La Coppa maledetta
di Alberto Garlini
Un’ora prima della finale iniziò la strage. Un bel
fresco primaverile che calava sui riflettori, sui tetti
di Bruxelles. Il cielo color arancio pareva il riverbero
del rosso delle bandiere inglesi, delle maglie, delle
canotte, delle pitture tribali sui volti barbarici. Nel
settore Z dell’Heysel i tifosi juventini erano stati
mischiati agli hooligans, ubriachi dalla sera
precedente. A dividerli solo una rete di metallo e dieci
poliziotti belgi. Una bomba a orologeria, una bomba
pronta a esplodere. Provocazioni. Qualche pisciata sulla
bandiera bianconera, qualche sfottò. Gli juventini
reagirono spaventandosi, strinsero i figli, dissero alle
mogli di allontanarsi con un ultimo abbraccio. La paura
li uccise. Gli inglesi odorarono la paura, sentirono la
paura dell’altro gruppo come un afrodisiaco dell’orda,
come il sapore del calore di una cagna. Capirono di non
avere a che fare con ultras armati, ma con famiglie in
gita domenicale, che qualche speculazione aveva portato
lì, a farsi massacrare. E se c’era da massacrare, si
doveva massacrare. La prima onda sembrò un’illusione
ottica, come se l’Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo
stesse agitando. I rossi si spostavano verso i
bianconeri, ritmicamente, dal punto più lontano a quello
più vicino alla tribuna centrale. Una ola che portava
morte. Presero ad attaccare armati di bottiglie rotte,
spranghe e legni raccolti in un cantiere edile
incautamente lasciato accessibile a pochi passi dallo
stadio. I vecchi mattoni delle gradinate si
sbriciolavano come il pane e fornivano proiettili da
lanciare, la rete fu strappata, i poliziotti si
dileguarono presi dal panico. Gli juventini per sfuggire
agli attacchi si pressarono scompostamente al muretto
alla loro destra, schiacciandosi gli uni con gli altri.
Non c’erano vie di fuga o erano del tutto insufficienti
a quella emergenza: solo una porticina di ottanta
centimetri in entrata e un’altra di uguali dimensioni
verso il campo. Quest’ultima oltre tutto presidiata dai
poliziotti belgi che non intervenivano alle scorribande
degli inglesi, ma bastonavano selvaggiamente gli
italiani che cercavano scampo sul verde del prato. Gli
ordini erano ordini, si dovevano evitare le invasioni.
Rimaneva un’unica possibilità, schiacciarsi contro il
muretto. E così la gente moriva, tagliata, bastonata,
pestata, asfissiata.
Negli spogliatoi si sapeva dei
morti: non se ne conosceva il numero preciso, né le
circostanze nei dettagli, ma si sapeva della strage. In
seguito la versione ufficiale avrebbe negato l’evidenza,
affermando che non erano giunte notizie della gravità di
ciò che accadeva. Ma i giocatori sapevano, come potevano
non sapere ? Arrivavano frotte di tifosi negli
spogliatoi per farsi medicare. Gente piangente,
insanguinata ovunque, sul volto, lungo il corpo, senza
scarpe senza i giubbotti, con tracce di unghie stampate
sulle spalle, come tentativi di rimanere attaccati alla
vita. I brividi, il freddo, il tremore, lo shock. (...)
Platini e Scirea facevano la spola fra l’infermeria e
l’arbitro per portare medicinali, garze, e quello che
poteva servire. Anche tè caldo, anche sciarpe, anche
solo una parola di conforto. Intanto qualcuno più
coraggioso usciva alla luce del verde, ritornando con
ragguagli mostruosi. (...) L’attimo dopo il litigio,
dopo la morte, quando non c’è più azione, ma il residuo
dell’azione. Quando lo schiaffo è schioccato, ma resta
il residuo dello schiocco. Quando il lutto è nella zona
di nessuno della ridicolaggine. Quando al tribunale dei
morti l’innocenza non è ancora provata. Angeli ridenti,
angeli disperati. I corpi sopra i corpi, accatastati
come quarti di animali sulla pista d’atletica. Gli
uomini agonizzanti, l’incredulità che stringeva mani
inerti, un medico italiano che bestemmiava. Le transenne
usate come barelle da infermieri che tentavano
tracheotomie. Tanto sangue, gole aperte. Assurdi
gendarmi a cavallo che andavano su e giù roteando i
manganelli. E poi vedere una donna dalla maglia bianca
chiudere il ventre aperto del marito, e una ragazza in
verde morire serafica con uno sguardo felice, e un padre
calvo reggere la testa di un bimbo morto. E i massaggi
cardiaci, le urla concitate, l’andirivieni isterico,
l’esplosione delle persone, il volo impazzito degli
uccelli impauriti, e questo frastuono di fondo e i canti
degli inglesi, ubriachi epici, come dopo le grandi
carneficine medioevali. E infine un cane, un cane
bianco, che faceva la guardia a un cadavere come fosse
quello del suo padrone. "Quando il trapezista muore,
entrano i clown..." disse Michel Platini in una
intervista dopo l’Heysel. Aggiunse: "Noi non siamo
clown..." ma nessuno gli credette.
Ad avere progettato, costruito
e realizzato nei dettagli quel massacro erano state le
stesse persone che davano i soldi ai calciatori. Le
stesse identiche persone che avevano gli assegni, i
bonifici e pacchetti di carte da centomila nelle
ventiquattr’ore. Persone ben conosciute, quelle che
prendevano l’ottantatré per cento dell’incasso.
Biglietti in eccesso, stadi inadeguati, percentuali
pubblicitarie, ingaggi, iperboli giornalistiche si erano
trasformati in corpi morti, in carne macellata. Una
magia che stava negli uffici delle varie burocrazie, nei
pacchetti da centomila nelle mani dei calciatori. Nelle
macchine che si compravano, nelle donne che si
scopavano. Gli juventini decisero di non giocare. Si
riunirono, Scirea interpretò lo spirito del gruppo e
tutti se ne andarono sotto le docce, per lavarsi e
rivestirsi. Erano profumati e pronti per il pullman
quando arrivarono i dirigenti della squadra, il delegato
Uefa e l’arbitro. Discussioni, molte parole,
accavallate. Rispetto, prima di tutto, il rispetto non
manca mai, in un discorso che vuole fregarti. Nessuna
preclusione, ma ragioni di opportunità. Sia chiaro.
Ordine pubblico, forze dell’ordine insufficienti, animi
sovraeccitati, scontri all’uscita. Altre parole, altri
timori. Le persone che davano i soldi ai calciatori
volevano che i calciatori giocassero, che capissero la
necessità della partita. Temevano conseguenze peggiori
in caso di annullamento del match. "Ma come possiamo ?".
"Non è una vera finale, è un espediente...". "Ma come
possiamo ?". Gaetano Scirea fu scortato al microfono
dello stadio. Si udì dall’altoparlante una specie di
sospiro. La sua voce: "La partita verrà giocata per
consentire alle forze dell’ordine di organizzare
l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete
alle provocazioni. Giochiamo per voi...". Giochiamo per
voi. Con quella voce tremula, vecchia. Un nido di
rondine incollato ostinatamente al tetto. E la partita
si giocò. Sui morti. Condannando per sempre quelle anime
alla vergogna, al ridicolo. A vagare nell’inquietudine e
nell’angoscia dei processi e delle sentenze per
l’oltraggio subito. E alla fine ci fu anche la coppa.
Vinse la Juve per uno a zero, per un rigore inesistente.
E la coppa arrivò negli spogliatoi in una bara di legno,
e la bara si aprì e la coppa girò pure sotto le tribune,
alzata dalle mani festose, sul sangue dei morti, per il
giro d’onore. E i calciatori festeggiarono. E la
panchina saltò in aria al gol, per la felicità. Mentre
trentanove corpi ancora caldi, venivano squartati come
maiali nelle autopsie dei medici belgi.
Fonte: Futbol
Bailado
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