La verità cercata da
Grobbelaar
"Quell'assalto fu
scatenato dall'estrema destra di Londra"
di Angelo Carotenuto
Era il 29 maggio 1985, la
partita Juventus-Liverpool doveva essere la sfida più
bella, invece finì con 39 vittime. Il calciatore, una
vita in porta con i Reds, rievoca quel terribile giorno:
"Ho indagato da solo, sono stato nei locali del National
Front, ma non ho prove". Era il clown. Così chiamavano
Bruce Grobbelaar. Perché in campo rideva e perché una
sera, l'anno prima, s'era messo a danzare sulla linea di
porta per parare i rigori alla Roma, in finale di Coppa
dei Campioni. "Joe Fagan, l'allenatore, mi mise un
braccio sulla spalla e fece: tranquillo, nessuno
s'aspetta niente da te, se ti fanno gol non te ne faremo
una colpa. Mi tolse un peso. Allora inventai quel
balletto con le gambe, gli "Spaghetti Legs", e Bruno
Conti sbagliò. Funziona, mi dissi, lo rifaccio. E
sbagliò pure Graziani. Gli italiani mi diedero del
pagliaccio. Ma vincemmo la Coppa. Pagliaccio a chi ?".
Dodici mesi dopo, Grobbelaar era all'Heysel. Un'altra
squadra italiana. "Prima di ogni partita facevo un
giochino. Calciavo il pallone contro l'interruttore, per
colpirlo e spegnere la luce. Pensavo che riuscendoci,
avremmo vinto noi".
Il vostro spogliatoio
era il più vicino al settore Z. Sentiste un tonfo. E poi
?
"Mancavano cinque minuti al
riscaldamento, capimmo che era successo qualcosa:
arrivava gente nella nostra zona. Quattro o cinque di
noi s'affannarono a dare una mano. Passammo dall'interno
dei secchi d'acqua, prendemmo degli asciugamani dalle
docce e li lanciammo fuori. Riuscimmo a fare solo
questo, ma ormai sapevamo abbastanza per non voler
giocare".
L'Uefa lo impose.
Com'era il clima in campo ?
"Uscimmo, e nella mia area di
rigore c'erano tre coltelli a terra. Li avevano lanciati
dal settore alle spalle. Questo era il clima. Eravamo là
ma con la testa altrove. Sia noi sia loro. Dall'inizio
alla fine per me è stato un istante. Un flash. Fino al
silenzio totale in hotel, dopo la partita".
Si è chiesto cosa
sarebbe accaduto se avesse vinto il Liverpool ?
"Eravamo andati in Belgio per
alzare il trofeo, credo che lo avremmo fatto. Alla Juve
è stato rimproverato di non aver restituito la Coppa.
Perché avrebbe dovuto ? L'errore quella sera fu giocare,
la Juve fece un gol, la Coppa è sua".
Cosa è stato dopo l'Heysel per lei ?
"Ho cercato la verità. Non furono autentici tifosi del
Liverpool a causare la tragedia. Molti avevano trascorso
la mattina con quelli della Juve, giocando a calcio per
le strade, andando a bere una birra insieme. Non posso
credere che l'atmosfera sia cambiata allo stadio. Io
credo a un'altra cosa".
A cosa ?
"C'era gente di Londra
all'Heysel. Venuta apposta per fare quel che fece.
Scatenarono l'assalto e andarono subito via. Perciò non
li hanno mai trovati".
È la tesi dei suoi
dirigenti dell'epoca. Il motivo ?
"Liverpool era odiata, c'era
invidia per i suoi successi nel calcio. Mia suocera era
venuta alla partita, si era imbarcata con un traghetto.
Anche mia madre era lì, per la prima volta si muoveva
dal Sudafrica per la finale: la chiami, confermerà
tutto. Mia suocera mi raccontò che all'imbarco c'erano
dei tipi che distribuivano volantini su cui era scritto
che sarebbe stata l'ultima partita in Europa del
Liverpool. Avevano le braccia tatuate con gli stemmi di
alcune squadre di Londra. Erano del National Front,
l'estrema destra. Ho provato a indagare".
In che modo ?
"Sono stato diverse volte a
Londra, nei locali del National Front, cercando di
agganciare qualcuno che sapesse qualcosa. Ho provato a
prendere informazioni, avevo un amico poliziotto. Ma non
sono riuscito ad arrivare alle prove. Né io né altri".
Ha mai sognato quella
notte ?
"Incubi ne ho avuti, tanti.
Ero all'Heysel, ero a Sheffield quattro anni più tardi
nel giorno della tragedia di Hillsborough: 96 tifosi
morti. E fra i 17 e i 19 anni ho fatto la guerra civile
in Rhodesia con l'esercito, ai confini con il Mozambico.
La guerra sconvolge, ti porta negli occhi la tragedia.
La vita è preziosa, sopravvivere è un regalo che arriva
da qualche parte. Per questo giocavo a calcio ridendo".
Perché oggi vive in
Canada ?
"È il posto dove ho iniziato.
Ci sono buone scuole, buoni medici, si vive bene. Alleno
i portieri dell'Ottawa Fury, tre ragazzi che lavorano
duro, a cui piace imparare. L'unica cosa che a un
portiere non insegni è la personalità. O ce l'hai o non
ce l'hai".
Lei come scoprì di
averne ?
"A sette anni vidi mio padre
giocare. Ho sempre voluto fare il portiere, è stata la
prima decisione presa in vita mia. Gli altri ragazzini
volevano stare tutti in attacco, mi sono sempre parsi
matti, in venti dietro la palla e solo uno poteva
averla. Se non eri bravo abbastanza da stopparla,
rischiavi di non toccarla mai. Meglio stare in porta.
Ero più sveglio io o loro ? Oggi uno sveglio è Buffon.
Il migliore. Non è uno dei soliti matti. Come non lo era
Zoff. Zoff mi ha ispirato più di tutti, anche se non
giocavo come lui, ognuno ha il suo stile. Il mio era
aggressivo. Uscivo dai pali, andavo a fermare i pericoli
prima possibile. È come nella vita. Se permetti ai
problemi di venirti incontro, i problemi non finiscono
mai".
Bruce, è mai tornato
all'Heysel ?
"Ogni uomo dovrebbe tornare
nei luoghi dei suoi orrori, fare i conti con i demoni,
liberarsene. Sono tornato nei posti in cui ho fatto la
guerra, in Mozambico, in Zimbabwe, in Sudafrica. E sono
tornato all'Heysel. C'è una targa, una data, i nomi
delle vittime. Non mi pare abbastanza, forse il Belgio
potrebbe fare qualcosa in più per le famiglie degli
italiani. Così come sarebbe splendido se Juve e
Liverpool giocassero una partita ogni anno, per sempre.
Per sentirsi uniti da quella tragedia. Sono passati
trent'anni, all'epoca la nascita di mia figlia mi aiutò,
ora ho questo bel lavoro in Canada. Gli incubi sono
finiti. Adesso sono in pace".
Fonte:
Repubblica.it
© 25 maggio 2015
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© Gianni Valle
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