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LIBRI e HEYSEL 2015
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Quella notte all'Heysel Emilio Targia 2015
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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL
  RECENSIONI STAMPA e WEB LIBRO 2015
 

Quella notte all’Heysel ... Impossibile dimenticare

di Carla Marras

Il giorno più triste della storia bianconera. La notte che ha cambiato il calcio. Quando sentii per la prima volta la parola "Heysel" ero una ragazzina, e chiesi a mia madre cosa fosse successo in quel posto dallo strano nome, avendo appena seguito in tv un’intervista a Platini. Il giornalista gli chiedeva pareri su una partita che "non si sarebbe dovuta giocare". Mi venne spiegato cosa accadde, e alcune cose non le capivo. Da ragazzino vedi lo sport in un modo totalmente innocente e non concepisci parole come "hooligans" o "caricare la folla". Non capisci come possano essere morte tante persone in uno stadio. Fai sempre più domande e la più frequente, a cui non ricevi risposta, è "perché?". Perché tante persone, arrivate allo stadio per coronare il sogno di vedere la propria squadra del cuore giocarsi la finale della Coppa dei Campioni, hanno vissuto l’incubo più nero incontrando la morte ? Sulla tragedia che ha sconvolto il mondo del calcio, il cui peso si fa sentire ancora bruciante ogni 29 maggio, sono state spese tante parole. Accuse, scuse, giustificazioni, tentativi di spiegare qualcosa che forse poteva essere evitato. Da questo fiume di parole, che ancora oggi non si arresta, la corrente mi porta uno dei libri più toccanti che siano stati scritti sull’argomento. Emilio Targia, che quella notte infernale era all’Heysel, ha deciso di raccontare la sua esperienza. A distanza di trent’anni il ricordo è vivido. Fa male e va a pungolare una ferita ancora aperta. Con le sue parole semplici e delicate, ricordando le sensazioni e l’emozione che solo un ragazzo che ama profondamente la sua squadra conosce, riesce a descrivere con incredibile umanità e delicatezza tutto ciò che accadde, con l’acutezza di un giornalista e allo stesso tempo l’emozione di un tifoso. Nessun dettaglio viene risparmiato, dalla ricerca al cardiopalma dei biglietti (quasi introvabili) per la partita, alla gioia immensa e l’agitazione per la partenza verso quello che sarebbe stato, per un’unica notte, il tempio del calcio. La maestria nel raccontare, porta il lettore a provare le stesse sensazioni del narratore, cosicché quando si arriva nella zone dello stadio, si arriva quasi a provare la stessa emozione che prova lui. Ma, già al momento di entrare all’interno dello stadio si inizia a percepire che qualcosa non sta andando per il verso giusto, tanto che Emilio e il suo amico riescono all’ultimo a cambiare settore, rinunciando ai biglietti del settore Z in favore di quelli M N O. A posteriori, una vera fortuna, che l’autore però non rimarca e non definisce neanche tale, perché il suo cuore è rimasto lì, sulla zolla di prato davanti al settore Z, dove suoi connazionali hanno perso la vita, nell’incubo che è seguito al sogno. Pochi minuti dopo, l’inferno. I tifosi inglesi, che occupavano la zona centrale della curva e la parte adiacente alla tribuna d’onore, cominciano a inveire contro i tifosi juventini con cori e sfottò, per passare poi alla pioggia incessante di lattine, bottiglie, calcinacci, bastoni. Un vero e proprio assalto che di lì a poco sarebbe sfociato in tragedia. Il racconto di Targia è preciso, sentito e accorato, ma mai vittimista. Mantiene una visuale, nonostante tutto, oggettiva, senza per questo soffocare le emozioni o farsi prevaricare da esse. Un libro consigliato caldamente a tutti i lettori, sportivi e non. Per chiunque voglia saperne di più attraverso il punto di vista di chi ha vissuto la tragedia. Il consiglio è dato soprattutto per abbattere il muro di ignoranza che, su questa vicenda, è ancora alto. Per andare oltre le tante, troppe parole a vanvera che gli vengono dedicate per circostanza ogni 29 maggio. Fonte: Inmediarex.it © 23 marzo 2017 Fotografie: Sperling & Kupfer © Emilio Targia © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icone: Itcleanpng.com ©

 

Emilio Targia: la responsabilità della #manutenzionedimemoria

di Imma Tropiano

Se ti ritrovi a fare un giro sulla pagina social di Emilio Targia trovi un hastag spiazzante #manutenzione di memoria.

Una mission racchiusa in tre parole e che bastano a trarre i contorni di quello che è "Quella notte all’Heysel", la fatica letteraria dello scrittore romano, con la quale Targia ricompone i frammenti di memoria, la sua, legati a quel 29 maggio 1985. Una data che rimanda tifosi di calcio e non solo allo Stadio Heysel, finale Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, quando una partita definita sogno per gli amanti del calcio con la maiuscola entra di prepotenza nelle pagine di cronaca e da allora è stata raccontata e riscritta da più autori, testimoni o meno. Con un rischio, ci dice Targia "La memoria è una faccenda complicata. Ho ripescato, da testimone, questa storia per ridare un po’ di luce a quello che secondo me si era un po’ disperso". Fonte: Laredazione.eu © 9 settembre 2016 Fotografia: Emilio Targia © Icona: Itcleanpng.com ©

 

"Quella notte all’Heysel" di Emilio Targia

Heysel non è "solo" una strage di juventini: è una pagina nera dello sport.

di Felice Laudadio

Emilio ha ragione: Heysel non è più uno stadio, come Vajont non è più una diga, Ustica non è più un’isola, Italicus non è più un treno. Heysel è un buco nero del calcio mondiale. Emilio Targia, quarantotto anni, è un giornalista romano, caporedattore a Radio Radicale. Era a Bruxelles quel 29 maggio 1985, nel tardo pomeriggio. Non ha dimenticato ed è convinto che non si deve dimenticare, per questo ha scritto "Quella notte all’Heysel", un libro che va dritto al cuore, pubblicato da Sperling & Kupfer (176 pagine, 14,90 euro) nel trentennale di un eccidio che la guerra tra tifoserie ha derubricato cocciutamente a disavventura solo bianconera, morte di juventini, come se non fosse una tragedia italiana senza precedenti (ci sono supporter fiorentini che sfoggiano striscioni e magliette "39 di meno" o "meno 39"). Heysel non è più uno stadio, resterà per sempre sinonimo di strage, di un evento che non avrebbe mai dovuto verificarsi e che sarebbe stato facilmente evitabile. Sarebbe bastata più accortezza, più professionalità da parte delle forze dell’ordine belghe. Ed anche meno avidità, il dolo di chi ha venduto ad italiani i biglietti del Settore Z dello stadio dove si sarebbe giocata la finale della Coppa dei Campioni europea di calcio 1985, Liverpool-Juventus. Quella curva era destinata a ospitare i tifosi inglesi, gli hooligans, seminudi, resi subumani dall’alcool bevuto come acqua, più litri di birra in corpo che neuroni in testa. Giorni prima, il tifosissimo bianconero de Roma Emilio Targia, appena diciottenne stentava con l’amico Giampiero a procurarsi i tagliandi per entrare nel vecchio impianto della capitale belga. Tutto esaurito fin dal 2 maggio. Poi la notizia che a Bruxelles un conoscente disponeva di due biglietti del Settore Z. Ma ecco che da Torino un amico compie il miracolo: "in tribuna è impossibile, ma se volete andare con gli juventini nel Settore M-N-O, non c’è problema". Il tifo spinge i due ragazzini verso la curva dei compagni di fede calcistica. Forse, devono la vita alla passione per i colori bianconeri. La tragedia l’hanno vista dall’altra parte del campo, opposta alla curva dove trentanove uomini, donne, ragazzi (32 italiani, 4 belgi, 2 francesi, 1 irlandese) ed altre tremila persone vennero calpestate, schiacciate, soffocate dalla massa dei tifosi bianconeri terrorizzati, travolti da ondate di hooligans, incrudeliti dalla mancanza di reazione di quella gente inerme. Tutto a cominciare dalle 19,08, senza che la polizia belga accennasse una reazione. Solo cinque gli agenti in curva tra i settori Z e X-Y.

Trentanove persone avevano acquistato un biglietto verde pallido, tendente al grigio. Sembrava l’invito a una festa, era un pass per l’inferno. Sopra c’era stampato in francese che l’organizzazione declinava ogni responsabilità per incidenti di qualsiasi natura che avessero potuto determinarsi. Fin dall’arrivo in treno a Bruxelles, la felicità sportiva di due giovani e la certezza che tutto sarebbe andato perfettamente in una società evoluta come quella belga, si scontra con una realtà imprevista, specie dopo aver raggiunto il vecchio stadio nella zona dell’Esposizione universale del 1952. Erano sempre più sorpresi, si aspettavano ordine e competenza, invece si rendevano conto d’essere precipitati nel medioevo del calcio. Per non dire dell’Heysel, costruzione Anni Trenta, vetusto, insicuro, insufficiente, pericoloso, anche per un semplice evento sportivo, figurarsi per quell’attesa finale europea e con supporter avversari ingovernabili come i britannici. Ubriachi dalla mattina, mostravano occhi spenti, vuoti, terribili. Non vi si leggeva nemmeno l’attesa per la partitissima cui stavano per assistere. Alle 20, ora di Bruxelles, 400 milioni di telespettatori si misero davanti ai teleschermi convinti di assistere a uno spettacolo di calcio. Si trovarono collegati in diretta con una guerra, dice Emilio. A volte, aggiunge, gli incubi si travestono da sogni, ma sono pronti a rivelarsi per quello che sono: orrore, dolore e per qualcuno rimorso. Quello ce lo portiamo dentro noi juventini che abbiamo assistito da casa al massacro rimuovendolo dalle nostre menti a tutti i costi, contro ogni evidenza, sordi ad ogni notizia. Sandro Veronesi, nella prefazione, lo riconosce con coraggio: è come se avessimo fatto finta di niente e ci fossimo voltati dall’altra parte, ostinatamente. Noi volevamo la finale. Volevamo che quella partita si giocasse, eravamo arrivati tutti a quel risultato, non potevano strapparcelo. E le squadre scesero in campo, per giocare e prevenire disordini peggiori. Il fischio d’inizio, previsto alle 20,15, venne dato alle 21,42. Grazie Emilio, per il tuo libro che aiuta a capire. Quella partita per me è finita soltanto ora, trent’anni dopo. Fonte: Classifica-libri.it © 1 Settembre 2015 Fotografia: Sperling & Kupfer © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Recensioni letterarie: "Quella notte all'Heysel" di Emilio Targia

30 anni dopo, la strage di Bruxelles spiegata da chi c'era

di Carlo Calabrò

Sono passati trent'anni dalla più spaventosa strage che abbia mai funestato il mondo del calcio, quella dello stadio Heysel di Bruxelles. La più spaventosa non in senso meramente numerico, ché altre tragedie in altri impianti hanno preteso tributi anche più esorbitanti di vite umane, bensì perché quella orribile mattanza di 39 persone colse tutti di sorpresa: è vero, la pericolosità dei famigerati hooligans inglesi era già nota, eppure (o forse proprio per questo, per i precedenti che avrebbero dovuto mettere in guardia) nessuno poteva seriamente temere che la situazione sfuggisse di mano e degenerasse proprio durante uno dei massimi eventi calcistici mondiali, una di quelle occasioni in cui l'organizzazione è solitamente impeccabile, rigorosissima, nulla viene lasciato al caso, meno che mai l'incolumità degli spettatori in loco.

MEMORIA CONDIVISA - Sembra ieri per chi, come me, all'epoca aveva già un'età che gli consentiva di capire, perlomeno in parte, la portata di certi drammatici eventi. Il ricordo è sempre vivo, ma va costantemente alimentato, soprattutto a vantaggio delle generazioni più giovani che, se non stimolate alla ricerca storica, rischiano di vivere nell'ignoranza di ciò che accadde quel 29 maggio 1985. Invece devono sapere, e l'Heysel deve diventare memoria condivisa di un Paese intero, non solo di chi è interessato alle cose del football. Un buon contributo in tal senso l'hanno fornito varie opere letterarie: penso soprattutto a "Le verità sull'Heysel: cronaca di una strage annunciata" di Francesco Caremani, il giornalista italiano che più si è adoperato per tenere costantemente i riflettori accessi sui fatti di Bruxelles, raccontando nel dettaglio anche la dolorosa vicenda processuale che ne è seguita. Di impronta diversa è l'ultimo libro uscito sul tema, "Quella notte all'Heysel" di Emilio Targia, editore Sperling & Kupfer.

DIARIO DI UN VIAGGIO E DI UN INGANNO - E' un volume scritto quasi di pancia eppure lucidissimo, un racconto in presa diretta del prima, durante e dopo quel giorno nero. Il diario di viaggio di Targia e del suo grande amico Giampiero, due "juventini a Roma" che in quel maggio 1985 decisero di seguire l'adorata squadra nell'avventura fin lì più importante della sua storia, l'ennesimo assalto alla Coppa dei Campioni, il trofeo più ambito ma anche il più stregato, perché troppe volte la Vecchia Signora aveva mancato l'appuntamento con la gloria, andando incontro a delusioni anche brucianti: come dimenticare l'imprevista sconfitta di Atene di due anni prima contro l'Amburgo ? E' la narrazione di un percorso crudele e menzognero, di un'ascesa al Paradiso che si trasforma repentinamente in discesa agli inferi, perché, come scrive l'autore, "ci sono incubi che si travestono alla nascita: si camuffano da sogni, e quando poi ti accorgi dell'inganno è troppo tardi e non puoi farci niente". Sì, perché quella, per uno juventino come lui, doveva essere "solo" la costruzione certosina di un sogno, a partire dalla sofferta conquista della finalissima ai danni del forte Bordeaux e dalla conseguente, febbrile caccia al biglietto più agognato di sempre. E poi il viaggio verso la capitale del Belgio, nel cuore dell'Europa più civilizzata (sic!), la birra bevuta assieme a un tifoso del Liverpool, per un piccolo gemellaggio che sembra foriero di una serata di festa, comunque vadano le cose sul campo; i primi timori di fronte a un servizio d'ordine che, attorno allo stadio, sembra manifestare imbarazzi imprevisti, smentendo il "decisionismo verbale" sciorinato pomposamente nei giorni precedenti dalle locali autorità. Il sogno che volge in incubo brutalmente, quasi all'improvviso, col belluino assalto dei teppisti britannici agli inermi spettatori del Bloc Z. Targia assiste allo scempio dalla curva opposta, ove si percepisce chiaramente la gravità, ma non l'entità abnorme del dramma che si consuma. E ci si deve affidare solo alle voci, al tam tam che si diffonde fra i tifosi e che dilata sempre più il numero delle vittime di quel vero e proprio atto di guerriglia.

SOLO CHI C'ERA... - Ecco, l'essenza di questo nuovo libro su quel maledetto Juve - Liverpool sta proprio in questo delicatissimo passaggio: le sensazioni, la consapevolezza dei presenti rispetto a quanto accadeva intorno. Perché se è vero che, come detto poco sopra, la memoria di certi eventi luttuosi deve essere condivisa, è anche innegabile che in troppi, nel tempo, si sono arrogati il diritto di pontificare sui fatti di quelle ore, fatti comprensibili e interpretabili (e forse neanche interamente) solo da chi era fisicamente presente nel vecchio stadio belga. Lo capì subito, del resto, un giornalista di vasta esperienza come Italo Cucci, che sul suo Guerin Sportivo, nel numero successivo alla strage (quello col titolo di copertina "Olocausto"), scrisse fra le altre cose: "Tacete, voi che non c'eravate, voi che non avete vissuto quelle ore di paura..."; il riferimento era a chi aveva criticato, con accenti demagogici, la decisione di giocare ugualmente la partita: una scelta, oggi, pacificamente accettata un po' da tutti, per le ragioni di salvaguardia dell'ordine pubblico (e prevenzione di ulteriori, gravi incidenti) in cui maturò.

 

DENTRO UNA BOLLA - Targia lo spiega bene. Lui, Giampiero e gli altri compagni di tifo sono finiti "dentro una bolla, in un tempo sospeso, incapaci di decifrare con esattezza quello che è successo, quello che sta succedendo e che potrebbe ancora succedere...". La situazione che quella sera prese corpo all'Heysel fu tragicamente surreale, luttuosamente contraddittoria. Qualcosa di troppo complesso, assurdamente complesso, per poter essere "decrittato", razionalizzato e metabolizzato in pochi minuti dalla mente umana, anche dalla più raffinata delle menti. Una situazione in cui era impossibile capire quale fosse l'atteggiamento più giusto, corretto, "morale" da assumere. C'era stata una strage, molti ne erano pienamente consapevoli, ma erano circondati da decine di migliaia di persone che non sapevano, o che sapevano solo in parte. E di certo la disputa dell'incontro, addirittura con carattere ufficiale, non poté che aggiungere un ulteriore elemento distorsivo, straniante: come comportarsi di fronte a una partita di calcio che va in scena in uno stadio cimitero, un paio di ore dopo una carneficina ? Da una parte il sangue, i corpi inanimati, dall'altra lo sport, massima espressione di vita: uno scenario diabolico, quasi da impazzimento. Risposte definitive nessuno ne potrà mai dare, ma quella di un testimone diretto come Targia è sicuramente la più vicina alla verità: la partita come un diversivo, per allontanare i pensieri da quell'orrore che altrimenti avrebbe travolto lui e gli altri, novanta minuti per provare almeno a capire ed elaborare; e al gol di Platini, un urlo che è espressione di disagio, impotenza. E' la testimonianza più sincera e schietta che abbia mai letto, da parte di chi a Bruxelles era presente: una testimonianza che spiega molto, se non tutto, perché quando le naturali debolezze dell'animo umano vengono messe a confronto con eventi mostruosamente inconcepibili non c'è copione che tenga e occorre quantomeno cercare di immedesimarsi, anche se le esultanze dopo la rete del francese e il tripudio della curva al fischio finale possono, ancora oggi, far gelare il sangue nelle vene.

IL PICCOLO ANDREA - Questo è, dicevo, il cuore del libro. Ma c'è anche il dopo: il ritorno all'Heysel la mattina seguente, il doloroso viaggio di ritorno, e ancora prima, poco dopo il match, il solo squarcio di umanità in una notte da incubo, l'incontro con un volto sconosciuto eppure caldo, amico. C'è lo struggente ricordo della più giovane vittima di quella ferocia, il piccolo Andrea Casula (perì a undici anni, era mio coetaneo): le strazianti immagini del suo volto violaceo e ferito a morte, credo oscurate dalla tv italiana ma ben visibili in diversi documentari di produzione estera, dovrebbero restare come monito eterno, per chi ancora va allo stadio con intenti bellicosi e per chi scherza sull'Heysel, con cori e striscioni osceni che cadono spesso nell'indifferenza di un popolo narcotizzato, abituato ad accettare ogni bruttura.

LA SCELTA DELLO STADIO - Sullo sfondo del libro, rimangono alcuni nodi non ancora sciolti: in primis la scelta di una struttura inadeguata e di non eccezionale capienza, per una finale attesissima. Un argomento a mio parere poco approfondito, in questi trent'anni: spesso si è parlato dell'Heysel come di un impianto fuori dal tempo, un reperto archeologico piombato all'improvviso nel 1985 dal nulla: era invece uno degli stadi preferiti dalla Federazione europea di calcio, già sede, in precedenza, di quattro finali di Coppa Campioni, tre di Coppa Coppe e una di Uefa, nonché dell'atto conclusivo dell'Europeo per nazioni del 1972 e di buona parte delle gare ufficiali della Nazionale belga (l'ultima si era disputata meno di un mese prima di quel fatidico 29 maggio, fu un Belgio - Polonia valevole per le qualificazioni al Mondiale dell'anno dopo). Era dunque un impianto utilizzatissimo e conosciutissimo: che controlli furono fatti in vista di Juventus – Liverpool ? Come furono valutati i parametri di sicurezza ? Come fu possibile non pesare adeguatamente la scarsità di vie di fuga e lo stato di degrado in cui versavano soprattutto le due curve ?

LA COPPA DA "RESTITUIRE" - Un altro nodo è quello del "valore" di quella Coppa. Su questo punto sono in disaccordo con l'autore, che parla di "slogan" e di "strumento di polemica" riferendosi alla periodiche richieste, rivolte alla Juve, di restituire il trofeo perché "sporco di sangue". Sono personalmente convinto che, ancora oggi, la restituzione sarebbe un gesto di grandissimo spessore, e anzi più passa il tempo più tale gesto assumerebbe un valore simbolico gigantesco, come messaggio educativo di forte impatto rivolto soprattutto alle nuove generazioni di tifosi. Del resto, quella partita era iniziata come gara disputata per ragioni di ordine pubblico e fu in effetti giocata a lungo a ritmi accademici; ancora non mi è del tutto chiaro cosa sia accaduto, nell'intervallo, per farla diventare una gara vera, combattuta, con tanto di consegna finale del trofeo (ma negli spogliatoi). Trofeo che, come è ovvio e naturale, non può rappresentare alcun motivo di vanto, non arricchisce la bacheca, è solo una ferita perennemente aperta per il club bianconero, per tutto il calcio italiano, per l'umanità. Fonte: Notedazzurro.blogspot.it © 17 luglio 2015 Fotografie: Juventus Club Sora © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Quella notte all’Heysel, il reportage di Emilio Targia

"Per 30 anni il dito ha indicato la luna e tutti hanno guardato il dito". Emilio Targia, caporedattore di Radio Radicale, racconta da sopravvissuto quella notte del 29 maggio del 1985 in cui 39 persone persero la vita allo stadio Heysel di Bruxelles. "La storia di quella tragedia è stata travisata dall’odio calcistico ed è stata letta in modo superficiale". Emilio parla della riduzione dei fatti accaduti a un ennesimo scontro tra anti juventini e supporter bianconeri, con un sempre verde polemica sulle esultanze dei giocatori della formazione torinese: "Pochi hanno sottolineato invece la responsabilità della Uefa che ha organizzato la partita in uno stadio che cadeva a pezzi, del Belgio che ha schierato pochi agenti e male, e dei tifosi inglesi violenti". Nel libro "Quella notte all’Heysel", edito da Sperling & Kupfer, l’autore riapre il cassetto dei ricordi: i diari scritti subito dopo l’orrore, l’audio impresso su un registratore e le immagini della cinepresa super 8. Aveva solo 18 anni ma già due grandi passioni, la Juve e il giornalismo. "Le ore che hanno preceduto l’incontro con il Liverpool, e quel che accadde nello stadio di Bruxelles, fanno parte di me. Vorrei fondere quelle sensazioni con i dettagli di ciò che ho confusamente registrato. E raccontare i ricordi dei sopravvissuti. Per restituire il dolore e il senso di tradimento che quella notte ci precipitò addosso". Fare manutenzione della memoria è l’intento dichiarato del libro. Il trentennale celebrato pochi giorni fa ha avuto la giusta eco mediatica, l’importante però è non dimenticare anche durante il resto dell’anno: "Voglio occuparmi dell’Heysel dal 30 maggio al 28 dello stesso mese dell’anno successivo, quindi da domani con ancora più intensità". Evitare così che il termine "Heysel" nel tempo si polverizzi, disperdendo il contenuto doloroso e tragico di quel che evoca. Informare, ricordare, raccontare. Provare a immergere il lettore in quel sogno innocente di vittoria che diviene di colpo incubo. Provare a seminare anticorpi contro le banalità e le volgarità pronunciate in questi 30 anni da chi sa poco o nulla di quella notte. Emilio con il suo zoom dal settore di fronte alla curva Z ha visto quello che stava accadendo e conferma: "La polizia era poca e mal preparata. Io ho visto sei o sette agenti. Erano di più all’esterno pensando che il rischio fosse fuori. La sicurezza interna pari a zero, quindi sono entrati molti tifosi senza biglietto ed equipaggiati di tutto punto tra bastoni, bottiglie, pezzi di ferro, cose che potevano prendere benissimo in un cantiere vicino allo stadio aperto e incustodito".

I tifosi juventini andati a Bruxelles con la speranza di festeggiare trovarono una morte orribile, travolti dalla furia degli hooligans inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre o precipitati dalle gradinate, poco prima che iniziasse la partita. I tifosi furono costretti ad arretrare e a cercare altre vie di fuga, fino a provocare il crollo di un muretto. Morti, però, anche per l’inadeguatezza dell’Heysel e dei servizi di sicurezza. Un’ora e mezza dopo la strage l’incontro più surreale della storia del calcio cominciò lo stesso "per motivi di ordine pubblico". E i bianconeri vinsero quella maledetta coppa. Le polemiche sui festeggiamenti vengono ridimensionate da Emilio: "Il pugno di Platini dopo il rigore può essere interpretato anche come un gesto di rabbia o uno sfogo, comunque un atleta si trova in una condizione di trans agonistica. A incontro terminato la Uefa chiese ai giocatori di andare sotto la curva e stare lì il tempo necessario per far uscire dallo stadio gli inglesi. E sulle scalette dell’aereo alzarono la Coppa perché furono i fotografi stessi a chiederlo. Perché parlare di questo e non degli assassini ?". Nel volume, oltre al racconto dettagliato, c’è un’appendice con una rassegna stampa e alcune testimonianze. La prefazione è firmata da Sandro Veronesi che scrive: "Io quella sera sottovalutai quanto accadde. Ero di fronte alla tv, mi hanno detto che parlarono di morti, ma io forse non volli neanche capirlo". Antonio Cabrini, che quella notte era in campo e firma invece la postfazione, spiega che "chi oggi insulta negli stadi italiani le vittime dell’Heysel lo fa perché è ignorante. Perché non sa, né capisce o immagina il dolore. Quel dolore. Ma non c’è solo il tema dell’Heysel al centro di alcuni cori o come oggetto di alcuni striscioni. Il tema della violenza verbale - e scritta - di alcune curve di tifosi in Italia è tornato infatti prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nelle ultime settimane, dopo che nella curva sud dello stadio Olimpico di Roma erano stati esposti alcuni striscioni contro la mamma del giovane tifoso napoletano ucciso prima della finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina. E il problema della violenza torna d’attualità dopo quel che è accaduto nel derby di Torino, con il bus della Juventus preso a sassate e l’esplosione di una bomba carta all’interno dello stadio comunale". Segno che i provvedimenti messi in campo negli ultimi anni da parte dei Governi non sono stati incisivi: "Alcuni passi in avanti sono stati fatti ma non siamo certo al livello della situazione inglese. La tessera del tifoso non serve se non c’è la possibilità di individuazione elettronica cosa che funziona, al momento, solo allo Juventus Stadium".  Fonte: Sportstory.it © 5 giugno 2015 Fotografie: Sperling & Kupfer © Emilio Targia © Icona: Itcleanpng.com ©

Il ricordo

La notte che Andrea morì con papà

di Stefano Caselli

"Ci sono dei morti". Chi è - o è stato - appassionato di calcio e ha almeno 40 anni o giù di lì, non potrà mai dimenticare quelle parole. Le pronunciò Bruno Pizzul, poco prima delle 20, dopo una lunga pausa, con la sua inconfondibile voce graffiata da qualche Marlboro di troppo. Le pronunciò in diretta, su Raiuno, dal gabbiotto dello stadio Heysel di Bruxelles la sera del 29 maggio 1985 a milioni di italiani. E la notte si gelò. Poi i morti li vedemmo, per giorni e giorni, in tv e sui giornali. Allora i media erano meno attenti a non mostrare e pubblicare immagini "sensibili". Vedemmo quei morti e per noi che cominciavamo ad amare il calcio in quei meravigliosi (calcisticamente parlando) primi Anni 80 fu la rottura di una magia, un opprimente sipario nero calato sul palco di emozioni che sapevano regalarti solo l’ingresso allo stadio lungo scale di calcestruzzo mano nella mano col papà, la visione improvvisa di un prato verde e scintillante davanti a spalti sottili gremiti di gente in piedi, tra sciarpe e bandiere. Tante. Di qualunque colore fossero. Perfino l’odore del fumo delle sigarette - anche se sei ormai adulto e fumatore - può riportarti con prepotenza a quei pomeriggi di festa. L’assassinio della magia è il tema portante di "Quella notte all’Heysel", di Emilio Targia, uno dei numerosi libri usciti in questi giorni per celebrare il triste anniversario dei 39 morti del Settore Z. Emilio, giornalista di Radio Radicale, quella notte c’era. E per puro caso (grazie alla spasmodica ricerca dei biglietti riuscì a procurarsene due per due distinti settori dello stadio) non entrò nel settore Z. Scelse la curva opposta, quella del tifo "caldo" juventino. Prima, il racconto della magia che va a morire. La semifinale vista in tv, l’attesa per il 29 maggio, la ricerca dei biglietti, la partenza da Roma con l’amico Giampiero, i dialetti di tutta Italia su quel treno per Bruxelles, la città, il cammino verso lo stadio e l’ingresso, il prato verde, il tramonto, il mare delle bandiere, il vibrare dei cori. Tutto perfetto per "la più bella delle partite". POI L’INCREDIBILE. Che ancora oggi sembra difficile raccontare e immaginare. Dalla curva opposta a quella di Emilio un’onda rossa di hooligans, incredibilmente a diretto contatto con i tifosi della Juventus, attacca il settore Z. La gente fugge, impaurita, si accalca e spinge come una marea incontrollabile fino al vicolo cieco chiuso da un muretto fatiscente e da una cancellata arrugginita. Muro e cancello cadranno sotto il peso dei corpi. Chi non muore prima soffocato, morirà calpestato. Emilio vede tutto e ci riporta dentro quello stadio, trent’anni dopo. E poi fuori, a vagare per Bruxelles, prima a piedi, in silenzio, poi sulla macchina di un emigrato italiano (napoletano, dr.) che raccoglie lui e Giampiero nella notte e che, prima di offrire un telefono e un letto, comunica loro l’enormità: 39 morti. Quindi il ritorno all’Heysel, un mazzo di fiori sulle macerie sfidando la sicurezza, il viaggio di ritorno e le prime lacrime. In treno. Due giorni dopo. Di quelle 39 vite, Targia sceglie di raccontarne una sola, anzi due: Andrea Casula, 11 anni e suo padre Giovanni. Quella notte muoiono entrambi, Andrea abbracciato a papà che tenta disperatamente di difenderlo. Sarebbe bello che chi ancora oggi intona cori sull’Heysel si ricordasse del volto di un bambino di undici anni e del corpo di un padre che soffoca insieme a lui per tentare di salvarlo. Sarebbe bello, ma non accadrà. Fonte: Il Fatto Quotidiano © 29 maggio 2015 Fotografia: L'Unione Sarda Icona: Itcleanpng.com ©

 

Un libro racconta il dramma 30 anni dopo

Hooligans, alcol, follia: "Quella notte all’Heysel"

di Giuseppe Pollicelli

Emilio Targia deve avere cominciato a elaborarlo, questo suo libro sulla strage dell’Heysel, già il 29 maggio del 1985. Di sicuro, da allora, non è trascorso un giorno senza che rivolgesse almeno un pensiero a quanto è accaduto trent’anni fa nello stadio di Bruxelles (ribattezzato nel frattempo Re Baldovino), consentendo così alla sua memoria di mantenersi perfettamente viva. Non solo consentendo, ma anzi obbligandola a non appannarsi: perché ricordare, in casi come questi, diventa un dovere civile. Targia ha lasciato decantare dentro di sé tutti i frammenti della sua traumatica esperienza di testimone oculare e, dopo tre decenni, ne ha fatto scaturire un diario tanto doloroso quanto necessario, che è al tempo stesso rievocazione e monito: Quella notte all’Heysel (Ed. Sperling & Kupfer, pp.176, euro 14,90). Caporedattore di Radio Radicale, romano ma innamorato della Juventus, Targia nel maggio del 1985 ha diciott’anni e un desiderio sopra ogni altro: andare a Bruxelles e assistere, la sera del 29, alla finale di Coppa dei Campioni tra la sua Juve e il fortissimo Liverpool di Rush, detentore del trofeo. Un’aspirazione che corona grazie all’interessamento di un amico torinese, il quale riesce a procurargli due posti in curva, nel settore N. Quello di Targia è il racconto di un lento franare nell’abisso e della progressiva presa di coscienza di questa discesa inesorabile. Nel libro si descrivono i tanti segnali grandi e piccoli, alcuni simili a premonizioni, che trasmettono all’autore un’inquietudine crescente: gruppi di hooligans del Liverpool già dal pomeriggio girano per la città imbottiti di birra, carenze dei belgi a livello organizzativo, servizi di sicurezza che subito appaiono inadeguati, vari tifosi in possesso di biglietti probabilmente falsi e altri che, allungando venti franchi a chi dovrebbe controllare, entrano in tribuna con un ticket di curva: "Mi sale dentro un senso di angoscia. Leggera, ma velenosa", scrive Targia. E poi il deflagrare del dramma. Nell’altra curva, precisamente nel settore Z, orde di hooligans iniziano a caricare come belve impazzite i tifosi della Juve. Targia assiste da lontano a quelle scene orribili, impotente, accrescendo il proprio sgomento con l’ausilio di un binocolo. Il resto è noto: la finale che inizia con enorme ritardo, alle 21.42, e viene giocata per volere dell’Uefa; una partita surreale e anomala, conclusasi con la vittoria per 1-0 della Juve; i festeggiamenti allucinati dei giocatori juventini. E i 39 morti, 32 dei quali italiani e, fra questi, un undicenne di Cagliari, Andrea Casula, e il suo papà 43enne. Anche attraverso le testimonianze di protagonisti e sopravvissuti inserite in appendice al volume, Targia formula la sua preghiera laica e chiede che l’Heysel smetta di essere - come ancora oggi assurdamente è - una tragedia di parte, una tragedia "tifosa", per divenire lutto nazionale da vivere con cordoglio unanime. Intanto, il prossimo 6 giugno, la Juve disputerà contro il Barcellona la sua ottava finale di Champions League. In caso di vittoria, non solo gli juventini, ma l’Italia migliore saprà a chi dedicare il trionfo. Fonte: Libero © 29 maggio 2015  Fotografia: Guerin Sportivo © Salvatore Giglio © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Quella notte all’Heysel

di Sebastiano Del Rosso

Appena l'arbitro sancisce la fine di Bordeaux-Juventus, tutto il popolo bianconero scoppia in un grido di giubilo. Sono riusciti a raggiungere la finale di Coppa dei Campioni. Festeggiano anche Giampiero ed Emilio, juventini doc. E il mattino dopo sono già proiettati al 29 maggio: devono assolutamente accaparrarsi il biglietti per la finale di Bruxelles contro il Liverpool. Così comincia la ricerca, che è più difficile del previsto: sono moltissime infatti le persone che vogliono godersi dal vivo quello spettacolo memorabile e i biglietti si stanno esaurendo. Le richieste superano di dieci volte la capienza del piccolo stadio dell’Heysel. Comunque, grazie all'aiuto di alcuni conoscenti, riescono finalmente a trovare un tagliando per i settori M-N-O. Iniziano i preparativi per quella che sarà una notte di festa: Emilio e Giampiero si informano solo come due tifosi accaniti possono fare: precedenti, statistiche e via dicendo. Mettono anche a punto un programma per visitare la città, che di certo sarà blindata: la settimana prima infatti a Bruxelles è prevista la presenza del Papa e c’è massima allerta. Sicuramente anche per la partita sarà lo stesso. Arrivati nella capitale belga il fatidico giorno, si accorgono che si sbagliano di brutto... Cronaca di una tragedia annunciata: con il senno di poi, la tragedia dell’Heysel del 29 maggio 1985 è riassumibile così. Ed Emilio Targia, giornalista di fede juventina, non fa che confermare questa tesi. Lui che quella notte l’ha vissuta in prima persona, che ha visto con i suoi occhi il crollo del famigerato muro e sentito le urla dei tifosi. Ma perché parlare di tifoserie quando accadono queste cose ? Forse la tragedia sarebbe stata minore se a morire fossero stati coloro che quel pomeriggio sventolavano bandiere rosse e non bianconere ? La morte non fa distinzione né di razza né di religione, figuriamoci di tifo calcistico. È un libro scritto con una rabbia sopita ma mai dimenticata, la rabbia che ancora oggi tormenta le coscienze e ci fa domandare come sia potuta avvenire una cosa simile. Già, come ? A trenta anni di distanza non è del tutto chiaro. Di chi sono le colpe principali ? Del Ministero degli Interni che ha organizzato male la sicurezza allo stadio ? Degli hooligan del Liverpool che hanno invaso il settore Z ? Dopo aver letto il libro viene un dubbio: che gli ultrà siano stati lasciati appositamente soli, per trasformarli nel capro espiatorio delle intollerabili falle da parte della organizzazione belga. Con il Papa tutto funzionò efficientemente, possibile che non abbiano saputo gestire qualche migliaio di persone dentro e fuori uno stadio ? Fonte: Mangialibri.com © 29 maggio 2015 Fotografia: Sportmagazine.be © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Recensione del libro: "Quella notte all'Heysel" di Emilio Targia

di Caterina Baffoni

Il 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, è un pomeriggio di luce e bandiere che sembra scandire alla perfezione il conto alla rovescia prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, la partita delle partite. Il sogno di ogni tifoso. Emilio ha diciotto anni e ce l’ha fatta: è lì, con il biglietto per entrare allo stadio, insieme all’amico di una vita, Giampiero. Oltre all’eccitazione e all’entusiasmo porta con sé un piccolo registratore e una cinepresa super 8, perché ha già deciso che da grande farà il giornalista. Nello stadio, tra canti e battiti di mani, c’è una chimica speciale che assomiglia a un incantesimo. Poi il silenzio. Emilio Targia, sopravvissuto all’incubo di quella notte all’Heysel, racconta ciò che ha visto, che ha sentito, i suoi ricordi, fissati anche su una pellicola e su un nastro magnetico, e prova a sciogliere nell’inchiostro memoria, rabbia, dolore e paura. Oggi, Emilio Targia, giornalista professionista dal 1997, è caporedattore di Radio Radicale e membro del Comitato Scientifico del portale "Art Wireless" e della direzione artistica del festival "Collisioni" di Barolo, ci sprona a leggere questo libro così coinvolgente e sincero per un semplice motivo che sta alla base delle 175 pagine: non dimenticare. "Perché senza memoria saremmo luci spente. Perché la memoria è un lavoro. Una scelta. Ha bisogno di manutenzione e di amore, e questo spetta a tutti e a ciascuno individualmente. Fatelo, allora, quel nodo al fazzoletto". Queste le parole di Emilio Targia, grande giornalista e tifoso, che ha fatto il nodo per ricordare e ricordarsi "Quella notte all’Heysel", che è diventato il titolo del suo libro, scritto da vero giornalista, ma anche da testimone diretto della tragedia di Bruxelles. Targia c’era, era un tifoso con il sogno di diventare giornalista, e l’elaborazione dei suoi ricordi scorre come un diario personale, un fiume in piena di emozioni, quasi un romanzo. Ma non è solo un bel libro il suo, è un libro importante, un libro da leggere e da far leggere soprattutto a tante generazioni di bambini. Perché "moltissimi italiani (e molti media) si ostinano a considerare le vittime dell’Heysel solo come "juventini" e non come connazionali e come persone. Questo mina in modo imperdonabile il peso reale della tragedia belga, perché la riduce a un fatto calcistico e la relega in una dimensione sbagliata e giusta". Lo leggeranno in molti, purtroppo è probabile non quelli che dalle tribune degli stadi continuano a insultare la memoria dell’Heysel e di vittime che non erano tifosi juventini, ma tifosi e basta. E un tifoso non deve morire in uno stadio.

"Si sentono urla, dal settore Z. Gente che fugge. Non c’è più nessuna bandiera. Un vociare scomposto e molto strano, e grida, e rumori sconosciuti. Poi, d’improvviso, solo silenzio". Si fondono così quelle sensazioni con quei dettagli così unici che ha confusamente registrato. L'autore vuole portarci all'attenzione i ricordi dei sopravvissuti per restituire il dolore e il senso di tradimento che quella notte gli precipitarono addosso. Il libro nasce dall’esigenza dell’autore, sopravvissuto a quella notte di follia, di "liberare un file", perché la mente umana a volte da sola non basta, a ricordare tutto. E purtroppo, a volte non vuole. Si tratta di un racconto dettagliato di quella notte, e dei giorni che la precedettero e che la seguirono. Un racconto dedicato ad Andrea, la vittima più giovane. Un’appendice con una rassegna stampa e alcune testimonianze. All'interno vi sono una prefazione di Sandro Veronesi, allora davanti alla tv, e una postfazione di una leggenda bianconera come Antonio Cabrini, allora in campo. La "mission" del libro è quella di fare manutenzione di memoria, ed evitare che il termine "Heysel" nel tempo si polverizzi, disperdendo il contenuto doloroso e tragico di quel che evoca. Informare, ricordare, raccontare. Provare a immergere il lettore in quel sogno innocente di vittoria che diviene improvvisamente un incubo. Emilio vuol tentare anche di provare a seminare anticorpi contro le banalità e le volgarità pronunciate in questi 30 anni da chi sa poco o nulla di quella notte all’Heysel. Il trentennale dalla strage di Bruxelles infatti offre una preziosa occasione ai media per provare a ripercorrere quelle drammatiche ore. Non dimenticare è un dovere civile. Lo è altrettanto provare a capire cosa si sarebbe dovuto fare in questi anni e cosa invece non è stato fatto. Se quella "lezione" è divenuta semplice lettera morta. E per colpa di chi. Chi non era all’Heysel, racconta l'autore del libro, difficilmente capisce perché quella partita si è giocata. Difficilmente può immaginare la "bolla" in cui tutti erano finiti, scioccati, increduli, confusi e spaventati. Provare a capire senza giudicare, può essere una risorsa. L’autore, che oggi è un giornalista, può farsi strumento per tutto questo. Ricordando, raccontando, rispondendo a qualunque domanda su quella notte e su questi 30 anni.

Lo sconforto, la rabbia e la disillusione espresse in queste pagine sono tutte sensazioni palpabili e dolorose, ma capaci di mantenere viva la memoria al di là di qualsiasi ipocrita demagogia. Emilio è come se ci prendesse per mano in questo cammino appassionato e commovente, rendendoci partecipi di una notte "assurda". E' altrettanto lecito sottolineare come il tema Heysel si ricongiunge con l’attualità di queste settimane, ed è proprio il pensiero del campione del mondo Antonio Cabrini secondo il quale chi insulta negli stadi italiani le vittime dell’Heysel lo fa perché è ignorante. Perché non sa, né capisce o immagina il dolore. Quel dolore. Ma non c’è solo il tema dell’Heysel al centro di alcuni cori o come oggetto di alcuni striscioni. Il tema della violenza verbale e scritta di alcune curve di tifosi in Italia è tornato infatti prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nelle ultime settimane, dopo che nella Curva Sud dello stadio Olimpico di Roma erano stati esposti alcuni striscioni addirittura contro la mamma del giovane tifoso napoletano ucciso a Roma lo scorso anno prima della finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina. E il problema della violenza torna di forte attualità dopo quel che è accaduto nel derby di Torino, con il bus della Juventus preso a sassate e l’esplosione di una bomba carta all’interno dello stadio comunale. Oltre ad altri episodi spiacevoli in altre città italiane. Ecco che la questione del rispetto, della memoria, della civiltà e della responsabilità torna prepotentemente alla ribalta. Occorre dibatterne subito, risalire con chiarezza alle radici del problema e cercare di estirparne tutte le problematiche relative a questi scempi. Si tratta di una lettura stimolante che fa bene al cuore, scritta da un testimone diretto, che cerca di comprendere e filtrare ai lettori il significato dell' assurda morte di 39 persone innocenti durante una manifestazione che dovrebbe in realtà essere la pacifica dimostrazione della bontà e dell'innocenza della passione sportiva. Fonte: Tuttojuve.com © 27 maggio 2015 Fotografia: Sky © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Quella notte all’Heysel - Emilio Targia

di Mario Bonanno

Ho quasi pudore a scrivere di "Quella notte all’Heysel" di Emilio Targia. Ho pudore perché è un libro nero, listato a lutto. Racconta di gente che muore a una partita di calcio. E di gente che muore a una partita di calcio è terribile parlare, figurarsi scriverne. Ho pudore perché la finale di Coppa dei Campioni del 29 maggio 1985 si incista ancora tra i miei ricordi più accesi. All’Heysel di Bruxelles la Juventus si giocava col Liverpool il trofeo più importante della stagione. Non ero allo stadio: ero tra quelli che credevano di tifare alla televisione e a un certo punto si sono trovati a guardare in faccia la morte in diretta. Sono stato di quelli che non hanno capito. Non subito, non fino in fondo. Sono stato tra quelli che ha persino esultato al rigore di Platini e non trovo giustificazioni per quel gesto, se non nella fede cieca per la mia squadra di calcio e nell’immaturità dei miei vent’anni. Per quest’ultimo fatto non provo pudore, piuttosto vergogna. "Quella notte all’Heysel" (Sperling & Kupfer, 2015) ha una copertina agghiacciante. Una scarpa da tennis sbavata di sangue evoca l’orrore consumato quella notte. La cruda realtà dell’Heysel, 30 anni esatti tra una manciata di giorni. "Quella notte all’Heysel" non è un saggio e non è un romanzo. Lo ha scritto il giornalista Emilio Targia sul filo di ricordi dolorosi (lui c’era all’Heysel. Del massacro della curva Z ha udito le "voci" e assistito alle scene) ed è per questo che "Quella notte all’Heysel" non è un saggio e non è nemmeno un romanzo. Non-fiction, si usa scrivere oggi. Della specie più lancinante e necessaria. Come risulta necessario, delle volte, ricordarsi di ricordare. La cronaca dei fatti che vorresti obliare e sai che invece non si può e non si deve. Per cui lo sguardo dell’autore ti inchioda e si mantiene fermo a sua volta. Prima-durante-dopo il 29 maggio del novecentottantacinque in un libro. Stazioni inestricabili di un’ontologia che attraversa molteplici stati d’animo che è persino retorico elencare. Ho come l’impressione che "Quella notte all’Heysel" deve essere costato molto al suo autore. Un libro così non lo scrivi a cuor leggero, un libro così lo scrivi per dovere: per te stesso e per i morti (39) nel crollo del settore Z, dopo la carica degli inglesi. I morti con le sciarpe dei tuoi stessi colori: bianco e nero a un certo punto chiazzati di rosso. "Quella notte all’Heysel" può essere assunto, allora, come la cronaca di una tragedia sotto molti aspetti annunciata (gli hooligan imperversano e la polizia sta a guardare). Cento pagine e spiccioli accorate. Con una corposa appendice che annovera le opinioni di chi c’era. Arbitro, calciatori, dirigenti, giornalisti. Tifosi e parenti delle vittime, legati al filo rosso e trasversale di un dolore atroce, che non passa mai. Prefazione e postfazione del volume sono firmate - nell’ordine - da Sandro Veronesi e Antonio Cabrini. Fonte: Sololibri.net © 25 maggio 2015 Fotografie: Emilio Targia © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

 

Un saggio per la notte dell'Heysel, affinché non si dimentichi

L'autore Emilio Targia: è manutenzione di memoria

Roma, 16 mag. (askanews) - "Si sentono urla, dal settore Z. Gente che fugge. Non c'è più nessuna bandiera. Un vociare scomposto, e grida, e rumori sconosciuti. Poi, d'improvviso, solo silenzio". Emilio Targia il 29 maggio 1985 ha diciotto anni ed è lì, dentro lo stadio dell'Heysel, dove la Juventus si gioca la coppa dei campioni con il Liverpool. Ma non sarà una partita e una finale come le altre. Perché la follia degli hooligans porterà la morte negli spalti dei tifosi bianconeri. "Le ore che hanno preceduto l'incontro, e quel che accadde nello stadio di Bruxelles, fanno parte di me - continua l'autore - Vorrei fondere quelle sensazioni con i dettagli di ciò che ho confusamente registrato. E raccontare i ricordi dei sopravvissuti. Per restituire il dolore e il senso di tradimento che quella notte ci precipitò addosso". Nel libro, oltre al racconto dettagliato di quella notte c'è un'appendice con una rassegna stampa e alcune testimonianze. La prefazione è firmata da Sandro Veronesi. Antonio Cabrini, che quella notte era in campo, spiega che "chi oggi insulta negli stadi italiani le vittime dell'Heysel lo fa perché è ignorante. Perché non sa, né capisce o immagina il dolore. Quel dolore". E la mission del saggio edito da Sperling & Kupfer è proprio quella di fare "manutenzione di memoria", come ripete l'autore. "Bisogna evitare che il termine 'Heysel' nel tempo si polverizzi, disperdendo il contenuto doloroso e tragico di quel che evoca. Informare, ricordare, raccontare. Provare a immergere il lettore in quel sogno innocente di vittoria che diviene di colpo incubo. Provare a seminare anticorpi contro le banalità e le volgarità pronunciate in questi 30 anni da chi sa poco o nulla di quella notte". Perché "non dimenticare è un dovere civile". Targia, che è caporedattore di Radio Radicale, e membro della direzione artistica del festival "Collisioni", aggiunge: "Chi non era all'Heysel difficilmente capisce perché quella partita si è giocata. Difficilmente può immaginare la "bolla" in cui tutti noi eravamo finiti, scioccati, increduli, confusi e spaventati. Provare a capire senza giudicare, può essere una risorsa. L'autore, che oggi è un giornalista, può farsi strumento per tutto questo. Ricordando, raccontando, rispondendo a qualunque domanda su quella notte e su questi 30 anni". Targia, poi ammette: "Lo dovevo a me stesso, lo dovevo a chi è stato meno fortunato di me e da Bruxelles non è più tornato. E a chi è tornato ma non è mai riuscito a raccontare, né forse a capire, quel che vivemmo quella notte dentro a uno stadio di cemento marcio. E poi lo dovevo alla memoria. Perché in questi 30 anni la memoria dell'Heysel è stata spesso sporcata, ignorata, calpestata. A volte distorta. E quel settore Z trasformato dagli hooligans in un sudario, è stato troppo spesso vilipeso. O dimenticato. E' indispensabile allora valutare i danni, svelare i colpevoli, e fare manutenzione". Fonte: Askanews.it © 16 maggio 2015 Fotografie: Emilio Targia © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

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