madre, la quale ha detto che il figlio aveva un "passi" per entrare allo stadio, ha trovato conferma negli ambienti del Milan. (Omissis) era uno dei 12 rappresentanti dei gruppi ultras della curva che era stato ammesso nel servizio d'ordine composto da 380 persone scelte dalla Associazione italiana Milan club. Gli altri due giovani per i quali è stato convalidato il fermo sono (Omissis) di 18 anni e (Omissis) di 21 anni. (Omissis) appartiene al gruppo "fossa dei leoni", una delle organizzazioni dei fedelissimi del Milan, riconosciuta fra le associazioni dei tifosi rossoneri. Lo ha precisato il responsabile organizzativo del Milan, Paolo Taveggia, che ha fornito una serie di chiarimenti ufficiali sulla posizione di (Omissis) all'interno del "servizio stadio". "(Omissis) - ha detto Taveggia - era in possesso di una delle 380 tessere del servizio stadio, assegnate ad ogni inizio di stagione dalla società a quei tifosi volontari che sulla base di requisiti di lunga militanza e assoluta affidabilità vengono ritenuti idonei a svolgere una serie di compiti all'interno dello stadio". (Omissis) apparteneva alla "fossa" da anni, e da diverse stagioni faceva parte del "servizio stadio". "È chiaro - ha detto Taveggia - che se in precedenza si fosse mai reso responsabile di atti di violenza o di scorrettezza non gli sarebbe stato affidato alcun compito". Taveggia ha tenuto a sottolineare che il "servizio stadio" non è un servizio d'ordine, ma un'organizzazione al cui interno ciascuno ha particolari incarichi. "(Omissis) aveva esclusivamente quello di portare striscioni allo stadio e di curarne la corretta esposizione sulla curva e per questo - ha aggiunto Taveggia - si recava allo stadio con molte ore d'anticipo". Taveggia ha espresso il dispiacere della società e "la delusione, perché malgrado tutto quanto è stato fatto possono ancora accadere simili episodi". "Siamo impegnati - ha proseguito - a collaborare con la giustizia e abbiamo invitato i nostri tifosi che abbiano visto qualcosa ad andare a testimoniare alla polizia". Taveggia ha detto di aver visionato il filmato fatto da un cineamatore, ma ha osservato che non dovrebbe essere di grande aiuto per le indagini perché si vede solo un uomo che corre da lontano "senza poter nemmeno distinguere se sia bruno o biondo". (Omissis), appassionato di culturismo, lavora come postino nel quartiere milanese della Bovisa. (Omissis) è un ragazzo "di buona famiglia": figlio di un farmacista, è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università di Milano. (Omissis) lavora come "pony" presso un'agenzia di recapiti postali: dei tre giovani, è il più fortemente indiziato, in quanto fermato dai primi agenti intervenuti a soccorrere De Falchi. Gli altri due, riconosciuti dalla polizia tra i giovani che erano scappati subito dopo l'aggressione, sono stati bloccati pochi minuti dopo. A decidere sulla convalida del fermo di (Omissis), (Omissis) e (Omissis) sarà il giudice istruttore del tribunale di Milano, Gustavo Cioppa. Intanto ieri mattina, all'obitorio di Milano, la madre di Antonio De Falchi si è presentata assieme a due dei suoi figli (Antonio era il minore di otto fratelli) per la straziante formalità del riconoscimento della salma. Esperia De Falchi, rimasta vedova quattro anni fa quando il marito Enrico si uccise gettandosi dalla finestra del suo appartamento, era sconvolta dal dolore. Sorretta dai figli, la donna continuava a ripetere frasi rivolte al suo "pulcino": "non sei morto, ora ti riporto a casa". Dopo il riconoscimento, i familiari di Antonio hanno fatto ritorno a Roma. Nella sede Fininvest di via Rovani si è svolto nel pomeriggio un vertice tra i dirigenti del Milan e del gruppo, Adriano Galliani e Giancarlo Foscale (responsabili per i rapporti con il tifo rossonero), e il responsabile organizzativo rossonero, Paolo Taveggia. Durante la riunione sono stati esaminati in particolare i provvedimenti da prendere in seguito agli sviluppi delle indagini sulla morte di De Falchi: al momento, non sono state ancora rese note eventuali decisioni o prese di posizione ufficiali del Milan.

6 giugno 1989

Fonte: Stampa Sera

Ordine d'arresto per i 3 aggressori ma forse il tifoso è morto d'infarto

Secondo i primi risultati dell'autopsia su Antonio De Falchi non sarebbero state trovate tracce di lesioni o ferite. (Omissis), uno degli arrestati, è un ultras che svolge servizi d'ordine.

MILANO - Tre ordini di arresto per omicidio preterintenzionale sono stati notificati nel carcere di San Vittore ai tre tifosi del Milan fermati per la morte del giovane romanista Antonio De Falchi. Dall'autopsia eseguita stamattina, i cui risultati ufficiali saranno resi noti fra 60 giorni, è emerso che la causa della morte del giovane sarebbe stata un infarto cardiaco. "(Omissis), (Omissis) e (Omissis), quindi, per ora restano in carcere, perché rimane comunque il nesso causale tra l'aggressione degli ultras, alla quale sono accusati di aver partecipato, e la morte del giovane tifoso romano. Il provvedimento emesso dalla procura della Repubblica, in base alle nuove norme, ha validità di dieci giorni, passati i quali gli atti saranno trasmessi al giudice istruttore che dovrà stabilire se confermare l'arresto con l'emissione di un mandato di cattura. Il corpo di Antonio De Falchi, secondo quanto è emerso dall’autopsia eseguita dai prof. Farneti e Marozzi, non presenta alcuna lesione, né esterna, né interna, tranne alcune leggere escoriazioni. Dall'autopsia, alla quale ha assistito anche il prof. Franco Massari, perito di parte per (Omissis), sarebbe emersa una malformazione di una delle coronarie, risultata ipoplasica, cioè più piccola del normale. Secondo gli esperti, in una situazione di stress o di pericolo, quando il cuore è sottoposto ad uno sforzo notevole, questa malformazione potrebbe non consentire il regolare afflusso di sangue al cuore e quindi causare la morte. Comunque i periti nominati dai magistrati hanno 60 giorni di tempo per effettuare ulteriori esami e depositare i risultati ufficiali dell'autopsia. Ma sul fronte delle indagini nuovi sviluppi sarebbero imminenti. Dopo i primi tre fermi gli agenti della Digos sono sulle tracce di altri cinque giovani che, secondo le diverse testimonianze raccolte, avrebbero partecipato all'aggressione. Ma la notizia più sconcertante è che (Omissis), 29 anni, uno dei tre arrestati, appartiene al servizio d'ordine del Milan. La circostanza raccontata dalla madre, la quale ha detto che il figlio aveva un "passi" per entrare allo stadio, ha trovato conferma negli ambienti del Milan. (Omissis) era uno dei 12 rappresentanti dei gruppi ultras della curva che era stato ammesso nel servizio d'ordine composto da 380 persone scelte dalla Associazione italiana Milan club. Gli altri due giovani arrestati sono (Omissis) di 18 anni e (Omissis) di 21 anni. (Omissis) appartiene al gruppo "fossa dei leoni", una delle organizzazioni dei fedelissimi del Milan, riconosciuta fra le associazioni dei tifosi rossoneri. Lo ha precisato il responsabile organizzativo del Milan, Paolo Taveggia, che ha fornito una serie di chiarimenti ufficiali sulla posizione di (Omissis) all'interno del "servizio stadio". "(Omissis) - ha detto Taveggia - era in possesso di una delle 380 tessere del servizio stadio, assegnate ad ogni inizio di stagione dalla società a quei tifosi volontari che sulla base di requisiti di lunga militanza e assoluta affidabilità vengono ritenuti idonei a svolgere una serie di compiti all'interno dello stadio". (Omissis) apparteneva alla "fossa" da anni, e da diverse stagioni faceva parte del "servizio stadio". Taveggia ha tenuto a sottolineare che il "servizio stadio" non è un servizio d'ordine, ma un'organizzazione al cui interno ciascuno ha particolari incarichi. "(Omissis) aveva esclusivamente quello di portare striscioni allo stadio e di curarne la corretta esposizione sulla curva e per questo - ha aggiunto Taveggia - si recava allo stadio con molte ore d'anticipo". Taveggia ha espresso il dispiacere della società e "la delusione, perché malgrado tutto quanto è stato fatto possono ancora accadere simili episodi". "Siamo impegnati - ha proseguito - a collaborare con la giustizia e abbiamo invitato i nostri tifosi che abbiano visto qualcosa ad andare a testimoniare alla polizia". Taveggia ha detto di aver visionato il filmato fatto da un cineamatore, ma ha osservato che non dovrebbe essere di grande aiuto per le indagini perché si vede solo un uomo che corre da lontano "senza poter nemmeno distinguere se sia bruno o biondo". (Omissis), appassionato di culturismo, lavora come postino nel quartiere milanese della Bovisa. (Omissis) è un ragazzo "di buona famiglia": figlio di un farmacista, è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università di Milano. (Omissis) lavora come "pony" presso un'agenzia di recapiti postali: dei tre giovani, è il più fortemente indiziato, in quanto è stato fermato dai primi agenti intervenuti a soccorrere De Falchi.

6 giugno 1989

Fonte: Stampa Sera

Killer da stadio con tessera

di Piero Colaprico e Fabrizio Ravelli

MILANO - Portano i capelli quasi a zero, hanno scarpe pesanti, cinghie piene di borchie. Inalberano uno striscione che ha il suo posto fisso sulla curva: Gruppo brasato. Fra le due parole, una zucca svuotata come quella di Halloween. Sono loro, i brasati, quelli che domenica hanno ammazzato di botte un ragazzo di diciannove anni, Antonio De Falchi, alcune ore prima di Milan-Roma, fuori dallo stadio. E ieri mattina, dopo una lunga notte di interrogatori e confronti, il sostituto procuratore Daniela Borgonovo ha firmato tre ordini di arresto per concorso in omicidio. Uno dei tre ultras fermati, (Omissis), 29 anni, fa parte del servizio d'ordine del Milan: i dirigenti rossoneri l’hanno ammesso solo dopo che la madre aveva dato la notizia alla stampa. (Omissis) è uno dei 12 rappresentanti degli ultras nel servizio d’ordine, formato in tutto da 380 elementi tesserati. Gli altri due arrestati sono (Omissis), 18 anni, e (Omissis), 21 anni. Si cercano altri cinque brasati: la polizia ha gli identikit di due di loro. Antonio De Falchi, 19 anni da compiere, era arrivato in treno da Roma e con tre amici aveva raggiunto in tram lo stadio. Comprato il biglietto, i quattro si stavano avviando verso il cancello numero 16, le sciarpe giallorosse nascoste sotto i giubbotti per evitare guai. Il primo identikit è di quello che li ferma con un pretesto: alto 1.75, capelli lunghi dietro e corti sopra, naso storto, maglietta bianca e jeans. Hai una sigaretta ? - chiede. E poi: Sai che ore sono ? L’accento romano tradisce De Falchi e i suoi amici. Un cenno, e da dietro una struttura di cemento esce un commando di picchiatori. Antonio De Falchi non ce la fa a scappare, lo ferma uno sgambetto. Lo massacrano di calci e pugni. Il secondo identikit è di uno di quelli che infieriscono: capelli rasati, salvo un ciuffo sulla tempia destra, robusto, mascella forte. Mancavano ancora quattro ore al fischio d'inizio di Milan-Roma, quando Antonio De Falchi s'è rialzato in piedi, aiutato da uno dei poliziotti che erano accorsi e avevano messo in fuga i picchiatori. Il ragazzo era cianotico, respirava a fatica, e si è di nuovo accasciato. Il poliziotto ha tentato di rianimarlo con la respirazione bocca a bocca, e con il massaggio cardiaco. De Falchi è morto sull’ambulanza. Dirà l’autopsia, con precisione, quale è stata la causa della morte. In questura hanno riferito che sul corpo non c' erano lesioni apparenti, e hanno ipotizzato un collasso. Ma la madre e i fratelli di Antonio De Falchi, dopo aver riconosciuto il cadavere all’obitorio, hanno detto invece che era pieno di lividi. Mentre l’ambulanza correva verso l’ospedale San Carlo, intorno allo stadio la polizia ha fermato una decina di sospetti e li ha portati in questura. (Omissis) è stato preso al bar lì vicino. Alto, irrobustito dal body-building, un lavoro alle Poste di piazzale Lugano, (Omissis) abita con la madre in viale Suzzani. In tasca aveva un passi con foto, una delle 380 tessere del servizio d’ordine che il Milan ha organizzato. (Omissis) è uno dei brasati: ogni domenica, grazie alla tessera, entrava allo stadio per stendere lo striscione. Sempre allo stesso posto, sopra quello delle Brigate rossonere. La sua è una delle dodici tessere distribuite agli ultras, le altre 368 del servizio d’ordine sono per gli affiliati ai Milan Club. Alto e atletico è anche (Omissis), 21 anni, figlio di un farmacista di Sesto San Giovanni, studente modello del secondo anno di Giurisprudenza. Grande e grosso ma tranquillo, secondo il padre, che ieri attraverso lo spioncino della sua farmacia ha risposto all’assalto dei cronisti. Tranquillo, ma c’è chi sostiene che, quando la polizia l’ha fermato, Antonio avesse ancora una cinghia borchiata avvolta intorno a una mano. Il terzo arrestato per concorso in omicidio si chiama (Omissis), e coi suoi 18 anni è il più giovane. Fa il fattorino pony-express, e ha una Kawasaki. Per tutta la notte fra domenica e ieri, il sostituto procuratore Daniela Borgonovo ha interrogato in questura i fermati e i testimoni, fra i quali c' era un ragazzino di tredici anni, e ha messo a verbale il racconto dei tre amici di Antonio De Falchi. Poi ha firmato gli ordini di convalida dei fermi, chiedendo che i nomi dei tre non venissero divulgati: la cautela non ha mantenuto a lungo il segreto. Entro quarantotto ore il pubblico ministero chiederà al giudice istruttore Gustavo Cioppa l’emissione di mandati di cattura. Si cercano intanto gli altri picchiatori, almeno cinque. Dei tre fermati, pare che quello più compromesso sia proprio (Omissis), il più giovane: la polizia l’ha acchiappato subito. Gli altri due sono stati presi qualche minuto più tardi. La notizia che (Omissis) fa parte del servizio d’ordine è stata diffusa dalla madre, e ha messo in crisi l’ordinato coro di chi da domenica segnava sottili confini fra i veri tifosi e gli altri. Anche il questore Umberto Lucchese, forse trascinato dall’indignazione, aveva sostenuto che la vera tifoseria, per quanto brutta ed esasperata, non arriva mai a questi livelli. Stessa musica, la solita, da Berlusconi in giù. Poi i dirigenti del Milan hanno dato una mano alle indagini, ed è arrivata la sorpresa. (Omissis) pare sia uno dei capi dei brasati: il gruppo non ha tessere né gerarchie. I brasati però non sono indipendenti - spiega uno della Fossa - Stanno insieme agli altri ultras. Sono un centinaio e non tutti sono skinheads, rapati. Non hanno tessere come gli altri ultras, e non vendono sciarpe e magliette. Non avevano mai dato problemi. A San Vittore, mentre si indagava sulla morte di Antonio De Falchi, erano intanto finiti altri due ultras milanisti: Paolo Ferrari, 25 anni e Umberto Lanzani, 24 anni. Stavano fra gli esagitati che, nemmeno due ore dopo che De Falchi era morto ammazzato, tiravano sassi ai tifosi romanisti, centrando anche un carabiniere.

6 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

L’imbarazzo del Milan: "aiutateci"

La notizia che uno degli arrestati fa parte del servizio d’ordine del Milan è stata accolta con imbarazzo evidente. Abbiamo 400 volontari che ogni domenica stanno ai cancelli, controllando i biglietti e segnalando eventuali incidenti. Sono tutti schedati, nel senso che di ognuno di loro abbiamo foto e dati. Ma non possiamo certo controllare le fedine penali, controllare momento per momento che cosa stanno architettando. Non sappiamo più dove battere la testa: se qualcuno ha dei consigli da darci, ci aiuti. Quando l’ho saputo, io ho pensato una cosa sola: bisogna prenderli. Paolo Taveggia è ufficialmente il direttore organizzativo del Milan. In realtà è l’uomo che Berlusconi ha delegato per affrontare e risolvere le grane interne ed esterne della società, dai biglietti della finalissima di Barcellona ai rapporti con i giocatori. È stato lui, domenica, a chiedere ai padroni della curva di ritirare gli striscioni, a convincere l’ingegner Viola che la targa di merito al dottor Berlusconi poteva dargliela un’altra volta, che la riproduzione floreale della Coppa faceva parte di una festa improvvisamente e terribilmente fuori luogo. E poi una serata lunghissima in questura dopo la partita, un altro vertice poi nella mattinata di ieri. Abbiamo fatto una riunione con i capi dei gruppi tifosi. Io personalmente non ho mai pensato che il Milan avesse trovato la formula della felicità. Abbiamo cercato di selezionare, di aiutare, di incanalare. A un certo punto, dopo aver tanto lavorato e aver ottenuto anche dei buoni risultati, sembrava davvero che quelli del Milan fossero tifosi un po’ speciali. E invece non era vero, sono come tutti gli altri, nel bene e nel male. Ho detto ai capi ultras: da domani avrete la patente di assassini, tutti, dalle vostre madri ai datori di lavoro si potrebbero vergognare di voi, magari disprezzarvi. Se vogliamo che questo non accada, bisogna eliminare i deficienti. È già successo con Luigi Sacchi, quello che l’anno scorso colpì Tancredi con un petardo. Fu identificato e arrestato grazie alle testimonianze di chi gli stava intorno quel giorno. Adesso deve scattare di nuovo lo stesso meccanismo. Il Milan parteciperà ufficialmente ai funerali del ragazzo ucciso: nei prossimi giorni verrà anche deciso in che modo intervenire a favore della famiglia De Falchi. La Federazione Giovanile comunista di Milano ha scritto a Berlusconi: Regalate la Coppa dei Campioni alla famiglia di Antonio. Sarebbe un gesto straordinario. l. g.

6 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

"Lo stato deve aiutarci"

di Leonardo Coen

MILANO - Limitare la violenza agli stadi è un compito che spetta alle istituzioni, non ai clubs e ai loro dirigenti: un demoralizzato Silvio Berlusconi se ne è andato a Bologna per incontrare gli agenti Publitalia del Centro e del Sud, però prima di partire ha detto la sua sullo scenario che ha provocato (e consentito) l’aggressione mortale contro il tifoso romanista Antonio De Falchi. Il presidente rossonero, infatti, ha dichiarato che spetta alle forze dell’ordine agire per tenere lontano chi reca danni, giacché la tragedia avvenuta fuori San Siro quattro ore prima dell’inizio di Milan-Roma è il classico esempio che pone gli sportivi di fronte all’impotenza. È difficile controllare quel che succede dentro lo stadio, con quale diritto possiamo intervenire all’esterno ? La logica di Berlusconi apparentemente non fa una grinza: anzi, in fondo qualcosa di simile aveva già detto due anni fa il presidente del Verona Ferdinando Chiampan, esasperato dalle scorribande dei propri tifosi dentro e fuori il Bentegodi: aveva accusato d’omertà i suoi concittadini perché non gli davano una mano per smascherare i violenti. Questa volta, contrariamente al solito, Berlusconi è stato laconico. Ha dimenticato o sorvolato il fatto che uno dei tre giovani arrestati dalla polizia ed accusati di concorso in omicidio fosse regolarmente inquadrato nel servizio d’ordine dei Milan club. L’imbarazzo è evidente: per un motivo o per un altro sia Adriano Galliani, amministratore delegato del Milan nonché vicepresidente della Lega, sia Fedele Confalonieri, consigliere delegato della società di via Turati, ieri hanno evitato commenti pubblici in merito alla tragedia di domenica. Nessuno ha voglia di rispondere a domande oggi brucianti. Così, in una conversazione con un cronista del quotidiano milanese La Notte, Berlusconi si è limitato a rivendicare l’impegno formale della società contro la violenza che è l’unico vero male del calcio e che spesso ci arriva da fuori. Berlusconi allarga sconsolato le braccia - strano, per un lottatore del suo stampo - e ammette che c’è un limite oltre il quale un presidente e una società non possono andare. Insomma, ci pensi lo Stato a reprimere, a prevenire. Noi diamo il buon esempio, assicura Sua Emittenza, come dirigenti e come atleti. Noi abbiamo prodotto spot televisivi per campagne antiviolenza. Noi ci rivolgiamo periodicamente alle organizzazioni dei tifosi perché raccomandino ai loro soci un comportamento sportivo: lealtà, correttezza e rispetto degli altri sono la filosofia del Milan e di ogni nostro gruppo di lavoro ripete, con tono accorato, Berlusconi. Tante cose non vanno a San Siro, come in tutti gli altri templi tricolori del dio pallone. Ai primi di maggio, per esempio, uno studente universitario denunciò lo sconcertante accordo fra bagarini e maschere all’ingresso dello stadio, in occasione di Inter-Milan (giocata il 30 aprile scorso). L’episodio finì sulle pagine dei quotidiani. Le curve sono un tripudio di striscioni i cui slogan, spesso e volentieri, sono ignobili: impossibile fingere di non sapere chi li prepara. Come affatto teneri sono gli inni degli ultras, fra i quali il celebre Sangue di milanista. Le società di calcio sono spesso vittime di ricatti: molte volte debbono scendere a compromessi con le tifoserie più turbolente regalando ingressi alle partite in cambio di promesse del tipo non succederà nulla di grave. L’argomento è tabù: tutti sanno, nessuno ha il coraggio di denunciare la situazione. Quando a Verona arrestarono dodici tifosi della curva sud, nel febbraio dell’87, la domenica successiva per Verona-Roma lo stadio era semivuoto (fu realizzato un ridicolo incasso di 160 milioni di lire) e nella famigerata curva sud campeggiava uno striscione minaccioso: Non dodici ma cinquemila colpevoli. Le regole del disordine, come le ha definite il sociologo inglese Peter Marsh che ha studiato il fenomeno della violenza sugli spalti, sono il codice comportamentale di queste frange che cercano l’incidente, che provocano. Sulle pubblicazioni dei vari Milan club, Inter club, eccetera i dirigenti continuano a predicare la non violenza. Le stesse Brigate Rossonere e le Fosse dei Leoni, le tifoserie organizzate della curva più calda di San Siro, oggi puntualizzano che non rientra nella nostra mentalità fare ronde contro gli avversari ed è sbagliato volere collegare per forza gli aggressori a qualche gruppo della curva. Sventola il drappo con l’immagine del Che Guevara e si rivedono gesti e slogan dell’autonomia, sopra questi gruppi la domenica allo stadio. Li vediamo noi, li vedono i dirigenti delle squadre. È un mondo dove tutti conoscono tutti. Dice uno degli ultras: Di solito chi fa certe cose, come picchiare un avversario, il giorno dopo se ne vanta. Ma se ci scappa il morto, sta zitto. Bocca cucita.

7 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

È morto d'infarto il romanista di 18 anni assalito a San Siro da 30 teppisti.

Il tifoso ucciso dalla paura

di Giovanni Cerruti

Lo ha stabilito l'autopsia - Il giovane aveva una malformazione alle coronarie - Per i tre ultras milanisti in carcere l'accusa è ora di omicidio preterintenzionale - Uno faceva parte dei servizi d'ordine rossoneri.

MILANO - Antonio De Falchi, aggredito davanti a San Siro da trenta tifosi milanisti, è morto d'infarto. Per i tre arrestati cambia molto: da omicidio premeditato a omicidio preterintenzionale. Per chi dibatte di sport e violenza cambia niente: De Falchi, 18 anni, tifoso romanista, resta vittima e basta. L'hanno ucciso trenta milanisti e la paura, il cuore non ha retto. Una malformazione alle coronarie, secondo l'autopsia, è stata fatale. Senza l'aggressione, è ovvio. De Falchi sarebbe a casa, in una borgata romana dalla madre vedova e dai sette fratelli. Ieri mattina l'autopsia ha confermato il sospetto d'infarto. Sul corpo di De Falchi non sono state trovate lesioni; solo qualche graffio. Ma Daniela Borgonovo, il sostituto procuratore che sempre ieri ha trasformato i tre fermi in arresti, spiega che le accuse ai trenta restano valide: "II rapporto di causa ed effetto è evidente". Certo è che la morte per infarto, nel caso di rinvio a giudizio, allevierà di molto le eventuali condanne. Un buon avvocato potrebbe riuscire a dimostrare che De Falchi non è morto per l'aggressione, bensì per paura e mal di cuore. Tifosi e teppisti, i tre milanisti sono nel carcere di San Vittore. I genitori li definiscono "bravi ragazzi". La Questura "teppisti già noti, anche se non protagonisti di episodi gravi", il Milan, come sempre in questi casi, come capitò all'Inter dopo l'arresto dei tifosi nerazzurri accusati dell'uccisione dell'ascolano Nazareno Filippini, prende diplomatiche distanze: "Non fanno parte dei nostri Club". Tutto già visto e già sentito, il solito copione che invade titoli di giornali e trasmissioni tv tipo "il processo del lunedì". Litania: sono teppisti, non sono tifosi. I tre bravi ragazzi sono Daniele Formaggi: 29 anni, postino, che non farà parte di un club ufficiale e però fa parte dei 380 del servizio d'ordine organizzato dal Milan: tanto da avere il "pass" dalla società di Silvio Berlusconi per l'ingresso gratuito a San Siro; (Omissis), 21 anni, studente in legge, figlio di un farmacista di Sesto San Giovanni; (Omissis), 18 anni, pony-express con Kawasaki. Dei tre il più inguaiato sembra (Omissis), fermato dagli agenti a pochi metri dal moribondo De Falchi. (Omissis) e (Omissis) erano più lontani. Tre bravi ragazzi, per nulla emarginati o disperati. Eppure quantomeno esagitati: (Omissis), al momento del fermo, aveva ancora il cinturone borchiato attorno al palmo della mano destra. Con gli altri due, in ottobre, aveva formato il gruppo del Brasato", ragazzotti uniti dal Milan e dalla passione per gli skin-heads, le teste pelate. I tre, e così gli altri, hanno i capelli cortissimi e la passione per il body building. A San Siro si riuniscono dietro uno striscione che è il loro simbolo: la zucca vuota di Halloween. Qualche spinello che gira, tifo e botte. "Un genitore può solo insegnare educazione e onestà - è il commento di (Omissis), il farmacista padre di Antonio - ma nessuno sa cosa succede dentro uno stadio...". Quel che è successo domenica, fuori da San Siro e quattro ore prima di Milan-Roma, è abbastanza chiaro. I trenta "brasati" si erano dati appuntamento a mezzogiorno, come sempre, al loro punto di ritrovo. Il bar di Piazza Axum, era però occupato da tifosi romanisti arrivati In treno. "Andiamo a riprenderci il bar...". I trenta si stavano organizzando quando hanno notato De Falchi con tre amici. Li hanno abbordati con un trucco. Un milanista con maglietta bianca e naso storto domanda: "Avete sigarette ?". Il "No" non permette di riconoscere l'accento. E allora: "Che ore sono ?". Il tempo di rispondere, un gesto con la mano agli altri che aspettavano soltanto quel gesto, i romanisti riescono a dire "Ma che volete da noi ? Cerchiamo solo i biglietti...".  E De Falchi è circondato. Trenta secondi di pugni e calci. Trenta contro uno. Arrivano gli agenti e scappano tutti, tranne (Omissis) che viene placcato e De Falchi che resta a terra: morirà sull'ambulanza. Gli altri dell'aggressione, ufficialmente, ancora non hanno un nome. Forse, dopo aver saputo dell'esito dell'autopsia, dopo il consiglio di un avvocato, qualcuno potrebbe presentarsi. "Vorrei fare un piccolo appello al giovane con la maglietta bianca - dice il vice-questore Achille Serra - ora che si è saputo del decesso a causa dell'infarto". Solo il tifoso in maglietta bianca, ad esemplo, può dire se anche gli altri due arrestati hanno partecipato all'aggressione: "Si presenti, è nel suo interesse; altrimenti rimarrà isolato anche dagli amici". Nella sede del Milan l'imbarazzo è notevole. Povero Berlusconi: la Coppa dei campioni e la notte di Barcellona, rovinate da una trentina di suoi tifosi. Per il resto tutto secondo copione. Paroloni. Polemiche (da "Il Messaggero": "Non più milanisti contro romanisti, ma Milano contro Roma"). Lacrime e blabla in tv, al "Processo del Lunedì", si son visti gli amici di De Falchi con uno striscione: "Trenta contro trenta scappavate". Messaggio chiaro e da nessuno censurato. Per fortuna il campionato è quasi finito; e la prossima partita, tra milanisti e romanisti, è ancora lontana.

7 giugno 1989

Fonte: La Stampa

"Prima i pugni poi l'infarto"

Oggi a Roma i funerali

di Piero Colaprico

ROMA - Si svolgeranno oggi nella chiesa del quartiere di Torre Maura i funerali di Antonio De Falchi. Alle esequie non parteciperà la Roma, impegnata in una amichevole. Invano Bruno Conti aveva chiesto, nei giorni scorsi, che tutta la squadra fosse presente. Viola manderà una delegazione di dirigenti e di giovani giocatori delle squadre minori. Roma e Milan hanno comunque già fatto sapere che aiuteranno la famiglia del tifoso morto.

7 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

Killer da stadio: la morte di Antonio De Falchi

Ultimo saluto al tifoso romanista

Figlio mio, t'hanno spezzato il cuore

di Massimo Lugli

ROMA - Antonio, figlio mio, figlio mio bello, cocco di mamma tua ti hanno spezzato il cuore... Antonio non ci torni più a casa. Antonio bello, Antonio dolce t' hanno ammazzato, non ti vedo più. Il lamento di Esperia De Falchi continua a lungo, come una nenia di dolore, sovrasta il brusio di una folla accalcata fino all’inverosimile, il ronzare ininterrotto delle telecamere, il rumore secco delle macchine fotografiche, perfino le prime note dell’organo. Afflosciata su una panca tra le braccia del presidente della Roma, Dino Viola, la donna è pallidissima, esausta. Il nero degli abiti mette in risalto lo spaventoso pallore del viso, rigato di sudore e di lacrime. Almeno diecimila persone, l’intera borgata di Torre Maura, sono venute a dare l’addio al giovane tifoso romanista, morto in un’imboscata di ultras milanisti davanti ai cancelli di San Siro. Il quartiere, uno dei tanti scorci di periferia accoccolati sulla Casilina, si è tinto di rosso e di giallo: striscioni, bandiere, mazzi di fiori, gagliardetti erano dovunque. Sul piazzale davanti alla palazzina dove abita la famiglia del ragazzo spiccava un gigantesco cuore dipinto coi colori della Roma. Intanto a Milano, è stata celebrata una messa di suffragio. Al rito era presente tutta la squadra rossonera. Solo una piccola parte della folla ha trovato posto nella chiesa di San Giovanni Leonardi, un edificio modesto, moderno, con grandi vetrate blu e poche decorazioni. Dentro e fuori, una tensione quasi isterica, commozione, lacrime, singhiozzi, applausi. Ma non ad alta voce, nessuno slogan di vendetta, di sangue. In rappresentanza della Roma (che ha sostenuto tutte le spese delle esequie) oltre al presidente Viola C’è l’intera squadra dei giovanissimi regionali, ragazzini sui quindici anni un po' impacciati nella tuta rossa. Poi, alla spicciolata, arrivano Angelo Peruzzi, Sebino Nela, Giuseppe Giannini. A stento sfuggono all’abbraccio dei tifosi e si rifugiano di lato all’altare, in un angolo. Nela, in giacca scura, è visibilmente scosso, non riesce a trattenere le lacrime. A un tratto uno dei sette fratelli di Antonio, un ragazzo alto, tutto vestito di jeans, dai lineamenti chiusi, serrati dal dolore, gli si avvicina. In mano ha una maglia giallorossa: È la tua. Gliel’avevi regalata tu, ti ricordi ? Poi l’emozione ha la meglio e i due uomini si abbracciano e piangono insieme. La bara, davanti all’altare è avvolta in una grande bandiera giallorossa, sepolta dai fiori: gladioli, garofani, lilium, crisantemi e gerbere che riprendono i toni dominanti del giallo e del rosso. Ai lati, spiccano le due corone rossonere (una del Milan, l'altra di Berlusconi) e quella biancoceleste della Lazio. Davanti al feretro si fermano per qualche istante, sconvolti, anche due dei giovani che erano a Milano assieme a Antonio De Falchi e sono sfuggiti all’assalto degli ultras. "Stasera Antonio ha acquistato l’autorità che gli dà il diritto di rivolgerci la parola, come chi ha raggiunto il limite ultimo dell’esperienza umana, la morte". Don Giuseppe Mani, vescovo della zona est di Roma è un bell’uomo, dai capelli bianchi e dalla voce chiara, leggermente teatrale. "E la parola che Antonio vuol dirci è questa: la vita è il valore più alto. La vita non si tocca, è un dono di Dio. Antonio ci dice di guardare a tutti coloro che opprimono la vita, sia nel nascere che nel finire. Sta a noi raccogliere questo messaggio e l’impegno a difendere sempre la vita". Poi il sacerdote pronuncia parole di fede cristiana, di speranza nella resurrezione. "Se lui se n' è andato - conclude - noi restiamo a giocare la partita più terribile e impegnativa, quella della vita. Antonio sarà sempre con noi, a sostenerci, ad assisterci". Il cappellano della Roma, don Fortunato Frezza, interviene per lanciare un messaggio di fratellanza in nome dello sport: "Domenica allo stadio useremo la tattica vincente della gioia, della festa e sapremo mostrarla a chi predica l’odio. Non opporremo l’odio all’odio". La chiesa è avvolta da una cappa di calore. Tutti sudano, qualcuno inveisce a mezza bocca contro i fotografi e i cineoperatori che si arrampicano perfino sopra l’altare. Un interminabile applauso saluta la fine della messa e il nome di Antonio mentre la folla defluisce a fatica. Dino Viola e i giocatori infilano una porta secondaria e vanno via senza una parola. "Che infamata che cianno fatto, a presidè" dice un ragazzo col giubbotto e Viola annuisce. "E' peggio di Heysel, peggio di Paparelli" mormora. Fuori, la gente scandisce il nome di "Antonio, Antonio", la confusione dilaga, una fiumana di gente tenta di avvicinarsi al furgone mortuario, volano insulti, spintoni, qualche schiaffo. Poi il corteo invade le vie della borgata. Su un muro, una scritta minacciosa: Antonio, ti vendicheremo. E ancora: Vigliacchi uscite adesso, ve lo facciamo noi un bel processo.

8 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

La paura della rappresaglia ultras

ROMA - La paura della vendetta è nell’aria, gli ultras, da una parte e dall’altra, minacciano di affilare le armi. C’è il rischio che romanisti e milanisti si affrontino almeno questa sembra essere l’intenzione di alcuni gruppi in un campo neutro, a Pisa, dove la squadra rossonera dovrà incontrare, domenica, la compagine locale (scioperi dei calciatori permettendo...). E gli hooligans giallorossi sembrano ormai scesi sul sentiero di guerra, si dichiarano pronti a mettere in pratica il monito biblico occhio per occhio, dente per dente. Quel giovane tifoso romano morto domenica scorsa vicino allo stadio di San Siro dopo una feroce aggressione da parte di un commando di brasati, l’ala più violenta e oltranzista dei supporters milanisti, è diventato il tragico simbolo di una guerra senza quartiere, combattuta fuori e dentro le Curve dei campi di calcio. Le truppe potrebbero muoversi all’alba di domenica, in incognito, e convergere verso la cittadina toscana che fino a ieri era del tutto ignara di quanto rischia di piombargli addosso. Ma se Pisa ancora non dà segni di reazione, diverso è il clima che si vive negli uffici di polizia della capitale e di Milano. Questa marcia degli ultras non si farà, spiega un funzionario che, per ovvi motivi intende mantenere l’anonimato. Al ministero dell’Interno hanno già approntato un piano operativo per impedire che la violenza dell’estremismo calcistico esploda. I gruppi oltranzisti dei tifosi romani e milanesi sono stati messi, discretamente, sotto controllo. E ogni loro spostamento sarà minuziosamente seguìto e verificato. Come, non è possibile sapere. Ma con qualsiasi mezzo cercheranno di raggiungere la città toscana aggiunge il funzionario sapremo fermarli. Li controlleremo minuto per minuto Stazioni e autostrade presidiate, quindi, massiccio spiegamento di forze intorno allo stadio di Pisa e nelle strade cittadine, massicci controlli sulla provenienza di coloro i quali, domenica, andranno a vedere la partita. Già da oggi nostri agenti in borghese avranno il compito di non perdere di vista, neanche un minuto, i leader dei vari club rivela il funzionario e, se necessario, provvederanno a informare la procura della Repubblica e la prefettura di iniziative che possano far presumere azioni di rappresaglia o esplosioni di violenza. Polizia e carabinieri presidieranno le sedi delle associazioni delle tifoserie, mentre le volanti di pattuglia hanno già avuto precise disposizioni di identificare e fermare gli ultras che andranno in giro a fare scritte sui muri. Intanto si moltiplicano gli appelli alla ragione. La violenza che si esprime negli stadi non ha una sua radice nel mondo dello sport, se non in quanto anch'esso partecipe delle ombre di questa nostra società, afferma il cappellano del Milan, don Massimo Camisasca. Fanno amaramente pensare le grida di vendetta ha detto don Camisasca, che è anche un autorevole esponente di Comunione e Liberazione. Fanno pensare a una rabbia che non nasce dal calcio, ma da ragioni più profonde. E gli ultras ? Un appello è partito dall’Associazione Italiana Roma Club, che conta sessantamila iscritti in tutta Italia: "Siate saggi, dimostrate che la migliore vendetta è il perdono" ha dichiarato il vice-presidente Fausto Iosa, rivolgendosi ai tifosi. Iosa ha aggiunto che la notizia di una vendetta dei romanisti su quelli del Milan non è vera: "non accadrà nulla: certe manifestazioni d'odio al funerale di De Falchi sono uscite in un momento di rabbia, ma non avranno conseguenze". Il presidente della Roma, Dino Viola, ha invece evitato qualsiasi forma d'appello: "Non credo veramente a una vendetta dei tifosi ha dichiarato, ma non voglio fare appelli perché gli Italiani sono abituati a fare l’esatto contrario di quello che gli viene chiesto". Da Pisa, invece, il presidente della società toscana, Romeo Anconetani, ha chiesto di non dare importanza a queste notizie, perché rischiano di rovinare una festa dello sport. "La voce degli estremisti ? La Lega ci ha tranquillizzato: forse le minacce sono state fatte a caldo, in un momento di rabbia. Spero comunque che la società Roma dissuada i tifosi - ha continuato Anconetani, se qualcuno ha veramente intenzione di venire a Pisa per vendicare la morte di quel ragazzo". Ma c’è anche la testimonianza di una ragazza della frangia estremista del tifo giallorosso. "Milano sembra avvelenata contro Roma - ha detto - inevitabilmente qualcosa succederà. Noi cercheremo di restare calmi, ma non si può accettare che un ragazzo di 19 anni, innocuo, sia aggredito selvaggiamente e ucciso. Cosa farebbe una persona se gli uccidessero un amico ? Reagirebbe: è un istinto animalesco. Purtroppo - ha dichiarato la tifosa ultras - a Milano fanno i loro comodi. Se decidiamo di andare in trasferta a Milano, dobbiamo esser pronti a difenderci da soli. Dopo gli interrogatori in questura, i ragazzi che erano con De Falchi sono tornati da soli alla stazione, senza scorta, con l’angoscia che qualcuno li prendesse. Due anni fa hanno arrestato sessanta tifosi della Roma, che sono rimasti in prigione cinque giorni ha continuato la giovane. I giornali li hanno subito individuati come delinquenti. Quest'anno però si è svolto il processo per quell’episodio, e sono stati tutti assolti rapidamente con formula piena. Di Antonio De Falchi, fra tre settimane non ne parlerà più nessuno. Domenica, intanto, nella Curva della Roma sarà il lutto: non tiferemo, non esporremo striscioni. Per ricordare Antonio resteremo in silenzio".

9 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

Martedì il processo De Falchi

ROMA - È stata fissata a martedì 20 la data del processo per direttissima ai tre giovani incarcerati per l’omicidio di Antonio De Falchi, il diciannovenne tifoso romanista ucciso a S. Siro prima di Milan-Roma il 4 giugno scorso. Il magistrato istruttore ha confermato l’accusa di omicidio preterintenzionale per (Omissis), (Omissis) e (Omissis) arrestati subito dopo il drammatico tafferuglio. Tutti gli atti relativi al processo sono stati inviati alla corte di Assise di Milano. Depositata anche la perizia medico legale che ha stabilito con certezza il nesso di causalità fra le percosse subite dalla vittima Antonio e la sua morte.

17 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

Milano, oggi processo per De Falchi

MILANO - Il tribunale di Milano inizierà questa mattina a giudicare un altro episodio di violenza fra tifosi negli stadi. Inizierà infatti oggi, con rito direttissimo, il processo ai tre tifosi del Milan accusati di concorso in omicidio preterintenzionale per la morte di Antonio De Falchi, il tifoso della Roma morto davanti ai cancelli dello stadio di San Siro domenica 4 giugno. I tre imputati sono (Omissis) di 18 anni, (Omissis) di 21 e (Omissis) di 29. Molto probabilmente però il processo inizierà subito con un rinvio: gli avvocati dei tre imputati infatti chiederanno i termini a difesa.

20 giugno 1989

Fonte: Stampa Sera

Milano, al processo De Falchi la parata degli ultrà interisti

MILANO - È stato rinviato a lunedì 26 giugno il processo a carico dei tre ultras del Milan accusati di aver ucciso domenica 5 giugno davanti al cancello 16 dello stadio di San Siro il tifoso romanista Antonio De Falchi di 19 anni. (Omissis), 21 anni, studente di legge; (Omissis), 29 anni, del servizio d'ordine del Milan; (Omissis), 18 anni, di mestiere pony-express, ieri mattina sono stati accompagnati dal carcere all’aula della quarta Corte d'assise dove è cominciato il processo. Ad attenderli nello spazio riservato al pubblico oltre cinquanta persone divise tra amici, familiari, compagni di scuola e tifosi dei gruppi ultras sia del Milan che dell’Inter. Tra il pubblico c'era anche (Omissis), uno degli interisti inquisiti in un primo tempo e poi prosciolti per l’omicidio di Nazareno Filippini, il tifoso ascolano ucciso nell’ottobre scorso nei pressi dello stadio Del Duca. C’è stato qualche momento di tensione subito sedato dai carabinieri, ed è apparso inconsueto e in qualche modo preoccupante questo appuntamento di ultras del tifo a sostegno e solidarietà degli accusati. La sensazione è che questo processo, quando sarà celebrato, potrebbe trasformarsi in una platea per le tesi giustificazioniste nei confronti della violenza che si registra intorno al calcio. La famiglia di Antonio De Falchi ha deciso di costituirsi parte civile e ieri l’ha fatto tramite gli avvocati Marcello e Giuseppe Madia. Lunedì i difensori dei tre imputati chiederanno alla Corte di sentire anche numerosi testimoni indicati dalla difesa. L’AIAC SULLA VIOLENZA. Anche l’associazione italiana allenatori di calcio ha preso posizione sul drammatico problema della violenza. L’Aiac - dice una nota del consiglio direttivo riunitosi a Coverciano - condanna ancora una volta questi insensati episodi e ravvisa la necessità che tutte le componenti del mondo del calcio si incontrino per proporre concreti interventi per le soluzioni di tali complessi e ormai radicati problemi.

21 giugno 1989

Fonte: La Repubblica

Tifo da stadio per gli ultrà sotto processo

Prima udienza per la morte del tifoso romano a San Siro - Tre milanisti accusati di omicidio - Tra la folla che "tifava" per loro anche l'interista coinvolto nella morte di un ragazzo ad Ascoli.

MILANO - Avvio movimentato, con in aula tifo per gli imputati come allo stadio, del processo contro i tre sostenitori del Milan, accusati di aver provocato la morte di un tifoso romanista due domeniche fa. Il procedimento, però, entrerà nel vivo lunedì prossimo, con l'interrogatorio degli imputati. L'udienza di ieri infatti è servita solo per concedere agli avvocati difensori i termini a difesa. I sostenitori della squadra rossonera, Antonio La Miranda, 21 anni, (Omissis), 29 anni, del servizio d'ordine del Milan, e (Omissis), 18 anni, devono rispondere di concorso nell'omicidio preterintenzionale di Antonio De Falchi, il giovane tifoso romanista morto subito dopo essere stato aggredito la mattina del 4 giugno, mentre si accingeva a raggiungere lo stadio di San Siro per assistere alla partita Milan-Roma. I tre imputati erano in aula e hanno ottenuto dal presidente della quarta corte d'assise, Renato Sameck Ludovici, di non essere ripresi dalle telecamere e dai fotografi. La breve udienza ha avuto un seguito movimentato quando un cronista si è avvicinato alla gabbia degli imputati per chiedere una dichiarazione ai tre presunti teppisti, il più giovane di loro, (Omissis), prima di scoppiare in un lungo pianto ha reagito con violenza verbale ("vai via, vattene che ti sputo"), facendo anche scatenare analoghe intemperanze oltre le transenne, dove avevano preso posto decine di giovanissimi tifosi ed amici. Ad un certo punto si è addirittura levato un coro da stadio: "Dai Luca, forza Luca". Per impedire che dalle parole i tifosi passassero a vie di fatto, sono intervenuti i carabinieri, che hanno isolato il gruppetto di scalmanati. Tra i presenti è stato notato anche Nino Ceccarelli, un tifoso dell'Inter incriminato ad Ascoli per la morte del tifoso ascolano Nazareno Filippini e poi scagionato dall’accusa principale di concorso in omicidio. Per il resto le formalità hanno richiesto pochi minuti, essendo stata accolta la prima istanza del collegio difensivo, quella di avere qualche giorno a disposizione per esaminare le carte processuali raccolte. Poi i tre sono stati riaccompagnati a San Vittore, da dove torneranno in aula lunedì. La pubblica accusa, rappresentata da Pietro Forno, ha già convocato otto testimoni che dovrebbero confermare i particolari sull'aggressione dei tifosi milanisti contro gli avversari di fede calcistica. Il pubblico ministero, nel richiedere il rito direttissimo, aveva sostenuto che De Falchi era morto per arresto cardiocircolatorio favorito da un difetto congenito, ma che questo era da mettere in connessione con "lo shock psicofisico determinato dall'aggressione e dalle percosse". Forno aveva anche evidenziato, insieme al giudice istruttore Gustavo Cioppa, una "Contiguità cronologica tra l'azione degli omicidi e una fulminea patologia che non si era minimamente manifestata fino all'inizio di detta azione". L'avvocato di parte civile invece ha annunciato l'intenzione di presentare un certificato medico, stilato pochi giorni prima del 4 giugno, che testimonierebbe sulle buone condizioni di salute del giovane. Per l'accusa, comunque, si tratta di omicidio preterintenzionale, aggravato dalle circostanze che i quattro romanisti, tra i quali De Falchi, erano stati aggrediti da un numero rilevante di avversari e che la morte è stata provocata per futili motivi. In aula, nel ricostruire l'episodio, si parlerà del ruolo e della strategia di certe squadre, della tifoseria organizzata e utilizzata o scaricata dai club secondo circostanze. Secondo l'istruttoria, il gruppo dei milanisti si sarebbe trovato sul posto con funzioni tattiche, cioè col fine di aggredire gli eventuali avversari dopo l’averli individuati dall'accento. (Ansa-Agi)

21 giugno 1989

Fonte: La Stampa

Per i tre milanisti il pubblico ministero chiede otto anni

MILANO - Sono tutti e tre responsabili. Il povero Antonio De Falchi è morto per infarto, dovuto allo stress psicologico e fisico del lungo inseguimento. Chi poi l’ha effettivamente colpito ha solo aggiunto un ulteriore elemento negativo. Per questo chiedo che gli imputati siano condannati a otto anni di reclusione. Pietro Forno, pubblico ministero al processo ai tre milanisti accusati di aver aggredito il tifoso romanista morto a San Siro il 4 giugno, ha parlato per oltre due ore. Una requisitoria che, basandosi in parte sulla ricostruzione dei movimenti degli ultras in quella domenica pomeriggio, in parte sull’omertà dimostrata dai milanisti al processo, ha messo sotto accusa anche il clima dello stadio. Il contesto ambientale è l’odio di chi gioca alla guerra non avendo altre intenzioni e altre possibilità, ha detto Forno. Gli imputati (Omissis), (Omissis) e (Omissis) hanno più subito che determinato quest'odio. Vivono il calcio in termini di droga e come drogati vanno alla partita. Gli imputati sono vittime di cattivi maestri, e i generali sono rimasti dietro le quinte. L’istruttoria in aula ha dato la misura di quanto possa fare l’odio. Il pubblico ministero ha fatto notare anche come nessuno tra i vari testimoni che avevano la possibilità di vedere in faccia qualcuno del gruppo degli aggressori ha collaborato seriamente all’inchiesta, ha fornito prove e testimonianze. E Forno ha chiesto anche la trasmissione degli atti alla Procura della testimonianza di un tifoso milanista, Nils Bredik, che si era presentato spontaneamente: secondo il Pm ha mentito.

8 luglio 1989

Fonte: La Repubblica

Milano, gli ultras evitano il carcere

di Piero Colaprico

MILANO - Per trasformare l’aula della quarta sezione della Corte d’assise e il corridoio del primo piano del palazzo di giustizia in un angolo da stadio violento ieri sono stati sufficienti duecento tifosi. Sono bastati i loro insulti, le minacce, i gestacci contro i giornalisti, il tentativo di assalto ai fotografi. Ed ecco, proprio come allo stadio, la reazione dei carabinieri, una trentina, che devono correre, tenere a distanza di sicurezza quei milanisti sudati e quasi impazziti, alcuni in lacrime, altri con la mandibola stretta e lo sguardo cattivo. Ecco ancora i carabinieri spingerli tutti fuori dall’aula, scortarli giù, lungo le scale, sino ai gradini dell’uscita in strada, mentre altri militari costringono i giornalisti a infilarsi nel corridoietto riservato ai giudici, consigliando di non muoversi per dieci minuti. Un pomeriggio a rischio. Una sceneggiata assurda, al termine della lettura di una sentenza tutto sommato favorevole ai tre imputati: due assolti per insufficienza di prove e uno condannato ma rimesso subito in libertà. Una sentenza così favorevole da far impallidire la madre di Antonio De Falchi. Suo figlio, vent'anni, era morto domenica 4 giugno dopo l’agguato degli ultras milanisti, ben quattro ore prima di Milan-Roma. "E’ questa è la giustizia ? È uno schifo", ha detto la signora Esperia, vestita di nero. "A me questa sentenza non sta bene. Loro dovevano pagare, anche se nessuno mi può riportare il povero Antonio". La quarta sezione della Corte d'assise ha condannato solo (Omissis), 20 anni, magro, bassino, pantaloni stretti e una camicia chiara: neanche i capelli rasati riescono a dargli l’aria del duro. Era stato riconosciuto dagli amici di De Falchi e dai poliziotti. Il pubblico ministero Pietro Forno aveva chiesto la condanna a otto anni di reclusione. Ne ha avuti sette, dovrà pagare un anticipo sui danni di 50 milioni, ma la Corte, come aveva chiesto il Pm, gli ha concesso il beneficio della remissione in libertà. A (Omissis), insomma, restano adesso da scontare poche ore di carcere, poi potrà tornare a casa, riabbracciare il padre che non ha perso neanche un'udienza, e riprendere il suo lavoro di fattorino. Assolti per insufficienza di prove gli altri due imputati. Anche per loro l’accusa aveva chiesto otto anni. Ma nessun testimone li aveva notati nel gruppo dei responsabili dell’agguato. Stavano solamente insieme al bar, e sono stati arrestati con un procedimento che l’avvocato Raffaele Della Valle, con una metafora da fumetto, aveva definito alla Tom Mix del Far West: i poliziotti hanno tirato il laccio e hanno preso chi c'era. Il più anziano, (Omissis), ha 29 anni, lavora come postino, ed è il leader del Gruppo Brasato, una formazione che tifa nella curva Sud, tra le Brigate rossonere e la Fossa dei leoni. Quando ha sentito la parola assolto è rimasto impassibile, alzando solo l’avambraccio sinistro, il pugno stretto, come spesso fanno i calciatori dopo il gol. L’altro, (Omissis), 21 anni, giacca a quadri, camicia aperta, pantaloni scuri, invece s'è accasciato sulla panca, la mano sinistra sugli occhi, e ha pianto a lungo. Per lui, studente di giurisprudenza, figlio di un farmacista che, come ha detto, l’ha educato nei principi del rispetto delle istituzioni, è davvero una rinascita. Anche suo padre, appoggiato al divisorio di legno dell’aula, piange tra il pubblico. Poco più in là piangono di gioia anche i parenti di (Omissis). E altri singhiozzi, però disperati, nervosi, angosciati, sono quelli che scuotono le spalle delle sorelle di (Omissis). Sono le 15 e lui, l’unico riconosciuto colpevole, stralunato, i pugni stretti alle sbarre, osserva il pubblico, vede i suoi in lacrime, sente partire un applauso dagli amici degli altri due assolti. È quasi assente. Solo quando un cameramen si avvicina per riprenderlo in primo piano, si scuote, scatta: "Vai via", urla, poi si siede e scoppia anche lui a piangere. E allora la platea si ribella. Lo fa nel solo modo che conosce. "Bastardi, giornalisti bastardi", urlano in dieci. Un paio d'avvocati alzano le mani, come per dire ai rossoneri di far silenzio. Ma ormai è tardi. Qualcuno tenta di scavalcare, altri spingono, un robusto, paonazzo, esagitato quarantenne scandisce le urla con quel gesto tipico delle curve, le due dita unite e il braccio prima piegato sulla testa, e poi disteso in avanti. Il divisorio traballa, si muove. I fotografi scappano. E quasi nessuno di loro riesce a riprendere gli ultras che ondeggiano nello stretto spazio tra le due porte d' ingresso dell’aula e il paravento di legno. Sono due giovanissimi carabinieri a lanciarsi contro i tifosi. Altri militari, allargando le braccia, fanno rapidamente un cordone di difesa dell’aula. Un poliziotto in borghese, che stava tra il pubblico, spinge i più nervosi. Chi può, tra il pubblico, se la fila in corridoio. Ma in aula gli altri continuano il coro: "Vigliacchi, bastardi, vi romperemo il cranio". In fin dei conti si sono sfogati scegliendo il bersaglio meno rischioso. È così comodo minacciare e sbeffeggiare in duecento i cronisti, piuttosto che rischiare il vilipendio alla Corte, oppure l’oltraggio a pubblico ufficiale. È dall’inizio del processo che gli ultras rossoneri se la prendono con la stampa. Le scaramucce erano cominciate durante la prima udienza, il 20 giugno scorso: un cronista che si era avvicinato alla gabbia per parlare con i tre imputati, era stato invitato ad andarsene con uno "Sparisci, sennò ti sputo in faccia". Nei giorni successivi, i rappresentanti delle varie testate sono stati criticati a turno per gli articoli, i titoli, le fotografie. E ieri, infine, quest'ultimo esempio dello stile di vita ultra. Il processo per direttissima, insomma, ha finito per mostrare la violenza e il cinismo di chi va allo stadio pensando di andare in guerra. Anche (Omissis), il ragazzo più inguaiato dai testimoni, è, come ha riconosciuto il Pm, una vittima di questo clima. Ma di questo processo resta soprattutto il ricordo della faccia pallida e addolorata di Esperia De Falchi. Ha perso il suo figlio più piccolo, morto d'infarto davanti al cancello numero 16 di San Siro, inseguito e picchiato da trenta nemici solo perché portava una sciarpa giallorossa nascosta sotto il giubbotto di jeans.

14 luglio 1989

Fonte: La Repubblica

Dopo le due assoluzioni per la morte del tifoso romano e la scarcerazione dell'unico condannato.

"Così si uccide il calcio"

I club contro la sentenza di Milano

di Giovanni Bianconi

ROMA - È un verdetto che provoca preoccupazione e sconcerto fra gli stessi tifosi del Milan. La sentenza che ha mandato assolti due dei tre imputati per la morte del giovane romanista Antonio De Falchi e ha subito scarcerato l'unico condannato può essere un passo indietro nella lotta contro la violenza negli stadi. "Questa sentenza è debole - dice Alessandro Capitanio, presidente dell'Associazione, italiana Milan clubs - Che senso ha condannare uno a sette anni e farlo uscire subito di galera ? Era un'occasione per dare l'esempio, l'abbiamo persa". Sotto accusa sono pure gli amici degli ultras, quelli andati ad offrire solidarietà agli imputati, che dopo la sentenza si sono scatenati contro i giornalisti "colpevoli" di aver fatto condannare il diciottenne (Omissis). Aggiunge Capitanio: "Non capisco nemmeno perché li abbiano fatti entrare in un'aula di giustizia. Adesso speriamo solo che il processo che si deve celebrare a Firenze contro i tifosi che hanno gettato le bombe molotov non si concluda alla stessa maniera". Quasi scontata l'amarezza fra i rappresentanti del tifo romanista. Dopo poco più di un mese, per la morte di Antonio De Falchi, ucciso all'ingresso dello stadio di San Siro, non c'è più nessuno in carcere, "Mi ha colpito l'arroganza di quei ragazzi alla lettura del verdetto - dice Fausto Iosa, rappresentate dei Roma clubs - quella è gente che dovrebbe portarsi dentro il rimorso per tutta la vita, e invece...". Anche Iosa pensa a quello che accadrà a Firenze: "Se pure lì prevarranno le attenuanti, vorrà dire che dovremo rinunciare ad andare allo stadio. Io non me la sento di entrare nel merito della decisione dei giudici, ma dico che con sentenze come questa non si combatte la violenza. È inutile che poi ci vengono a chiedere gli elenchi dei tifosi al seguito delle squadre". Quelli che sembrano meno preoccupati, paradossalmente, sono i responsabili della sicurezza negli stadi. Il questore Gustavo Cappuccio, direttore del servizio ordine pubblico del ministro dell'Interno, non fa una piega. "Bisogna aspettare la motivazione - dice - può darsi che la polizia non sia riuscita a raccogliere prove sufficienti contro gli imputati". Cappuccio ha davanti a sé il "bollettino di guerra" del campionato appena concluso: 2 morti, 513 feriti, 123 arrestati, 407 denunciati a piede libero. "Rispetto allo scorso anno - commenta il questore - gli arresti si sono più che dimezzati. Siccome la presenza di polizia e carabinieri negli stadi è aumentata, e così pure la sorveglianza, ciò vuol dire a mio avviso che gli episodi di violenza sono diminuiti, anche se ci sono quei due morti che pesano moltissimo". E i rappresentanti delle altre tifoserie, che cosa pensano della sentenza di Milano ? Distaccato il presidente degli Juventus clubs, Dante Grassi: "Da noi, per fortuna, non abbiamo mai raggiunto certi livelli. A Milano quel giorno io non c'ero, non so come si sono svolti i fatti". Con gli ultras, gli esponenti del tifo organizzato dicono di non aver nulla a che fare. "So che il Milan ha rapporti con alcuni di loro - dice Capitanio - ma noi non vogliamo saperlo, né vogliamo essere presenti a quegli incontri". Da una delle piazze più turbolente d'Italia, Bergamo, il coordinatore degli Atalanta clubs, Arturo Zambaldo dice: "Quella gente, a noi dei clubs, ci considera dei nemici perché non siamo abbastanza cattivi". Per combattere la violenza negli stadi, una ricetta Zambaldo ce l'avrebbe: "Io credo che, facendo le debite proporzioni, siamo di fronte alla stessa situazione che si creò con il terrorismo. All'inizio nessuno ci fece caso, e fu lasciato crescere. Poi, quando si decise di estirparlo con misure concrete, anche molto radicali, ci si riuscì. La stessa cosa dovrebbe accadere con i tifosi violenti: occorrono rimedi drastici, anche se possono risultare sgradevoli per chi va allo stadio".

15 luglio 1989

Fonte: La Stampa

Ultras milanisti contro tutti "ci volete criminalizzare"

di Piero Colaprico

MILANO - Sempre più soli contro tutti. Sempre meno disposti a discutere. Ormai decisi perfino ad una sorta di rottura diplomatica. Con i giornalisti noi della curva sud abbiamo chiuso. Siete i responsabili della distruzione di tre ragazzi che non c’entrano nulla e che avete messo in vetrina come mostri. I nostri amici si sono fatti 40 giorni a San Vittore. Due nello stesso raggio, ma in celle lontane. L’altro, il più giovane, in un altro braccio del carcere. E si sa cosa può capitare in galera ai più giovani. Per questo ci siamo arrabbiati. Lui, quando è stato condannato, e ha pensato di dover tornare dentro, era distrutto. E voi, come sciacalli, vi siete avvicinati. L’abbiamo solo difeso. Abbiamo urlato, minacciato. E allora ? Se davvero avessimo voluto scatenare la rissa, tanti com’eravamo, non ci saremmo riusciti ? Singolare autodifesa, figlia di un’idea del diritto e delle leggi evidentemente elaborata in proprio. Il giorno dopo la sentenza che ha assolto per insufficienza di prove (Omissis) e (Omissis), e condannato (Omissis) a sette anni, rimettendolo subito in libertà, per gli ultras milanisti non è cambiato nulla. È cresciuta anzi la sfiducia: giornalisti, giudici, poliziotti sono nello stesso calderone. Hanno condannato un innocente, rovinato per sempre la vita di tre giovani, distrutto le famiglie. Anzi i giornalisti sono i peggiori, perché con la loro sete di disgrazie, hanno convinto le altre due categorie a essere sempre più spietate. Questa è la diagnosi che i tifosi si ripetono nei bar, spiegano al telefono, discutono alle riunioni. E così, l’aver trasformato il tribunale in una curva è stato per loro un atto legittimo Anzi, l’unico modo per difendersi dall’ingiustizia, di far sentire la loro condanna al resto del mondo. Infatti, dalla loro parte ci sono, soprattutto in questo caso, i buoni, le vittime, gli innocenti. Gli altri, quelli che non fanno parte del clan rossonero, sono quanto meno in malafede. E una brutta figura, secondo gli ultras, ha fatto anche il Milan. La società che ha cercato di rilanciare il calcio spettacolo, di sdrammatizzare le partite, e che attraverso Canale 5 ha mandato in onda gli spot contro la violenza negli stadi, questa volta è rimasta dietro le quinte. C’era stata, nelle ore successive alla morte di Antonio De Falchi, una dichiarazione di Paolo Taveggia, che aveva detto ai capi degli ultras: "Da domani avrete la patente di assassini. Tutti, dalle vostre madri ai vostri datori di lavoro, potrebbero disprezzarvi. Se vogliamo che questo non accada, bisogna eliminare i deficienti. Deve scattare lo stesso meccanismo che ci aveva permesso di individuare Luigi Sacchi, quello che lanciò il petardo contro il portiere della Roma Tancredi". Poi, c’è stato un black-out. Da parte della società rossonera non c’erano state più né critiche né aiuti. E agli ultras questo disinteresse non è andato giù. Si sono sentiti ancora di più un gruppo esposto a qualsiasi tempesta. E criminalizzati. Lo stadio è solo lo specchio della società: "Trent’anni fa, dicono, nessuno sparava nelle rapine. Ora, se qualcosa va storto, i rapinatori ammazzano. È peggiorata la qualità degli episodi criminali, forse ovunque tranne che allo stadio, dove ancora non ci sono state sparatorie…". Un’equazione che fa paura. Questo clima, questa voglia di autoisolamento è peggiorato durante i quaranta giorni di carcere dei tre tifosi. Per i rossoneri i responsabili della morte di Antonio De Falchi, della tragedia di un’altra famiglia, non sono mai stati presi. Ne erano convinti dal primo giorno. Forse avevano qualche elemento in più rispetto agli investigatori, forse si trattava di una semplice impressione. Di certo, considerano l’arresto come la classica sporca storia. Sono convinti, insomma, che i poliziotti hanno arrestato i primi rossoneri che si sono trovati davanti. Avrebbero scelto a caso tre tifosi da buttare in pasto alla pubblica opinione. E così ecco pronti i loro amici. Diventano i killer, gli assassini, i vigliacchi teppisti. (Omissis), che ha il cranio rasato, (Omissis), che aveva la cintura dei pantaloni arrotolata al pugno, (Omissis), tesserato dal Milan con il pass del servizio d’ordine, diventati i burattini nelle mani della polizia. La Digos continua nell’indagine, chiede l’aiuto dei capi della curva. Ma agli ultras bastano poche discussioni per decidere, nonostante la preghiera di Taveggia, di non collaborare. Abbiamo capito, fanno sapere, che loro non volevano i veri colpevoli, volevano solo aggiungere nomi nuovi a quelli che già avevano arrestato. Ci volevano fregare, e noi non ci siamo stati. La stessa mancanza di fiducia c’è da parte dei tifosi nei confronti del giudice istruttore, che ha rinviato a giudizio i tre, senza scarcerarli. E, infine, ecco per gli ultras lo scandalo, l’imbroglio evidente, la scorrettezza di quel processo in Corte d’assise. Due tifosi non sono stati visti da nessuno. E l’altro, (Omissis), stava seduto sul cemento, con quelli che sono poi partiti verso i romanisti, ma chi l’ha visto inseguire e picchiare ? Quanto contano le parole dei romanisti ? Giovedì, considerato che non potevano condannarli tutti, se la sono presa almeno con uno, è il giudizio di uno dei tifosi che non ha perso neanche un’udienza. La bagarre però non scoppia contro la Corte, ma gli ultras si accaniscono, a parole, contro i giornalisti, considerati faziosi avvoltoi. Ma noi, continua il rossonero, siamo stati persino troppo poco violenti rispetto alle vostre descrizioni, sin troppo civili. La nostra unica gioia è stata quella di poter riabbracciare i nostri amici ieri, quando sono usciti dal carcere. Tutto il resto non c’interessa. Tutto il resto per loro non c’è, non vale.

15 luglio 1989

Fonte: La Repubblica

Processo ultra

 Impugnata la sentenza

MILANO - La procura della Repubblica ha deciso di impugnare la sentenza emessa nei giorni scorsi dalla quarta corte d'assise al termine del processo ai tre tifosi milanisti accusati di omicidio preterintenzionale per la morte di Antonio De Falchi, il ragazzo di 19 anni morto il 4 giugno scorso davanti allo stadio di San Siro, poche ore prima della partita Milan-Roma. Sulla vicenda il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borelli ha espresso amarezza per certi atteggiamenti critici nei confronti della sentenza e in particolare per la frase pronunciata, subito dopo la lettura del dispositivo, dalla madre del De Falchi. In quella occasione la donna disse "questa giustizia fa schifo". "Su questa vicenda - ha precisato il dottor Borrelli - la procura ha fatto tutto quanto era nelle sue possibilità, al di là dell'inadeguatezza dei risultati ottenuti a causa soprattutto della mancata collaborazione da parte dei cittadini". (Ansa)

16 Luglio 1989

Fonte: La Stampa
 
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