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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL |
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RECENSIONI
STAMPA e
WEB
LIBRO
2015 |
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Quella notte
all’Heysel ...
Impossibile dimenticare
di Carla Marras
Il giorno più triste della storia
bianconera. La notte che ha cambiato il calcio. Quando
sentii per la prima volta la parola "Heysel" ero una
ragazzina, e chiesi a mia madre cosa fosse successo in
quel posto dallo strano nome, avendo appena seguito in
tv un’intervista a Platini. Il giornalista gli chiedeva
pareri su una partita che "non si sarebbe dovuta
giocare". Mi venne spiegato cosa accadde, e alcune cose
non le capivo. Da ragazzino vedi lo sport in un modo
totalmente innocente e non concepisci parole come
"hooligans" o "caricare la folla". Non capisci come
possano essere morte tante persone in uno stadio. Fai
sempre più domande e la più frequente, a cui non ricevi
risposta, è "perché?". Perché tante persone, arrivate
allo stadio per coronare il sogno di vedere la propria
squadra del cuore giocarsi la finale della Coppa dei
Campioni, hanno vissuto l’incubo più nero incontrando la
morte ? Sulla tragedia che ha sconvolto il mondo del
calcio, il cui peso si fa sentire ancora bruciante ogni
29 maggio, sono state spese tante parole. Accuse, scuse,
giustificazioni, tentativi di spiegare qualcosa che
forse poteva essere evitato. Da questo fiume di parole,
che ancora oggi non si arresta, la corrente mi porta uno
dei libri più toccanti che siano stati scritti
sull’argomento. Emilio Targia, che quella notte
infernale era all’Heysel, ha deciso di raccontare la sua
esperienza. A distanza di trent’anni il ricordo è
vivido. Fa male e va a pungolare una ferita ancora
aperta. Con le sue parole semplici e delicate,
ricordando le sensazioni e l’emozione che solo un
ragazzo che ama profondamente la sua squadra conosce,
riesce a descrivere con incredibile umanità e
delicatezza tutto ciò che accadde, con l’acutezza di un
giornalista e allo stesso tempo l’emozione di un tifoso.
Nessun dettaglio viene risparmiato, dalla ricerca al
cardiopalma dei biglietti (quasi introvabili) per la
partita, alla gioia immensa e l’agitazione per la
partenza verso quello che sarebbe stato, per un’unica
notte, il tempio del calcio. La maestria nel raccontare,
porta il lettore a provare le stesse sensazioni del
narratore, cosicché quando si arriva nella zone dello
stadio, si arriva quasi a provare la stessa emozione che
prova lui. Ma, già al momento di entrare all’interno
dello stadio si inizia a percepire che qualcosa non sta
andando per il verso giusto, tanto che Emilio e il suo
amico riescono all’ultimo a cambiare settore,
rinunciando ai biglietti del settore Z in favore di
quelli M N O. A posteriori, una vera fortuna, che
l’autore però non rimarca e non definisce neanche tale,
perché il suo cuore è rimasto lì, sulla zolla di prato
davanti al settore Z, dove suoi connazionali hanno perso
la vita, nell’incubo che è seguito al sogno. Pochi
minuti dopo, l’inferno. I tifosi inglesi, che occupavano
la zona centrale della curva e la parte adiacente alla
tribuna d’onore, cominciano a inveire contro i tifosi
juventini con cori e sfottò, per passare poi alla
pioggia incessante di lattine, bottiglie, calcinacci,
bastoni. Un vero e proprio assalto che di lì a poco
sarebbe sfociato in tragedia. Il racconto di Targia è
preciso, sentito e accorato, ma mai vittimista.
Mantiene una visuale, nonostante tutto,
oggettiva, senza per questo soffocare le emozioni o
farsi prevaricare da esse. Un libro consigliato
caldamente a tutti i lettori, sportivi e non. Per
chiunque voglia saperne di più attraverso il punto di
vista di chi ha vissuto la tragedia. Il consiglio è dato
soprattutto per abbattere il muro di ignoranza che, su
questa vicenda, è ancora alto. Per andare oltre le
tante, troppe parole a vanvera che gli vengono dedicate
per circostanza ogni 29 maggio.
Fonte:
Inmediarex.it © 23 marzo
2017
Fotografie: Sperling
&
Kupfer
© Emilio Targia ©
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Icone: Itcleanpng.com ©
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Emilio Targia: la responsabilità
della #manutenzionedimemoria
di Imma Tropiano
Se ti ritrovi a fare un giro sulla
pagina social di Emilio Targia trovi un hastag
spiazzante #manutenzione di memoria.
Una mission racchiusa in tre parole
e che bastano a trarre i contorni di quello che è
"Quella notte all’Heysel", la fatica letteraria dello
scrittore romano, con la quale Targia ricompone i
frammenti di memoria, la sua, legati a quel 29 maggio
1985. Una data che rimanda tifosi di calcio e non solo
allo Stadio Heysel, finale Coppa dei Campioni tra
Juventus e Liverpool, quando una partita definita sogno
per gli amanti del calcio con la maiuscola entra di
prepotenza nelle pagine di cronaca e da allora è stata
raccontata e riscritta da più autori, testimoni o meno.
Con un rischio, ci dice Targia "La memoria è una
faccenda complicata. Ho ripescato, da testimone, questa
storia per ridare un po’ di luce a quello che secondo me
si era un po’ disperso".
Fonte:
Laredazione.eu © 9 settembre
2016
Fotografia: Emilio
Targia ©
Icona: Itcleanpng.com ©
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"Quella notte all’Heysel" di Emilio
Targia
Heysel non è "solo" una strage di
juventini: è una pagina nera dello sport.
di Felice Laudadio
Emilio ha ragione: Heysel non è più
uno stadio, come Vajont non è più una diga, Ustica non è
più un’isola, Italicus non è più un treno. Heysel è un
buco nero del calcio mondiale. Emilio Targia,
quarantotto anni, è un giornalista romano, caporedattore
a Radio Radicale. Era a Bruxelles quel 29 maggio 1985,
nel tardo pomeriggio. Non ha dimenticato ed è convinto
che non si deve dimenticare, per questo ha scritto
"Quella notte all’Heysel", un libro che va dritto al
cuore, pubblicato da Sperling & Kupfer (176 pagine,
14,90 euro) nel trentennale di un eccidio che la guerra
tra tifoserie ha derubricato cocciutamente a
disavventura solo bianconera, morte di juventini, come
se non fosse una tragedia italiana senza precedenti (ci
sono supporter fiorentini che sfoggiano striscioni e
magliette "39 di meno" o "meno 39"). Heysel non è più
uno stadio, resterà per sempre sinonimo di strage, di un
evento che non avrebbe mai dovuto verificarsi e che
sarebbe stato facilmente evitabile. Sarebbe bastata più
accortezza, più professionalità da parte delle forze
dell’ordine belghe. Ed anche meno avidità, il dolo di
chi ha venduto ad italiani i biglietti del Settore Z
dello stadio dove si sarebbe giocata la finale della
Coppa dei Campioni europea di calcio 1985,
Liverpool-Juventus. Quella curva era destinata a
ospitare i tifosi inglesi, gli hooligans, seminudi, resi
subumani dall’alcool bevuto come acqua, più litri di
birra in corpo che neuroni in testa. Giorni prima, il
tifosissimo bianconero de Roma Emilio Targia, appena
diciottenne stentava con l’amico Giampiero a procurarsi
i tagliandi per entrare nel vecchio impianto della
capitale belga. Tutto esaurito fin dal 2 maggio. Poi la
notizia che a Bruxelles un conoscente disponeva di due
biglietti del Settore Z. Ma ecco che da Torino un amico
compie il miracolo: "in tribuna è impossibile, ma se
volete andare con gli juventini nel Settore M-N-O, non
c’è problema". Il tifo spinge i due ragazzini verso la
curva dei compagni di fede calcistica. Forse, devono la
vita alla passione per i colori bianconeri. La tragedia
l’hanno vista dall’altra parte del campo, opposta alla
curva dove trentanove uomini, donne, ragazzi (32
italiani, 4 belgi, 2 francesi, 1 irlandese) ed altre
tremila persone vennero calpestate, schiacciate,
soffocate dalla massa dei tifosi bianconeri
terrorizzati, travolti da ondate di hooligans,
incrudeliti dalla mancanza di reazione di quella gente
inerme. Tutto a cominciare dalle 19,08, senza che la
polizia belga accennasse una reazione. Solo cinque gli
agenti in curva tra i settori Z e X-Y.
Trentanove
persone avevano acquistato un biglietto verde pallido,
tendente al grigio. Sembrava l’invito a una festa, era
un pass per l’inferno. Sopra c’era stampato in francese
che l’organizzazione declinava ogni responsabilità per
incidenti di qualsiasi natura che avessero potuto
determinarsi. Fin dall’arrivo in treno a Bruxelles, la
felicità sportiva di due giovani e la certezza che tutto
sarebbe andato perfettamente in una società evoluta come
quella belga, si scontra con una realtà imprevista,
specie dopo aver raggiunto il vecchio stadio nella zona
dell’Esposizione universale del 1952. Erano sempre più
sorpresi, si aspettavano ordine e competenza, invece si
rendevano conto d’essere precipitati nel medioevo del
calcio. Per non dire dell’Heysel, costruzione Anni
Trenta, vetusto, insicuro, insufficiente, pericoloso,
anche per un semplice evento sportivo, figurarsi per
quell’attesa finale europea e con supporter avversari
ingovernabili come i britannici. Ubriachi dalla mattina,
mostravano occhi spenti, vuoti, terribili. Non vi si
leggeva nemmeno l’attesa per la partitissima cui stavano
per assistere. Alle 20, ora di Bruxelles, 400 milioni di
telespettatori si misero davanti ai teleschermi convinti
di assistere a uno spettacolo di calcio. Si trovarono
collegati in diretta con una guerra, dice Emilio. A
volte, aggiunge, gli incubi si travestono da sogni, ma
sono pronti a rivelarsi per quello che sono: orrore,
dolore e per qualcuno rimorso. Quello ce lo portiamo
dentro noi juventini che abbiamo assistito da casa al
massacro rimuovendolo dalle nostre menti a tutti i
costi, contro ogni evidenza, sordi ad ogni notizia.
Sandro Veronesi, nella prefazione, lo riconosce con
coraggio: è come se avessimo fatto finta di niente e ci
fossimo voltati dall’altra parte, ostinatamente. Noi
volevamo la finale. Volevamo che quella partita si
giocasse, eravamo arrivati tutti a quel risultato, non
potevano strapparcelo. E le squadre scesero in campo,
per giocare e prevenire disordini peggiori. Il fischio
d’inizio, previsto alle 20,15, venne dato alle 21,42.
Grazie Emilio, per il tuo libro che aiuta a capire.
Quella partita per me è finita soltanto ora, trent’anni
dopo.
Fonte:
Classifica-libri.it © 1
Settembre 2015
Fotografia: Sperling &
Kupfer ©
Icona: Itcleanpng.com ©
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Recensioni letterarie: "Quella
notte all'Heysel" di Emilio Targia
30 anni dopo, la strage di
Bruxelles spiegata da chi c'era
di Carlo Calabrò
Sono passati trent'anni dalla più
spaventosa strage che abbia mai funestato il mondo del
calcio, quella dello stadio Heysel di Bruxelles. La più
spaventosa non in senso meramente numerico, ché altre
tragedie in altri impianti hanno preteso tributi anche
più esorbitanti di vite umane, bensì perché quella
orribile mattanza di 39 persone colse tutti di sorpresa:
è vero, la pericolosità dei famigerati hooligans inglesi
era già nota, eppure (o forse proprio per questo, per i
precedenti che avrebbero dovuto mettere in guardia)
nessuno poteva seriamente temere che la situazione
sfuggisse di mano e degenerasse proprio durante uno dei
massimi eventi calcistici mondiali, una di quelle
occasioni in cui l'organizzazione è solitamente
impeccabile, rigorosissima, nulla viene lasciato al
caso, meno che mai l'incolumità degli spettatori in
loco.
MEMORIA CONDIVISA -
Sembra ieri per
chi, come me, all'epoca aveva già un'età che gli
consentiva di capire, perlomeno in parte, la portata di
certi drammatici eventi. Il ricordo è sempre vivo, ma va
costantemente alimentato, soprattutto a vantaggio delle
generazioni più giovani che, se non stimolate alla
ricerca storica, rischiano di vivere nell'ignoranza di
ciò che accadde quel 29 maggio 1985. Invece devono
sapere, e l'Heysel deve diventare memoria condivisa di
un Paese intero, non solo di chi è interessato alle cose
del football. Un buon contributo in tal senso l'hanno
fornito varie opere letterarie: penso soprattutto a "Le
verità sull'Heysel: cronaca di una strage annunciata" di
Francesco Caremani, il giornalista italiano che più si è
adoperato per tenere costantemente i riflettori accessi
sui fatti di Bruxelles, raccontando nel dettaglio anche
la dolorosa vicenda processuale che ne è seguita. Di
impronta diversa è l'ultimo libro uscito sul tema,
"Quella notte all'Heysel" di Emilio Targia, editore
Sperling & Kupfer.
DIARIO DI UN VIAGGIO E DI UN
INGANNO - E' un volume scritto quasi di pancia eppure
lucidissimo, un racconto in presa diretta del prima,
durante e dopo quel giorno nero. Il diario di viaggio di
Targia e del suo grande amico Giampiero, due "juventini
a Roma" che in quel maggio 1985 decisero di seguire
l'adorata squadra nell'avventura fin lì più importante
della sua storia, l'ennesimo assalto alla Coppa dei
Campioni, il trofeo più ambito ma anche il più stregato,
perché troppe volte la Vecchia Signora aveva mancato
l'appuntamento con la gloria, andando incontro a
delusioni anche brucianti: come dimenticare l'imprevista
sconfitta di Atene di due anni prima contro l'Amburgo ?
E' la narrazione di un percorso crudele e menzognero, di
un'ascesa al Paradiso che si trasforma repentinamente in
discesa agli inferi, perché, come scrive l'autore, "ci
sono incubi che si travestono alla nascita: si camuffano
da sogni, e quando poi ti accorgi dell'inganno è troppo
tardi e non puoi farci niente". Sì, perché quella, per
uno juventino come lui, doveva essere "solo" la
costruzione certosina di un sogno, a partire dalla
sofferta conquista della finalissima ai danni del forte
Bordeaux e dalla conseguente, febbrile caccia al
biglietto più agognato di sempre. E poi il viaggio verso
la capitale del Belgio, nel cuore dell'Europa più
civilizzata (sic!), la birra bevuta assieme a un tifoso
del Liverpool, per un piccolo gemellaggio che sembra
foriero di una serata di festa, comunque vadano le cose
sul campo; i primi timori di fronte a un servizio
d'ordine che, attorno allo stadio, sembra manifestare
imbarazzi imprevisti, smentendo il "decisionismo
verbale" sciorinato pomposamente nei giorni precedenti
dalle locali autorità. Il sogno che volge in incubo
brutalmente, quasi all'improvviso, col belluino assalto
dei teppisti britannici agli inermi spettatori del Bloc
Z. Targia assiste allo scempio dalla curva opposta, ove
si percepisce chiaramente la gravità, ma non l'entità
abnorme del dramma che si consuma. E ci si deve affidare
solo alle voci, al tam tam che si diffonde fra i tifosi
e che dilata sempre più il numero delle vittime di quel
vero e proprio atto di guerriglia.
SOLO CHI C'ERA... -
Ecco, l'essenza di questo nuovo libro su quel maledetto
Juve - Liverpool sta proprio in questo delicatissimo
passaggio: le sensazioni, la consapevolezza dei presenti
rispetto a quanto accadeva intorno. Perché se è vero
che, come detto poco sopra, la memoria di certi eventi
luttuosi deve essere condivisa, è anche innegabile che
in troppi, nel tempo, si sono arrogati il diritto di
pontificare sui fatti di quelle ore, fatti comprensibili
e interpretabili (e forse neanche interamente) solo da
chi era fisicamente presente nel vecchio stadio belga.
Lo capì subito, del resto, un giornalista di vasta
esperienza come Italo Cucci, che sul suo Guerin
Sportivo, nel numero successivo alla strage (quello col
titolo di copertina "Olocausto"), scrisse fra le altre
cose: "Tacete, voi che non c'eravate, voi che non avete
vissuto quelle ore di paura..."; il riferimento era a
chi aveva criticato, con accenti demagogici, la
decisione di giocare ugualmente la partita: una scelta,
oggi, pacificamente accettata un po' da tutti, per le
ragioni di salvaguardia dell'ordine pubblico (e
prevenzione di ulteriori, gravi incidenti) in cui
maturò.
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DENTRO UNA BOLLA - Targia lo spiega bene. Lui,
Giampiero e gli altri compagni di tifo sono finiti
"dentro una bolla, in un tempo sospeso, incapaci di
decifrare con esattezza quello che è successo, quello
che sta succedendo e che potrebbe ancora succedere...".
La situazione che quella sera prese corpo all'Heysel fu
tragicamente surreale, luttuosamente contraddittoria.
Qualcosa di troppo complesso, assurdamente complesso,
per poter essere "decrittato", razionalizzato e
metabolizzato in pochi minuti dalla mente umana, anche
dalla più raffinata delle menti. Una situazione in cui
era impossibile capire quale fosse l'atteggiamento più
giusto, corretto, "morale" da assumere. C'era stata una
strage, molti ne erano pienamente consapevoli, ma erano
circondati da decine di migliaia di persone che non
sapevano, o che sapevano solo in parte. E di certo la
disputa dell'incontro, addirittura con carattere
ufficiale, non poté che aggiungere un ulteriore elemento
distorsivo, straniante: come comportarsi di fronte a una
partita di calcio che va in scena in uno stadio
cimitero, un paio di ore dopo una carneficina ? Da una
parte il sangue, i corpi inanimati, dall'altra lo sport,
massima espressione di vita: uno scenario diabolico,
quasi da impazzimento. Risposte definitive nessuno ne
potrà mai dare, ma quella di un testimone diretto come
Targia è sicuramente la più vicina alla verità: la
partita come un diversivo, per allontanare i pensieri da
quell'orrore che altrimenti avrebbe travolto lui e gli
altri, novanta minuti per provare almeno a capire ed
elaborare; e al gol di Platini, un urlo che è
espressione di disagio, impotenza. E' la testimonianza
più sincera e schietta che abbia mai letto, da parte di
chi a Bruxelles era presente: una testimonianza che
spiega molto, se non tutto, perché quando le naturali
debolezze dell'animo umano vengono messe a confronto con
eventi mostruosamente inconcepibili non c'è copione che
tenga e occorre quantomeno cercare di immedesimarsi,
anche se le esultanze dopo la rete del francese e il
tripudio della curva al fischio finale possono, ancora
oggi, far gelare il sangue nelle vene.
IL PICCOLO ANDREA
- Questo è, dicevo, il cuore del libro. Ma c'è anche il
dopo: il ritorno all'Heysel la mattina seguente, il
doloroso viaggio di ritorno, e ancora prima, poco dopo
il match, il solo squarcio di umanità in una notte da
incubo, l'incontro con un volto sconosciuto eppure
caldo, amico. C'è lo struggente ricordo della più
giovane vittima di quella ferocia, il piccolo Andrea
Casula (perì a undici anni, era mio coetaneo): le
strazianti immagini del suo volto violaceo e ferito a
morte, credo oscurate dalla tv italiana ma ben visibili
in diversi documentari di produzione estera, dovrebbero
restare come monito eterno, per chi ancora va allo
stadio con intenti bellicosi e per chi scherza
sull'Heysel, con cori e striscioni osceni che cadono
spesso nell'indifferenza di un popolo narcotizzato,
abituato ad accettare ogni bruttura.
LA SCELTA DELLO
STADIO - Sullo sfondo del libro, rimangono alcuni nodi
non ancora sciolti: in primis la scelta di una struttura
inadeguata e di non eccezionale capienza, per una finale
attesissima. Un argomento a mio parere poco
approfondito, in questi trent'anni: spesso si è parlato
dell'Heysel come di un impianto fuori dal tempo, un
reperto archeologico piombato all'improvviso nel 1985
dal nulla: era invece uno degli stadi preferiti dalla
Federazione europea di calcio, già sede, in precedenza,
di quattro finali di Coppa Campioni, tre di Coppa Coppe
e una di Uefa, nonché dell'atto conclusivo dell'Europeo
per nazioni del 1972 e di buona parte delle gare
ufficiali della Nazionale belga (l'ultima si era
disputata meno di un mese prima di quel fatidico 29
maggio, fu un Belgio - Polonia valevole per le
qualificazioni al Mondiale dell'anno dopo). Era dunque
un impianto utilizzatissimo e conosciutissimo: che
controlli furono fatti in vista di Juventus – Liverpool
? Come furono valutati i parametri di sicurezza ? Come
fu possibile non pesare adeguatamente la scarsità di vie
di fuga e lo stato di degrado in cui versavano
soprattutto le due curve ?
LA COPPA DA "RESTITUIRE" - Un
altro nodo è quello del "valore" di quella Coppa. Su
questo punto sono in disaccordo con l'autore, che parla
di "slogan" e di "strumento di polemica" riferendosi
alla periodiche richieste, rivolte alla Juve, di
restituire il trofeo perché "sporco di sangue". Sono
personalmente convinto che, ancora oggi, la restituzione
sarebbe un gesto di grandissimo spessore, e anzi più
passa il tempo più tale gesto assumerebbe un valore
simbolico gigantesco, come messaggio educativo di forte
impatto rivolto soprattutto alle nuove generazioni di
tifosi. Del resto, quella partita era iniziata come gara
disputata per ragioni di ordine pubblico e fu in effetti
giocata a lungo a ritmi accademici; ancora non mi è del
tutto chiaro cosa sia accaduto, nell'intervallo, per
farla diventare una gara vera, combattuta, con tanto di
consegna finale del trofeo (ma negli spogliatoi). Trofeo
che, come è ovvio e naturale, non può rappresentare
alcun motivo di vanto, non arricchisce la bacheca, è
solo una ferita perennemente aperta per il club
bianconero, per tutto il calcio italiano, per l'umanità.
Fonte:
Notedazzurro.blogspot.it ©
17 luglio 2015
Fotografie: Juventus
Club Sora ©
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Quella notte all’Heysel, il
reportage di Emilio Targia
"Per 30 anni il dito ha indicato la
luna e tutti hanno guardato il dito". Emilio Targia,
caporedattore di Radio Radicale, racconta da
sopravvissuto quella notte del 29 maggio del 1985 in cui
39 persone persero la vita allo stadio Heysel di
Bruxelles. "La storia di quella tragedia è stata
travisata dall’odio calcistico ed è stata letta in modo
superficiale". Emilio parla della riduzione dei fatti
accaduti a un ennesimo scontro tra anti juventini e
supporter bianconeri, con un sempre verde polemica sulle
esultanze dei giocatori della formazione torinese:
"Pochi hanno sottolineato invece la responsabilità della
Uefa che ha organizzato la partita in uno stadio che
cadeva a pezzi, del Belgio che ha schierato pochi agenti
e male, e dei tifosi inglesi violenti". Nel libro
"Quella notte all’Heysel", edito da Sperling & Kupfer,
l’autore riapre il cassetto dei ricordi: i diari scritti
subito dopo l’orrore, l’audio impresso su un
registratore e le immagini della cinepresa super 8.
Aveva solo 18 anni ma già due grandi passioni, la Juve e
il giornalismo. "Le ore che hanno preceduto l’incontro
con il Liverpool, e quel che accadde nello stadio di
Bruxelles, fanno parte di me. Vorrei fondere quelle
sensazioni con i dettagli di ciò che ho confusamente
registrato. E raccontare i ricordi dei sopravvissuti.
Per restituire il dolore e il senso di tradimento che
quella notte ci precipitò addosso". Fare manutenzione
della memoria è l’intento dichiarato del libro. Il
trentennale celebrato pochi giorni fa ha avuto la giusta
eco mediatica, l’importante però è non dimenticare anche
durante il resto dell’anno: "Voglio occuparmi
dell’Heysel dal 30 maggio al 28 dello stesso mese
dell’anno successivo, quindi da domani con ancora più
intensità". Evitare così che il termine "Heysel" nel
tempo si polverizzi, disperdendo il contenuto doloroso e
tragico di quel che evoca. Informare, ricordare,
raccontare. Provare a immergere il lettore in quel sogno
innocente di vittoria che diviene di colpo incubo.
Provare a seminare anticorpi contro le banalità e le
volgarità pronunciate in questi 30 anni da chi sa poco o
nulla di quella notte. Emilio con il suo zoom dal
settore di fronte alla curva Z ha visto quello che stava
accadendo e conferma: "La polizia era poca e mal
preparata. Io ho visto sei o sette agenti. Erano di più
all’esterno pensando che il rischio fosse fuori. La
sicurezza interna pari a zero, quindi sono entrati molti
tifosi senza biglietto ed equipaggiati di tutto punto
tra bastoni, bottiglie, pezzi di ferro, cose che
potevano prendere benissimo in un cantiere vicino allo
stadio aperto e incustodito".
I tifosi juventini andati
a Bruxelles con la speranza di festeggiare trovarono una
morte orribile, travolti dalla furia degli hooligans
inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre o
precipitati dalle gradinate, poco prima che iniziasse la
partita. I tifosi furono costretti ad arretrare e a
cercare altre vie di fuga, fino a provocare il crollo di
un muretto. Morti, però, anche per l’inadeguatezza
dell’Heysel e dei servizi di sicurezza. Un’ora e mezza
dopo la strage l’incontro più surreale della storia del
calcio cominciò lo stesso "per motivi di ordine
pubblico". E i bianconeri vinsero quella maledetta
coppa. Le polemiche sui festeggiamenti vengono
ridimensionate da Emilio: "Il pugno di Platini dopo il
rigore può essere interpretato anche come un gesto di
rabbia o uno sfogo, comunque un atleta si trova in una
condizione di trans agonistica. A incontro terminato la Uefa chiese ai giocatori di andare sotto la curva e
stare lì il tempo necessario per far uscire dallo stadio
gli inglesi. E sulle scalette dell’aereo alzarono la
Coppa perché furono i fotografi stessi a chiederlo.
Perché parlare di questo e non degli assassini ?". Nel
volume, oltre al racconto dettagliato, c’è un’appendice
con una rassegna stampa e alcune testimonianze. La
prefazione è firmata da Sandro Veronesi che scrive: "Io
quella sera sottovalutai quanto accadde. Ero di fronte
alla tv, mi hanno detto che parlarono di morti, ma io
forse non volli neanche capirlo". Antonio Cabrini, che
quella notte era in campo e firma invece la postfazione,
spiega che "chi oggi insulta negli stadi italiani le
vittime dell’Heysel lo fa perché è ignorante. Perché non
sa, né capisce o immagina il dolore. Quel dolore. Ma non
c’è solo il tema dell’Heysel al centro di alcuni cori o
come oggetto di alcuni striscioni. Il tema della
violenza verbale - e scritta - di alcune curve di tifosi
in Italia è tornato infatti prepotentemente sulle prime
pagine dei giornali nelle ultime settimane, dopo che
nella curva sud dello stadio Olimpico di Roma erano
stati esposti alcuni striscioni contro la mamma del
giovane tifoso napoletano ucciso prima della finale di
Coppa Italia Napoli-Fiorentina. E il problema della
violenza torna d’attualità dopo quel che è accaduto nel
derby di Torino, con il bus della Juventus preso a
sassate e l’esplosione di una bomba carta all’interno
dello stadio comunale". Segno che i provvedimenti messi
in campo negli ultimi anni da parte dei Governi non sono
stati incisivi: "Alcuni passi in avanti sono stati fatti
ma non siamo certo al livello della situazione inglese.
La tessera del tifoso non serve se non c’è la
possibilità di individuazione elettronica cosa che
funziona, al momento, solo allo Juventus Stadium".
Fonte:
Sportstory.it © 5 giugno 2015
Fotografie:
Sperling &
Kupfer © Emilio Targia ©
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Il ricordo
La notte che Andrea morì con papà
di Stefano Caselli
"Ci sono dei morti". Chi è - o è
stato - appassionato di calcio e ha almeno 40 anni o giù
di lì, non potrà mai dimenticare quelle parole. Le
pronunciò Bruno Pizzul, poco prima delle 20, dopo una
lunga pausa, con la sua inconfondibile voce graffiata da
qualche Marlboro di troppo. Le pronunciò in diretta, su
Raiuno, dal gabbiotto dello stadio Heysel di Bruxelles
la sera del 29 maggio 1985 a milioni di italiani. E la
notte si gelò. Poi i morti li vedemmo, per giorni e
giorni, in tv e sui giornali. Allora i media erano meno
attenti a non mostrare e pubblicare immagini
"sensibili". Vedemmo quei morti e per noi che
cominciavamo ad amare il calcio in quei meravigliosi
(calcisticamente parlando) primi Anni 80 fu la rottura
di una magia, un opprimente sipario nero calato sul
palco di emozioni che sapevano regalarti solo l’ingresso
allo stadio lungo scale di calcestruzzo mano nella mano
col papà, la visione improvvisa di un prato verde e
scintillante davanti a spalti sottili gremiti di gente
in piedi, tra sciarpe e bandiere. Tante. Di qualunque
colore fossero. Perfino l’odore del fumo delle sigarette
- anche se sei ormai adulto e fumatore - può riportarti
con prepotenza a quei pomeriggi di festa. L’assassinio
della magia è il tema portante di "Quella notte
all’Heysel", di Emilio Targia, uno dei numerosi libri
usciti in questi giorni per celebrare il triste
anniversario dei 39 morti del Settore Z. Emilio,
giornalista di Radio Radicale, quella notte c’era. E per
puro caso (grazie alla spasmodica ricerca dei biglietti
riuscì a procurarsene due per due distinti settori dello
stadio) non entrò nel settore Z. Scelse la curva
opposta, quella del tifo "caldo" juventino. Prima, il
racconto della magia che va a morire. La semifinale
vista in tv, l’attesa per il 29 maggio, la ricerca dei
biglietti, la partenza da Roma con l’amico Giampiero, i
dialetti di tutta Italia su quel treno per Bruxelles, la
città, il cammino verso lo stadio e l’ingresso, il prato
verde, il tramonto, il mare delle bandiere, il vibrare
dei cori. Tutto perfetto per "la più bella delle
partite". POI L’INCREDIBILE. Che ancora oggi sembra
difficile raccontare e immaginare. Dalla curva opposta a
quella di Emilio un’onda rossa di hooligans,
incredibilmente a diretto contatto con i tifosi della
Juventus, attacca il settore Z. La gente fugge,
impaurita, si accalca e spinge come una marea
incontrollabile fino al vicolo cieco chiuso da un
muretto fatiscente e da una cancellata arrugginita. Muro
e cancello cadranno sotto il peso dei corpi. Chi non
muore prima soffocato, morirà calpestato. Emilio vede
tutto e ci riporta dentro quello stadio, trent’anni
dopo. E poi fuori, a vagare per Bruxelles, prima a
piedi, in silenzio, poi sulla macchina di un emigrato
italiano (napoletano, dr.) che raccoglie lui e Giampiero
nella notte e che, prima di offrire un telefono e un
letto, comunica loro l’enormità: 39 morti. Quindi il
ritorno all’Heysel, un mazzo di fiori sulle macerie
sfidando la sicurezza, il viaggio di ritorno e le prime
lacrime. In treno. Due giorni dopo. Di quelle 39 vite,
Targia sceglie di raccontarne una sola, anzi due: Andrea
Casula, 11 anni e suo padre Giovanni. Quella notte
muoiono entrambi, Andrea abbracciato a papà che tenta
disperatamente di difenderlo. Sarebbe bello che chi
ancora oggi intona cori sull’Heysel si ricordasse del
volto di un bambino di undici anni e del corpo di un
padre che soffoca insieme a lui per tentare di salvarlo.
Sarebbe bello, ma non accadrà.
Fonte:
Il Fatto Quotidiano © 29
maggio 2015
Fotografia: L'Unione
Sarda
Icona: Itcleanpng.com ©
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Un libro racconta il dramma 30 anni
dopo
Hooligans, alcol, follia: "Quella
notte all’Heysel"
di Giuseppe Pollicelli
Emilio Targia deve avere cominciato
a elaborarlo, questo suo libro sulla strage dell’Heysel,
già il 29 maggio del 1985. Di sicuro, da allora, non è
trascorso un giorno senza che rivolgesse almeno un
pensiero a quanto è accaduto trent’anni fa nello stadio
di Bruxelles (ribattezzato nel frattempo Re Baldovino),
consentendo così alla sua memoria di mantenersi
perfettamente viva. Non solo consentendo, ma anzi
obbligandola a non appannarsi: perché ricordare, in casi
come questi, diventa un dovere civile. Targia ha
lasciato decantare dentro di sé tutti i frammenti della
sua traumatica esperienza di testimone oculare e, dopo
tre decenni, ne ha fatto scaturire un diario tanto
doloroso quanto necessario, che è al tempo stesso
rievocazione e monito: Quella notte all’Heysel (Ed.
Sperling & Kupfer, pp.176, euro 14,90). Caporedattore di
Radio Radicale, romano ma innamorato della Juventus,
Targia nel maggio del 1985 ha diciott’anni e un
desiderio sopra ogni altro: andare a Bruxelles e
assistere, la sera del 29, alla finale di Coppa dei
Campioni tra la sua Juve e il fortissimo Liverpool di
Rush, detentore del trofeo. Un’aspirazione che corona
grazie all’interessamento di un amico torinese, il quale
riesce a procurargli due posti in curva, nel settore N.
Quello di Targia è il racconto di un lento franare
nell’abisso e della progressiva presa di coscienza di
questa discesa inesorabile. Nel libro si descrivono i
tanti segnali grandi e piccoli, alcuni simili a
premonizioni, che trasmettono all’autore un’inquietudine
crescente: gruppi di hooligans del Liverpool già dal
pomeriggio girano per la città imbottiti di birra,
carenze dei belgi a livello organizzativo, servizi di
sicurezza che subito appaiono inadeguati, vari tifosi in
possesso di biglietti probabilmente falsi e altri che,
allungando venti franchi a chi dovrebbe controllare,
entrano in tribuna con un ticket di curva: "Mi sale
dentro un senso di angoscia. Leggera, ma velenosa",
scrive Targia. E poi il deflagrare del dramma.
Nell’altra curva, precisamente nel settore Z, orde di
hooligans iniziano a caricare come belve impazzite i
tifosi della Juve. Targia assiste da lontano a quelle
scene orribili, impotente, accrescendo il proprio
sgomento con l’ausilio di un binocolo. Il resto è noto:
la finale che inizia con enorme ritardo, alle 21.42, e
viene giocata per volere dell’Uefa; una partita surreale
e anomala, conclusasi con la vittoria per 1-0 della
Juve; i festeggiamenti allucinati dei giocatori
juventini. E i 39 morti, 32 dei quali italiani e, fra
questi, un undicenne di Cagliari, Andrea Casula, e il
suo papà 43enne. Anche attraverso le testimonianze di
protagonisti e sopravvissuti inserite in appendice al
volume, Targia formula la sua preghiera laica e chiede
che l’Heysel smetta di essere - come ancora oggi
assurdamente è - una tragedia di parte, una tragedia
"tifosa", per divenire lutto nazionale da vivere con
cordoglio unanime. Intanto, il prossimo 6 giugno, la
Juve disputerà contro il Barcellona la sua ottava finale
di Champions League. In caso di vittoria, non solo gli
juventini, ma l’Italia migliore saprà a chi dedicare il
trionfo.
Fonte:
Libero © 29 maggio 2015
Fotografia: Guerin
Sportivo © Salvatore Giglio ©
Icona: Itcleanpng.com ©
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Quella notte all’Heysel
di Sebastiano Del Rosso
Appena l'arbitro sancisce la fine
di Bordeaux-Juventus, tutto il popolo bianconero scoppia
in un grido di giubilo. Sono riusciti a raggiungere la
finale di Coppa dei Campioni. Festeggiano anche
Giampiero ed Emilio, juventini doc. E il mattino dopo
sono già proiettati al 29 maggio: devono assolutamente
accaparrarsi il biglietti per la finale di Bruxelles
contro il Liverpool. Così comincia la ricerca, che è più
difficile del previsto: sono moltissime infatti le
persone che vogliono godersi dal vivo quello spettacolo
memorabile e i biglietti si stanno esaurendo. Le
richieste superano di dieci volte la capienza del
piccolo stadio dell’Heysel. Comunque, grazie all'aiuto
di alcuni conoscenti, riescono finalmente a trovare un
tagliando per i settori M-N-O. Iniziano i preparativi
per quella che sarà una notte di festa: Emilio e
Giampiero si informano solo come due tifosi accaniti
possono fare: precedenti, statistiche e via dicendo.
Mettono anche a punto un programma per visitare la
città, che di certo sarà blindata: la settimana prima
infatti a Bruxelles è prevista la presenza del Papa e
c’è massima allerta. Sicuramente anche per la partita
sarà lo stesso. Arrivati nella capitale belga il
fatidico giorno, si accorgono che si sbagliano di
brutto... Cronaca di una tragedia annunciata: con il
senno di poi, la tragedia dell’Heysel del 29 maggio 1985
è riassumibile così. Ed Emilio Targia, giornalista di
fede juventina, non fa che confermare questa tesi. Lui
che quella notte l’ha vissuta in prima persona, che ha
visto con i suoi occhi il crollo del famigerato muro e
sentito le urla dei tifosi. Ma perché parlare di
tifoserie quando accadono queste cose ? Forse la
tragedia sarebbe stata minore se a morire fossero stati
coloro che quel pomeriggio sventolavano bandiere rosse e
non bianconere ? La morte non fa distinzione né di razza
né di religione, figuriamoci di tifo calcistico. È un
libro scritto con una rabbia sopita ma mai dimenticata,
la rabbia che ancora oggi tormenta le coscienze e ci fa
domandare come sia potuta avvenire una cosa simile. Già,
come ? A trenta anni di distanza non è del tutto chiaro.
Di chi sono le colpe principali ? Del Ministero degli
Interni che ha organizzato male la sicurezza allo stadio
? Degli hooligan del Liverpool che hanno invaso il
settore Z ? Dopo aver letto il libro viene un dubbio:
che gli ultrà siano stati lasciati appositamente soli,
per trasformarli nel capro espiatorio delle
intollerabili falle da parte della organizzazione belga.
Con il Papa tutto funzionò efficientemente, possibile
che non abbiano saputo gestire qualche migliaio di
persone dentro e fuori uno stadio ?
Fonte:
Mangialibri.com © 29 maggio
2015
Fotografia: Sportmagazine.be ©
Icona: Itcleanpng.com ©
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Recensione del libro: "Quella notte
all'Heysel" di Emilio Targia
di Caterina Baffoni
Il 29 maggio 1985, allo stadio
Heysel di Bruxelles, è un pomeriggio di luce e bandiere
che sembra scandire alla perfezione il conto alla
rovescia prima della finale di Coppa dei Campioni tra
Juventus e Liverpool, la partita delle partite. Il sogno
di ogni tifoso. Emilio ha diciotto anni e ce l’ha fatta:
è lì, con il biglietto per entrare allo stadio, insieme
all’amico di una vita, Giampiero. Oltre all’eccitazione
e all’entusiasmo porta con sé un piccolo registratore e
una cinepresa super 8, perché ha già deciso che da
grande farà il giornalista. Nello stadio, tra canti e
battiti di mani, c’è una chimica speciale che assomiglia
a un incantesimo. Poi il silenzio. Emilio Targia,
sopravvissuto all’incubo di quella notte all’Heysel,
racconta ciò che ha visto, che ha sentito, i suoi
ricordi, fissati anche su una pellicola e su un nastro
magnetico, e prova a sciogliere nell’inchiostro memoria,
rabbia, dolore e paura. Oggi, Emilio Targia, giornalista professionista
dal 1997, è caporedattore di Radio Radicale e membro del
Comitato Scientifico del portale "Art Wireless" e della
direzione artistica del festival "Collisioni" di Barolo,
ci sprona a leggere questo libro così coinvolgente e
sincero per un semplice motivo che sta alla base delle
175 pagine: non dimenticare. "Perché senza memoria
saremmo luci spente. Perché la memoria è un lavoro. Una
scelta. Ha bisogno di manutenzione e di amore, e questo
spetta a tutti e a ciascuno individualmente. Fatelo,
allora, quel nodo al fazzoletto". Queste le parole di
Emilio Targia, grande giornalista e tifoso, che ha fatto
il nodo per ricordare e ricordarsi "Quella notte
all’Heysel", che è diventato il titolo del suo libro,
scritto da vero giornalista, ma anche da testimone
diretto della tragedia di Bruxelles. Targia c’era, era
un tifoso con il sogno di diventare giornalista, e
l’elaborazione dei suoi ricordi scorre come un diario
personale, un fiume in piena di emozioni, quasi un
romanzo. Ma non è solo un bel libro il suo, è un libro
importante, un libro da leggere e da far leggere
soprattutto a tante generazioni di bambini. Perché
"moltissimi italiani (e molti media) si ostinano a
considerare le vittime dell’Heysel solo come "juventini"
e non come connazionali e come persone. Questo mina in
modo imperdonabile il peso reale della tragedia belga,
perché la riduce a un fatto calcistico e la relega in
una dimensione sbagliata e giusta". Lo leggeranno in
molti, purtroppo è probabile non quelli che dalle
tribune degli stadi continuano a insultare la memoria
dell’Heysel e di vittime che non erano tifosi juventini,
ma tifosi e basta. E un tifoso non deve morire in uno
stadio.
"Si sentono urla, dal settore Z.
Gente che fugge. Non c’è più nessuna bandiera. Un
vociare scomposto e molto strano, e grida, e rumori
sconosciuti. Poi, d’improvviso, solo silenzio". Si
fondono così quelle sensazioni con quei dettagli così
unici che ha confusamente registrato. L'autore vuole
portarci all'attenzione i ricordi dei sopravvissuti per
restituire il dolore e il senso di tradimento che quella
notte gli precipitarono addosso. Il libro nasce
dall’esigenza dell’autore, sopravvissuto a quella notte
di follia, di "liberare un file", perché la mente umana
a volte da sola non basta, a ricordare tutto. E
purtroppo, a volte non vuole. Si tratta di un racconto
dettagliato di quella notte, e dei giorni che la
precedettero e che la seguirono. Un racconto dedicato ad
Andrea, la vittima più giovane. Un’appendice con una
rassegna stampa e alcune testimonianze. All'interno vi
sono una prefazione di Sandro Veronesi, allora davanti
alla tv, e una postfazione di una leggenda bianconera
come Antonio Cabrini, allora in campo. La "mission" del
libro è quella di fare manutenzione di memoria, ed
evitare che il termine "Heysel" nel tempo si polverizzi,
disperdendo il contenuto doloroso e tragico di quel che
evoca. Informare, ricordare,
raccontare. Provare a immergere il lettore in
quel sogno innocente di vittoria che diviene
improvvisamente un incubo. Emilio vuol tentare anche di
provare a seminare anticorpi contro le banalità e le
volgarità pronunciate in questi 30 anni da chi sa poco o
nulla di quella notte all’Heysel. Il trentennale dalla
strage di Bruxelles infatti offre una preziosa occasione
ai media per provare a ripercorrere quelle drammatiche
ore. Non dimenticare è un dovere civile. Lo è
altrettanto provare a capire cosa si sarebbe dovuto fare
in questi anni e cosa invece non è stato fatto. Se
quella "lezione" è divenuta semplice lettera morta. E
per colpa di chi. Chi non era all’Heysel, racconta
l'autore del libro, difficilmente capisce perché quella
partita si è giocata. Difficilmente può immaginare la
"bolla" in cui tutti
erano finiti, scioccati, increduli, confusi e
spaventati. Provare a capire senza
giudicare, può essere una risorsa. L’autore, che
oggi è un giornalista, può farsi strumento per tutto
questo. Ricordando, raccontando, rispondendo a qualunque
domanda su quella notte e su questi 30 anni.
Lo sconforto, la rabbia e la
disillusione espresse in queste pagine sono tutte
sensazioni palpabili e dolorose, ma capaci di mantenere
viva la memoria al di là di qualsiasi ipocrita
demagogia. Emilio è come se ci prendesse per mano in
questo cammino appassionato e commovente, rendendoci
partecipi di una notte "assurda". E' altrettanto lecito
sottolineare come il tema Heysel si ricongiunge con
l’attualità di queste settimane, ed è proprio il
pensiero del campione del mondo Antonio Cabrini secondo
il quale chi insulta negli stadi italiani le vittime
dell’Heysel lo fa perché è ignorante. Perché non sa, né
capisce o immagina il dolore. Quel dolore. Ma non c’è
solo il tema dell’Heysel al centro di alcuni cori o come
oggetto di alcuni striscioni. Il tema della violenza
verbale e scritta di alcune curve di tifosi in Italia è
tornato infatti prepotentemente sulle prime pagine dei
giornali nelle ultime settimane, dopo che nella Curva
Sud dello stadio Olimpico di Roma erano stati esposti
alcuni striscioni addirittura contro la mamma del
giovane tifoso napoletano ucciso a Roma lo scorso anno
prima della finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina. E
il problema della violenza torna di forte attualità dopo
quel che è accaduto nel derby di Torino, con il bus
della Juventus preso a sassate e l’esplosione di una
bomba carta all’interno dello stadio comunale. Oltre ad
altri episodi spiacevoli in altre città italiane. Ecco
che la questione del rispetto, della memoria, della
civiltà e della responsabilità torna prepotentemente
alla ribalta. Occorre dibatterne subito, risalire con
chiarezza alle radici del problema e cercare di
estirparne tutte le problematiche relative a questi
scempi. Si tratta di una lettura stimolante che fa bene
al cuore, scritta da un testimone diretto, che cerca di
comprendere e filtrare ai lettori il significato dell'
assurda morte di 39 persone innocenti durante una
manifestazione che dovrebbe in realtà essere la pacifica
dimostrazione della bontà e dell'innocenza della
passione sportiva.
Fonte:
Tuttojuve.com © 27 maggio
2015
Fotografia: Sky ©
Icona: Itcleanpng.com ©
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Quella notte all’Heysel - Emilio
Targia
di Mario Bonanno
Ho quasi pudore a scrivere di
"Quella notte all’Heysel" di Emilio Targia. Ho pudore
perché è un libro nero, listato a lutto. Racconta di
gente che muore a una partita di calcio. E di gente che
muore a una partita di calcio è terribile parlare,
figurarsi scriverne. Ho pudore perché la finale di Coppa
dei Campioni del 29 maggio 1985 si incista ancora tra i
miei ricordi più accesi. All’Heysel di Bruxelles la
Juventus si giocava col Liverpool il trofeo più
importante della stagione. Non ero allo stadio: ero tra
quelli che credevano di tifare alla televisione e a un
certo punto si sono trovati a guardare in faccia la
morte in diretta. Sono stato di quelli che non hanno
capito. Non subito, non fino in fondo. Sono stato tra
quelli che ha persino esultato al rigore di Platini e
non trovo giustificazioni per quel gesto, se non nella
fede cieca per la mia squadra di calcio e
nell’immaturità dei miei vent’anni. Per quest’ultimo
fatto non provo pudore, piuttosto vergogna. "Quella
notte all’Heysel" (Sperling & Kupfer, 2015) ha una
copertina agghiacciante. Una scarpa da tennis sbavata di
sangue evoca l’orrore consumato quella notte. La cruda
realtà dell’Heysel, 30 anni esatti tra una manciata di
giorni. "Quella notte all’Heysel" non è un saggio e non
è un romanzo. Lo ha scritto il giornalista Emilio Targia
sul filo di ricordi dolorosi (lui c’era all’Heysel. Del
massacro della curva Z ha udito le "voci" e assistito
alle scene) ed è per questo che "Quella notte
all’Heysel" non è un saggio e non è nemmeno un romanzo.
Non-fiction, si usa scrivere oggi. Della specie più
lancinante e necessaria. Come risulta necessario, delle
volte, ricordarsi di ricordare. La cronaca dei fatti che
vorresti obliare e sai che invece non si può e non si
deve. Per cui lo sguardo dell’autore ti inchioda e si
mantiene fermo a sua volta. Prima-durante-dopo il 29
maggio del novecentottantacinque in un libro. Stazioni
inestricabili di un’ontologia che attraversa molteplici
stati d’animo che è persino retorico elencare. Ho come
l’impressione che "Quella notte all’Heysel" deve essere
costato molto al suo autore. Un libro così non lo scrivi
a cuor leggero, un libro così lo scrivi per dovere: per
te stesso e per i morti (39) nel crollo del settore Z,
dopo la carica degli inglesi. I morti con le sciarpe dei
tuoi stessi colori: bianco e nero a un certo punto
chiazzati di rosso. "Quella notte all’Heysel" può essere
assunto, allora, come la cronaca di una tragedia sotto
molti aspetti annunciata (gli hooligan imperversano e la
polizia sta a guardare). Cento pagine e spiccioli
accorate. Con una corposa appendice che annovera le
opinioni di chi c’era. Arbitro, calciatori, dirigenti,
giornalisti. Tifosi e parenti delle vittime, legati al
filo rosso e trasversale di un dolore atroce, che non
passa mai. Prefazione e postfazione del volume sono
firmate - nell’ordine - da Sandro Veronesi e Antonio
Cabrini.
Fonte:
Sololibri.net © 25 maggio
2015
Fotografie: Emilio
Targia © GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
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Un saggio per la notte dell'Heysel,
affinché non si dimentichi
L'autore Emilio Targia: è
manutenzione di memoria
Roma, 16 mag. (askanews) - "Si
sentono urla, dal settore Z. Gente che fugge. Non c'è
più nessuna bandiera. Un vociare scomposto, e grida, e
rumori sconosciuti. Poi, d'improvviso, solo silenzio".
Emilio Targia il 29 maggio 1985 ha diciotto anni ed è
lì, dentro lo stadio dell'Heysel, dove la Juventus si
gioca la coppa dei campioni con il Liverpool. Ma non
sarà una partita e una finale come le altre. Perché la
follia degli hooligans porterà la morte negli spalti dei
tifosi bianconeri. "Le ore che hanno preceduto
l'incontro, e quel che accadde nello stadio di
Bruxelles, fanno parte di me - continua l'autore -
Vorrei fondere quelle sensazioni con i dettagli di ciò
che ho confusamente registrato. E raccontare i ricordi
dei sopravvissuti. Per restituire il dolore e il senso
di tradimento che quella notte ci precipitò addosso".
Nel libro, oltre al racconto dettagliato di quella notte
c'è un'appendice con una rassegna stampa e alcune
testimonianze. La prefazione è firmata da Sandro
Veronesi. Antonio Cabrini, che quella notte era in
campo, spiega che "chi oggi insulta negli stadi italiani
le vittime dell'Heysel lo fa perché è ignorante. Perché
non sa, né capisce o immagina il dolore. Quel dolore". E
la mission del saggio edito da Sperling & Kupfer è
proprio quella di fare "manutenzione di memoria", come
ripete l'autore. "Bisogna evitare che il termine
'Heysel' nel tempo si polverizzi, disperdendo il
contenuto doloroso e tragico di quel che evoca.
Informare, ricordare, raccontare. Provare a immergere il
lettore in quel sogno innocente di vittoria che diviene
di colpo incubo. Provare a seminare anticorpi contro le
banalità e le volgarità pronunciate in questi 30 anni da
chi sa poco o nulla di quella notte". Perché "non
dimenticare è un dovere civile". Targia, che è
caporedattore di Radio Radicale, e membro della
direzione artistica del festival "Collisioni", aggiunge:
"Chi non era all'Heysel difficilmente capisce perché
quella partita si è giocata. Difficilmente può
immaginare la "bolla" in cui tutti noi eravamo finiti,
scioccati, increduli, confusi e spaventati. Provare a
capire senza giudicare, può essere una risorsa.
L'autore, che oggi è un giornalista, può farsi strumento
per tutto questo. Ricordando, raccontando, rispondendo a
qualunque domanda su quella notte e su questi 30 anni".
Targia, poi ammette: "Lo dovevo a me stesso, lo dovevo a
chi è stato meno fortunato di me e da Bruxelles non è
più tornato. E a chi è tornato ma non è mai riuscito a
raccontare, né forse a capire, quel che vivemmo quella
notte dentro a uno stadio di cemento marcio. E poi lo
dovevo alla memoria. Perché in questi 30 anni la memoria
dell'Heysel è stata spesso sporcata, ignorata,
calpestata. A volte distorta. E quel settore Z
trasformato dagli hooligans in un sudario, è stato
troppo spesso vilipeso. O dimenticato. E' indispensabile
allora valutare i danni, svelare i colpevoli, e fare
manutenzione".
Fonte:
Askanews.it © 16 maggio 2015
Fotografie: Emilio
Targia © GETTY IMAGES
© (Not for commercial use)
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