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LIBRI e HEYSEL 2015
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Quella notte all'Heysel Emilio Targia 2015
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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL
  ARTICOLI HEYSEL EMILIO TARGIA
 

Non dimenticare l’Heysel

di Emilio Targia

Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600.

Ricordo bene l’istante in cui Francesco Morini – ex stopper della Juve negli anni Settanta e all’epoca dirigente bianconero – mi consegnò all’Hotel Parco dei Principi di Roma i biglietti che forse mi salvarono la vita. Chissà. Sembravo destinato in un primo momento alla Curva Z, quella dove gli hooligans del Liverpool, ubriachi e invasati, avrebbero provocato la strage. I tagliandi che avevo tra le mani erano invece per la curva opposta, la "MNO". Erano di un colore anonimo, verde pallido tendente al grigio. Stampati su una carta piuttosto grezza, ruvida, con le scritte in due colori. La corona reale del Belgio in rosso così come il numero di serie del biglietto, in basso a destra. In nero invece la scritta "Coppa dei campioni europea per club". Declinata in francese e in tedesco. Non in italiano né in inglese. Mah. Poi il settore. E il prezzo: 300 franchi belgi. Infine, in basso, una scritta che mi lasciò perplesso: "L’organisateur décline toute responsabilité du chef d’accident, de quelque nature qu’il soit, qui pourrait se produire au cours ou à l’occasion du match pour lequel ce ticket est délivré". Così c’era scritto, su quel biglietto. Non sul retro del tagliando, no. Non di lato, in caratteri minuscoli. No. Sul davanti e in bella evidenza. Significava, in sostanza, che gli organizzatori declinavano ogni responsabilità in caso di incidenti. Chiaro e tondo, come se ti dicessero "Guarda che qui qualunque cosa ti accada, noi non c’entriamo mica niente, eh!". Non si capisce se fosse più un presagio o più una dismissione anticipata di responsabilità. Lo rilessi. Mi rigirai quel biglietto più volte tra le mani. La finale di Bruxelles del 29 maggio 1985 fu una follia che cominciava fin dal biglietto d’ingresso. Perché ci sono incubi che si travestono da sogni e quando poi lo scopri è troppo tardi e non puoi farci niente.

Deve essere un vizio maledettamente umano, quello della propensione all’oblio. Una specie di basso istinto. Malsano, contagioso. Lo si può scegliere per autodifesa, come anestesia contro il dolore. O si può provare a imporlo a sé stessi e agli altri per comodità, per superficialità. O per vigliaccheria. Heysel è una parola che oggi schiocca come una frustata. Che evoca solo e soltanto quella notte, quella strage. È un termine ormai svuotato del suo originario valore. Heysel non è più uno stadio. È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite 600. Oggi ci resta la memoria. La cui solidità non passa solo attraverso un monumento o un anniversario. Occorre che divenga prima di tutto risorsa condivisa, consapevolezza, comprensione. Una specie di sentimento comune. Occorre che le istituzioni, le scuole, i media sostengano e preservino la memoria. Occorre che la memoria divenga dinamica, un’entità produttiva che parta dal passato ma che sia proiettata sul futuro. Occorre lavorare sulla manutenzione di memoria per i 364 giorni che seguono ogni anniversario dalla strage. Per questo negli anni scorsi abbiamo dato alle stampe "Quella notte all’Heysel" (Sperling & Kupfer), per raccontare dal di dentro cosa accadde quella notte. E per questo oggi con la squadra di Mondadori Studios abbiamo realizzato un podcast: "Dentro l’Heysel", costruito con il racconto di quanto accadde e con le registrazioni ambientali di quella sera e le interviste che realizzai il giorno seguente con un piccolo registratore a cassette. Sono quattro puntate che cercano di far entrare dentro l’Heysel chi ancora oggi sa poco di quella vicenda. E chi vorrebbe capirne di più. Un podcast che abbiamo realizzato con grande cura e rispetto, sostenuto dalle musiche preziose e discrete di Gianluca Casadei. Perché in fondo la memoria è un lavoro. Una scelta. Un compito che spetta a tutti e a ciascuno. Perché senza memoria saremmo luci spente. Fonte: Laragione.eu © 31 maggio 2024 Fotografie: Sperling & Kupfer © Emilio Targia © GETTY IMAGES © (Not for Commercial Use) Icona: Itcleanpng.com ©

 

L'anniversario del 29 maggio deve ispirare un modo diverso di ricordare

Heysel, tragedia europea

Sia una memoria comune

di Emilio Targia

Bisogna andare oltre il proprio tifo e il dibattito calcistico: è storia.

Un altro 29 maggio. Che per molti di coloro che erano allo stadio "Heysel" di Bruxelles quella maledetta sera del 1985 non è più solo una data sul calendario. E' un'altra cosa. E' una sequenza di pensieri che rimbomba dentro. E' un flusso di immagini e parole che riaffiora. Sono due numeri che riaccendono un sentimento affilato, complicato da spiegare, dal colore indefinito, che galleggia tra rabbia e dolore. Così come "Heysel" non è più solo il nome di uno stadio, da quella notte di 38 anni fa a Bruxelles. Ma incarna solo il suono della follia di quella strage. Un suono sinistro, per una strage che si poteva e doveva prevedere. Che si poteva e doveva evitare. Spesso, in questi anni, ci siamo soffermati sulle responsabilità dell’Uefa e delle forze dell'ordine preposte a vigilare sulla sicurezza. Sulla inadeguatezza di quello stadio, sulla furia degli hooligans, sulla serie di concause che portò a quel tragico epilogo. Spesso in questi anni i familiari delle vittime e i sopravvissuti a quella notte hanno invocato giustizia. E altrettanto spesso in tanti hanno chiesto rispetto per le vittime e peri loro familiari. Credo che per ottenere e proteggere la dimensione del rispetto l'unico sentiero possibile sia quello della manutenzione della memoria, definizione coniata dall'attore Marco Paolini (che di memoria delle vicende del nostro paese ne sa qualcosa), per consegnare l'onere della memoria alla responsabilità di tutti e di ciascuno, nel proprio quotidiano. Non sempre in questi decenni infatti si è guardato alla "memoria" e alla verità dell'Heysel con la giusta dose di consapevolezza. E di responsabilità. A volte il tema Heysel è scivolato indebitamente su crinali sbagliati, ha smarrito il suo senso in polemiche sterili. Come l'eterno refrain sul fatto che si dovesse o meno giocare quel match. Chi era lì sa benissimo che se non si fosse giocato si sarebbe scatenato l'inferno tra le due tifoserie. Come l'allora Ministro Gianni De Michelis, pur digiuno di football, presente quella sera in tribuna, spiegò con determinazione al telefono al Presidente del Consiglio Bettino Craxi, che da Roma chiedeva notizie. O come la schiera di coloro che si ostinano a ridurre fa strage dell'Heysel sic ad un atto "calcistico". No. Morirono 39 cittadini europei, prima ancora che 39 tifosi. E non erano triti supporter bianconeri, né tutti italiani. Negli ultimi anni il fronte della memoria si è arricchito con iniziative e manifestazioni tese a proteggere la verità, e a rafforzare l'esigenza imprescindibile del rispetto per le 39 vittime e per le loro famiglie. Per i tantissimi feriti e per chi quella sera sopravvisse ma porta dentro di sé ancora oggi un segno indelebile. Resta prezioso il lavoro della "Associazione dei Familiari delle Vittime dell'Heysel", come quello della Associazione "Quelli di... Via Filadelfia", quello del "Comitato per non dimenticare Heysel" di Reggio Emilia, quello della "Sala della memoria Heysel" sul web, e quello di tanti altri. E importante è stato l'impegno della Juventus che, sotto la presidenza di Andrea Agnelli, con le iniziative assunte in questi anni, ha impresso maggiore energia al lavoro di protezione della memoria di quella notte, per far sì che le vittime non siano dimenticate. In anni in cui spesso la multimedialità, il web, i social, con la loro velocità, rischiano nell'eccesso di offerta informativa di smarrire la qualità e la precisione del racconto su vicende complesse come quella dell'Heysel, occorre però vigilare e raddoppiare l'impegno La sensibilità su questi temi del Ministro dello Sport Abodi ad esempio potrebbe trovare punti di sinergia con il Ministro dell'istruzione Valditara, perché si preveda per i prossimi anni una serie di incontri anche nelle scuole, dove il racconto della vicenda Heysel possa divenire così non solo un gesto di manutenzione della memoria ma anche uno spunto di riflessione e un ammonimento severo per il futuro. Credo che memoria e rispetto debbano procedere sulla stessa strada. Perché sono fronti legati indissolubilmente sul tema Heysel. E credo che quella strada vada illuminata a dovere. Perché senza memoria saremmo tutti più fragili e indifesi. Senza memoria, saremmo luci spente. Fonte: Tuttosport © 29 maggio 2023 (Testo © Fotografia)  Icona: Itcleanpng.com ©

 

#Heysel #36annifa

di Emilio Targia

La mattina seguente a quella assurda strage, volli tornare all'Heysel. Avevo bisogno di capire meglio cosa fosse successo. E se davvero fosse successo. Quando scesi dal metrò istintivamente mi fermai in un chiosco per comprare un mazzo di fiori. E a piedi raggiunsi lo stadio, circondato da forze dell'ordine e da decine di troupe televisive. Ero fermamente intenzionato a deporre nella "Curva Z" quel mazzo di fiori, simbolico, anche a testimonianza dei tanti che avrebbero voluto farlo e non potevano. Ma uno dei gendarmi mi sbarrò la strada. Solo dopo le mie rimostranze, piuttosto pesanti, mi fissò per un istante, restò in silenzio, e mi fece entrare. Dentro, un silenzio irreale. Attraversai la pista di atletica e raggiunsi il "Bloc Z". Un campo di battaglia. Nell'aria solo il rumore del nastro di plastica bianca e rossa che delimitava l'area, flagellato dal vento. Cominciai a salire la gradinata lentamente. In terra, sciarpe, brandelli di vestiti e bandiere, panini, scarpe, calzini, bottigliette di plastica, cappellini, occhiali. Il sogno spogliato e offeso di una festa mancata. Mi avvicinai al punto in cui crollò il muretto. Mi accorsi di balaustre di ferro in terra piegate come dopo il passaggio di un tornado. Mi fermai a guardare ogni singolo oggetto di quella specie di sindone di cemento marcio. Erano oggetti vivi, che sembravano fissarci, chiedere aiuto, raccontare ogni istante della notte precedente. Arrivato di fronte al muretto, sbriciolato come fosse stato di sabbia, deposi il mazzo di fiori e restai lì, inginocchiato, non so per quanto tempo. Scesi poi lentamente, continuando a fissare in terra, scorgendo anche bulloni, sassi e vetri. L' arsenale a buon mercato degli Hooligans. I proiettili di fortuna degli assassini. Quella curva deserta, infilata nel vento e nel silenzio, quella ferita ancora aperta, spalancata, sembrava ancora urlare per la follia della notte precedente. Ogni singolo oggetto, ogni millimetro di quella maledetta curva di quello stadio marcio scelto dall’Uefa sembrava urlare. (NdR: nella foto Emilio Targia immortalato nel gesto raccontato 30 anni dopo nel suo libro) Fonte: Facebook (Pagina Autore) © 30 maggio 2021 (Testo © Fotografia) Icona: Itcleanpng.com ©

 

L’Heysel, la Storia, la Memoria

di Emilio Targia

La bellezza del calcio. In Inghilterra, del "Football". Ci pensavo qualche giorno fa, mentre in campo a Liverpool tutti piangevano dopo l’impresa contro il Barcellona in Champions League. E quell’inno fantastico, "You’ll never walk alone", e i brividi che si respiravano nell’aria, dentro a quel coro avvolgente. "Come si può - mi chiedevo - trasformare tutta questa bellezza in orrore ? Come si può deragliare in modo così volgare e violento da una simile magia ?". Come è potuto succedere, dunque, quel pomeriggio di 34 anni fa ? Chi spense l’interruttore di quella gioia fanciullesca per infilarci tutti dentro a un incubo assurdo ? Chi aumentò i giri di quella giostra fino a farci finire dentro a un frullatore impazzito ? Sappiamo chi. Sappiamo come. Sappiamo della assurda concatenazione di errori e negligenze che provocarono quella strage. Quello schiaffo che interruppe la chimica di quella magia, di quell’attesa festante dentro a un pomeriggio di luce e di migliaia di bandiere impazienti. L’urlo di un ragazzo: "Guardate laggiù ! Nell’altra curva ! Gli inglesi caricano ! Caricano !". Poi le notizie che rimbalzarono veloci, imprecise, frammentarie, concitate. Mentre gli altoparlanti gracchiavano surreali inviti alla "calma". L’unica pratica impossibile in quella centrifuga di rabbia e paura. Altro che calmi. Eravamo arrabbiati. Spaventati. Impotenti. E quello stadio, ormai, era come una stanza satura di gas che poteva esplodere alla prima scintilla. In cielo, beffardi, sfrecciavano addirittura degli aerei militari. Un altro rumore assurdo e surreale che piombò su di noi. I nostri pensieri angosciati rivolti alle nostre famiglie, gli amici, ai quattrocento milioni di persone che davanti alla tv scopriranno di essere in diretta con una guerra e non con una finale di Coppa dei Campioni. Lo stadio era un campo di battaglia, e sopra di noi arrivarono anche alcuni elicotteri. Dei Puma bianchi e rossi. "Il muretto non c’è più, è crollato ! È crollato !" L’urlo disperato di una ragazza ci spinse a guardare nuovamente verso il settore Z.

Era vero, il muretto non c’era più. Cristo santo. Saranno caduti di sotto ? Magari si sono salvati proprio grazie al crollo. O erano troppo in alto per sopravvivere ? Saranno caduti uno sull’altro ? Si moltiplicavano le domande, e come al solito, nessuno poteva risponderci. Non in quell’attimo, non lì. Angoscia senza risposta. L’odore di bruciato nell’aria infettava le narici. Irritava la gola. Poi quel sussurro che passò di bocca in bocca, e quando arrivò fu come un pugno nello stomaco: "sono morti in 7 in quella calca". "No sono 20, forse 21…". O forse sono di più. O forse non era vero. Nessuna certezza. Ma era qualcosa che ti cambiava il respiro, il battito del cuore. Come se il braccio di una gru ti agganciasse e ti tenesse sospeso per un attimo sopra lo stadio, costringendoti ad astrarre per capire, per comprendere, per salvarti. Un attimo soltanto, poi la gru ti molla e ti ributta giù, in quell’incubo, senza riguardo. Intanto, gli altoparlanti dello stadio continuavano a diffondere messaggi personali: "Francesco Rossi comunica al cugino Daniele di aspettarlo di fronte all’ingresso tribune". E così via. Lentamente, il prato sembrò svuotarsi. Confusamente. In sottofondo, urla, cori, elicotteri. E gli zoccoli dei cavalli sulla pista di atletica. Alle 21.30 su tutto quel rumore di fondo, così estraneo a un campo di calcio, si appoggiò come un abbraccio la voce di Gaetano Scirea, il capitano della Juventus. Arrivò chiara e dolce, nonostante il riverbero metallico dell’amplificazione: "La partita verrà giocata per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi". Dio.

 

Finalmente una voce. Qualcuno che ci parlò, che si rivolse a noi per dirci qualcosa, qualunque cosa. Eravamo tutti prigionieri dentro a una specie di bolla. Si accesero i riflettori, il prato sgombro. Sgombro ma non libero. Circondato, piuttosto. Da centinaia di poliziotti in assetto antisommossa. Almeno mille, o duemila, se non di più. Avevamo forse sognato ? Galleggiavamo su qualcosa che non capivamo. Ci guardavamo negli occhi l’uno con l’altro, in preda alle domande e allo smarrimento. Cercavamo un linguaggio comune. Un appiglio. Come congelati dentro quello stadio che ormai era lontano da noi, lontano da tutto. Zombies che camminavano sulle macerie di un sogno. Eravamo allo stadio Heysel, ma anche altrove. In un non-luogo privo di risposte certe. Guardammo la partita come attraverso un vetro. Le immagini sfocate, l’audio attutito. Il tempo rallentato. Tuttavia, tentammo ugualmente di agganciare il nostro sguardo al pallone che rotolava, di farci catturare e "stordire" da quella partita. Ne avevamo un disperato bisogno, per metabolizzare qualcosa che era parecchio più grande di noi, e che rischiava di travolgerci. Che ci aveva già travolto e risucchiato. In cima al settore M della nostra curva, un bengala rosso illuminò lo striscione dello Juventus Club Torino, che non era stato rimosso come gli altri. Una illusione di normalità. Dopo la partita, fecero uscire prima i tifosi inglesi, con grande celerità.

Continuammo a fissare i riflettori dell’Heysel, il campo verde ormai vuoto e il rosso ocra della pista di atletica, del tutto inghiottita dagli stivali dell’esercito belga, che occupava ogni corsia. Dopo pochi minuti non c’era più nessuno nel settore degli inglesi. Il bloc Z restava intanto muto e deserto, immerso nel suo dolore assurdo e innocente. Oggi. Oggi occorre preservare la memoria di quella notte. Proteggerla dalle imprecisioni, dalle infiltrazioni, dalle approssimazioni. Una volta, per ricordarsi qualcosa di importante, si faceva un nodo al fazzoletto. Non c’era il bip di un telefonino, ma un semplice nodo di stoffa. Per la scrittrice americana Barbara Kingsolver "la memoria è una faccenda complicata, è imparentata con la verità ma non è la sua gemella". A me piace pensare che si possa imbrigliare il destino di questa frase. Se non sovvertirlo. E che nel caso dell’Heysel la memoria possa diventare almeno sorella della verità. Possa provare a far immaginare il dolore, quel dolore di cui nessuno parla mai. Occorre educare alla memoria. E occorre fare manutenzione. A me piace pensare alla manutenzione della memoria come ad un lavoro in cui sporcarsi le mani quotidianamente, tra grasso e bulloni, e viti e colla e chiodi e vernice. Fino a quando, un bel giorno, chissà, nell’ennesima discussione al bar o sui social su quel 29 maggio, la smetteranno di rivolgersi a noi con le solite frasi fatte, e cominceranno a chiederci, finalmente, di raccontare loro la vera storia dell’Heysel. E la storia di Nino, di Andrea, di Francesco, di Giuseppina, di Roberto, di Loris… Fonte: Juventibus.com © 29 maggio 2019 Fotografie: Associazione Quelli di... Via Filadelfia © Icona: Itcleanpng.com ©

 

Heysel #persempre: quei momenti nel Bloc Z

di Emilio Targia

Il giorno seguente, il 30 maggio del 1985, volli tornare allo stadio Heysel. Forse perché ancora non avevo capito quel che era successo, non lo avevo realizzato. Forse solo per istinto, per una urgenza del cuore, per gli insondabili motivi che spingono tutti noi a gesti che sentiamo come irrinunciabili, urgenti, doverosi. Entrare, con un mazzo di margherite in mano, non fu facile. Ma alla fine, dopo aver alzato parecchio i toni della voce, gli agenti mi fecero entrare. Una volta dentro, mi ritrovai in un silenzio irreale. Guardare il bloc Z faceva gelare il sangue. Un attimo, serviva un bel respiro. Attraversai la pista di atletica e raggiunsi la curva. Di fronte, uno spettacolo difficile da dimenticare. Le gradinate erano un vero e proprio campo di battaglia. Il vento sibilava e sbatteva contro il nastro di plastica bianca e rossa che delimitava l’area della strage. Era l’unico rumore che spezzava quel silenzio terribile. Mi avvicinai con discrezione. In terra una lunga sequenza di sciarpe, bandiere strappate, brandelli di vestiti, giornali. E poi panini ancora incartati nel cellophane, calzini, bottigliette, cappellini, cinture, felpe, occhiali, buste di plastica. E scarpe. Tante scarpe. Il sogno di tanti tifosi spogliato. Offeso. Violentato. Salii sulle gradinate, lentamente, passando sotto la recinzione di plastica. I gendarmi lì intorno mi fissarono, senza fermarmi. Raggiunsi il punto in cui il muretto cedette. Gli oggetti a terra erano tantissimi. Fu una sensazione terribile, come camminare sopra un sudario, su una gigantesca sindone di cemento andato a male. Rallentai ancora il passo, per non disturbare quel luogo ancora così fresco di dolore. Le balaustre di ferro erano completamente piegate. Il peso della folla in fuga le aveva divelte come fossero state di burro. Tutto, era di burro, in quello stadio. Continuai a salire con circospezione, quasi in punta di piedi, senza calpestare nessuno degli oggetti in terra, che fotografavano in modo impressionante quel che era accaduto poche ore prima. Quegli oggetti sembravano fissarmi. Sembravano urlare, dentro a quel silenzio assurdo. Macerie di guerra, eppure oggetti vivi. "Voglio solo abbracciarvi" pensavo tra me e me. Lasciare un mazzo di fiori, interrompere per un istante quello strazio senza senso. E senza amore. Senza perché. Solo un po’ di calore nel gelo di quella curva che nessun sole riuscirà più a scaldare. Posai il mio mazzo di margherite vicino al muretto crollato e restai lì, in ginocchio, di fronte a quell’abisso. Non so per quanto. Forse 5 minuti, forse di più. Chiusi gli occhi, pensai e ripensai alla sera precedente, forse sciolsi una preghiera. Poi scesi piano le gradinate, fissai ancora tutti quegli oggetti in terra, che ancora sembravano chiedere aiuto. Feci fatica ad andare via. Mi sentivo in colpa. Avrei voluto restare lì, a proteggere quel luogo, quegli oggetti, quelle sciarpe. Il vento che aumentava alle spalle mentre scendevo dal Settore Z disegnava una specie di sibilo, di respiro, quasi un lamento. Mi vennero i brividi. Alla fine mi girai, per accomiatarmi con un ultimo sguardo da quella curva maledetta. E mi inchinai ad accarezzare l’ultimo gradino, come fosse una cosa viva. In mezzo alle sciarpe e alle scarpe, sassi, vetri, bulloni. L’arsenale operaio degli assassini. I proiettili a buon mercato degli hooligans. Fonte: Juventibus.com © 29 maggio 2018 Fotografia: GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

 

L’Heysel e la manutenzione della memoria

di Emilio Targia

Deve essere un vizio maledettamente umano. Quello della propensione all’oblio. Una specie di basso istinto. Malsano, contagioso. Lo si può scegliere per autodifesa, come anestesia contro il dolore. O si può provare a imporlo, a se stessi e agli altri, per comodità, per superficialità. O per vigliaccheria. Heysel è una parola che schiocca come una frustata. Che evoca solo e soltanto quella notte, quella strage. E’ un termine ormai svuotato del suo originario valore. Heysel non è più uno stadio, così come Ustica non è più un’isola, né l’Italicus un treno. In Belgio quello stadio prima lo hanno abbattuto, e poi lo hanno ricostruito, nel 1995. Cambiandogli nome: Stadio Re Baldovino. Come se bastasse quello, a cancellare la Storia. A cancellare quel che significa davvero Heysel. Del vecchio Heysel resta oggi solo il cancello principale. Unico testimone di quella sciagurata notte del 29 Maggio 1985. Che io non posso, né voglio, dimenticare. Una notte cominciata dentro a una luce speciale. Un tramonto gialloarancione che sembrava il contraltare ideale di quelle bandiere bianconere infilate dentro a un sogno. Come gli ombrelloni ancora chiusi sulla spiaggia al mattino presto. Quando soffia un’aria piena di promesse. I cori dei tifosi bianconeri erano partiti un po’ in disordine, tanto erano emozionati. Come bambini. Ciascuno intento a coltivare il proprio senso di gioia e di stupore, con lo sguardo fisso sul verde del prato. Ciascuno a "cantare" un po’ per conto proprio. Poi pian piano i sentimenti si erano organizzati, e avevan trovato ritmo ed equilibrio. E soprattutto un senso di comunione. Finalmente dentro a un unico canto. Fino a quel battere di mani serrato, ordinato. A scandire i cori. Le rime storiche. Gli slogan più cari. E io ero lì immobile, fermo a guardare e ad ascoltare. Silenzioso. Sull’onda di quella chimica speciale che si forma nell’aria e che assomiglia così tanto a un incantesimo. Poi quel batter di mani bruscamente interrotto. Poi le mani che ora indicavano "laggiù". La prima carica degli inglesi. Mentre il canto spezzato diventava un urlo. E le bocche della curva Z, spalancate nella paura, respiratori d’emergenza. Un click sull’interruttore e la più bella delle luci svanisce in un attimo. Gli spalti mutano in fronte di guerra. Il campo da gioco diventa via di fuga. E la curva Z un girone dell’inferno. E noi lì smarriti, raggelati. Immobili. Con le pale degli elicotteri dentro al nostro sguardo attonito. Vera giustizia, come noto, non fu mai fatta. Difficile individuare, accertare e provare tutte le singole responsabilità nella follia del branco impazzito. E allora, ci resta la memoria. La cui solidità non passa solo attraverso un monumento. O un anniversario. Occorre che divenga prima di tutto risorsa condivisa, consapevolezza, comprensione. Una specie di sentimento comune. Occorre che le istituzioni, le scuole, i media sostengano e preservino la memoria. Memoria che sembra ancora oggi infastidire i principali responsabili di quella strage. Tanto che nel 1990, in quello che era lo stadio Heysel, in occasione della partita tra il Malines e il Milan, al capitano rossonero Franco Baresi viene impedito di deporre una corona di fiori in prossimità del vecchio settore Z, al Milan viene impedito di portare il lutto al braccio, né si osserva un minuto di silenzio prima del match. Episodi come questo accrescono il rischio che la memoria possa dunque sfilacciarsi, affievolirsi, perdersi. Col pericolo che resti alla fine solo quel nome, Heysel, senza dentro la storia di quel che accadde davvero quella notte. Senza il suo significato più profondo, il suo dolore tagliente, i suoi volti segnati. Heysel come una scatola vuota. Una volta si faceva un nodo al fazzoletto, per rammentarsi qualcosa di importante. Non c’era il bip di un telefonino, ma un semplice nodo di stoffa. La scrittrice americana Barbara Kingsolver sostiene che la memoria è una faccenda complicata, è imparentata con la verità ma non è la sua gemella. A me piace pensare che si possa imbrigliare il destino di quella frase. Se non sovvertirlo. E che nel caso dell’Heysel la memoria possa divenire almeno sorella della verità. Che possa provare a far immaginare il dolore. Quel dolore di cui nessuno parla mai. E creare gli anticorpi contro qualunque manipolazione o strumentalizzazione. Tenere lontana la retorica e respingere l’ipocrisia. Non ci sarà qualcuno che lo farà per noi. Perché la memoria è un lavoro. Una scelta. Necessita di manutenzione e amore. Un compito che spetta a tutti e a ciascuno. Fatelo, allora, quel nodo al fazzoletto. Che senza memoria, saremmo luci spente. (Tratto dal libro "Quella notte all’Heysel" – Sperling&Kupfer) Fonte: Juventibus.com © 29 maggio 2017 Fotografie: Vincenzo Nicolello © GETTY IMAGES © (Not for commercial use) Icona: Itcleanpng.com ©

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