04/06/1989: il buio a San Siro
di Domenico Rocca
Un manipolo di ragazzi marciava lungo i binari
della stazione Termini di Roma. Era quasi sera,
ma il tramonto regalava al cielo della capitale
ancora splendide sfumature arancioni e rosse.
C’era chi, zaino in spalla, rincorreva il treno
per accaparrarsi lo scompartimento migliore di
quei convogli battezzati "treni speciali", ma
che di speciale avevano solo il fatto di essere
sporchi, lenti e poco sicuri. Un decennio dopo,
intorno al maggio 1999, sarebbero stati
eliminati con un provvedimento ad hoc da parte
dell’allora governo D’Alema. Una decisione
maturata a seguito della terribile vicenda che
vide come sfortunati protagonisti alcuni tifosi
della Salernitana: ci riferiamo alla tristemente
nota "strage della Galleria Santa Lucia", in cui
persero la vita quattro giovanissimi ultras
granata per un incendio scaturito all’interno di
un vagone.
Quel caldo sabato di inizio giugno a prendere
posto sul treno per Milano c’era anche Antonio
De Falchi, come sempre. Un ragazzetto alto e dai
capelli lunghi che faceva parte di quella magica
generazione di pischelli i quali, a migliaia,
tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio dei
Novanta accompagnavano la lupa in tutte
trasferte. Una classe di mezzo, per molti versi
distante dall’eccezionale spinta contestatrice
che aveva contraddistinto i giovani del panorama
extraparlamentare nel decennio precedente, ma
che non aveva ripudiato del tutto la lotta.
Rispetto alle generazioni successive, questa
gioventù non si era ancora arresa al totale
annichilimento ed in lei era sopravvissuta una
potente carica eversiva che, inevitabilmente,
aveva finito per proiettarsi nelle curve.
Nonostante fossero conclusi i tempi di Roma
capitale della lotta armata e degli estremismi
politici, la violenza era ancora insita nel
tessuto sociale urbano, provato da anni di
tensione e logoramento. Qualche mese dopo quel
maledetto Milan-Roma, l’abbattimento del Muro di
Berlino avrebbe segnato la conclusione di una
fase storica anche in Italia: non solo per la
sinistra - dal PCI alle altre formazioni minori
- ma anche per la Democrazia Cristiana e
l’intero sistema partitico del Paese. Intanto
anche il calcio viveva un significativo periodo
di transizione, lasciandosi velocemente alle
spalle un decennio largamente definito con la
formula de i favolosi anni ’80. Superati i
mondiali di Italia 90, gravemente lacunosi sul
piano infrastrutturale ed organizzativo, sarebbe
stata seppellita definitivamente quella
familiare sensazione di vicinanza e
coinvolgimento verso uno sport che, oramai, era
lanciato sulla via della degenerazione
finanziaria e commerciale. Il movimento ultras,
al contrario, attraversava una fase
particolarmente positiva: cresciuto a dismisura
negli anni precedenti, iniziò a delinearsi in
maniera più concreta, sia sul piano estetico che
su quello organizzativo. In questo periodo molti
gruppi si ridefinirono, altri si diedero una
precisa impronta politica, altri ancora non
riuscirono a trarre nuova linfa dal ricambio
generazionale. Il treno giunse nella città
meneghina in mattinata, troppo presto per
precipitarsi in zona stadio. Così Antonio si
defilò dal gruppo e, con altri tre ragazzi,
decise di approfittare dell’anticipo e spostarsi
verso il centro per una visita a Piazza del
Duomo, i Navigli e per una cartolina a mamma
Esperia. Alle 11.45 ecco il tram verso la "Scala
del calcio", che si presentava come un enorme
cantiere a cielo aperto: gli imminenti mondiali
avevano imposto a molti stadi importanti
interventi di restauro, mentre in altri casi si
erano costruiti impianti nati già fatiscenti,
oppure autentiche cattedrali nel deserto.
Intanto, raggiunto il piazzale antistante San
Siro, i ragazzi si muovevano guardinghi,
consapevoli che il pericolo di un’aggressione
era dietro l’angolo per chi viaggiava in
trasferta. Per sicurezza, le sciarpe giallorosse
erano nascoste sotto i bomber nonostante il
caldo di mezzogiorno, reso ancora più inclemente
dal passo accelerato per raggiungere il settore
ospiti, situato in curva nord. Nello stesso
momento circa una ventina di ragazzi presidiava
l’esterno del Meazza; ovviamente erano milanisti
e alcuni di loro appartenevano al gruppo
"Brasati", contraddistinto da uno stile skinhead
in un periodo in cui Dr Martens e teste rasate
spuntavano copiosamente nelle due curve
milanesi. Antonio, Fabrizio, Alfredo e Angelo si
accorsero di essere stati notati e affrettarono
il passo, nella speranza di raggiungere
l’ingresso del settore ospiti qualche decina di
metri più in là. Dal gruppo dei rossoneri, però,
si staccò un ragazzo che raggiunse i quattro
capitolini; il milanista chiese ad Alfredo prima
l’ora e poi una sigaretta, ma alla seconda
domanda il romano non riuscì a mascherare
l’accento: "Siamo solo quattro. Ma che volete
?!". Mentre i ragazzi tentarono di scappare, il
gruppo di locali scattò all’inseguimento.
Alfredo ed Angelo riuscirono a dileguarsi,
Fabrizio venne bloccato e colpito più volte, ma
riuscì a divincolarsi e lanciare un mattone
contro i suoi aggressori. Purtroppo Antonio
rimase indietro: sgambettato cadde e sul suo
corpo si riversarono i calci di una decina di
persone. Passata la scarica, riuscì ad alzarsi,
ma poi rovinò nuovamente a terra. Dopo circa
trenta secondi dall’inizio del pestaggio, gli
aggressori si dispersero all’arrivo degli uomini
della Celere. In un primo momento Antonio riuscì
a reggersi sulle proprie gambe, nonostante fosse
pallido e sotto shock, ma all’improvviso crollò
a terra vittima di un arresto cardiaco. Il
tentativo di soccorso da parte di un agente
risultò inutile e, quando l’ambulanza giunse
all’Ospedale San Carlo, il giovane era oramai
privo di vita. Il 4 giugno 1989, Antonio De
Falchi rimaneva ucciso da un’azione barbara e
vigliacca.
All’epoca, San Siro non era certo un
palcoscenico per l’amore strappalacrime o il
misericordioso perdono, sia in campo che fuori.
Gli incontri disputati contro il Milan erano
spesso frustranti per gli ospiti: quel giorno
non fece eccezione la Roma, che venne battuta
per 4-1 da un diavolo che si apprestava a
celebrare la Coppa Campioni appena vinta a
Barcellona. Tuttavia il trofeo non fece alcun
giro di campo ed i festeggiamenti furono
annullati. All’arrivo dei pullman delle due
squadre, la notizia iniziò a diffondersi: "È
morto un ragazzo, un tifoso della Roma, aveva 18
anni". La partita non venne sospesa, ma si giocò
con circa un’ora di ritardo. Ci si limitò al
minuto di silenzio in un San Siro glaciale,
mentre le due tifoserie non esposero gli
striscioni e non intonarono cori. I presidenti
Berlusconi e Viola palesarono un grave disagio
nel dover commentare davanti alle telecamere un
evento così tragico. A fine gara, la rabbia del
tifo giallorosso esplose all’esterno dello
stadio, costringendo il servizio d’ordine di
polizia ad un faticoso lavoro di contenimento.
Erano lontani gli anni dei lutti di Acca
Larenzia e di Piazza San Babila, ma a Milano e
Roma si moriva ancora così, per strada, a
diciotto anni: la violenza non era svanita, era
invece sopravvissuta adattandosi ai diversi
contesti, pronta a sprigionarsi per mano di
nuovi protagonisti. In quel periodo, come
Antonio De Falchi, furono molte le vittime di
aggressioni irrazionali, disorganizzate e vili.
Qualche anno dopo, un episodio dalle dinamiche
simili causò la morte del tifoso genoano Claudio
Vincenzo Spagnolo, ferito mortalmente da una
coltellata fuori dallo stadio Marassi.
Nuovamente l’assassino apparteneva ad un gruppo
di rossoneri, la cosiddetta "Banda del Barbour",
cellula che non si muoveva insieme alla Fossa
dei Leoni ed alle Brigate, il duopolio che
organizzava il tifo rossonero. Purtroppo la
lunga lista di martiri del pallone, di vittime
domenicali, si sarebbe protratta sino al giorno
d’oggi, come ha testimoniato la tragica serata
di Inter-Napoli nel gennaio 2019.
A Torre Maura, il mercoledì seguente, venne dato
l’ultimo saluto ad Antonio de Falchi. Tra i
moltissimi presenti anche alcuni calciatori
della Roma, quali Peruzzi, Nela e Giannini, ed
il Presidente Dino Viola, che si fece carico
delle spese funerarie. Il Patron giallorosso,
autentico gentiluomo d’altri tempi, considerava
la Curva Sud come una grande famiglia, di figli
turbolenti ma appassionati, e rimase
profondamente provato alla vista del fratello di
Antonio che stringeva a sé la maglia numero 3.
Questa apparteneva al difensore Sabino Nela, ed
era stata afferrata proprio dal defunto tifoso
al termine di Como-Roma qualche settimana prima;
da quella trasferta era custodita gelosamente
nella sua camera, come una reliquia di
inestimabile valore. Nel processo che si svolse
a Milano, l’accusa fu di omicidio
preterintenzionale per i tre imputati: (Omissis) di 18 anni,
(Omissis) di 21 e (Omissis) di 28 anni.
Quest’ultimo ricopriva il ruolo di impiegato nel
servizio organizzativo della società Milan, come
membro del gruppo ultras Fossa dei Leoni. Il
clima in cui si sviluppò il dibattimento divenne
sin dall’inizio molto teso e già dalle prime
udienze si respirò un’aria intimidatoria. Molti
parlarono di "una sensazione di omertà quasi
malavitosa" causata dall’atteggiamento di alcuni
testimoni, tanto che una serie di minacce
costrinse il giudice ad ordinare la scorta per
la famiglia di Antonio durante il tragitto tra
l’aeroporto Linate ed il tribunale. La difesa
basò la sua linea sull’esistenza di una malattia
cardiaca di Antonio, nonostante l’esame
autoptico avesse evidenziato esclusivamente
qualche piccola anomalia asintomatica. Dopo un
lungo iter processuale, nel dicembre 1992 la
Corte di Cassazione sancì la pena di 7 anni di
reclusione per il solo (Omissis), mentre gli
altri due ragazzi vennero prosciolti da ogni
accusa già in primo grado. I familiari di
Antonio, affranti ed addolorati da un giudizio
quasi sommario, ebbero la sensazione di essere
stati abbandonati dallo Stato italiano. In
particolare mamma Esperia non se ne fece mai una
ragione e continuò a lottare a modo suo,
mostrando la camera di Antonio a tutti i
giornalisti che si presentavano davanti alla
porta di casa a Torre Maura. La signora continuò
a difendere la memoria del figlio,
incessantemente, fino alla dipartita
nell’ottobre del 2019: nel frattempo era
diventata madre d’adozione per tutti i ragazzi
della Curva Sud, che negli anni non hanno mai
smesso di renderle omaggio. Raffigurato sui due
aste, sui bandieroni e nelle coreografie, il
giovane romanista continua a seguire ovunque i
suoi amati colori. D’altronde, di fronte a
tragedie simili, si moltiplica all’ennesima
potenza il senso di appartenenza e di militanza
che accomuna i ragazzi sui gradoni. L’immagine
che si tramanda alle future generazioni è quella
di un ragazzo che veste la maglia giallorossa e
canta con gli occhi socchiusi, rapito dalla
passione. Il volto del tifo più sincero ed
autentico, come un eterno amore adolescenziale.
4 giugno 2020
Fonte:
Rivistacontrasti.it
© Fotografia:
Laroma24.it
C’è un cuore che batte. Antonio De
Falchi, trentuno anni dopo
di Mattia Zucchiatti
Come ogni 4 giugno, da ormai una quindicina di
anni, il cuore giallorosso pitturato in strada
sotto quella che è la casa della famiglia di
Antonio De Falchi è tornato a risplendere. E
così farà i prossimi anni, perché la tifoseria
della Roma non ha mai dimenticato il tifoso
vittima di un agguato a San Siro di alcuni ultrà
del Milan trentuno anni fa. L’eccezione l’ha
dettata il Covid e a differenza degli anni
passati, la Curva Sud non potrà organizzare
l’abituale torneo di calcio a 5 in memoria di
Antonio che ha sempre visto la partecipazione di
altre tifoserie, da Palermo a San Benedetto del
Tronto fino a sconfinare in Grecia
(Panathinaikos) e Spagna (Atletico Madrid). Ma
allo scoccare della mezzanotte gli ultras
giallorossi di ogni età si sono radunati nel
piazzale del quartiere di Torre Maura in
occasione dell’anniversario più triste, il primo
senza Mamma Esperia, scomparsa lo scorso
ottobre. "Antonio, anche tra cent’anni il tuo
cuore pulserà nella Curva Sud", è il contenuto
dello striscione firmato dal gruppo "Roma" ed
esposto nella notte. È quanto resta oggi di
Antonio De Falchi, oltre al ricordo di chi gli
voleva bene e di chi ha imparato a volergliene,
ad un bandierone sempre presente nel settore più
caldo della Curva Sud e ad un piccolo parco di
periferia che gli è stato intitolato. Anche la
Roma ha voluto ricordare il tifoso scomparso con
la foto della coreografia che la Curva Sud
sfoggiò in occasione del trentesimo anniversario
della sua morte, lo scorso anno in occasione di
Roma-Milan. Trenta stendardi col volto di
Antonio e la scritta in basso come firma: "Curva
Sud Antonio De Falchi". Tanto per ricordare che
la memoria, quella no, non la spegne nemmeno un
vile agguato.
4 giugno 2020
Fonte:
Sportface.it
© Fotografia:
Laroma24.it
Antonio De Falchi, morte a San Siro.
"Non soffriva di cuore, fu ucciso"
di Fabrizio Peronaci
Giugno 1989, tifoso morto prima di
Milan-Roma. La sorella Anna: "Gli aggressori
furono protetti, aspettiamo ancora giustizia".
La cameretta rimasta identica 31 anni dopo, con
tutte le sue cose: "Lui dorme qui...".
Il viaggio nel dolore della famiglia di Antonio
De Falchi, il tifoso romanista ucciso a 18 anni
fuori dallo stadio San Siro, quando al centro
dell’attacco giocava Rudi Völler e il muro di
Berlino non era ancora crollato, inizia appena
la sorella apre la porta di casa. Viale di Torre
Maura, ultimo lembo a est della capitale: la
borgata salita alla ribalta dei tg per le
rivolte anti-rom è la stessa che non l’ha
dimenticato, il suo ragazzo della Sud. Vittima
di un agguato di ultrà rossoneri che lo
riconobbero dall’accento, chiedendogli una
sigaretta, prima di quel Milan-Roma della
vergogna (la partita si giocò ugualmente, e non
importa come finì). Sotto le torri ex Gescal,
una scritta inneggia a lui. "4 giugno 1989:
Antonio vive". Lo scorso anno, nel trentennale,
gli amici della curva hanno moltiplicato per
cento la sua faccia da pischello, tenendo alti
gli striscioni con la foto. Pochi mesi fa,
quando se n’è andata mamma Esperia, ai funerali
c’era pure Sebino Nela, il calciatore sensibile
diventato una specie di parente acquisito.
Edificio D in fondo al cortile, quarto piano.
L’uscio a fianco all’ascensore. "Entri, prego".
Sorride. È emozionata. Sul mobile d’ingresso, le
foto incorniciate di un bimbetto di 4-5 anni.
"Qui era vestito da Arlecchino, qui da Robin
Hood...". E adesso Anna De Falchi, che a 54 anni
ci è arrivata, rinunciando però a una vita piena
("Io sposata ? E come potevo ? Dovevo badare a
mamma"), mi fa strada nel salotto con la
vetrinetta e le statuine di ceramica. Apre la
portafinestra. Lo indica quasi con orgoglio.
"Guardi, questo era il suo Boxer. Si chiamava
così, giusto ?" Già. Lo scooter della Piaggio
più amato - assieme al Ciao - dai teenager degli
anni ‘80. Un pezzo di cuore di Antonio.
Arrugginito. Senza pedali. Con il sellino
squarciato e l’adesivo della Lacoste sul fianco.
Da quasi 31 anni è qui, parcheggiato in balcone.
Affacciato sul raccordo anulare e sui prati
degli spacciatori. Il sogno di libertà di un
ragazzo di periferia trasfigurato in una
reliquia metallica. Sospira, la sorella
maggiore. "Quando Antonio tornava dal lavoro non
pensava che al motorino: stava sempre a
lucidarlo, aggiustarlo, coccolarselo. Per questo
mamma non l’ha voluto buttare. Le piaceva
tenerselo vicino…". Anna, sediamoci. Se la sente
di raccontare ? Antonio era partito per Milano
e... "Noi gliel’avevamo detto che era pericoloso
! Ma alla Roma non rinunciava. Pensi che la sera
prima, quando passò il suo amico per andare alla
stazione Termini, io attaccai il citofono, ma
lui aveva sentito lo squillo e scappò giù. Mia
madre gli aveva preparato la parmigiana di
melanzane, però non ha fatto in tempo a
mangiarla...". La famiglia. "Eravamo 8 figli e
Antonio era l’ultimo, il piccolo di casa.
Sveglio, allegro. Dopo le medie, aveva trovato
lavoro da tappezziere e poi come fabbro, in
un’officina di infissi. Quando successe il
fatto, papà non c’era già più. Tre anni prima
aveva avuto un crollo nervoso, per un
avvelenamento da funghi. Si buttò di sotto...".
Anna indica lo stesso terrazzino dello scooter.
Ha gli occhi lucidi. "Si chiamava Enrico. Faceva
l’addetto d’ascensore alla Rinascente di via del
Corso. Accoglieva i clienti e pigiava i
pulsanti. Su e giù. Un mestiere che non c’è
più".
Quel 4 giugno. "Era mezzogiorno passato, la tv
non l’aveva ancora detto. Come sempre per le
cose brutte, vennero le guardie a casa. Mamma
strillava "se siete qui significa che Antonio è
morto !", e loro negavano, dicevano che era in
ospedale, ma solo per consolarci". Il
riconoscimento. "Partimmo per Milano. Mamma
nella camera mortuaria lo abbracciò e gridò:
"Pulcino mio, ti riporto a casa !" Era chiaro
che gli avevano menato: aveva la testa fasciata
e il corpo pieno di lividi. Ma a voi giornalisti
raccontarono che era morto per una disfunzione
cardiaca. Falso ! Aveva una coronaria più
piccola, un fatto congenito. Senza
complicazioni. Antonio stava bene, faceva
culturismo. Aveva superato la visita militare.
La vuole vedere le foto del cadavere con i segni
del pestaggio ?" Anna va a prendere un faldone
alto due palmi. Sfoglia gli atti giudiziari.
Trova un’immagine del fratello nudo, con addosso
solo gli slip, sul tavolo dell’obitorio. Si vede
poco, si intravedono ematomi. "La canottiera era
a brandelli, strappata a calci. Altro che
malformazione !". Il processo. Un ultrà
milanista venne condannato a 7 anni di carcere,
due furono assolti. "Si accordarono. Uno si
prese la colpa, dicendo che gli altri non erano
presenti, e in cambio fu aiutato a uscire dopo
pochi mesi. Li difendevano avvocati importanti,
principi del Foro". Il procuratore di Milano era
Francesco Saverio Borrelli, di lì a poco
impegnato nell’inchiesta Manipulite. Sul caso De
Falchi dichiarò: sono dispiaciuto, i testimoni
non hanno collaborato. "Pesce grande mangia
pesce piccolo, ci disse il nostro avvocato…". I
ricordi. Anna si alza. "La camera di Antonio la
vuole vedere ? È rimasta identica. Per noi è
come se dormisse ancora qui...". Entriamo. Da
brividi. La memoria di un giovanotto di borgata
museificata negli oggetti che ha toccato,
baciato, amato. Ci sono le foto alle pareti,
Dino Viola, Bruno Conti, Zibì Boniek... La
maglia che gli regalò Sebino Nela. Gli scarpini,
le sciarpe, i gagliardetti. La sovraccoperta con
il suo viso stampato a colori. Come se si fosse
appena buttato sul letto, contento, di ritorno
dall’Olimpico. E poi le targhe, le coppe, i
pupazzetti... Una cripta giallorossa. Manca solo
l’altoparlante che scandisca le formazioni, con
i boati dei tifosi in sottofondo. Il luogo dei
sogni, dell’attesa della domenica. Ma pur sempre
una cripta. Perché lui non c’è. "Era alto un
metro e 90 ma nell’animo era rimasto un bambino,
mio fratello. Non aveva la fidanzata. La Roma
era la sua vita. E l’amore che ci regalano
ancora oggi gli amici della curva è immenso.
Pensi che ci hanno aiutato con una colletta a
riscattare il fornetto a Prima Porta...". Anna
si blocca. Le viene in mente qualcosa. "Ma lei
lo sa che giorno era nato ?" No, perché ? Scuote
la testa. "Il 2 novembre. Antonio con nostra
madre ci scherzava sempre: "Senti ma’, sicuro
che non porta jella ? Non potevo nasce’ il
giorno dopo?"...
2 febbraio 2020
Fonte:
Roma.corriere.it (Testo e
Video)
© Fotografie: Sportface.it -
Roma.corriere.it
La morte di Antonio De Falchi, il
racconto della tragedia
di Adriano Stabile
Il 4 giugno 1989, per i colori
giallorossi, resterà per sempre legato
all’uccisione di Antonio De Falchi, 18enne
tifoso romanista barbaramente aggredito e
ammazzato in occasione di un Milan-Roma di
campionato. Agli atti di quel delitto resta un
colpevole condannato per omicidio
preterintenzionale, ma in tanti l’hanno fatta
franca e molte ombre resteranno eterne su questa
tragedia.
Antonio De
Falchi muore a Milano - Antonio
De Falchi è un ragazzo maggiorenne da otto mesi,
longilineo, dai capelli lunghi, un bel viso e
grande tifoso della Roma. Vive a via di Torre
Maura (omissis), in un quartiere popolare, con
la madre Esperia Galloni De Falchi e gli altri
sette figli. Dopo la terza media ha lasciato la
scuola per iniziare a lavorare come fabbro in
una bottega della borgata Finocchio. Papà
Enrico, impiegato in un negozio di abbigliamento
a piazza Colonna, non c’è più da quasi tre anni:
in preda a una crisi di nervi si è suicidato
lanciandosi dal balcone del suo appartamento al
quarto piano. Da un po’ di tempo Antonio, che è
il più piccolo di sei fratelli e due sorelle,
segue la Roma con assiduità, anche fuori casa.
Non è un facinoroso, è incensurato, anche se
qualche mese prima, durante una trasferta ricca
di disordini (razzie di ogni genere, aggressioni
e un romagnolo accoltellato) in occasione di
Cesena-Roma del 20 novembre 1988, era stato
arrestato e poi posto in libertà provvisoria,
con altri quattro romanisti, perché accusato di
furti e danneggiamenti a bar e negozi. La
vicenda poi si era conclusa senza conseguenze
penali per lui.
L’agguato dei tifosi milanisti -
Sabato 3 giugno, in serata, Antonio parte da
Torre Maura con alcuni amici e prende un treno
notturno a Termini, diretto alla stazione di
Milano Centrale e carico di un centinaio di
tifosi romanisti. Arrivati nel capoluogo
lombardo poco prima delle 9 di domenica mattina,
Antonio si stacca dal gruppo insieme a tre amici
17enni, Angelo, Alfredo e Fabrizio, per fare un
giro in città: i ragazzi passeggiano nel centro
di Milano, visitano piazza del Duomo, Antonio
compra una cartolina della celebre cattedrale
meneghina e la spedisce alla mamma. Poi, con il
tram numero 24, i quattro giovani arrivano in
zona San Siro poco prima delle 11.45. Lo Stadio
Giuseppe Meazza, all’epoca, è un cantiere per i
lavori di ristrutturazione in vista dei Mondiali
di Italia ’90. I quattro tifosi romanisti
camminano da soli, nascondendo prudentemente le
sciarpe sotto il bomber. Superata piazza Axum,
passano non lontano dalla Curva Sud milanista
diretti verso la Nord, generalmente destinata ai
tifosi ospiti. All’altezza dell’ingresso 16 del
Meazza, Antonio De Falchi, Angelo, Alfredo e
Fabrizio sono notati da una ventina di
supporters milanisti, seduti su alcuni blocchi
di cemento armato. "Sono romani", sussurra uno
di loro, mentre un altro, con una maglietta
bianca, si avvicina chiedendo prima l’ora e poi
una sigaretta ad Alfredo con l’intento di
comprendere meglio l’accento di Antonio e dei
suoi amici. Alla prima domanda Alfredo cerca di
imitare l’accento milanese, poi, spaventato e
compreso che si tratta di una trappola, sbotta:
"Ma che volete ? Siamo solo in quattro".
L’aggressione mortale - A quel
punto il tifoso milanista con
la
maglietta bianca fa un gesto con la mano agli
altri, come a dire "venite", mentre Alfredo
inizia a correre gridando agli amici "scappamo".
Angelo, Antonio e Fabrizio corrono verso la
stessa direzione, inseguiti dai milanisti,
mentre Alfredo si dilegua subito, saltando una
recinzione. "Prendilo, prendilo - urlano gli
ultras rossoneri - sono romani !". Angelo viene
strattonato, ma riesce a liberarsi e a scappare
via, Fabrizio è bloccato da un milanista, ma si
salva lanciandogli contro un mattone prima di
essere fermato da un agente della polizia,
Antonio De Falchi invece resta indietro, viene
sgambettato, cade a terra, poi contro un
cancello e rimane incastrato. Quindi è raggiunto
dai suoi inseguitori, una decina di ragazzi, che
gli vanno addosso colpendolo più volte con calci
e pugni. Antonio riesce ad alzarsi per un
attimo, poi viene sgambettato di nuovo e ricade
sull’asfalto, colpito a ripetizione. Passano non
più di 30 secondi e arriva la polizia del
reparto mobile, richiamata dalle grida, mentre
gli aggressori si disperdono, tranne qualcuno
che resta a guardare a distanza di sicurezza.
Il decesso
per infarto - Antonio è a terra
sull’asfalto, poi prova a rialzarsi aiutato da
un agente di polizia che gli dice: "Stai calmo,
non ti picchiano più, adesso ci siamo noi; è
tutto finito, stai tranquillo". Antonio però è
cianotico, fatica a respirare e, mentre l’agente
si volta per un attimo, crolla privo di
conoscenza, vittima di un attacco cardiaco. Il
poliziotto tenta di rianimarlo con il massaggio
cardiaco e la respirazione bocca a bocca, ma non
c’è niente da fare. Dieci minuti più tardi
arriva un’ambulanza che porta il ragazzo
all’Ospedale San Carlo di Milano, dove i dottori
provano ancora la rianimazione prima di
constatare il decesso. Il medico legale
spiegherà che lo sforzo fisico per la corsa e la
paura per la violenta aggressione hanno
provocato un infarto ad Antonio De Falchi,
ucciso a soli 18 anni e mezzo da un assalto
vigliacco. Sul corpo del giovane vengono
rilevate alcune escoriazioni, soprattutto sulla
parte sinistra.
La tragedia di mamma Esperia -
La notizia della morte di De Falchi, certificata
intorno a mezzogiorno, si diffonde velocemente e
viene battuta dall’Ansa alle 13.58. Milan-Roma
si gioca ugualmente alle 16.30, ma i tifosi
delle due squadre evitano di intonare cori e
ritirano gli striscioni in segno di lutto. A
poco conta che la squadra rossonera, fresca di
vittoria in Coppa dei Campioni, si imponga per
4-1. "Me l’hanno ammazzato, Antonio, Antonio,
bello mio, bello de mamma. Ma perché ? Perché
l’hanno fatto ? Perché l’hanno fatto ?", grida
mamma Esperia, 59 anni compiuti il 14 marzo,
quando le comunicano la morte del figlio.
All’arrivo a Milano per il riconoscimento della
salma, la donna, accompagnata da due figli, è
sconvolta: "Pulcino, non sei morto, ora ti
riporto a casa", dice piangendo.
Nela piange
al funerale - Mercoledì 7 giugno
1989 Antonio De Falchi viene salutato con una
cerimonia funebre nella chiesa di San Giovanni
Leonardi a Torre Maura. Sono presenti migliaia
di persone tra cui i calciatori della Roma
Angelo Peruzzi, Giuseppe Giannini e Sebastiano
Nela, il presidente Dino Viola e la formazione
dei Giovanissimi giallorossi. Nela, in lacrime,
si ferma a parlare con un fratello di Antonio
che tiene in mano la maglia numero 3 di Sebino
che il giovane tifoso scomparso aveva a casa
come un cimelio prezioso, dopo averla presa in
trasferta qualche settimana prima, a Como, il 30
aprile 1989. Viola invece abbraccia la mamma di
De Falchi alla fine del funerale, facendosi
carico delle spese per la cerimonia e la
sepoltura al cimitero Flaminio di Prima Porta.
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La fame di vendetta -
All’esequie manca una
delegazione del Milan, ma
soltanto perché il questore di
Roma ha consigliato di non
venire, per evitare tensioni.
Intorno alla chiesa non mancano
infatti scritte e messaggi
minacciosi: "Vigliacchi uscite
adesso: ve lo facciamo noi un
bel processo" si legge su uno
striscione firmato Fedayn. Un
ragazzino di 16 anni, fuori
dalla chiesa, distribuisce
volantini su cui è scritto: "Il
prossimo anno colpiremo sia a
Roma che a Milano per vendicare
la morte del compagno Antonio De
Falchi".
Le indagini, tre
milanisti in carcere -
Le indagini sull’omicidio di De
Falchi procedono velocemente e,
a poche ore dalla morte del
tifoso giallorosso, il cerchio
dei sospettati si restringe a
tre tifosi milanisti: (Omissis),
21 anni, figlio di un farmacista
e studente universitario al
secondo anno di Giurisprudenza,
(Omissis), 28 anni, ragazzone
che ama il culturismo, lavora
alle Poste di piazzale Lugano ed
è nientemeno che impiegato nel
servizio organizzativo del Milan
come membro del gruppo ultras
Fossa dei Leoni, e (Omissis),
18 anni, fattorino pony express.
(Omissis), quando viene bloccato
dagli agenti, ha ancora avvolta
intorno alla mano una cinghia
con una grossa fibbia metallica
da usare come arma. Il fatto che
(Omissis) abbia una delega del
club rossonero suscita scalpore:
al momento di essere fermato
viene trovato in possesso di
un’autorizzazione con nome e
foto per entrare allo stadio
prima degli altri e sistemare
gli striscioni. I tre passano la
notte in questura, sottoposti a
una lunga serie di interrogatori
incrociati, insieme a una
trentina di altre persone, in
gran parte ultras che prendono
posto allo Stadio Meazza dietro
lo striscione "brasati": sono
tutti giovani che vestono come
gli "skinheads" inglesi, capelli
cortissimi, jeans e giubbotti
neri. La mattina presto del 5
giugno, alle ore 6, il sostituto
procuratore della Repubblica
Daniela Borgonovo formalizza
l’arresto dei tre sospettati per
concorso in omicidio. (Omissis),
(Omissis) e (Omissis) restano in
carcere fino al processo che
inizia il 20 giugno a Milano.
Il processo a Milano -
Il processo per direttissima per
l’uccisione di Antonio De
Falchi, nato il 4 novembre 1970
e morto il 4 giugno 1989, inizia
il 22 giugno. (Omissis),
(Omissis) e (Omissis) vengono
rinviati a giudizio in quanto
"imputati del delitto previsto e
punito dagli articoli 110, 112
n° 1, 584, 61 n° 1 del Codice
Penale per avere commesso, in
concorso tra loro ed altre
persone allo stato non
identificate, facendo parte di
un gruppo di tifosi della
squadra di calcio Milan che si
era riunito per aggredire tifosi
della squadra di calcio Roma,
convenuti a Milano in occasione
della partita Milan-Roma, con
atti diretti in danno di De
Falchi Antonio, il delitto di
lesioni volontarie, colpendo
quest’ultimo con pugni e calci,
cagionando la morte del medesimo
avvenuta per arresto cardiaco
conseguente al trauma psichico;
con le aggravanti dell’aver
commesso il fatto in più di
cinque persone e dell’aver agito
per motivi futili. In Milano, il
4 giugno 1989". L’accusa
principale per i tre tifosi del
Milan è, di fatto, omicidio
preterintenzionale (articolo 584
del Codice Penale).
Omertà e tifo calcistico
in aula - Il
dibattimento si svolge in un
clima di grande tensione, con
alcuni ultras di Milan e Inter
che assistono al processo e
"fanno il tifo" per i tre
accusati, che negano ogni
addebito e tentano di
scagionarsi a vicenda. Sin dalle
prime udienze emerge un clima di
omertà quasi malavitosa da parte
di alcuni testimoni. Esperia, la
mamma di Antonio, e i suoi
famigliari si costituiscono
parte civile con un avvocato
pagato dal presidente Viola, ma
lamentano una serie di minacce.
Per questo motivo vengono messi
sotto protezione da una scorta
che li segue costantemente nel
tragitto tra il tribunale e
l’aeroporto di Milano. La difesa
degli imputati prova a sostenere
che Antonio fosse malato di
cuore, ma l’esame autoptico
riscontra soltanto qualche
anomalia asintomatica "delle
arterie del circolo coronarico",
non una vera patologia. Durante
un’udienza la madre di (Omissis)
si avvicina al figlio, dietro le
sbarre, portandogli un cornetto
e un cappuccino mentre la madre
di De Falchi sbotta: "Gli fai
fare colazione ? E io ? Che mio
figlio l’ho perso".
Un solo condannato: 7
anni di carcere -
Il 5 luglio, quando viene
ascoltato in aula, (Omissis)
implora il presidente della
quarta corte d’assise di Milano:
"Signor presidente adesso ho
paura di perdere la mia ragazza,
ma so che Dio non mi abbandonerà
perché lui crede a me e sa che
sono innocente. Prego perché mi
aiuti a vivere anche se dovessi
rimanere rinchiuso per anni". Il
13 luglio si conclude il
processo di primo grado,
disturbato da alcuni ultras
milanisti che in aula urlano
"romanisti bastardi", tentando
di aggredire giornalisti e
fotografi. (Omissis) viene
condannato a 7 anni di
reclusione e 50 milioni di lire
(equivalenti a 26 mila euro) di
risarcimento alla parte civile
per l’omicidio
preterintenzionale di Antonio De
Falchi; (Omissis) e (Omissis) sono assolti
per insufficienza di prove. "A
me non sta bene, la giustizia fa
schifo. Questi devono pagare
perché hanno ucciso mio figlio"
dice ai giornalisti mamma
Esperia. Pur condannato,
(Omissis), in attesa dei
successivi gradi di giudizio,
viene rimesso in libertà (dopo
quasi 40 giorni di detenzione)
perché non ha precedenti penali
e perché non è ritenuto un
soggetto pericoloso al di fuori
del contesto del tifo
calcistico. In vista
dell’appello il procuratore
della Repubblica di Milano
Francesco Saverio Borrelli
difende il lavoro degli
inquirenti, ma ammette che il
clima di diffusa omertà tra i
testimoni ha impedito di trovare
altri responsabili
dell’aggressione a De Falchi. La
profonda reticenza è ampiamente
denunciata anche nella
motivazione della sentenza, in
cui il giudice Guido Piffer
spiega che Antonio De Falchi è
deceduto per un infarto, ma che
"la causa della sua morte può
essere identificata nella
condotta del gruppo di
milanisti, che sottopose il
ragazzo a un’eccezionale
sollecitazione cardiaca, con la
quale agì come fattore
concorrente l’anomalia cardiaca
della quale il ragazzo
soffriva". Peraltro il
magistrato rileva che "questa
anomalia non aveva impedito al
ragazzo di tenere una vita
assolutamente normale e di
svolgere attività sportive senza
lamentare disturbi cardiaci e
che non gli aveva impedito di
superare la visita militare".
Appello e Cassazione
confermano il verdetto -
In vista dell’appello l’avvocato
di parte civile, che tutela la
famiglia De Falchi, chiede che
il processo venga spostato a
Roma, ma l’istanza non ha esito.
Il 13 marzo 1992 i giudici della
Corte d’Assise d’Appello di
Milano confermano la sentenza di
primo grado, condannando
(Omissis)
a 7 anni e assolvendo (Omissis)
e (Omissis) per non aver
commesso il fatto (la formula
dubitativa, nel frattempo, è
stata eliminata dal nuovo Codice
di procedura penale). L’11
dicembre 1992 la Corte di
Cassazione rende definitiva la
pena di 7 anni di reclusione per
(Omissis) che, dopo tre anni
e mezzo di liberà provvisoria,
viene portato in carcere…
(Omissis)
Il ricordo
di Antonio De Falchi nel tempo -
Sono state tante, nel corso dei decenni, le
iniziative alla memoria di Antonio De Falchi.
Una settimana dopo la sua morte, domenica 11
giugno 1989, la Roma affronta in casa la
Fiorentina allo Stadio Flaminio giocando con il
lutto al braccio e, prima del match, viene
celebrato un minuto di silenzio mentre gli
ultras giallorossi gridano "Antonio ! Antonio
!". In tribuna viene srotolato uno striscione in
cui si legge "Antonio sarai sempre nei nostri
ricordi". Il 25 febbraio 1990, in occasione di
Roma-Milan 0-4 allo Stadio Flaminio, gli ultras
romanisti espongono lo striscione "Antonio è
morto per quella maglia, onoratela". Il 14
novembre 1992, in memoria di Antonio De Falchi,
viene organizzato un quadrangolare di calcetto,
con la partecipazione di una squadra romanista,
al palazzetto dello Sport Mario Argento di
Napoli. Il 10 marzo 2002, in occasione del derby
vinto 5-1, il tifoso di Torre Maura viene
ricordato con un vistoso striscione al centro
della Curva Sud, insieme con gli ultras che sono
scomparsi da tempo, ma che devono sentirsi a
tutti gli effetti "campioni d’Italia". La
commemorazione si ripete anche a Milano, in
occasione della finale di ritorno di Coppa
Italia del 31 maggio 2003 tra Milan e Roma,
quando gli ultras giallorossi srotolano un
grande striscione per De Falchi nel settore
ospiti di San Siro. A Torre Maura lo ricordano
con una grande scritta bianca: "Antonio De
Falchi vive !". Sotto la giunta di Walter
Veltroni, nel 2005, viene intitolato a De Falchi
anche un parco, tuttora esistente, costeggiato
da via di Torre Spaccata, nel quartiere dove
viveva il tifoso ucciso nel 1989. Nella stagione
2003-04 si forma in Curva Sud il gruppo di
ultras "Brigata De Falchi" di Monteverde,
sciolto dopo pochi anni, mentre il 14 luglio
2009, a vent’anni dalla morte del tifoso di
Torre Maura, il Roma Club Campidoglio e
l’associazione di volontari Fase 4 organizzano
il Memorial Antonio De Falchi sul campo della
Pro Roma. Durante Roma-Milan 0-0 del 6 marzo
2010 i tifosi capitolini espongono lo striscione
"Il significato del ricordo, il peso della
memoria… De Falchi presente !". Il 7 maggio
2011, in occasione di un’altra gara casalinga
pareggiata 0-0 con i rossoneri, la Curva Sud
espone una grande coreografia con il nome De
Falchi scritto in rosso su sfondo giallo. Il
cuore pulsante del tifo romanista si ripete il 3
febbraio 2019, prima di Roma-Milan 1-1,
dedicando una bellissima coreografia al tifoso
di Torre Maura, con tanti stendardi raffiguranti
il suo volto, per ricordare i 30 anni dalla sua
scomparsa. Tra gli striscioni della Curva Sud in
suo onore ci sono anche, nel corso degli anni:
"Nulla sarà dimenticato: Antonio De Falchi con
noi" - "A difesa del tuo ricordo: Antonio
romanista attivo per sempre" - "Caduto per la
Roma, i miei ultras mi rendono l’eternità".
3 giugno 2019
Fonte: Storiadellaroma.it
(Video di repertorio
sulla morte di Antonio De Falchi, tifoso della Roma
assassinato a Milano fuori allo stadio di San Siro
il 4 giugno 1989 (Tg1 - 90° Minuto - Domenica Sportiva
- Sfide). Un sentito ringraziamento al Canale di
Youtube "Capmilord" per la disponibilità di alcune
immagini)
Omicidio De Falchi:
è stata fatta giustizia ?
di Luigi Pellicone
Milan-Roma non è mai
una partita come le altre. Una sfida dal sapore
antico, match memorabili alla Scala del Calcio.
Ma Milan-Roma è anche una partita triste per il
popolo giallorosso e l’Italia tutta. Un ricordo
stretto al cuore che ci riporta alle soglie
degli anni 90. Il 4 giugno del 1989, Antonio De
Falchi, tifoso giallorosso, moriva. Vittima di
un agguato dei tifosi milanisti a San Siro. La
storia è nota: un’aggressione brutale, senza
possibilità di scampo. Antonio perde la vita
alle 11.45 circondato da trenta teppisti che lo
hanno pestato. Il referto medico stabilisce la
morte per arresto cardiaco. É morto di botte e
di paura. L’esito dell’inchiesta condanna solo
un indagato. 13 luglio 1989 il tribunale di
Milano stabilisce il verdetto. (Omissis), condannato a 7 anni di
reclusione. Il Pm ne chiede otto. L’imputato, ora
colpevole, paga una cauzione di 50 milioni. La Corte
d’Assise concede il beneficio della remissione in
libertà. Solo poche ore di carcere. Torna a casa.
Libertà vigilata. Assolti per insufficienza di prove
gli altri imputati, (Omissis) e (Omissis). Nessun testimone li aveva notati o riconosciuti.
La sentenza solleva polemiche: la mamma di Antonio
De Falchi, la signora Esperia, che ha già perso
il marito, concede solo poche parole. "Questa è
la giustizia ? È uno schifo. A me questa sentenza
non sta bene. Loro dovevano pagare, anche se nessuno
mi può riportare il povero Antonio". Poi si chiude
nel silenzio. Come sta, oggi, la famiglia De Falchi
? Cosa ha fatto lo Stato per loro ? Come è ricordato
oggi Antonio ? Tante domande e poche risposte. Una
famiglia numerosa, quella di Antonio, composta da
otto fratelli. Maria, Luisa, Alvaro e Massimo vivevano
già per conto loro al momento della tragedia. Maurizio,
Marco e la sorella Anna hanno vissuto il dolore
insieme alla madre nella casa di Via Torre Maura.
I funerali, a spese della Roma, sono stati celebrati
il 7 giugno del 1989, nella Chiesa di San Giovanni
Leonardi. Di quel giorno, un’istantanea. Dino Viola,
il presidente della Roma, accanto alla signora De
Falchi. Un giovanissimo Peruzzi e Sebino Nela si
avvicinano commossi. Nessun risarcimento alla famiglia
da parte dello Stato. La giustizia ha compiuto il
suo corso. E non sono previsti rimborsi, da quella
sentenza. Il tempo passa. Il ricordo di Antonio
De Falchi è tenuto vivo soprattutto dalla "sua"
Sud. Più dalla curva, che dalle istituzioni. Roma,
intesa come città, gli dedica un Parco, un’area
verde, su viale di Torre Maura. Si dimenticano,
però, di inaugurarlo. E anche di metterci una targa.
Il parco è rintracciabile su qualsiasi stradario
e anche sulle mappe digitali. Quando si arriva sul
posto, però, non c’è né una dicitura, né un segnale.
Un’area verde anonima. Un destino amarissimo. E
l’Olimpico ? La sua Sud ? Neanche lì, è stato possibile
mettere una targa. Sino a qualche anno fa, Antonio
De Falchi però è stato una bandiera. Nel senso pieno
del termine. Il suo viso volava in Curva. Non basta,
ovviamente, a mamma Esperia, ormai avanti con gli
anni. Anche se, sabato 29 giugno 2013, su un campo
della Tiburtina, accade un qualcosa di molto importante…
Torneo di calcio a 5 in memoria di Antonio. In tanti
si stringono intorno alla signora, la mamma di tutti,
quel giorno. E le consegnano "quella" bandiera.
"Mamma Esperia, Antonio è sempre qui". Un sorriso
riesce a fare capolino fra le rughe e un viso provato
dal dolore. 400 ragazzi, 25 squadre. Inutile allora
come oggi, provare a intervistarla. Piange. Si commuove.
Come fa da 26 anni. In un composto silenzio.
Non alza la voce. Non chiede giustizia. Non va a
caccia dei riflettori. Non scrive libri. Non fonda
associazioni. Gli basta un ricordo e l’affetto della
gente che amava Antonio. Quel giorno le viene consegnata
una targa: "Ieri, oggi, domani, eternamente nel
cuore della tua gente. Alla famiglia di Antonio.
Gli ultras della Roma". Ha pianto, Mamma Esperia.
Ha ringraziato. E poi è tornata a casa. Dove sicuramente
ha pianto. Come al solito. In silenzio. Stringendo
con amore, un drappo, un anelito. Stringendo Antonio.
C’è Milan-Roma. Non dimenticatelo.
2 ottobre 2017
Fonte: Iogiocopulito.it
4 giugno 1989 -
4 giugno 2017: Antonio De Falchi, tifoso romanista
di Simone Meloni
C’è una scritta non distante
da casa mia. La vedo spesso quando il semaforo mi
impone l’alt, o quando percorro quella strada a
velocità sostenuta. Sta su un muretto basso, che
fa da parapetto al capolinea degli autobus in Viale
di Torre Maura, nella periferia sud-est di Roma.
"4-6-1989: Antonio De Falchi vive". È messa là,
non per caso. Antonio è cresciuto in quelle strade,
ha respirato l’odore della periferia impregnandosi
con i colori giallorossi. Da queste parti essere
della Roma è quasi obbligatorio. Bastava passarci
qualche anno fa, quando il calcio era ancora in
perfetta armonia con il popolo. Bandiere giallorosse
ovunque e quel pizzico di ruvidezza tipica del romano
scalcinato e ironicamente malinconico. Ho pensato
a lui le prime volte che mi sono avvicinato alle
entrate del Meazza, percorrendo a piedi quel pezzo
di asfalto che divide Piazzale Lotto dalla Scala
del Calcio. Ho rivisto le sue foto, gli striscioni
a lui dedicati, i cori. Roma. Milano. Una rivalità
che andava ben oltre il calcio. Un modus vivendi
differente, di due popoli, due entità e due città
agli antipodi. Stereotipate, certo. Ma con tante
verità di fondo. Dall’una e dall’altra parte. Antonio
De Falchi è morto in maniera meschina. Infame. Senza
una logica, senza un perché e senza una giustificazione.
E a noi non interessa star qui a fare retorica o,
peggio ancora, morale. Perché forse non ne abbiamo
neanche il diritto. E perché della morale ce ne
sbattiamo, quando sanno tutti come andarono le cose
nei mesi, negli anni, seguenti a quella maledetta
domenica. Il processo farsa, la libertà comprata
a suon di milioni, i colpevoli subito a piede libero.
Un’altra umiliazione per la famiglia De Falchi.
Chi ha il diritto di dire a qualcun altro cosa è
moralmente giusto e cosa non lo è ? La signora Esperia,
la mamma di Antonio, ha smesso da tempo di chiederselo.
Lei, la sua famiglia, forse lo rivedono partire
allegro per la trasferta, al seguito della Roma.
Non sapendo che sarebbe stata l’ultima. Non sapevano
che carissimi gli sarebbero costati quei pochi passi
compiuti da Piazzale Axum, dove il tram per lo stadio
faceva capolinea, al cancello numero 16, quello
riservato ai tifosi ospiti. Una domanda: "Che ore
sono ?", il suo accento inconfondibile, e la carica
di oltre trenta persone nascoste dietro un muretto
improvvisato per i lavori di ristrutturazione in
vista dei mondiali 1990. Trenta contro tre. Se non
c’è giustizia nel cadere inermi a diciotto anni,
c’è ancora più viltà nel farlo così. Per mano di
chi voleva dimostrarsi uomo a tutti gli effetti.
Duro e puro. Mostrando al mondo, invece, l’esatto
opposto. Morire in un giorno di festa. Morire in
piena gioventù. Le lacrime che scendono a mamma
Esperia sono le stesse da ventotto anni. Asciugate
dai ragazzi e dalle ragazze che tengono vivo il
ricordo di Antonio, che ne onorano la memoria e
che lo hanno reso un’icona del romanismo. Anche
oggi che la Curva Sud è in difficoltà, divisa e
spaccata in due. Con il cuore che pulsa ancora sangue,
ma fa una fatica terribile. In ogni coro, in ogni
partita, in ogni trasferta gli ultras hanno deciso
che Antonio De Falchi ci deve essere. E il suo ricordo
si è tramandato. Silente ma forte. Di generazione
in generazione. Sì, lo hanno deciso gli ultras.
Perché lontani sono i tempi di Dino Viola. Presente
ai funerali nella chiesa di San Giovanni Leonardi,
a Torre Maura. Il Presidente si fece carico della
funzione, cercando di stare vicino a un cuore di
mamma straziato dal dolore. Dopo di lui nessuno
si ricordò più di Antonio. Mai una parola, mai un
mazzo di fiori, mai un messaggio. E allora giusto
che a tutti questi anni di distanza viva solo nel
ricordo di chi è stato ed è come lui. Di chi ogni
volta che la Roma gioca a Milano gli dedica un pensiero,
passando davanti al punto dove i suoi occhi si chiusero
per sempre. Perché neanche la batosta sportiva più
atroce subita in terra meneghina potrà essere paragonata
alla morte di un ragazzo da poco maggiorenne. Oggi
avrebbe quarantasette anni. E probabilmente indosserebbe
ancora la sciarpa giallorossa per sostenere la sua
città, la sua squadra e il suo popolo. Che mai lo
dimenticherà.
4 giugno 2017
Fonte: Iogiocopulito.it
Calcio: De Falchi
- Ogni giorno al cimitero da mio figlio
Roma,
30 gen. (Adnkronos) - ''Proprio come Antonio mio''.
È distrutta dal dolore la signora Esperia Galloni,
mamma di Antonio De Falchi, il giovane romano ucciso
a 18 anni, vicino ai cancelli di San Siro, poco
prima della partita Milan-Roma del 5 giugno '89,
dai tifosi ultrà rossoneri. ''Per lui non si rinunciò
nemmeno a giocare, lo spettacolo doveva andare avanti
e quando ci sono di mezzo i soldi non ci si ferma
mai, neanche davanti al sangue di un ragazzo assassinato'',
dice al telefono all'Adnkronos, prima di recarsi
- come ogni giorno, da allora - al cimitero per
portare fiori freschi nella tomba del suo Antonio.
''Da Torre Maura a Prima Porta sono quasi tre ore,
con i mezzi pubblici. Un mesto pellegrinaggio che
faccio ogni mattina: prendo il trenino, poi il bus,
e resto in camposanto per tutta la giornata. Poi,
nel pomeriggio torno a casa, dove mi aspettano altri
due figli. Mio marito era morto qualche anno prima
della tragedia di Antonio''. Un' abitudine che non
è solo un triste rito: ''Per me è come se Antonio
vivesse ancora. A Natale gli ho portato un panettone,
ma poi ho saputo che qualcuno lo ha rubato. Non
c'è rispetto neanche per i morti. Ora che si avvicina
Carnevale gli metterò vicino un sacchetto di coriandoli.
Ogni domenica gli regalo una sciarpa giallorossa,
la deposito vicino al "fornetto", proprio come faceva
lui quando se la metteva al collo, prima di andare
a vedere la sua Roma''. Cosa vuol dire alla famiglia
genovese che ieri ha incontrato la sua stessa sorte
? ''Le parole da sole non bastano. Purtroppo, penso
che tutto continuerà ad andare così: troppi interessi
in ballo, troppo menefreghismo, a chi può interessare
la vita di qualche giovane ? Qualche articolo sul
giornale e poi si scorda tutto. Ma io non posso
dimenticare; finché il Signore mi darà vita, penserò
sempre al mio Antonio. Era forte, pieno di vita,
stava per partire per il servizio militare e già
lavorava in officina per aiutare la famiglia ad
andare avanti. E ora non c'è più, ucciso a Milano
dall'odio, come se fosse andato in guerra. Sul comò
c’è ancora la cartolina con il Duomo che mi aveva
spedito prima di recarsi allo stadio. Ma lui, lui
non c’è più'''.
30 gennaio 1995
Fonte: Adnkronos
|
Romanista ucciso
a Milano
Una vittima
anche a Catania:
un tifoso cade
da un pullman e
un altro lo
schiaccia.
Un’altra
tragedia nella
domenica del
calcio. Un
tifoso della
Roma è morto
all'ingresso
dello stadio di
San Siro, ucciso
a calci e pugni
da teppisti che
indossavano
sciarpe e
magliette del
Milan. Si
chiamava Antonio
De Falchi, 18
anni. La
disgrazia a
mezzogiorno:
Antonio è stato
avvicinato da un
giovane che gli
ha chiesto una
sigaretta. Un
attimo dopo, una
trentina di
complici del
"tifoso"
milanista si
sono lanciati
all'assalto. De
Falchi è stato
raggiunto da
calci e pugni:
trenta secondi
dopo, quando la
polizia ha
sedato la zuffa,
si è rialzato a
fatica, poi è
stramazzato. È
morto durante il
trasporto
all'ospedale.
Doveva essere un
giorno di festa
per il Milan
campione
d'Europa.
Invece, le
bandiere sono
scomparse dalle
gradinate, prima
dell'incontro si
è osservato un
minuto di
silenzio. La
polizia ha
fermato tre
giovani.
Tragedia anche a
Catania. Un
tifoso della
Reggina è caduto
dal pullman che
lo trasportava
al "Cibali"
(dove i granata
dovevano giocare
con l'Empoli).
Un altro autobus
lo ha
schiacciato. Si
chiamava Orazio
Buta, aveva 23
anni.
5 giugno 1989
Fonte: Stampa
Sera
Violenza
assassina: prima
della gara
Antonio De
Falchi, 18 anni,
colpito a pugni
e calci da 30
teppisti con
sciarpe
milaniste.
S. Siro teatro
di morte per un
tifoso della
Roma
di Giampiero
Paviolo
MILANO -
Ammazzato
davanti allo
stadio.
Ammazzato a
calci e pugni, o
forse, sarà
l'autopsia a
raccontarci la
verità, ucciso
dalla paura, lui
che si era
allontanato
dagli altri
tifosi per non
correre il
rischio di
trovarsi in
mezzo a una
rissa. Si
chiamava Antonio
De Falchi, 18
anni e mezzo,
romano. È morto
a mezzogiorno, a
due passi dal
cancello 16 di
San Siro. I suoi
assassini sono
teppisti che
indossavano
sciarpe e
magliette del
Milan. La
polizia ne ha
fermati tre, un
fermo tecnico in
attesa di
approfondire le
indagini. Così
si è iniziato il
"giorno di
festa" per il
Milan campione
d'Europa. Ed è
proseguito con
altri incidenti,
feriti, contusi,
arresti. Dalle
gradinate sono
scomparsi gli
striscioni, i
tamburi hanno
taciuto. Non c'è
stato il
previsto giro
d'onore dei
rossoneri. Al
suo posto, un
minuto di
silenzio che a
tutti è parso
lungo
un'eternità. I
responsabili dei
Milan clubs, i
presidenti delle
società.
Berlusconi e
Viola, hanno
pronunciato
parole
durissime. Tutti
hanno deplorato,
deprecato,
stigmatizzato. A
quell'ora, le
10, il corpo
senza vita di
Antonio era
all'obitorio
dell'ospedale
"San Carlo". La
vittima abitava
all'83 di via
Torre Maura:
operaio, ultimo
di otto
fratelli,
famiglia già
segnata per la
tragica morte
del padre. Una
macchia recente,
fermato per
lutto e rissa
durante la
trasferta di
Cesena: "Ma
aveva rubato
soltanto
un'arancia"
dicono gli
amici. Che lo
definiscono
"tranquillo,
grande
appassionato di
calcio, mai
violento". Anzi,
proprio il suo
desiderio di
star lontano dai
guai gli è
costato la vita.
Sono le 11.49,
quando Antonio e
tre compagni si
staccano dal
corteo di 150
tifosi diretto
allo stadio
sotto la attenta
sorveglianza
della polizia.
"Spostiamoci,
non vorrei che
finisse a
botte". Il
quartetto è a
pochi metri
dalla porta 16,
quando un
ragazzo si
avvicina ad
Antonio, che
oltre alla
sciarpa della
Roma ne indossa
una nerazzurra
(una leggerezza,
senza dubbio):
"Scusa, hai
sigarette ?". Il
ragazzo si fruga
in tasca, non
vede che l'altro
ha richiamato
l'attenzione di
un gruppo di
"tifosi"
rossoneri. È un
attimo,
venti-trenta
persone
"caricano" i
quattro. Antonio
finisce a terra,
mentre gli amici
riescono a
fuggire
inseguiti da una
decina di
persone. La
zuffa dura
trenta secondi,
poi gli agenti
che pattugliano
la zona riescono
a riportare la
calma.
Racconterà uno
di loro: "Il
ragazzo
respirava con
affanno, gli ho
detto di stare
calmo, che era
tutto finito".
Antonio si alza,
barcolla, poi
stramazza. Il
poliziotto
capisce, tenta
la rianimazione
bocca a bocca,
mentre una
"volante" chiede
l'intervento
dell'ambulanza.
Inutile la corsa
al "San Carlo".
Dirà più tardi
il questore di
Milano, Umberto
Lucchese: "Un
fatto terribile,
compiuto da
delinquenti
puri. Altro che
tifosi". E
aggiungerà: "I
ragazzi romani
non avevano
fatto nulla che
giustificasse
l'aggressione".
Intanto,
l'episodio
scatena una
ridda di voci
incontrollate.
Allo stadio si
diffonde la
notizia che i
morti sono due,
poi che la
vittima è una
sola, ma un
altro tifoso è
in coma. Alle
14, un gruppo di
tifosi romanisti
sta risalendo le
gradinate quando
gli piove In
testa una
gragnuola di
sassi. I
carabinieri
arrestano due
sostenitori del
Milan: Umberto
Lanzani, 24
anni, e Paolo
Antonio Ferrari,
22 anni. Dal
"San Carlo"
giungono notizie
contrastanti.
C'è chi dice che
Antonio è stato
ammazzato a
sprangate, chi
racconta che lo
ha ucciso un
pugno allo
sterno. In
serata, la
precisazione
della questura:
"Non ci sono
segni di colpi
che possano aver
causato la
morte. Ma la
vittima aveva
capelli lunghi,
un ematoma al
capo potrebbe
anche passare
inosservato al
primo esame".
L'ipotesi
dell'infarto è
credibile, ma
non ci sono
conferme. Per i
responsabili
dell'episodio,
però, cambierà
ben poco.
Ammesso che la
polizia riesca a
identificarli. I
tre fermati
potrebbero aver
fatto parte del
commando", ma
tra loro non c'è
il giovane che
per primo si è
avvicinato ad
Antonio: "Di lui
abbiamo una
descrizione
dettagliata,
diffonderemo un
identikit"
spiega il
questore. Alle
16, arrivano
allo stadio i
presidenti delle
due società.
Silvio
Berlusconi
sembra sul punto
di scoppiare in
lacrime: "Ero
con Viola quando
ho appreso la
notizia. Ci
siamo guardati
negli occhi,
sconvolti, pieni
di amarezza.
Abbiamo fatto
tanto per
rendere più
sicuri gli
stadi.
Purtroppo,
queste tragedie
capitano sempre
più spesso fuori
dai cancelli.
Credo, spero che
chi ha compiuto
questo gesto non
faccia parte dei
clubs". Dino
Viola è
choccato, ma
consapevole
delle
responsabilità
che tutto il
mondo del calcio
dovrà assumersi.
5 giugno 1989
Fonte: Stampa
Sera
Fonte: Il
Messaggero
La polizia cerca
i cinque
complici degli
assassini del
tifoso romanista
(Omissis), uno
dei fermati, è
un ultras del
Milan e, per la
società svolge,
il servizio
d'ordine a San
Siro. Il tifoso
ucciso, orfano,
era il minore di
otto fratelli.
La posizione del
club.
MILANO - Nuovi
sviluppi
sarebbero
imminenti nelle
indagini sulla
morte del
giovane tifoso
romanista
Antonio De
Falchi, ucciso a
calci e pugni
domenica mattina
nei pressi dello
stadio di San
Siro. Dopo i
primi tre fermi
gli agenti della
Digos sono sulle
tracce di altri
cinque giovani
che, secondo le
diverse
testimonianze
raccolte,
avrebbero
partecipato
all'aggressione.
Ma la notizia
più sconcertante
è che (Omissis), 29
anni, uno dei
tre fermati con
l'accusa di
concorso in
omicidio,
appartiene al
servizio
d'ordine del
Milan. La
circostanza
raccontata dalla
madre, la quale
ha detto che il
figlio aveva un
"passi" per
entrare allo
stadio, ha
trovato conferma
negli ambienti
del Milan.
(Omissis) era
uno dei 12
rappresentanti
dei gruppi
ultras della
curva che era
stato ammesso
nel servizio
d'ordine
composto da 380
persone scelte
dalla
Associazione
italiana Milan
club. Gli altri
due giovani per
i quali è stato
convalidato il
fermo sono
(Omissis) di 18
anni e (Omissis) di 21
anni. (Omissis)
appartiene al
gruppo "fossa
dei leoni", una
delle
organizzazioni
dei fedelissimi
del Milan,
riconosciuta fra
le associazioni
dei tifosi
rossoneri. Lo ha
precisato il
responsabile
organizzativo
del Milan, Paolo
Taveggia, che ha
fornito una
serie di
chiarimenti
ufficiali sulla
posizione di
(Omissis)
all'interno del
"servizio
stadio".
"(Omissis) - ha
detto Taveggia -
era in possesso
di una delle 380
tessere del
servizio stadio,
assegnate ad
ogni inizio di
stagione dalla
società a quei
tifosi volontari
che sulla base
di requisiti di
lunga militanza
e assoluta
affidabilità
vengono ritenuti
idonei a
svolgere una
serie di compiti
all'interno
dello stadio".
(Omissis)
apparteneva alla
"fossa" da anni,
e da diverse
stagioni faceva
parte del
"servizio
stadio". "È
chiaro - ha
detto Taveggia -
che se in
precedenza si
fosse mai reso
responsabile di
atti di violenza
o di
scorrettezza non
gli sarebbe
stato affidato
alcun compito".
Taveggia ha
tenuto a
sottolineare che
il "servizio
stadio" non è un
servizio
d'ordine, ma
un'organizzazione
al cui interno
ciascuno ha
particolari
incarichi.
"(Omissis) aveva
esclusivamente
quello di
portare
striscioni allo
stadio e di
curarne la
corretta
esposizione
sulla curva e
per questo - ha
aggiunto
Taveggia - si
recava allo
stadio con molte
ore d'anticipo".
Taveggia ha
espresso il
dispiacere della
società e "la
delusione,
perché malgrado
tutto quanto è
stato fatto
possono ancora
accadere simili
episodi". "Siamo
impegnati - ha
proseguito - a
collaborare con
la giustizia e
abbiamo invitato
i nostri tifosi
che abbiano
visto qualcosa
ad andare a
testimoniare
alla polizia".
Taveggia ha
detto di aver
visionato il
filmato fatto da
un cineamatore,
ma ha osservato
che non dovrebbe
essere di grande
aiuto per le
indagini perché
si vede solo un
uomo che corre
da lontano
"senza poter
nemmeno
distinguere se
sia bruno o
biondo".
(Omissis),
appassionato di
culturismo,
lavora come
postino nel
quartiere
milanese della
Bovisa.
(Omissis) è un
ragazzo "di
buona famiglia":
figlio di un
farmacista, è
iscritto alla
facoltà di
Giurisprudenza
dell'università
di Milano.
(Omissis) lavora
come "pony"
presso
un'agenzia di
recapiti
postali: dei tre
giovani, è il
più fortemente
indiziato, in
quanto fermato
dai primi agenti
intervenuti a
soccorrere De
Falchi. Gli
altri due,
riconosciuti
dalla polizia
tra i giovani
che erano
scappati subito
dopo
l'aggressione,
sono stati
bloccati pochi
minuti dopo. A
decidere sulla
convalida del
fermo di
(Omissis),
(Omissis) e
(Omissis) sarà
il giudice
istruttore del
tribunale di
Milano, Gustavo
Cioppa. Intanto
ieri mattina,
all'obitorio di
Milano, la madre
di Antonio De
Falchi si è
presentata
assieme a due
dei suoi figli
(Antonio era il
minore di otto
fratelli) per la
straziante
formalità del
riconoscimento
della salma.
Esperia De
Falchi, rimasta
vedova quattro
anni fa quando
il marito Enrico
si uccise
gettandosi dalla
finestra del suo
appartamento,
era sconvolta
dal dolore.
Sorretta dai
figli, la donna
continuava a
ripetere frasi
rivolte al suo
"pulcino": "non
sei morto, ora
ti riporto a
casa". Dopo il
riconoscimento,
i familiari di
Antonio hanno
fatto ritorno a
Roma. Nella sede
Fininvest di via
Rovani si è
svolto nel
pomeriggio un
vertice tra i
dirigenti del
Milan e del
gruppo, Adriano
Galliani e
Giancarlo
Foscale
(responsabili
per i rapporti
con il tifo
rossonero), e il
responsabile
organizzativo
rossonero, Paolo
Taveggia.
Durante la
riunione sono
stati esaminati
in particolare i
provvedimenti da
prendere in
seguito agli
sviluppi delle
indagini sulla
morte di De
Falchi: al
momento, non
sono state
ancora rese note
eventuali
decisioni o
prese di
posizione
ufficiali del
Milan.
6 giugno 1989
Fonte: Stampa
Sera
Ordine d'arresto
per i 3
aggressori ma
forse il tifoso
è morto
d'infarto
Secondo
i primi
risultati
dell'autopsia su
Antonio De
Falchi non
sarebbero state
trovate tracce
di lesioni o
ferite.
(Omissis), uno
degli arrestati,
è un ultras che
svolge servizi
d'ordine.
MILANO
- Tre ordini di
arresto per
omicidio
preterintenzionale
sono stati
notificati nel
carcere di San
Vittore ai tre
tifosi del Milan
fermati per la
morte del
giovane
romanista
Antonio De
Falchi.
Dall'autopsia
eseguita
stamattina, i
cui risultati
ufficiali
saranno resi
noti fra 60
giorni, è emerso
che la causa
della morte del
giovane sarebbe
stata un infarto
cardiaco.
"(Omissis),
(Omissis) e
(Omissis), quindi,
per ora restano
in carcere,
perché rimane
comunque il
nesso causale
tra
l'aggressione
degli ultras,
alla quale sono
accusati di aver
partecipato, e
la morte del
giovane tifoso
romano. Il
provvedimento
emesso dalla
procura della
Repubblica, in
base alle nuove
norme, ha
validità di
dieci giorni,
passati i quali
gli atti saranno
trasmessi al
giudice
istruttore che
dovrà stabilire
se confermare
l'arresto con
l'emissione di
un mandato di
cattura. Il
corpo di Antonio
De Falchi,
secondo quanto è
emerso
dall’autopsia
eseguita dai
prof. Farneti e
Marozzi, non
presenta alcuna
lesione, né
esterna, né
interna, tranne
alcune leggere
escoriazioni.
Dall'autopsia,
alla quale ha
assistito anche
il prof. Franco
Massari, perito
di parte per
(Omissis),
sarebbe emersa
una
malformazione di
una delle
coronarie,
risultata
ipoplasica, cioè
più piccola del
normale. Secondo
gli esperti, in
una situazione
di stress o di
pericolo, quando
il cuore è
sottoposto ad
uno sforzo
notevole, questa
malformazione
potrebbe non
consentire il
regolare
afflusso di
sangue al cuore
e quindi causare
la morte.
Comunque i
periti nominati
dai magistrati
hanno 60 giorni
di tempo per
effettuare
ulteriori esami
e depositare i
risultati
ufficiali
dell'autopsia.
Ma sul fronte
delle indagini
nuovi sviluppi
sarebbero
imminenti. Dopo
i primi tre
fermi gli agenti
della Digos sono
sulle tracce di
altri cinque
giovani che,
secondo le
diverse
testimonianze
raccolte,
avrebbero
partecipato
all'aggressione.
Ma la notizia
più sconcertante
è che (Omissis), 29
anni, uno dei
tre arrestati,
appartiene al
servizio
d'ordine del
Milan. La
circostanza
raccontata dalla
madre, la quale
ha detto che il
figlio aveva un
"passi" per
entrare allo
stadio, ha
trovato conferma
negli ambienti
del Milan.
(Omissis) era
uno dei 12
rappresentanti
dei gruppi
ultras della
curva che era
stato ammesso
nel servizio
d'ordine
composto da 380
persone scelte
dalla
Associazione
italiana Milan
club. Gli altri
due giovani
arrestati sono
(Omissis) di
18 anni e
(Omissis) di 21
anni. (Omissis)
appartiene al
gruppo "fossa
dei leoni", una
delle
organizzazioni
dei fedelissimi
del Milan,
riconosciuta fra
le associazioni
dei tifosi
rossoneri. Lo ha
precisato il
responsabile
organizzativo
del Milan, Paolo
Taveggia, che ha
fornito una
serie di
chiarimenti
ufficiali sulla
posizione di
(Omissis)
all'interno del
"servizio
stadio".
"(Omissis) - ha
detto Taveggia -
era in possesso
di una delle 380
tessere del
servizio stadio,
assegnate ad
ogni inizio di
stagione dalla
società a quei
tifosi volontari
che sulla base
di requisiti di
lunga militanza
e assoluta
affidabilità
vengono ritenuti
idonei a
svolgere una
serie di compiti
all'interno
dello stadio".
(Omissis)
apparteneva alla
"fossa" da anni,
e da diverse
stagioni faceva
parte del
"servizio
stadio".
Taveggia ha
tenuto a
sottolineare che
il "servizio
stadio" non è un
servizio
d'ordine, ma
un'organizzazione
al cui interno
ciascuno ha
particolari
incarichi.
"(Omissis) aveva
esclusivamente
quello di
portare
striscioni allo
stadio e di
curarne la
corretta
esposizione
sulla curva e
per questo - ha
aggiunto
Taveggia - si
recava allo
stadio con molte
ore d'anticipo".
Taveggia ha
espresso il
dispiacere della
società e "la
delusione,
perché malgrado
tutto quanto è
stato fatto
possono ancora
accadere simili
episodi". "Siamo
impegnati - ha
proseguito - a
collaborare con
la giustizia e
abbiamo invitato
i nostri tifosi
che abbiano
visto qualcosa
ad andare a
testimoniare
alla polizia".
Taveggia ha
detto di aver
visionato il
filmato fatto da
un cineamatore,
ma ha osservato
che non dovrebbe
essere di grande
aiuto per le
indagini perché
si vede solo un
uomo che corre
da lontano
"senza poter
nemmeno
distinguere se
sia bruno o
biondo".
(Omissis),
appassionato di
culturismo,
lavora come
postino nel
quartiere
milanese della
Bovisa.
(Omissis) è un
ragazzo "di
buona famiglia":
figlio di un
farmacista, è
iscritto alla
facoltà di
Giurisprudenza
dell'università
di Milano.
(Omissis) lavora
come "pony"
presso
un'agenzia di
recapiti
postali: dei tre
giovani, è il
più fortemente
indiziato, in
quanto è stato
fermato dai
primi agenti
intervenuti a
soccorrere De
Falchi.
6 giugno 1989
Fonte: Stampa
Sera
Killer da stadio
con tessera
di Piero
Colaprico e
Fabrizio Ravelli
MILANO
- Portano i
capelli quasi a
zero, hanno
scarpe pesanti,
cinghie piene di
borchie.
Inalberano uno
striscione che
ha il suo posto
fisso sulla
curva: Gruppo
brasato. Fra le
due parole, una
zucca svuotata
come quella di
Halloween. Sono
loro, i brasati,
quelli che
domenica hanno
ammazzato di
botte un ragazzo
di diciannove
anni, Antonio De
Falchi, alcune
ore prima di
Milan-Roma,
fuori dallo
stadio. E ieri
mattina, dopo
una lunga notte
di interrogatori
e confronti, il
sostituto
procuratore
Daniela
Borgonovo ha
firmato tre
ordini di
arresto per
concorso in
omicidio. Uno
dei tre ultras
fermati,
(Omissis), 29
anni, fa parte
del servizio
d'ordine del
Milan: i
dirigenti
rossoneri
l’hanno ammesso
solo dopo che la
madre aveva dato
la notizia alla
stampa.
(Omissis) è uno
dei 12
rappresentanti
degli ultras nel
servizio
d’ordine,
formato in tutto
da 380 elementi
tesserati. Gli
altri due
arrestati sono
(Omissis), 18
anni, e
(Omissis), 21
anni. Si cercano
altri cinque
brasati: la
polizia ha gli
identikit di due
di loro. Antonio
De Falchi, 19
anni da
compiere, era
arrivato in
treno da Roma e
con tre amici
aveva raggiunto
in tram lo
stadio. Comprato
il biglietto, i
quattro si
stavano avviando
verso il
cancello numero
16, le sciarpe
giallorosse
nascoste sotto i
giubbotti per
evitare guai. Il
primo identikit
è di quello che
li ferma con un
pretesto: alto
1.75, capelli
lunghi dietro e
corti sopra,
naso storto,
maglietta bianca
e jeans. Hai una
sigaretta ? -
chiede. E poi:
Sai che ore sono
? L’accento
romano tradisce
De Falchi e i
suoi amici. Un
cenno, e da
dietro una
struttura di
cemento esce un
commando di
picchiatori.
Antonio De
Falchi non ce la
fa a scappare,
lo ferma uno
sgambetto. Lo
massacrano di
calci e pugni.
Il secondo
identikit è di
uno di quelli
che
infieriscono:
capelli rasati,
salvo un ciuffo
sulla tempia
destra, robusto,
mascella forte.
Mancavano ancora
quattro ore al
fischio d'inizio
di Milan-Roma,
quando Antonio
De Falchi s'è
rialzato in
piedi, aiutato
da uno dei
poliziotti che
erano accorsi e
avevano messo in
fuga i
picchiatori. Il
ragazzo era
cianotico,
respirava a
fatica, e si è
di nuovo
accasciato. Il
poliziotto ha
tentato di
rianimarlo con
la respirazione
bocca a bocca, e
con il massaggio
cardiaco. De
Falchi è morto
sull’ambulanza.
Dirà l’autopsia,
con precisione,
quale è stata la
causa della
morte. In
questura hanno
riferito che sul
corpo non c'
erano lesioni
apparenti, e
hanno ipotizzato
un collasso. Ma
la madre e i
fratelli di
Antonio De
Falchi, dopo
aver
riconosciuto il
cadavere
all’obitorio,
hanno detto
invece che era
pieno di lividi.
Mentre
l’ambulanza
correva verso
l’ospedale San
Carlo, intorno
allo stadio la
polizia ha
fermato una
decina di
sospetti e li ha
portati in
questura.
(Omissis) è
stato preso al
bar lì vicino.
Alto,
irrobustito dal
body-building,
un lavoro alle
Poste di
piazzale Lugano,
(Omissis) abita
con la madre in
viale Suzzani.
In tasca aveva
un passi con
foto, una delle
380 tessere del
servizio
d’ordine che il
Milan ha
organizzato.
(Omissis) è uno
dei brasati:
ogni domenica,
grazie alla
tessera, entrava
allo stadio per
stendere lo
striscione.
Sempre allo
stesso posto,
sopra quello
delle Brigate
rossonere. La
sua è una delle
dodici tessere
distribuite agli
ultras, le altre
368 del servizio
d’ordine sono
per gli
affiliati ai
Milan Club. Alto
e atletico è
anche (Omissis),
21 anni, figlio
di un farmacista
di Sesto San
Giovanni,
studente modello
del secondo anno
di
Giurisprudenza.
Grande e grosso
ma tranquillo,
secondo il
padre, che ieri
attraverso lo
spioncino della
sua farmacia ha
risposto
all’assalto dei
cronisti.
Tranquillo, ma
c’è chi sostiene
che, quando la
polizia l’ha
fermato, Antonio
avesse ancora
una cinghia
borchiata
avvolta intorno
a una mano. Il
terzo arrestato
per concorso in
omicidio si
chiama (Omissis), e coi
suoi 18 anni è
il più giovane.
Fa il fattorino
pony-express, e
ha una Kawasaki.
Per tutta la
notte fra
domenica e ieri,
il sostituto
procuratore
Daniela
Borgonovo ha
interrogato in
questura i
fermati e i
testimoni, fra i
quali c' era un
ragazzino di
tredici anni, e
ha messo a
verbale il
racconto dei tre
amici di Antonio
De Falchi. Poi
ha firmato gli
ordini di
convalida dei
fermi, chiedendo
che i nomi dei
tre non
venissero
divulgati: la
cautela non ha
mantenuto a
lungo il
segreto. Entro
quarantotto ore
il pubblico
ministero
chiederà al
giudice
istruttore
Gustavo Cioppa
l’emissione di
mandati di
cattura. Si
cercano intanto
gli altri
picchiatori,
almeno cinque.
Dei tre fermati,
pare che quello
più compromesso
sia proprio
(Omissis), il più
giovane: la
polizia l’ha
acchiappato
subito. Gli
altri due sono
stati presi
qualche minuto
più tardi. La
notizia che
(Omissis) fa
parte del
servizio
d’ordine è stata
diffusa dalla
madre, e ha
messo in crisi
l’ordinato coro
di chi da
domenica segnava
sottili confini
fra i veri
tifosi e gli
altri. Anche il
questore Umberto
Lucchese, forse
trascinato
dall’indignazione,
aveva sostenuto
che la vera
tifoseria, per
quanto brutta ed
esasperata, non
arriva mai a
questi livelli.
Stessa musica,
la solita, da
Berlusconi in
giù. Poi i
dirigenti del
Milan hanno dato
una mano alle
indagini, ed è
arrivata la
sorpresa.
(Omissis) pare
sia uno dei capi
dei brasati: il
gruppo non ha
tessere né
gerarchie. I
brasati però non
sono
indipendenti -
spiega uno della
Fossa - Stanno
insieme agli
altri ultras.
Sono un
centinaio e non
tutti sono
skinheads,
rapati. Non
hanno tessere
come gli altri
ultras, e non
vendono sciarpe
e magliette. Non
avevano mai dato
problemi. A San
Vittore, mentre
si indagava
sulla morte di
Antonio De
Falchi, erano
intanto finiti
altri due ultras
milanisti: Paolo
Ferrari, 25 anni
e Umberto
Lanzani, 24
anni. Stavano
fra gli
esagitati che,
nemmeno due ore
dopo che De
Falchi era morto
ammazzato,
tiravano sassi
ai tifosi
romanisti,
centrando anche
un carabiniere.
6 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
L’imbarazzo del
Milan:
"aiutateci"
La notizia che
uno degli
arrestati fa
parte del
servizio
d’ordine del
Milan è stata
accolta con
imbarazzo
evidente.
Abbiamo 400
volontari che
ogni domenica
stanno ai
cancelli,
controllando i
biglietti e
segnalando
eventuali
incidenti. Sono
tutti schedati,
nel senso che di
ognuno di loro
abbiamo foto e
dati. Ma non
possiamo certo
controllare le
fedine penali,
controllare
momento per
momento che cosa
stanno
architettando.
Non sappiamo più
dove battere la
testa: se
qualcuno ha dei
consigli da
darci, ci aiuti.
Quando l’ho
saputo, io ho
pensato una cosa
sola: bisogna
prenderli. Paolo
Taveggia è
ufficialmente il
direttore
organizzativo
del Milan. In
realtà è l’uomo
che Berlusconi
ha delegato per
affrontare e
risolvere le
grane interne ed
esterne della
società, dai
biglietti della
finalissima di
Barcellona ai
rapporti con i
giocatori. È
stato lui,
domenica, a
chiedere ai
padroni della
curva di
ritirare gli
striscioni, a
convincere
l’ingegner Viola
che la targa di
merito al dottor
Berlusconi
poteva dargliela
un’altra volta,
che la
riproduzione
floreale della
Coppa faceva
parte di una
festa
improvvisamente
e terribilmente
fuori luogo. E
poi una serata
lunghissima in
questura dopo la
partita, un
altro vertice
poi nella
mattinata di
ieri. Abbiamo
fatto una
riunione con i
capi dei gruppi
tifosi. Io
personalmente
non ho mai
pensato che il
Milan avesse
trovato la
formula della
felicità.
Abbiamo cercato
di selezionare,
di aiutare, di
incanalare. A un
certo punto,
dopo aver tanto
lavorato e aver
ottenuto anche
dei buoni
risultati,
sembrava davvero
che quelli del
Milan fossero
tifosi un po’
speciali. E
invece non era
vero, sono come
tutti gli altri,
nel bene e nel
male. Ho detto
ai capi ultras:
da domani avrete
la patente di
assassini,
tutti, dalle
vostre madri ai
datori di lavoro
si potrebbero
vergognare di
voi, magari
disprezzarvi. Se
vogliamo che
questo non
accada, bisogna
eliminare i
deficienti. È
già successo con
Luigi Sacchi,
quello che
l’anno scorso
colpì Tancredi
con un petardo.
Fu identificato
e arrestato
grazie alle
testimonianze di
chi gli stava
intorno quel
giorno. Adesso
deve scattare di
nuovo lo stesso
meccanismo. Il
Milan
parteciperà
ufficialmente ai
funerali del
ragazzo ucciso:
nei prossimi
giorni verrà
anche deciso in
che modo
intervenire a
favore della
famiglia De
Falchi. La
Federazione
Giovanile
comunista di
Milano ha
scritto a
Berlusconi:
Regalate la
Coppa dei
Campioni alla
famiglia di
Antonio. Sarebbe
un gesto
straordinario. l.
g.
6 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
"Lo stato deve
aiutarci"
di Leonardo Coen
MILANO -
Limitare la
violenza agli
stadi è un
compito che
spetta alle
istituzioni, non
ai clubs e ai
loro dirigenti:
un demoralizzato
Silvio
Berlusconi se ne
è andato a
Bologna per
incontrare gli
agenti
Publitalia del
Centro e del
Sud, però prima
di partire ha
detto la sua
sullo scenario
che ha provocato
(e consentito)
l’aggressione
mortale contro
il tifoso
romanista
Antonio De
Falchi. Il
presidente
rossonero,
infatti, ha
dichiarato che
spetta alle
forze
dell’ordine
agire per tenere
lontano chi reca
danni, giacché
la tragedia
avvenuta fuori
San Siro quattro
ore prima
dell’inizio di
Milan-Roma è il
classico esempio
che pone gli
sportivi di
fronte
all’impotenza. È
difficile
controllare quel
che succede
dentro lo
stadio, con
quale diritto
possiamo
intervenire
all’esterno ? La
logica di
Berlusconi
apparentemente
non fa una
grinza: anzi, in
fondo qualcosa
di simile aveva
già detto due
anni fa il
presidente del
Verona
Ferdinando
Chiampan,
esasperato dalle
scorribande dei
propri tifosi
dentro e fuori
il Bentegodi:
aveva accusato
d’omertà i suoi
concittadini
perché non gli
davano una mano
per smascherare
i violenti.
Questa volta,
contrariamente
al solito,
Berlusconi è
stato laconico.
Ha dimenticato o
sorvolato il
fatto che uno
dei tre giovani
arrestati dalla
polizia ed
accusati di
concorso in
omicidio fosse
regolarmente
inquadrato nel
servizio
d’ordine dei
Milan club.
L’imbarazzo è
evidente: per un
motivo o per un
altro sia
Adriano
Galliani,
amministratore
delegato del
Milan nonché
vicepresidente
della Lega, sia
Fedele
Confalonieri,
consigliere
delegato della
società di via
Turati, ieri
hanno evitato
commenti
pubblici in
merito alla
tragedia di
domenica.
Nessuno ha
voglia di
rispondere a
domande oggi
brucianti. Così,
in una
conversazione
con un cronista
del quotidiano
milanese La
Notte,
Berlusconi si è
limitato a
rivendicare
l’impegno
formale della
società contro
la violenza che
è l’unico vero
male del calcio
e che spesso ci
arriva da fuori.
Berlusconi
allarga
sconsolato le
braccia -
strano, per un
lottatore del
suo stampo - e
ammette che c’è
un limite oltre
il quale un
presidente e una
società non
possono andare.
Insomma, ci
pensi lo Stato a
reprimere, a
prevenire. Noi
diamo il buon
esempio,
assicura Sua
Emittenza, come
dirigenti e come
atleti. Noi
abbiamo prodotto
spot televisivi
per campagne
antiviolenza.
Noi ci
rivolgiamo
periodicamente
alle
organizzazioni
dei tifosi
perché
raccomandino ai
loro soci un
comportamento
sportivo:
lealtà,
correttezza e
rispetto degli
altri sono la
filosofia del
Milan e di ogni
nostro gruppo di
lavoro ripete,
con tono
accorato,
Berlusconi.
Tante cose non
vanno a San
Siro, come in
tutti gli altri
templi tricolori
del dio pallone.
Ai primi di
maggio, per
esempio, uno
studente
universitario
denunciò lo
sconcertante
accordo fra
bagarini e
maschere
all’ingresso
dello stadio, in
occasione di
Inter-Milan
(giocata il 30
aprile scorso).
L’episodio finì
sulle pagine dei
quotidiani. Le
curve sono un
tripudio di
striscioni i cui
slogan, spesso e
volentieri, sono
ignobili:
impossibile
fingere di non
sapere chi li
prepara. Come
affatto teneri
sono gli inni
degli ultras,
fra i quali il
celebre Sangue
di milanista. Le
società di
calcio sono
spesso vittime
di ricatti:
molte volte
debbono scendere
a compromessi
con le tifoserie
più turbolente
regalando
ingressi alle
partite in
cambio di
promesse del
tipo non
succederà nulla
di grave.
L’argomento è
tabù: tutti
sanno, nessuno
ha il coraggio
di denunciare la
situazione.
Quando a Verona
arrestarono
dodici tifosi
della curva sud,
nel febbraio
dell’87, la
domenica
successiva per
Verona-Roma lo
stadio era
semivuoto (fu
realizzato un
ridicolo incasso
di 160 milioni
di lire) e nella
famigerata curva
sud campeggiava
uno striscione
minaccioso: Non
dodici ma
cinquemila
colpevoli. Le
regole del
disordine, come
le ha definite
il sociologo
inglese Peter
Marsh che ha
studiato il
fenomeno della
violenza sugli
spalti, sono il
codice
comportamentale
di queste frange
che cercano
l’incidente, che
provocano. Sulle
pubblicazioni
dei vari Milan
club, Inter
club, eccetera i
dirigenti
continuano a
predicare la non
violenza. Le
stesse Brigate
Rossonere e le
Fosse dei Leoni,
le tifoserie
organizzate
della curva più
calda di San
Siro, oggi
puntualizzano
che non rientra
nella nostra
mentalità fare
ronde contro gli
avversari ed è
sbagliato volere
collegare per
forza gli
aggressori a
qualche gruppo
della curva.
Sventola il
drappo con
l’immagine del
Che Guevara e si
rivedono gesti e
slogan
dell’autonomia,
sopra questi
gruppi la
domenica allo
stadio. Li
vediamo noi, li
vedono i
dirigenti delle
squadre. È un
mondo dove tutti
conoscono tutti.
Dice uno degli
ultras: Di
solito chi fa
certe cose, come
picchiare un
avversario, il
giorno dopo se
ne vanta. Ma se
ci scappa il
morto, sta
zitto. Bocca
cucita.
7 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
È morto
d'infarto il
romanista di 18
anni assalito a
San Siro da 30
teppisti.
Il tifoso ucciso
dalla paura
di Giovanni
Cerruti
Lo ha stabilito
l'autopsia - Il
giovane aveva
una
malformazione
alle coronarie -
Per i tre ultras
milanisti in
carcere l'accusa
è ora di
omicidio
preterintenzionale
- Uno faceva
parte dei
servizi d'ordine
rossoneri.
MILANO - Antonio
De Falchi,
aggredito
davanti a San
Siro da trenta
tifosi
milanisti, è
morto d'infarto.
Per i tre
arrestati cambia
molto: da
omicidio
premeditato a
omicidio
preterintenzionale.
Per chi dibatte
di sport e
violenza cambia
niente: De
Falchi, 18 anni,
tifoso
romanista, resta
vittima e basta.
L'hanno ucciso
trenta milanisti
e la paura, il
cuore non ha
retto. Una
malformazione
alle coronarie,
secondo
l'autopsia, è
stata fatale.
Senza
l'aggressione, è
ovvio. De Falchi
sarebbe a casa,
in una borgata
romana dalla
madre vedova e
dai sette
fratelli. Ieri
mattina
l'autopsia ha
confermato il
sospetto
d'infarto. Sul
corpo di De
Falchi non sono
state trovate
lesioni; solo
qualche graffio.
Ma Daniela
Borgonovo, il
sostituto
procuratore che
sempre ieri ha
trasformato i
tre fermi in
arresti, spiega
che le accuse ai
trenta restano
valide: "II
rapporto di
causa ed effetto
è evidente".
Certo è che la
morte per
infarto, nel
caso di rinvio a
giudizio,
allevierà di
molto le
eventuali
condanne. Un
buon avvocato
potrebbe
riuscire a
dimostrare che
De Falchi non è
morto per
l'aggressione,
bensì per paura
e mal di cuore.
Tifosi e
teppisti, i tre
milanisti sono
nel carcere di
San Vittore. I
genitori li
definiscono
"bravi ragazzi".
La Questura
"teppisti già
noti, anche se
non protagonisti
di episodi
gravi", il
Milan, come
sempre in questi
casi, come
capitò all'Inter
dopo l'arresto
dei tifosi
nerazzurri
accusati
dell'uccisione
dell'ascolano
Nazareno
Filippini,
prende
diplomatiche
distanze: "Non
fanno parte dei
nostri Club".
Tutto già visto
e già sentito,
il solito
copione che
invade titoli di
giornali e
trasmissioni tv
tipo "il
processo del
lunedì".
Litania: sono
teppisti, non
sono tifosi. I
tre bravi
ragazzi
sono
Daniele
Formaggi: 29
anni, postino,
che non farà
parte di un club
ufficiale e però
fa parte dei 380
del servizio
d'ordine
organizzato dal
Milan: tanto da
avere il "pass"
dalla società di
Silvio
Berlusconi per
l'ingresso
gratuito a San
Siro; (Omissis),
21 anni,
studente in
legge, figlio di
un farmacista di
Sesto San
Giovanni;
(Omissis), 18
anni,
pony-express con
Kawasaki. Dei
tre il più
inguaiato sembra
(Omissis), fermato
dagli agenti a
pochi metri dal
moribondo De
Falchi.
(Omissis) e
(Omissis) erano
più lontani. Tre
bravi ragazzi,
per nulla
emarginati o
disperati.
Eppure
quantomeno esagitati:
(Omissis), al
momento del
fermo, aveva
ancora il
cinturone
borchiato
attorno al palmo
della mano
destra. Con gli
altri due, in
ottobre, aveva
formato il
gruppo del
Brasato",
ragazzotti uniti
dal Milan e
dalla passione
per gli
skin-heads, le
teste pelate. I
tre, e così gli
altri, hanno i
capelli
cortissimi e la
passione per il
body building. A
San Siro si
riuniscono
dietro uno
striscione che è
il loro simbolo:
la zucca vuota
di Halloween.
Qualche spinello
che gira, tifo e
botte. "Un
genitore può
solo insegnare
educazione e
onestà - è il
commento di
(Omissis), il
farmacista padre
di Antonio - ma
nessuno sa cosa
succede dentro
uno stadio...".
Quel che è
successo
domenica, fuori
da San Siro e
quattro ore
prima di
Milan-Roma, è
abbastanza
chiaro. I trenta
"brasati" si
erano dati
appuntamento a
mezzogiorno,
come sempre, al
loro punto di
ritrovo. Il bar
di Piazza Axum,
era però
occupato da
tifosi romanisti
arrivati In
treno. "Andiamo
a riprenderci il
bar...". I
trenta si
stavano
organizzando
quando hanno
notato De Falchi
con tre amici.
Li hanno
abbordati con un
trucco. Un
milanista con
maglietta bianca
e naso storto
domanda: "Avete
sigarette ?". Il
"No" non
permette di
riconoscere
l'accento. E
allora: "Che ore
sono ?". Il
tempo di
rispondere, un
gesto con la
mano agli altri
che aspettavano
soltanto quel
gesto, i
romanisti
riescono a dire
"Ma che volete
da noi ?
Cerchiamo solo i
biglietti...".
E De Falchi è
circondato.
Trenta secondi
di pugni e
calci. Trenta
contro uno.
Arrivano gli
agenti e
scappano tutti,
tranne (Omissis)
che viene
placcato e De
Falchi che resta
a terra: morirà
sull'ambulanza.
Gli altri
dell'aggressione,
ufficialmente,
ancora non hanno
un nome. Forse,
dopo aver saputo
dell'esito
dell'autopsia,
dopo il
consiglio di un
avvocato,
qualcuno
potrebbe
presentarsi.
"Vorrei fare un
piccolo appello
al giovane con
la maglietta
bianca - dice il
vice-questore
Achille Serra -
ora che si è
saputo del
decesso a causa
dell'infarto".
Solo il tifoso
in maglietta
bianca, ad
esemplo, può
dire se anche
gli altri due
arrestati hanno
partecipato
all'aggressione:
"Si presenti, è
nel suo
interesse;
altrimenti
rimarrà isolato
anche dagli
amici". Nella
sede del Milan
l'imbarazzo è
notevole. Povero
Berlusconi: la
Coppa dei
campioni e la
notte di
Barcellona,
rovinate da una
trentina di suoi
tifosi. Per il
resto tutto
secondo copione.
Paroloni.
Polemiche (da
"Il Messaggero":
"Non più
milanisti contro
romanisti, ma
Milano contro
Roma"). Lacrime
e blabla in tv,
al "Processo del
Lunedì", si son
visti gli amici
di De Falchi con
uno striscione:
"Trenta contro
trenta
scappavate".
Messaggio chiaro
e da nessuno
censurato. Per
fortuna il
campionato è
quasi finito; e
la prossima
partita, tra
milanisti e
romanisti, è
ancora lontana.
7 giugno 1989
Fonte: La Stampa
"Prima i pugni
poi l'infarto"
Oggi a Roma i
funerali
di Piero
Colaprico
ROMA - Si
svolgeranno oggi
nella chiesa del
quartiere di
Torre Maura i
funerali di
Antonio De
Falchi. Alle
esequie non
parteciperà la
Roma, impegnata
in una
amichevole.
Invano Bruno
Conti aveva
chiesto, nei
giorni scorsi,
che tutta la
squadra fosse
presente. Viola
manderà una
delegazione di
dirigenti e di
giovani
giocatori delle
squadre minori.
Roma e Milan
hanno comunque
già fatto sapere
che aiuteranno
la famiglia del
tifoso morto.
7 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
Killer da
stadio: la morte
di Antonio De
Falchi
Ultimo saluto al
tifoso romanista
Figlio mio,
t'hanno spezzato
il cuore
di Massimo Lugli
ROMA - Antonio,
figlio mio,
figlio mio
bello, cocco di
mamma tua ti
hanno spezzato
il cuore...
Antonio non ci
torni più a
casa. Antonio
bello, Antonio
dolce t' hanno
ammazzato, non
ti vedo più. Il
lamento di
Esperia De
Falchi continua
a lungo, come
una nenia di
dolore, sovrasta
il brusio di una
folla accalcata
fino
all’inverosimile,
il ronzare
ininterrotto
delle
telecamere, il
rumore secco
delle macchine
fotografiche,
perfino le prime
note
dell’organo.
Afflosciata su
una panca tra le
braccia del
presidente della
Roma, Dino
Viola, la donna
è pallidissima,
esausta. Il nero
degli abiti
mette in risalto
lo spaventoso
pallore del
viso, rigato di
sudore e di
lacrime. Almeno
diecimila
persone,
l’intera borgata
di Torre Maura,
sono venute a
dare l’addio al
giovane tifoso
romanista, morto
in un’imboscata
di ultras
milanisti
davanti ai
cancelli di San
Siro. Il
quartiere, uno
dei tanti scorci
di periferia
accoccolati
sulla Casilina,
si è tinto di
rosso e di
giallo:
striscioni,
bandiere, mazzi
di fiori,
gagliardetti
erano dovunque.
Sul piazzale
davanti alla
palazzina dove
abita la
famiglia del
ragazzo spiccava
un gigantesco
cuore dipinto
coi colori della
Roma. Intanto a
Milano, è stata
celebrata una
messa di
suffragio. Al
rito era
presente tutta
la squadra
rossonera. Solo
una piccola
parte della
folla ha trovato
posto nella
chiesa di San
Giovanni
Leonardi, un
edificio
modesto,
moderno, con
grandi vetrate
blu e poche
decorazioni.
Dentro e fuori,
una tensione
quasi isterica,
commozione,
lacrime,
singhiozzi,
applausi. Ma non
ad alta voce,
nessuno slogan
di vendetta, di
sangue. In
rappresentanza
della Roma (che
ha sostenuto
tutte le spese
delle esequie)
oltre al
presidente Viola
C’è l’intera
squadra dei
giovanissimi
regionali,
ragazzini sui
quindici anni un
po' impacciati
nella tuta
rossa. Poi, alla
spicciolata,
arrivano Angelo
Peruzzi, Sebino
Nela, Giuseppe
Giannini. A
stento sfuggono
all’abbraccio
dei tifosi e si
rifugiano di
lato all’altare,
in un angolo.
Nela, in giacca
scura, è
visibilmente
scosso, non
riesce a
trattenere le
lacrime. A un
tratto uno dei
sette fratelli
di Antonio, un
ragazzo alto,
tutto vestito di
jeans, dai
lineamenti
chiusi, serrati
dal dolore, gli
si avvicina. In
mano ha una
maglia
giallorossa: È
la tua.
Gliel’avevi
regalata tu, ti
ricordi ? Poi
l’emozione ha la
meglio e i due
uomini si
abbracciano e piangono
insieme. La
bara, davanti
all’altare è
avvolta in una
grande bandiera
giallorossa,
sepolta dai
fiori: gladioli,
garofani,
lilium,
crisantemi e
gerbere che
riprendono i
toni dominanti
del giallo e del
rosso. Ai lati,
spiccano le due
corone rossonere
(una del Milan,
l'altra di
Berlusconi) e
quella
biancoceleste
della Lazio.
Davanti al
feretro si
fermano per
qualche istante,
sconvolti, anche
due dei giovani
che erano a
Milano assieme a
Antonio De
Falchi e sono
sfuggiti
all’assalto
degli ultras.
"Stasera Antonio
ha acquistato
l’autorità che
gli dà il
diritto di
rivolgerci la
parola, come chi
ha raggiunto il
limite ultimo
dell’esperienza
umana, la
morte". Don
Giuseppe Mani,
vescovo della
zona est di Roma
è un bell’uomo,
dai capelli
bianchi e dalla
voce chiara,
leggermente
teatrale. "E la
parola che
Antonio vuol
dirci è questa:
la vita è il
valore più alto.
La vita non si
tocca, è un dono
di Dio. Antonio
ci dice di
guardare a tutti
coloro che
opprimono la
vita, sia nel
nascere che nel
finire. Sta a
noi raccogliere
questo messaggio
e l’impegno a
difendere sempre
la vita". Poi il
sacerdote
pronuncia parole
di fede
cristiana, di
speranza nella
resurrezione.
"Se lui se n' è
andato -
conclude - noi
restiamo a
giocare la
partita più
terribile e
impegnativa,
quella della
vita. Antonio
sarà sempre con
noi, a
sostenerci, ad
assisterci". Il
cappellano della
Roma, don
Fortunato
Frezza,
interviene per
lanciare un
messaggio di
fratellanza in
nome dello
sport: "Domenica
allo stadio
useremo la
tattica vincente
della gioia,
della festa e
sapremo
mostrarla a chi
predica l’odio.
Non opporremo
l’odio
all’odio". La
chiesa è avvolta
da una cappa di
calore. Tutti
sudano, qualcuno
inveisce a mezza
bocca contro i
fotografi e i
cineoperatori
che si
arrampicano
perfino sopra
l’altare. Un
interminabile
applauso saluta
la fine della
messa e il nome
di Antonio
mentre la folla
defluisce a
fatica. Dino
Viola e i
giocatori
infilano una
porta secondaria
e vanno via
senza una
parola. "Che
infamata che
cianno fatto, a
presidè" dice un
ragazzo col
giubbotto e
Viola annuisce.
"E' peggio di
Heysel, peggio
di Paparelli"
mormora. Fuori,
la gente
scandisce il
nome di
"Antonio,
Antonio", la
confusione
dilaga, una
fiumana di gente
tenta di
avvicinarsi al
furgone
mortuario,
volano insulti,
spintoni,
qualche
schiaffo. Poi il
corteo invade le
vie della
borgata. Su un
muro, una
scritta
minacciosa:
Antonio, ti
vendicheremo. E
ancora:
Vigliacchi
uscite adesso,
ve lo facciamo
noi un bel
processo.
8 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
La paura della
rappresaglia
ultras
ROMA - La paura
della vendetta è
nell’aria, gli
ultras, da una
parte e
dall’altra,
minacciano di
affilare le
armi. C’è il
rischio che
romanisti e
milanisti si
affrontino
almeno questa
sembra essere
l’intenzione di
alcuni gruppi in
un campo neutro,
a Pisa, dove la
squadra
rossonera dovrà
incontrare,
domenica, la
compagine locale
(scioperi dei
calciatori
permettendo...).
E gli hooligans
giallorossi
sembrano ormai
scesi sul
sentiero di
guerra, si
dichiarano
pronti a mettere
in pratica il
monito biblico
occhio per
occhio, dente
per dente. Quel
giovane tifoso
romano morto
domenica scorsa
vicino allo
stadio di San
Siro dopo una
feroce
aggressione da
parte di un
commando di
brasati, l’ala
più violenta e
oltranzista dei
supporters
milanisti, è
diventato il
tragico simbolo
di una guerra
senza quartiere,
combattuta fuori
e dentro le
Curve dei campi
di calcio. Le
truppe
potrebbero
muoversi
all’alba di
domenica, in
incognito, e
convergere verso
la cittadina
toscana che fino
a ieri era del
tutto ignara di
quanto rischia
di piombargli
addosso. Ma se
Pisa ancora non
dà segni di
reazione,
diverso è il
clima che si
vive negli
uffici di
polizia della
capitale e di
Milano. Questa
marcia degli
ultras non si
farà, spiega un
funzionario che,
per ovvi motivi
intende
mantenere
l’anonimato. Al
ministero
dell’Interno
hanno già
approntato un
piano operativo
per impedire che
la violenza
dell’estremismo
calcistico
esploda. I
gruppi
oltranzisti dei
tifosi romani e
milanesi sono
stati messi,
discretamente,
sotto controllo.
E ogni loro
spostamento sarà
minuziosamente
seguìto e
verificato.
Come, non è
possibile
sapere. Ma con
qualsiasi mezzo
cercheranno di
raggiungere la
città toscana
aggiunge il
funzionario
sapremo
fermarli. Li
controlleremo
minuto per
minuto Stazioni
e autostrade
presidiate,
quindi,
massiccio
spiegamento di
forze intorno
allo stadio di
Pisa e nelle
strade
cittadine,
massicci
controlli sulla
provenienza di
coloro i quali,
domenica,
andranno a
vedere la
partita. Già da
oggi nostri
agenti in
borghese avranno
il compito di
non perdere di
vista, neanche
un minuto, i
leader dei vari
club rivela il
funzionario e,
se necessario,
provvederanno a
informare la
procura della
Repubblica e la
prefettura di
iniziative che
possano far
presumere azioni
di rappresaglia
o esplosioni di
violenza.
Polizia e
carabinieri
presidieranno le
sedi delle
associazioni
delle tifoserie,
mentre le
volanti di
pattuglia hanno
già avuto
precise
disposizioni di
identificare e
fermare gli
ultras che
andranno in giro
a fare scritte
sui muri.
Intanto si
moltiplicano gli
appelli alla
ragione. La
violenza che si
esprime negli
stadi non ha una
sua radice nel
mondo dello
sport, se non in
quanto anch'esso
partecipe delle
ombre di questa
nostra società,
afferma il
cappellano del
Milan, don
Massimo
Camisasca. Fanno
amaramente
pensare le grida
di vendetta ha
detto don
Camisasca, che è
anche un
autorevole
esponente di
Comunione e
Liberazione.
Fanno pensare a
una rabbia che
non nasce dal
calcio, ma da
ragioni più
profonde. E gli
ultras ? Un
appello è
partito
dall’Associazione
Italiana Roma
Club, che conta
sessantamila
iscritti in
tutta Italia:
"Siate saggi,
dimostrate che
la migliore
vendetta è il
perdono" ha
dichiarato il
vice-presidente
Fausto Iosa,
rivolgendosi ai
tifosi. Iosa ha
aggiunto che la
notizia di una
vendetta dei
romanisti su
quelli del Milan
non è vera: "non
accadrà nulla:
certe
manifestazioni
d'odio al
funerale di De
Falchi sono
uscite in un
momento di
rabbia, ma non
avranno
conseguenze". Il
presidente della
Roma, Dino
Viola, ha invece
evitato
qualsiasi forma
d'appello: "Non
credo veramente
a una vendetta
dei tifosi ha
dichiarato, ma
non voglio fare
appelli perché
gli Italiani
sono abituati a
fare l’esatto
contrario di
quello che gli
viene chiesto".
Da Pisa, invece,
il presidente
della società
toscana, Romeo
Anconetani, ha
chiesto di non
dare importanza
a queste
notizie, perché
rischiano di
rovinare una
festa dello
sport. "La voce
degli estremisti
? La Lega ci ha
tranquillizzato:
forse le minacce
sono state fatte
a caldo, in un
momento di
rabbia. Spero
comunque che la
società Roma
dissuada i
tifosi - ha
continuato
Anconetani, se
qualcuno ha
veramente
intenzione di
venire a Pisa
per vendicare la
morte di quel
ragazzo". Ma c’è
anche la
testimonianza di
una ragazza
della frangia
estremista del
tifo
giallorosso.
"Milano sembra
avvelenata
contro Roma - ha
detto -
inevitabilmente
qualcosa
succederà. Noi
cercheremo di
restare calmi,
ma non si può
accettare che un
ragazzo di 19
anni, innocuo,
sia aggredito
selvaggiamente e
ucciso. Cosa
farebbe una
persona se gli
uccidessero un
amico ?
Reagirebbe: è un
istinto
animalesco.
Purtroppo - ha
dichiarato la
tifosa ultras -
a Milano fanno i
loro comodi. Se
decidiamo di
andare in
trasferta a
Milano, dobbiamo
esser pronti a
difenderci da
soli. Dopo gli
interrogatori in
questura, i
ragazzi che
erano con De
Falchi sono
tornati da soli
alla stazione,
senza scorta,
con l’angoscia
che qualcuno li
prendesse. Due
anni fa hanno
arrestato
sessanta tifosi
della Roma, che
sono rimasti in
prigione cinque
giorni ha
continuato la
giovane. I
giornali li
hanno subito
individuati come
delinquenti.
Quest'anno però
si è svolto il
processo per
quell’episodio,
e sono stati
tutti assolti
rapidamente con
formula piena.
Di Antonio De
Falchi, fra tre
settimane non ne
parlerà più
nessuno.
Domenica,
intanto, nella
Curva della Roma
sarà il lutto:
non tiferemo,
non esporremo
striscioni. Per
ricordare
Antonio
resteremo in
silenzio".
9 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
Martedì il
processo De
Falchi
ROMA - È
stata fissata a
martedì 20 la
data del
processo per
direttissima ai
tre giovani
incarcerati per
l’omicidio di
Antonio De
Falchi, il
diciannovenne
tifoso romanista
ucciso a S. Siro
prima di
Milan-Roma il 4
giugno scorso.
Il magistrato
istruttore ha
confermato
l’accusa di
omicidio
preterintenzionale
per (Omissis),
(Omissis) e
(Omissis)
arrestati subito
dopo il
drammatico
tafferuglio.
Tutti gli atti
relativi al
processo sono
stati inviati
alla corte di
Assise di
Milano.
Depositata anche
la perizia
medico legale
che ha stabilito
con certezza il
nesso di
causalità fra le
percosse subite
dalla vittima
Antonio e la sua
morte.
17 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
Milano, oggi
processo per De
Falchi
MILANO -
Il tribunale di
Milano inizierà
questa mattina a
giudicare un
altro episodio
di violenza fra
tifosi negli
stadi. Inizierà
infatti oggi,
con rito
direttissimo, il
processo ai tre
tifosi del Milan
accusati di
concorso in
omicidio
preterintenzionale
per la morte di
Antonio De
Falchi, il
tifoso della
Roma morto
davanti ai
cancelli dello
stadio di San
Siro domenica 4
giugno. I tre
imputati sono
(Omissis) di
18 anni,
(Omissis) di 21
e (Omissis) di 29.
Molto
probabilmente
però il processo
inizierà subito
con un rinvio:
gli avvocati dei
tre imputati
infatti
chiederanno i
termini a
difesa.
20 giugno 1989
Fonte: Stampa
Sera
Milano, al
processo De
Falchi la parata
degli ultrà
interisti
MILANO - È stato
rinviato a
lunedì 26 giugno
il processo a
carico dei tre
ultras del Milan
accusati di aver
ucciso domenica
5 giugno davanti
al cancello 16
dello stadio di
San Siro il
tifoso romanista
Antonio De
Falchi di 19
anni. (Omissis),
21 anni,
studente di
legge;
(Omissis), 29
anni, del
servizio
d'ordine del
Milan; (Omissis), 18
anni, di
mestiere
pony-express,
ieri mattina
sono stati
accompagnati dal
carcere all’aula
della quarta
Corte d'assise
dove è
cominciato il
processo. Ad
attenderli nello
spazio riservato
al pubblico
oltre cinquanta
persone divise
tra amici,
familiari,
compagni di
scuola e tifosi
dei gruppi
ultras sia del
Milan che
dell’Inter. Tra
il pubblico
c'era anche
(Omissis), uno
degli interisti
inquisiti in un
primo tempo e
poi prosciolti
per l’omicidio
di Nazareno
Filippini, il
tifoso ascolano
ucciso
nell’ottobre
scorso nei
pressi dello
stadio Del Duca.
C’è stato
qualche momento
di tensione
subito sedato
dai carabinieri,
ed è apparso
inconsueto e in
qualche modo
preoccupante
questo
appuntamento di
ultras del tifo
a sostegno e
solidarietà
degli accusati.
La sensazione è
che questo
processo, quando
sarà celebrato,
potrebbe
trasformarsi in
una platea per
le tesi
giustificazioniste
nei confronti
della violenza
che si registra
intorno al
calcio. La
famiglia di
Antonio De
Falchi ha deciso
di costituirsi
parte civile e
ieri l’ha fatto
tramite gli
avvocati
Marcello e
Giuseppe Madia.
Lunedì i
difensori dei
tre imputati
chiederanno alla
Corte di sentire
anche numerosi
testimoni
indicati dalla
difesa. L’AIAC
SULLA VIOLENZA.
Anche
l’associazione
italiana
allenatori di
calcio ha preso
posizione sul
drammatico
problema della
violenza. L’Aiac
- dice una nota
del consiglio
direttivo
riunitosi a
Coverciano -
condanna ancora
una volta questi
insensati
episodi e
ravvisa la
necessità che
tutte le
componenti del
mondo del calcio
si incontrino
per proporre
concreti
interventi per
le soluzioni di
tali complessi e
ormai radicati
problemi.
21 giugno 1989
Fonte: La
Repubblica
Tifo da stadio
per gli ultrà
sotto processo
Prima udienza
per la morte del
tifoso romano a
San Siro - Tre
milanisti
accusati di
omicidio - Tra
la folla che
"tifava" per
loro anche
l'interista
coinvolto nella
morte di un
ragazzo ad
Ascoli.
MILANO
- Avvio
movimentato, con
in aula tifo per
gli imputati
come allo
stadio, del
processo contro
i tre
sostenitori del
Milan, accusati
di aver
provocato la
morte di un
tifoso romanista
due domeniche
fa. Il
procedimento,
però, entrerà
nel vivo lunedì
prossimo, con
l'interrogatorio
degli imputati.
L'udienza di
ieri infatti è
servita solo per
concedere agli
avvocati
difensori i
termini a
difesa. I
sostenitori
della squadra
rossonera,
Antonio La
Miranda, 21
anni, (Omissis), 29
anni, del
servizio
d'ordine del
Milan, e
(Omissis), 18
anni, devono
rispondere di
concorso
nell'omicidio
preterintenzionale
di Antonio De
Falchi, il
giovane tifoso
romanista morto
subito dopo
essere stato
aggredito la
mattina del 4
giugno, mentre
si accingeva a
raggiungere lo
stadio di San
Siro per
assistere alla
partita
Milan-Roma. I
tre imputati
erano in aula e
hanno ottenuto
dal presidente
della quarta
corte d'assise,
Renato Sameck
Ludovici, di non
essere ripresi
dalle telecamere
e dai fotografi.
La breve udienza
ha avuto un
seguito
movimentato
quando un
cronista si è
avvicinato alla
gabbia degli
imputati per
chiedere una
dichiarazione ai
tre presunti
teppisti, il più
giovane di loro,
(Omissis), prima
di scoppiare in
un lungo pianto
ha reagito con
violenza verbale
("vai via,
vattene che ti
sputo"), facendo
anche scatenare
analoghe
intemperanze
oltre le
transenne, dove
avevano preso
posto decine di
giovanissimi
tifosi ed amici.
Ad un certo
punto si è
addirittura
levato un coro
da stadio: "Dai
Luca, forza
Luca". Per
impedire che
dalle parole i
tifosi
passassero a vie
di fatto, sono
intervenuti i
carabinieri, che
hanno isolato il
gruppetto di
scalmanati. Tra
i presenti è
stato notato
anche Nino
Ceccarelli, un
tifoso
dell'Inter
incriminato ad
Ascoli per la
morte del tifoso
ascolano
Nazareno
Filippini e poi
scagionato
dall’accusa
principale di
concorso in
omicidio. Per il
resto le
formalità hanno
richiesto pochi
minuti, essendo
stata accolta la
prima istanza
del collegio
difensivo,
quella di avere
qualche giorno a
disposizione per
esaminare le
carte
processuali
raccolte. Poi i
tre sono stati
riaccompagnati a
San Vittore, da
dove torneranno
in aula lunedì.
La pubblica
accusa,
rappresentata da
Pietro Forno, ha
già convocato
otto testimoni
che dovrebbero
confermare i
particolari
sull'aggressione
dei tifosi
milanisti contro
gli avversari di
fede calcistica.
Il pubblico
ministero, nel
richiedere il
rito
direttissimo,
aveva sostenuto
che De Falchi
era morto per
arresto
cardiocircolatorio
favorito da un
difetto
congenito, ma
che questo era
da mettere in
connessione con
"lo shock
psicofisico
determinato
dall'aggressione
e dalle
percosse". Forno
aveva anche
evidenziato,
insieme al
giudice
istruttore
Gustavo Cioppa,
una "Contiguità
cronologica tra
l'azione degli
omicidi e una
fulminea
patologia che
non si era
minimamente
manifestata fino
all'inizio di
detta azione".
L'avvocato di
parte civile
invece ha
annunciato
l'intenzione di
presentare un
certificato
medico, stilato
pochi giorni
prima del 4
giugno, che
testimonierebbe
sulle buone
condizioni di
salute del
giovane. Per
l'accusa,
comunque, si
tratta di
omicidio
preterintenzionale,
aggravato dalle
circostanze che
i quattro
romanisti, tra i
quali De Falchi,
erano stati
aggrediti da un
numero rilevante
di avversari e
che la morte è
stata provocata
per futili
motivi. In aula,
nel ricostruire
l'episodio, si
parlerà del
ruolo e della
strategia di
certe squadre,
della tifoseria
organizzata e
utilizzata o
scaricata dai
club secondo
circostanze.
Secondo
l'istruttoria,
il gruppo dei
milanisti si
sarebbe trovato
sul posto con
funzioni
tattiche, cioè
col fine di
aggredire gli
eventuali
avversari dopo
l’averli
individuati
dall'accento.
(Ansa-Agi)
21 giugno 1989
Fonte: La Stampa
Per i tre
milanisti il
pubblico
ministero chiede
otto anni
MILANO -
Sono tutti e tre
responsabili. Il
povero Antonio
De Falchi è
morto per
infarto, dovuto
allo stress
psicologico e
fisico del lungo
inseguimento.
Chi poi l’ha
effettivamente
colpito ha solo
aggiunto un
ulteriore
elemento
negativo. Per
questo chiedo
che gli imputati
siano condannati
a otto anni di
reclusione.
Pietro Forno,
pubblico
ministero al
processo ai tre
milanisti
accusati di aver
aggredito il
tifoso romanista
morto a San Siro
il 4 giugno, ha
parlato per
oltre due ore.
Una requisitoria
che, basandosi
in parte sulla
ricostruzione
dei movimenti
degli ultras in
quella domenica
pomeriggio, in
parte
sull’omertà
dimostrata dai
milanisti al
processo, ha
messo sotto
accusa anche il
clima dello
stadio. Il
contesto
ambientale è
l’odio di chi
gioca alla
guerra non
avendo altre
intenzioni e
altre
possibilità, ha
detto Forno. Gli
imputati
(Omissis),
(Omissis) e
(Omissis) hanno
più subito che
determinato
quest'odio.
Vivono il calcio
in termini di
droga e come
drogati vanno
alla partita.
Gli imputati
sono vittime di
cattivi maestri,
e i generali
sono rimasti
dietro le
quinte.
L’istruttoria in
aula ha dato la
misura di quanto
possa fare
l’odio. Il
pubblico
ministero ha
fatto notare
anche come
nessuno tra i
vari testimoni
che avevano la
possibilità di
vedere in faccia
qualcuno del
gruppo degli
aggressori ha
collaborato
seriamente
all’inchiesta,
ha fornito prove
e testimonianze.
E Forno ha
chiesto anche la
trasmissione
degli atti alla
Procura della
testimonianza di
un tifoso
milanista, Nils Bredik, che si
era presentato
spontaneamente:
secondo il Pm ha
mentito.
8 luglio 1989
Fonte: La
Repubblica
Milano, gli
ultras evitano
il carcere
di Piero
Colaprico
MILANO
- Per
trasformare
l’aula della
quarta sezione
della Corte
d’assise e il
corridoio del
primo piano del
palazzo di
giustizia in un
angolo da stadio
violento ieri
sono stati
sufficienti
duecento tifosi.
Sono bastati i
loro insulti, le
minacce, i
gestacci contro
i giornalisti,
il tentativo di
assalto ai
fotografi. Ed
ecco, proprio
come allo
stadio, la
reazione dei
carabinieri, una
trentina, che
devono correre,
tenere a
distanza di
sicurezza quei
milanisti sudati
e quasi
impazziti,
alcuni in
lacrime, altri
con la mandibola
stretta e lo
sguardo cattivo.
Ecco ancora i
carabinieri
spingerli tutti
fuori dall’aula,
scortarli giù,
lungo le scale,
sino ai gradini
dell’uscita in
strada, mentre
altri militari
costringono i
giornalisti a
infilarsi nel
corridoietto
riservato ai
giudici,
consigliando di
non muoversi per
dieci minuti. Un
pomeriggio a
rischio. Una
sceneggiata
assurda, al
termine della
lettura di una
sentenza tutto
sommato
favorevole ai
tre imputati:
due assolti per
insufficienza di
prove e uno
condannato ma
rimesso subito
in libertà. Una
sentenza così
favorevole da
far impallidire
la madre di
Antonio De
Falchi. Suo
figlio,
vent'anni, era
morto domenica 4
giugno dopo
l’agguato degli
ultras
milanisti, ben
quattro ore
prima di
Milan-Roma. "E’
questa è la
giustizia ? È
uno schifo", ha
detto la signora
Esperia, vestita
di nero. "A me
questa sentenza
non sta bene.
Loro dovevano
pagare, anche se
nessuno mi può
riportare il
povero Antonio".
La quarta
sezione della
Corte d'assise
ha condannato
solo (Omissis), 20
anni, magro,
bassino,
pantaloni
stretti e una
camicia chiara:
neanche i
capelli rasati
riescono a
dargli l’aria
del duro. Era
stato
riconosciuto
dagli amici di
De Falchi e dai
poliziotti. Il
pubblico
ministero Pietro
Forno aveva
chiesto la
condanna a otto
anni di
reclusione. Ne
ha avuti sette,
dovrà pagare un
anticipo sui
danni di 50
milioni, ma la
Corte, come
aveva chiesto il
Pm, gli ha
concesso il
beneficio della
remissione in
libertà. A
(Omissis),
insomma, restano
adesso da
scontare poche
ore di carcere,
poi potrà
tornare a casa,
riabbracciare il
padre che non ha
perso neanche
un'udienza, e
riprendere il
suo lavoro di
fattorino.
Assolti per
insufficienza di
prove gli altri
due imputati.
Anche per loro
l’accusa aveva
chiesto otto
anni. Ma nessun
testimone li
aveva notati nel
gruppo dei
responsabili
dell’agguato.
Stavano
solamente
insieme al bar,
e sono stati
arrestati con un
procedimento che
l’avvocato
Raffaele Della
Valle, con una
metafora da
fumetto, aveva
definito alla
Tom Mix del Far
West: i
poliziotti hanno
tirato il laccio
e hanno preso
chi c'era. Il
più anziano,
(Omissis), ha 29
anni, lavora
come postino, ed
è il leader del
Gruppo Brasato,
una formazione
che tifa nella
curva Sud, tra
le Brigate
rossonere e la
Fossa dei leoni.
Quando ha
sentito la
parola assolto è
rimasto
impassibile,
alzando solo
l’avambraccio
sinistro, il
pugno stretto,
come spesso
fanno i
calciatori dopo
il gol. L’altro,
(Omissis), 21
anni, giacca a
quadri, camicia
aperta,
pantaloni scuri,
invece s'è
accasciato sulla
panca, la mano
sinistra sugli
occhi, e ha
pianto a lungo.
Per lui,
studente di
giurisprudenza,
figlio di un
farmacista che,
come ha detto,
l’ha educato nei
principi del
rispetto delle
istituzioni, è
davvero una
rinascita. Anche
suo padre,
appoggiato al
divisorio di
legno dell’aula,
piange tra il
pubblico. Poco
più in là
piangono di
gioia anche i
parenti di
(Omissis). E
altri
singhiozzi, però
disperati,
nervosi,
angosciati, sono
quelli che
scuotono le
spalle delle
sorelle di
(Omissis). Sono le
15 e lui,
l’unico
riconosciuto
colpevole,
stralunato, i
pugni stretti
alle sbarre,
osserva il
pubblico, vede i
suoi in lacrime,
sente partire un
applauso dagli
amici degli
altri due
assolti. È quasi
assente. Solo
quando un
cameramen si
avvicina per
riprenderlo in
primo piano, si
scuote, scatta:
"Vai via", urla,
poi si siede e
scoppia anche
lui a piangere.
E allora la
platea si
ribella. Lo fa
nel solo modo
che conosce.
"Bastardi,
giornalisti
bastardi",
urlano in dieci.
Un paio
d'avvocati
alzano le mani,
come per dire ai
rossoneri di far
silenzio. Ma
ormai è tardi.
Qualcuno tenta
di scavalcare,
altri spingono,
un robusto,
paonazzo,
esagitato
quarantenne
scandisce le
urla con quel
gesto tipico
delle curve, le
due dita unite e
il braccio prima
piegato sulla
testa, e poi
disteso in
avanti. Il
divisorio
traballa, si
muove. I
fotografi
scappano. E
quasi nessuno di
loro riesce a
riprendere gli
ultras che
ondeggiano nello
stretto spazio
tra le due porte
d' ingresso
dell’aula e il
paravento di
legno. Sono due
giovanissimi
carabinieri a
lanciarsi contro
i tifosi. Altri
militari,
allargando le
braccia, fanno
rapidamente un
cordone di
difesa
dell’aula. Un
poliziotto in
borghese, che
stava tra il
pubblico, spinge
i più nervosi.
Chi può, tra il
pubblico, se la
fila in
corridoio. Ma in
aula gli altri
continuano il
coro:
"Vigliacchi,
bastardi, vi
romperemo il
cranio". In fin
dei conti si
sono sfogati
scegliendo il
bersaglio meno
rischioso. È
così comodo
minacciare e
sbeffeggiare in
duecento i
cronisti,
piuttosto che
rischiare il
vilipendio alla
Corte, oppure
l’oltraggio a
pubblico
ufficiale. È
dall’inizio del
processo che gli
ultras rossoneri
se la prendono
con la stampa.
Le scaramucce
erano cominciate
durante la prima
udienza, il 20
giugno scorso:
un cronista che
si era
avvicinato alla
gabbia per
parlare con i
tre imputati,
era stato
invitato ad
andarsene con
uno "Sparisci,
sennò ti sputo
in faccia". Nei
giorni
successivi, i
rappresentanti
delle varie
testate sono
stati criticati
a turno per gli
articoli, i
titoli, le
fotografie. E
ieri, infine,
quest'ultimo
esempio dello
stile di vita
ultra. Il
processo per
direttissima,
insomma, ha
finito per
mostrare la
violenza e il
cinismo di chi
va allo stadio
pensando di
andare in
guerra. Anche
(Omissis), il
ragazzo più
inguaiato dai
testimoni, è,
come ha
riconosciuto il
Pm, una vittima
di questo clima.
Ma di questo
processo resta
soprattutto il
ricordo della
faccia pallida e
addolorata di
Esperia De
Falchi. Ha perso
il suo figlio
più piccolo,
morto d'infarto
davanti al
cancello numero
16 di San Siro,
inseguito e
picchiato da
trenta nemici
solo perché
portava una
sciarpa
giallorossa
nascosta sotto
il giubbotto di
jeans.
14 luglio 1989
Fonte: La
Repubblica
Dopo le due
assoluzioni per
la morte del
tifoso romano e
la scarcerazione
dell'unico
condannato.
"Così si uccide
il calcio"
I club contro la
sentenza di
Milano
di Giovanni
Bianconi
ROMA - È un
verdetto che
provoca
preoccupazione e
sconcerto fra
gli stessi
tifosi del
Milan. La
sentenza che ha
mandato assolti
due dei tre
imputati per la
morte del
giovane
romanista
Antonio De
Falchi e ha
subito
scarcerato
l'unico
condannato può
essere un passo
indietro nella
lotta contro la
violenza negli
stadi. "Questa
sentenza è
debole - dice
Alessandro
Capitanio,
presidente
dell'Associazione,
italiana Milan
clubs - Che
senso ha
condannare uno a
sette anni e
farlo uscire
subito di galera
? Era
un'occasione per
dare l'esempio,
l'abbiamo
persa". Sotto
accusa sono pure
gli amici degli
ultras, quelli
andati ad
offrire
solidarietà agli
imputati, che
dopo la sentenza
si sono
scatenati contro
i giornalisti
"colpevoli" di
aver fatto
condannare il
diciottenne
(Omissis).
Aggiunge
Capitanio: "Non
capisco nemmeno
perché li
abbiano fatti
entrare in
un'aula di
giustizia.
Adesso speriamo
solo che il
processo che si
deve celebrare a
Firenze contro i
tifosi che hanno
gettato le bombe
molotov non si
concluda alla
stessa maniera".
Quasi scontata
l'amarezza fra i
rappresentanti
del tifo
romanista. Dopo
poco più di un
mese, per la
morte di Antonio
De Falchi,
ucciso
all'ingresso
dello stadio di
San Siro, non
c'è più nessuno
in carcere, "Mi
ha colpito
l'arroganza di
quei ragazzi
alla lettura del
verdetto - dice
Fausto Iosa,
rappresentate
dei Roma clubs -
quella è gente
che dovrebbe
portarsi dentro
il rimorso per
tutta la vita, e
invece...".
Anche Iosa pensa
a quello che
accadrà a
Firenze: "Se
pure lì
prevarranno le
attenuanti,
vorrà dire che
dovremo
rinunciare ad
andare allo
stadio. Io non
me la sento di
entrare nel
merito della
decisione dei
giudici, ma dico
che con sentenze
come questa non
si combatte la
violenza. È
inutile che poi
ci vengono a
chiedere gli
elenchi dei
tifosi al
seguito delle
squadre". Quelli
che sembrano
meno
preoccupati,
paradossalmente,
sono i
responsabili
della sicurezza
negli stadi. Il
questore Gustavo
Cappuccio,
direttore del
servizio ordine
pubblico del
ministro
dell'Interno,
non fa una
piega. "Bisogna
aspettare la
motivazione -
dice - può darsi
che la polizia
non sia riuscita
a raccogliere
prove
sufficienti
contro gli imputati".
Cappuccio ha
davanti a sé il
"bollettino di
guerra" del
campionato
appena concluso:
2 morti, 513
feriti, 123
arrestati, 407
denunciati a
piede libero.
"Rispetto allo
scorso anno -
commenta il
questore - gli
arresti si sono
più che
dimezzati.
Siccome la
presenza di
polizia e
carabinieri
negli stadi è
aumentata, e
così pure la
sorveglianza,
ciò vuol dire a
mio avviso che
gli episodi di
violenza sono
diminuiti, anche
se ci sono quei
due morti che
pesano
moltissimo". E i
rappresentanti
delle altre
tifoserie, che
cosa pensano
della sentenza
di Milano ?
Distaccato il
presidente degli
Juventus clubs,
Dante Grassi:
"Da noi, per
fortuna, non
abbiamo mai
raggiunto certi
livelli. A
Milano quel
giorno io non
c'ero, non so
come si sono
svolti i fatti".
Con gli ultras,
gli esponenti
del tifo
organizzato
dicono di non
aver nulla a che
fare. "So che il
Milan ha
rapporti con
alcuni di loro -
dice Capitanio -
ma noi non
vogliamo
saperlo, né
vogliamo essere
presenti a
quegli
incontri". Da
una delle piazze
più turbolente
d'Italia,
Bergamo, il
coordinatore
degli Atalanta
clubs, Arturo
Zambaldo dice:
"Quella gente, a
noi dei clubs,
ci considera dei
nemici perché
non siamo
abbastanza
cattivi". Per
combattere la
violenza negli
stadi, una
ricetta Zambaldo
ce l'avrebbe:
"Io credo che,
facendo le
debite
proporzioni,
siamo di fronte
alla stessa
situazione che
si creò con il
terrorismo.
All'inizio
nessuno ci fece
caso, e fu
lasciato
crescere. Poi,
quando si decise
di estirparlo
con misure
concrete, anche
molto radicali,
ci si riuscì. La
stessa cosa
dovrebbe
accadere con i
tifosi violenti:
occorrono rimedi
drastici, anche
se possono
risultare
sgradevoli per
chi va allo
stadio".
15 luglio 1989
Fonte: La Stampa
Ultras milanisti
contro tutti "ci
volete
criminalizzare"
di Piero
Colaprico
MILANO -
Sempre più soli
contro tutti.
Sempre meno
disposti a
discutere. Ormai
decisi perfino
ad una sorta di
rottura
diplomatica. Con
i giornalisti
noi della curva
sud abbiamo
chiuso. Siete i
responsabili
della
distruzione di
tre ragazzi che
non c’entrano
nulla e che
avete messo in
vetrina come
mostri. I nostri
amici si sono
fatti 40 giorni
a San Vittore.
Due nello stesso
raggio, ma in
celle lontane.
L’altro, il più
giovane, in un
altro braccio
del carcere. E
si sa cosa può
capitare in
galera ai più
giovani. Per
questo ci siamo
arrabbiati. Lui,
quando è stato
condannato, e ha
pensato di dover
tornare dentro,
era distrutto. E
voi, come
sciacalli, vi
siete
avvicinati.
L’abbiamo solo
difeso. Abbiamo
urlato,
minacciato. E
allora ? Se
davvero avessimo
voluto scatenare
la rissa, tanti
com’eravamo, non
ci saremmo
riusciti ?
Singolare
autodifesa,
figlia di
un’idea del
diritto e delle
leggi
evidentemente
elaborata in
proprio. Il
giorno dopo la
sentenza che ha
assolto per
insufficienza di
prove (Omissis) e
(Omissis), e
condannato
(Omissis) a sette
anni,
rimettendolo
subito in
libertà, per gli
ultras milanisti
non è cambiato
nulla. È
cresciuta anzi
la sfiducia:
giornalisti,
giudici,
poliziotti sono
nello stesso
calderone. Hanno
condannato un
innocente,
rovinato per
sempre la vita
di tre giovani,
distrutto le
famiglie. Anzi i
giornalisti sono
i peggiori,
perché con la
loro sete di
disgrazie, hanno
convinto le
altre due
categorie a
essere sempre
più spietate.
Questa è la
diagnosi che i
tifosi si
ripetono nei
bar, spiegano al
telefono,
discutono alle
riunioni. E
così, l’aver
trasformato il
tribunale in una
curva è stato
per loro un atto
legittimo Anzi,
l’unico modo per
difendersi
dall’ingiustizia,
di far sentire
la loro condanna
al resto del
mondo. Infatti,
dalla loro parte
ci sono,
soprattutto in
questo caso, i
buoni, le
vittime, gli
innocenti. Gli
altri, quelli
che non fanno
parte del clan
rossonero, sono
quanto meno in
malafede. E una
brutta figura,
secondo gli
ultras, ha fatto
anche il Milan.
La società che
ha cercato di
rilanciare il
calcio spettacolo, di
sdrammatizzare
le partite, e
che attraverso
Canale 5 ha
mandato in onda
gli spot contro
la violenza
negli stadi,
questa volta è
rimasta dietro
le quinte. C’era
stata, nelle ore
successive alla
morte di Antonio
De Falchi, una
dichiarazione di
Paolo Taveggia,
che aveva detto
ai capi degli
ultras: "Da
domani avrete la
patente di
assassini.
Tutti, dalle
vostre madri ai
vostri datori di
lavoro,
potrebbero
disprezzarvi. Se
vogliamo che
questo non
accada, bisogna
eliminare i
deficienti. Deve
scattare lo
stesso
meccanismo che
ci aveva
permesso di
individuare
Luigi Sacchi,
quello che
lanciò il
petardo contro
il portiere
della Roma
Tancredi". Poi,
c’è stato un
black-out. Da
parte della
società
rossonera non
c’erano state
più né critiche
né aiuti. E agli
ultras questo
disinteresse non
è andato giù. Si
sono sentiti
ancora di più un
gruppo esposto a
qualsiasi
tempesta. E
criminalizzati.
Lo stadio è solo
lo specchio
della società:
"Trent’anni fa,
dicono, nessuno
sparava nelle
rapine. Ora, se
qualcosa va
storto, i
rapinatori
ammazzano. È
peggiorata la
qualità degli
episodi
criminali, forse
ovunque tranne
che allo stadio,
dove ancora non
ci sono state
sparatorie…".
Un’equazione che
fa paura. Questo
clima, questa
voglia di
autoisolamento è
peggiorato
durante i
quaranta giorni
di carcere dei
tre tifosi. Per
i rossoneri i
responsabili
della morte di
Antonio De
Falchi, della
tragedia di
un’altra
famiglia, non
sono mai stati
presi. Ne erano
convinti dal
primo giorno.
Forse avevano
qualche elemento
in più rispetto
agli
investigatori,
forse si
trattava di una
semplice
impressione. Di
certo,
considerano
l’arresto come
la classica
sporca storia.
Sono convinti,
insomma, che i
poliziotti hanno
arrestato i
primi rossoneri
che si sono
trovati davanti.
Avrebbero scelto
a caso tre
tifosi da
buttare in pasto
alla pubblica
opinione. E così
ecco pronti i
loro amici.
Diventano i
killer, gli
assassini, i
vigliacchi
teppisti.
(Omissis), che ha
il cranio
rasato,
(Omissis), che
aveva la cintura
dei pantaloni
arrotolata al
pugno,
(Omissis),
tesserato dal
Milan con il
pass del
servizio
d’ordine,
diventati i
burattini nelle
mani della
polizia. La
Digos continua
nell’indagine,
chiede l’aiuto
dei capi della
curva. Ma agli
ultras bastano
poche
discussioni per
decidere,
nonostante la
preghiera di
Taveggia, di non
collaborare.
Abbiamo capito,
fanno sapere,
che loro non
volevano i veri
colpevoli,
volevano solo
aggiungere nomi
nuovi a quelli
che già avevano
arrestato. Ci
volevano
fregare, e noi
non ci siamo
stati. La stessa
mancanza di
fiducia c’è da
parte dei tifosi
nei confronti
del giudice
istruttore, che
ha rinviato a
giudizio i tre,
senza
scarcerarli. E,
infine, ecco per
gli ultras lo
scandalo,
l’imbroglio
evidente, la
scorrettezza di
quel processo in
Corte d’assise.
Due tifosi non
sono stati visti
da nessuno. E
l’altro,
(Omissis), stava
seduto sul
cemento, con
quelli che sono
poi partiti
verso i
romanisti, ma
chi l’ha visto
inseguire e
picchiare ?
Quanto contano
le parole dei
romanisti ?
Giovedì,
considerato che
non potevano
condannarli
tutti, se la
sono presa
almeno con uno,
è il giudizio di
uno dei tifosi
che non ha perso
neanche
un’udienza. La
bagarre però non
scoppia contro
la Corte, ma gli
ultras si
accaniscono, a
parole, contro i
giornalisti,
considerati
faziosi
avvoltoi. Ma
noi, continua il
rossonero, siamo
stati persino
troppo poco
violenti
rispetto alle
vostre
descrizioni, sin
troppo civili.
La nostra unica
gioia è stata
quella di poter
riabbracciare i
nostri amici
ieri, quando
sono usciti dal
carcere. Tutto
il resto non
c’interessa.
Tutto il resto
per loro non
c’è, non vale.
15 luglio 1989
Fonte: La
Repubblica
Processo ultra
Impugnata la
sentenza
MILANO - La
procura della
Repubblica ha
deciso di
impugnare la
sentenza emessa
nei giorni
scorsi dalla
quarta corte
d'assise al
termine del
processo ai tre
tifosi milanisti
accusati di
omicidio
preterintenzionale
per la morte di
Antonio De
Falchi, il
ragazzo di 19
anni morto il 4
giugno scorso
davanti allo
stadio di San
Siro, poche ore
prima della
partita
Milan-Roma.
Sulla vicenda il
procuratore
della Repubblica
Francesco
Saverio Borelli
ha espresso
amarezza per
certi
atteggiamenti
critici nei
confronti della
sentenza e in
particolare per
la frase
pronunciata,
subito dopo la
lettura del
dispositivo,
dalla madre del
De Falchi. In
quella occasione
la donna disse
"questa
giustizia fa
schifo". "Su
questa vicenda -
ha precisato il
dottor Borrelli
- la procura ha
fatto tutto
quanto era nelle
sue possibilità,
al di là
dell'inadeguatezza
dei risultati
ottenuti a causa
soprattutto
della mancata
collaborazione
da parte dei
cittadini".
(Ansa)
16 Luglio 1989
Fonte: La Stampa
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