Le finali bianconere
raccontate dai "gregari": Massimo Briaschi e il dramma
dell’Heysel 1985
"Se non avessimo
giocato sarebbero morti in mille"
di Maurizio Crosetti
"Se
non l'avessimo giocata ne sarebbero morti mille, non
trentanove".
Il tempo fa un
mestiere strano, più che altro cancella ma a volte
precisa, definisce. Massimo Briaschi dice che dalla
notte dell'Heysel, 29 maggio 1985, è come se certi
contorni fossero più netti.
"Sono le fotografie che porto
dentro. La mattina andammo alla Grand Place per fare due
passi, ma non scendemmo neppure dell'autobus. C'erano
già centinaia di inglesi ubriachi, casse di birra sui
tavoli, vetri a terra. Bruxelles ci fece paura e
tornammo in albergo".
Fu presto sera, un
tramonto stupendo, di fuoco.
"I vari settori dello stadio
erano separati da reti da pollaio e c'erano file di
gendarmi in verticale, uno ogni due o tre gradini. Mai
vista una cosa simile, una specie di cordoncino umano.
Però, lì per lì lo noti e non lo consideri, non ci
pensi. Io poi avevo la grana del ginocchio".
Serve onestà, dentro
lo spessore degli anni trascorsi, per non concedersi
ricordi ipocriti.
"Il mio legamento crociato era
rotto ma non avrei mai rinunciato alla finale. Feci una
prima infiltrazione, poi la seconda. Mi rivedo
nell'angolo dello spogliatoio e intanto arrivano le
prime notizie confuse, c'è un morto, forse due, si sono
menati, hanno attaccato con i cavalli. E io penso che se
la partita non comincia, cesserà l'effetto delle
iniezioni".
Nessuno, tra coloro
che c’erano, ha mai smesso di vivere l'Heysel. Se lo
dice è un ipocrita.
"Si cominciò lentamente a
intuire la portata del dramma, dico intuire perché il
numero dei morti ci venne comunicato in pullman, dopo la
finale, neanche allo stadio. Andammo sul campo in cinque
o sei giocatori per parlare sotto la curva dei nostri
tifosi, che era dall'altra parte rispetto al muretto
crollato. Dicevamo state calmi, giocheremo per voi, lo
stesso messaggio letto dal povero Scirea e da Neal prima
del fischio d'inizio. E vi assicuro che se non ci
fossimo mossi noi, quella gente non l'avrebbe tenuta
nessuno".
I morti adagiati sulle
transenne come barelle, le tracheotomie fatte al volo da
medici accorsi quasi per caso, le facce viola e gonfie
dei cadaveri. Le bandiere a tema, le scarpe spaiate.
Brandelli di vestiti di bambini. La partita, dopo, è un
sogno senza parole, una nebbia, un mancamento. La più
assurda, la più crudele ma anche la più necessaria
dell'intera storia del calcio.
"Restai in campo per 84
minuti, poi mi sostituì Prandelli. Avevamo aspettato
quella notte come la più importante della nostra vita,
ci sentivamo al sicuro, volevamo vincere finalmente la
prima Coppa dei Campioni della Juventus. Ma niente era
normale, intatto. Chi se ne frega se il rigore non
c'era. Vincemmo, ma solo perché l‘avevamo dovuta
giocare. Il Presidente federale Sordillo ci chiese di
fare il giro del campo col trofeo, e di farlo durare il
più a lungo possibile perché i nostri tifosi restassero
sulle gradinate mentre gli hooligans stavano uscendo.
Quanto si è speculato su quel giro di campo, e su troppe
altre cose. Io dico solo che quella notte ci toccò
viverla. E chi non c‘era porti rispetto".
Fonte: La
Repubblica
© 28 maggio 2017
Fotografie:
Panini ©
GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
Icone: Shutterstock.com
©
Pngegg.com
© Gianni Valle
©
|