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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL |
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Andrea Linfozzi :
"Lacrime e polvere da sparo"
di Francesco Marroni
Molti
anni fa, mentre leggevo per la prima volta i
Frankenstein in una traduzione nemmeno troppo fedele e
gratificante, mi venne in mente che per fare un romanzo
non basta una buona idea. Non basta una buona storia.
Leggendo il capolavoro che Mary Shelley cominciò a
scrivere a soli diciannove anni mi sono reso conto che
la letteratura non è un terreno che ammetta furbizie e
improvvisazioni. La ragione per cui Frankenstein può
essere a buon titolo definito "classico" è abbastanza
semplice. Nonostante la sua giovanissima età, Mary
Shelley scrive il romanzo con lo stesso rigore dei
grandi classici di ogni epoca e di ogni nazione. Le
regole dell’arte non si inventano - il pittore che 2500
anni fa dipinse la tomba del Tuffatore di Paestum seguì
le stesse regole a cui si attenne Renè Magritte nel
dipingere "l’uomo con la bombetta". Cambiano i contesti
storici, cambiano le epoche e gli uomini, le direttrici
e i criteri fondamentali della creazione artistica non
cambiano mai. O, se cambiano, lo fanno in modo così
impercettibile e graduale da non lasciare traccia della
stessa trasformazione. Perché questa considerazione
preliminare ? Dopo aver letto i racconti Andrea Linfozzi,
e soprattutto dopo aver letto il racconto lungo "Stadio
Heysel di Bruxelles, 29 maggio 1985", credo non si possa
fare a meno di notare come l’autore sia del tutto preso
dall’urgenza di narrare qualcosa di terribile che solo
la "cura" scritturale, potrà essere del tutto superato e
comunque immaginativamente "trasformato" da evento
nefando in fatto estetico. Una tragedia, quella maturata
nello stadio di Heysel di Bruxelles, che sembra
partorita dal ventre eccessivo di un’epoca capace solo
di spettacolarizzare la vita senza viverla. Una tragedia
dello sport che nella rivisitazione autobiografica di
Andrea Linfozzi diviene intensa metafora sulla
condizione attuale dell’uomo, una storia che riesce a
impegnare il lettore in un "discorso intorno ai valori"
senza mai proclamare in modo didascalico il senso
profondo della narrazione. Resta in primo piano
quell’esigenza narrativa, quella voglia di narrare e di
narrarsi che viene rivelata nelle ultime parole del
racconto: "Mi voltai e vidi un gruppo d’ombre di figure
umane […] Si agitavano, sembravano invocare giustizia,
facevano cenni verso di me, affinché li evocassi,
affinché li facessi venire alla luce. Allora saltai
fuori dal letto, presi un foglio e una penna, e iniziai
a scrivere", di qui l’urgenza di fare rivivere le ombre
che implica anche l’urgenza di testimoniare ad un tempo
la propria sensibilità artistica e il proprio essere in
quello scenario tragico. Ma, come si diceva, esistono
regole a cui nessun artista può sottrarsi se vuole
sperare che nelle sue parole, nella sua pagina siano già
inscritti e programmati i lettori futuri. Più l’opera è
meditata, più l’opera si sgancia dall’effimera spinta
dell’urgenza, più la sua "voce" riesce a parlare ai
lettori che verranno, riesce cioè a crearsi uno spazio
che significa innanzitutto capacità di sorprendere e di
aprire sempre nuovi itinerari immaginativi, nonostante
il trascorrere del tempo, nonostante il mutamento dei
gusti, nonostante il succedersi delle generazioni di
lettori.
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Quale
giovane autore Linfozzi sta imparando a conoscere quelle
regole che fanno di opere come il citato Frankenstein, o
per passare ad altro genere, l’Orlando Furioso, dei
capolavori per tutte le epoche, ma è chiaro a tutti - e
credo sia chiaro anche allo stesso Linfozzi - che la
strada che conduce alla Letteratura (stavo per dire alla
"Grande Letteratura") è impervia e piena di insidie. Nel
nostro caso, va subito detto, l’incoraggiamento ha una
sua ragione. Ha un suo fondamento proprio perché
l’autore ha dalla sua parte non solo l’idea, di cui si
diceva all’inizio, ma anche una sostanziale sensibilità
letteraria che molto giova alla sua scrittura. Ed è
grazie a questa sua sensibilità che il racconto funziona
ben oltre il dato cronachistico, riuscendo a coinvolgere
il lettore in una vicenda umana che si colora di
tonalità spesso tendenti al grigio, di visioni che
trascolorano quasi sempre nel diafano biancore della
morte. Come non leggere allora le pagine dedicate alla
descrizione della partenza, la snervante lunghezza del
viaggio e la delusione al cospetto dello spazio incolore
di un Belgio senza anima nei termini di una vera e
propria missione di guerra ? A parte l’entusiasmo per la
squadra del cuore, il protagonista vede tutta la realtà
circostante con gli occhi di un soldato che parte per il
fronte - un soldato di fanteria magari con tutto
l’armamentario assurdo e minaccioso della Grande Guerra,
il viaggio in autobus ha tutta l’angoscia di una
tradotta anonima che si avventura per le strade
dell’Europa senza una precisa meta: l’unica certezza
sembra essere lo stadio della morte. La fine del viaggio
significa proprio questo: la conoscenza della morte. È
questo il tipo di iniziazione vissuta dal
protagonista-narratore della storia. Il paesaggio
congiura a creare un clima di totale isolamento: la voce
di chi racconta si confronta in continuazione con un
interlocutore assente. Anche il paesaggio pare sottrarsi
ad ogni possibilità dialogica: "A pochi chilometri dalla
città il conducente iniziò ad indugiare, a ogni
crocevia, sulla strada da percorrere. Proseguimmo per
alcuni chilometri alla cieca, circondati da fitti
boschi. Era come essere intrappolati in un insidioso
labirinto. Un benzinaio ci aiutò ad uscirne". È questa
la realtà che ci descrive Linfozzi: tanto è insidioso,
la minaccia è sempre dietro l’angolo. Il viaggio a
Bruxelles che avrebbe dovuto essere una sorta di
vacanza-premio vuol dire ripercorrere le tracce di
migliaia e migliaia di minatori abruzzesi che, in quel
mondo ostile, hanno trovato lavoro e una dignità, sia
pure nella forma grigia e spettrale di un paesaggio
senza sole. È vero: non basta una buona storia per fare
un buon romanzo, ma se l’idea è buona è già un grande
aiuto. E nel caso di Andrea Linfozzi, non è esagerato
dire che l’idea del viaggio e la descrizione da vittima
innocente della "battaglia" tra italiani e inglesi vanno
al di là del semplice dato autobiografico per fare del
protagonista la vittima innocente di una società, quella
in cui noi tutti viviamo, che pare essere sempre
sull’orlo della barbarie.
Fonte:
Pescarabruzzo.it
© Edizioni Tracce
Pescara 1998
Fotografie: Andrea Linfozzi
© GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
© Independently
Published Editore ©
Icona: Itcleanpng.com ©
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