Privacy Policy Cookie Policy
LIBRI e HEYSEL 2014
www.saladellamemoriaheysel.it   Sala della Memoria Heysel   Museo Virtuale Multimediale
Parliamo di Calcio Michel Platini Gerard Ernault 2014
   Bibliografia   Stampa e Web   Interviste   Testimonianze   Audiovisivi   Stadio Heysel  


BIBLIOGRAFIA
HEYSEL
 

MICHEL PLATINI PARLIAMO DI CALCIO

Con Gérard Ernault. Edizione italiana a cura di Tony Damascelli.

"Il calcio è un amore che non prevede tradimenti, separazioni, divorzi. È un’eterna passione di baci e lacrime. Il calcio è un gioco prima di essere un prodotto. Il calcio è uno sport prima di essere un mercato. Il calcio è uno spettacolo prima di essere un affare. Prima di partire per l’avventura che avrebbe segnato la mia carriera, papà e mamma mi vedevano giocare a pallone tra i tavolini del Café des Sportifs di Joeuf, di cui erano proprietari. Qualunque cosa mi capitasse tra i piedi - un’arancia, un gomitolo di lana, una palla - ero un giocoliere, con le gambe, con i piedi, provavo, riprovavo, dribblavo ombre, avversari ipotetici. Avevo soltanto 3 anni, ma il viaggio era già incominciato". Parliamo di calcio è una commedia che sfiora l’inferno, affronta il limbo e sogna il paradiso. È l’esplorazione di un mondo che gli amanti del calcio non conoscono, vale a dire la storia vera di questo sport, il suo fascino mondiale, la sua universalità, le sue radici, le sue trasformazioni, il suo potere, i suoi limiti, le sue leggi, la sua naturale bellezza, i suoi inganni, le sue sofferenze, le sue tragedie, i suoi trionfi. Le pagine coinvolgono illustri protagonisti del gioco, da Kopa a Di Stéfano, da Puskás a Cruijff, da Maradona a Pelé ma anche da Camus a Montesquieu, a Pascal, abbracciando l’agone e la cultura, il letterato e il tifoso, il mondo che gioca e ha giocato con una palla e il suo mistero. È un’opera di studio e di scoperta, non un semplice racconto di cose di football. Ne risulta l’amore assoluto che Michel Platini ha per il pallone che è cosa assai differente dal calcio, un rapporto infantile, genuino, immediato, puro, che, tuttavia, deve fare i conti con una realtà aspra, quella del denaro facile, dei nuovi poteri che, comunque, non violenteranno mai lo spirito originario di questo sport unico. Il viaggio è lungo ma veloce e rapido. La storia del calcio non si conclude con l’ultima pagina, l’ultima parola. Si ferma lo spazio di un pensiero. E continua. Come la storia di Michel Platini". (Dalla presentazione di Tony Damascelli)

Michel Platini è una leggenda del calcio del XX secolo. Vero fuoriclasse, "Le Roi" ha cominciato la sua carriera da professionista con il Nancy AC nel 1973. Negli anni ottanta, mentre indossava la maglia della Juventus, ha vinto consecutivamente tre Palloni d’oro, unico giocatore nella storia del calcio mondiale. Da allenatore ha guidato la nazionale francese dal 1988 al 1992, è stato co-organizzatore della Coppa del Mondo FIFA 1998 in Francia, mentre dal 2007 è presidente dell’UEFA. Fonte: Rcsmediagroup.it © 21 ottobre 2014 Fotografie: Bompiani © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

 

Il cielo nero di Bruxelles

Estratto dal libro "Parliamo di calcio" di Michel Platini con Gérard Ernault.

Sul mio comportamento all’Heysel uno potrà pensare quello che vorrà, ma sulla purezza no, no, no. Ho già rivelato un giorno che, sapendo che c’erano dei morti e avendoli come cancellati dal mio spirito o respinti, ecco che il mio gesto mi sembrava oggetto di psichiatria. L’ho ribadito a Marguerite Duras qualche mese dopo. Se il mio comportamento era sintomo di una "scienza" particolare, questa era più la psichiatria che la filosofia. Se si va sul terreno della psichiatria si scopre che gli uomini non sono degli eroi, figuratevi gli sportivi. Senza dubbio non sei un grande sportivo se non ti lasci andare in un grande avvenimento senza dimenticare tutto ciò che ti circonda e al tempo stesso ribellandoti a ciò che ti circonda. Il senso di colpa più palpabile, più duraturo, non è tanto nel gesto inappropriato, quanto nel fatto che la partita si sia svolta in una situazione così luttuosa. La morte di uno spettatore francese, un mio tifoso venuto a vedermi, mi ha ossessionato. Lui era il riassunto di tutti gli altri morti. Lui era per me, prima dell’Heysel, un tifoso come tanti che avevo conosciuto, quelli che mi parlavano, che mi chiedevano gli autografi e posavano con me nelle fotografie, ma all’Heysel era diventato il volto del dramma. Il volto della mia colpa, anche. Due ricordi mi perseguitano. Una percezione incompleta, molto incompleta, quasi una nebbia di una vita esterna che si racchiude nella nostra vita interiore, nello spogliatoio, nella partita, nelle ultime consegne, nel ritiro, nel silenzio. In quale partita, in quale avvenimento ci ritroviamo ? Poi arriva l’ordine di giocare, in contrasto con il nostro desiderio di non giocare, facendoci intendere che ci sono due, forse tre morti. Alcuni di noi vogliono giocare, non perché si trattava del nostro lavoro, ma perché era il nostro dovere se volevamo evitare che lo stadio e forse la città andassero a ferro e fuoco. Così Jacques Georges, allora presidente dell’Uefa, ci ha illustrato la situazione. Abbiamo incominciato a giocare, a livello emotivo, come se nulla fosse accaduto, senza un attimo di pausa, football immediato, duro, totale, esattamente quello choc tattico e mentale che ci si poteva aspettare fra due squadre pronte a darsele in una finale. Quasi automi alla ricerca di una normalità. Noi tutti eravamo calati in pieno rituale, più o meno meccanico, e nell’oblio di certe circostanze. E mi domando: è un oblio cosciente o incosciente ? Ho voluto vendicare i tifosi della Juventus ? Ho voluto, malgrado tutto, approfittare, un momento, un momento solo, di una schiarita nel cielo nero di Bruxelles ? Esorcizzare il dramma, rubando un momento di non dramma ? Dimostrare che il gioco è più forte della morte ? Oppure ho soltanto voluto "qualcosa" ? Che cosa, esattamente ? Trent’anni dopo, non è ancora chiaro nel mio spirito ciò che è accaduto, forse non lo sarà mai, e trent’anni dopo vorrei dire che non lo rifarei. Non avrei dovuto attendere trent’anni, trenta minuti sarebbero stati sufficienti. Non sono mai tornato all’Heysel. Ma con il tempo ho cambiato idea. Lo sento sempre di più necessario. Ma vorrei che questa visita non avesse alcuna cornice di stampa e fotografi. Vi andrò per raccogliermi in preghiera in quel cimitero che è lo stadio, per me, il cimitero di tanti bambini, donne, uomini. Credo che nel silenzio avrò da dire molte parole a tutti loro. E a me stesso. Fonte: La Repubblica © 20 ottobre 2014 Fotografie: © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

Museo Virtuale Multimediale © Domenico Laudadio Copyrights 2009 (All rights reserved)