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BIBLIOGRAFIA
HEYSEL |
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ARTICOLI HEYSEL
EMILIO TARGIA |
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Non dimenticare
l’Heysel
di Emilio Targia
Heysel non è più uno stadio.
È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage
dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite
600.
Ricordo
bene l’istante in cui Francesco Morini – ex stopper
della Juve negli anni Settanta e all’epoca dirigente
bianconero – mi consegnò all’Hotel Parco dei Principi di
Roma i biglietti che forse mi salvarono la vita. Chissà.
Sembravo destinato in un primo momento alla Curva Z,
quella dove gli hooligans del Liverpool, ubriachi e
invasati, avrebbero provocato la strage. I tagliandi che
avevo tra le mani erano invece per la curva opposta, la
"MNO". Erano di un colore anonimo, verde pallido
tendente al grigio. Stampati su una carta piuttosto
grezza, ruvida, con le scritte in due colori. La corona
reale del Belgio in rosso così come il numero di serie
del biglietto, in basso a destra. In nero invece la
scritta "Coppa dei campioni europea per club". Declinata
in francese e in tedesco. Non in italiano né in inglese.
Mah. Poi il settore. E il prezzo: 300 franchi belgi.
Infine, in basso, una scritta che mi lasciò perplesso:
"L’organisateur décline toute responsabilité du chef d’accident,
de quelque nature qu’il soit, qui pourrait se produire
au cours ou à l’occasion du match pour lequel ce ticket
est délivré". Così c’era scritto, su quel biglietto. Non
sul retro del tagliando, no. Non di lato, in caratteri
minuscoli. No. Sul davanti e in bella evidenza.
Significava, in sostanza, che gli organizzatori
declinavano ogni responsabilità in caso di incidenti.
Chiaro e tondo, come se ti dicessero "Guarda che qui
qualunque cosa ti accada, noi non c’entriamo mica
niente, eh!". Non si capisce se fosse più un presagio o
più una dismissione anticipata di responsabilità. Lo
rilessi. Mi rigirai quel biglietto più volte tra le
mani. La
finale di Bruxelles del 29 maggio 1985 fu una follia che
cominciava fin dal biglietto d’ingresso. Perché ci sono
incubi che si travestono da sogni e quando poi lo scopri
è troppo tardi e non puoi farci niente.
Deve essere un
vizio maledettamente umano, quello della propensione
all’oblio. Una specie di basso istinto. Malsano,
contagioso. Lo si può scegliere per autodifesa, come
anestesia contro il dolore. O si può provare a imporlo a
sé stessi e agli altri per comodità, per superficialità.
O per vigliaccheria. Heysel è una parola che oggi
schiocca come una frustata. Che evoca solo e soltanto
quella notte, quella strage. È un termine ormai svuotato
del suo originario valore. Heysel non è più uno stadio.
È solo e soltanto Heysel. Solo e soltanto quella strage
dove persero la vita 39 persone e ne rimasero ferite
600. Oggi ci resta la memoria. La cui solidità non passa
solo attraverso un monumento o un anniversario. Occorre
che divenga prima di tutto risorsa condivisa,
consapevolezza, comprensione. Una specie di sentimento
comune. Occorre che le istituzioni, le scuole, i media
sostengano e preservino la memoria. Occorre che la
memoria divenga dinamica, un’entità produttiva che parta
dal passato ma che sia proiettata sul futuro. Occorre
lavorare sulla manutenzione di memoria per i 364 giorni
che seguono ogni anniversario dalla strage. Per questo
negli anni scorsi abbiamo dato alle stampe "Quella notte
all’Heysel" (Sperling & Kupfer), per raccontare dal di
dentro cosa accadde quella notte. E per questo oggi con
la squadra di Mondadori Studios abbiamo realizzato un
podcast: "Dentro l’Heysel", costruito con il racconto di
quanto accadde e con le registrazioni ambientali di
quella sera e le interviste che realizzai il giorno
seguente con un piccolo registratore a cassette. Sono
quattro puntate che cercano di far entrare dentro
l’Heysel chi ancora oggi sa poco di quella vicenda. E
chi vorrebbe capirne di più. Un podcast che abbiamo
realizzato con grande cura e rispetto, sostenuto dalle
musiche preziose e discrete di Gianluca Casadei. Perché
in fondo la memoria è un lavoro. Una scelta. Un compito
che spetta a tutti e a ciascuno. Perché senza memoria
saremmo luci spente.
Fonte: Laragione.eu
© 31 maggio 2024
Fotografie:
Sperling
&
Kupfer
©
Emilio
Targia
© GETTY IMAGES
© (Not
for Commercial Use)
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L'anniversario del 29
maggio deve ispirare un modo diverso di ricordare
Heysel, tragedia
europea
Sia una memoria comune
di Emilio Targia
Bisogna andare oltre il proprio tifo e il
dibattito calcistico: è storia.
Un
altro 29 maggio. Che per molti di coloro che erano allo
stadio "Heysel" di Bruxelles quella maledetta sera del
1985 non è più solo una data sul calendario. E' un'altra
cosa. E' una sequenza di pensieri che rimbomba dentro.
E' un flusso di immagini e parole che riaffiora. Sono
due numeri che riaccendono un sentimento affilato,
complicato da spiegare, dal colore indefinito, che
galleggia tra rabbia e dolore. Così come "Heysel" non è
più solo il nome di uno stadio, da quella notte di 38
anni fa a Bruxelles. Ma incarna solo il suono della
follia di quella strage. Un suono sinistro, per una
strage che si poteva e doveva prevedere. Che si poteva e
doveva evitare. Spesso, in questi anni, ci siamo
soffermati sulle responsabilità dell’Uefa e delle forze
dell'ordine preposte a vigilare sulla sicurezza. Sulla
inadeguatezza di quello stadio, sulla furia degli
hooligans, sulla serie di concause che portò a quel
tragico epilogo. Spesso in questi anni i familiari delle
vittime e i sopravvissuti a quella notte hanno invocato
giustizia. E altrettanto spesso in tanti hanno chiesto
rispetto per le vittime e peri loro familiari. Credo che
per ottenere
e proteggere la dimensione del rispetto l'unico sentiero possibile
sia quello della manutenzione della memoria, definizione
coniata dall'attore Marco Paolini (che di memoria delle
vicende del nostro paese ne sa qualcosa), per consegnare
l'onere della memoria alla responsabilità di tutti e di
ciascuno, nel proprio quotidiano. Non sempre in questi
decenni infatti si è guardato alla "memoria" e alla
verità dell'Heysel con la giusta dose di consapevolezza. E di
responsabilità. A volte il tema Heysel è scivolato
indebitamente su crinali sbagliati, ha smarrito il suo
senso in polemiche sterili. Come l'eterno refrain sul
fatto che si dovesse o meno giocare quel match. Chi era
lì sa benissimo che se non si fosse giocato si sarebbe
scatenato l'inferno tra le due tifoserie. Come l'allora
Ministro Gianni De Michelis, pur digiuno di football,
presente quella sera in tribuna, spiegò con
determinazione al telefono al Presidente del Consiglio
Bettino Craxi, che da Roma chiedeva notizie. O come la
schiera di coloro che si ostinano a ridurre fa strage
dell'Heysel sic
ad un atto "calcistico". No. Morirono 39
cittadini europei, prima ancora che 39 tifosi. E non
erano triti supporter bianconeri, né tutti italiani.
Negli ultimi anni il fronte della memoria si è
arricchito con iniziative e manifestazioni tese a
proteggere la verità, e a rafforzare l'esigenza
imprescindibile del rispetto per le 39 vittime e per le
loro famiglie. Per i tantissimi feriti e per chi quella
sera sopravvisse ma porta dentro di sé ancora oggi un
segno indelebile. Resta prezioso il lavoro della
"Associazione dei Familiari delle Vittime dell'Heysel",
come quello della Associazione "Quelli di... Via
Filadelfia", quello del "Comitato per non dimenticare
Heysel" di Reggio Emilia, quello della "Sala della
memoria Heysel" sul web, e quello di tanti altri. E
importante è stato l'impegno della Juventus che, sotto
la presidenza di Andrea Agnelli, con le iniziative
assunte in questi anni, ha impresso maggiore energia al
lavoro di protezione della memoria di quella notte, per
far sì che le vittime non siano dimenticate. In anni in
cui spesso la multimedialità, il web, i social, con la
loro velocità, rischiano
nell'eccesso di offerta informativa di smarrire la qualità e la precisione del
racconto su vicende complesse come quella dell'Heysel,
occorre però vigilare e raddoppiare l'impegno La
sensibilità su questi temi del Ministro dello Sport
Abodi ad esempio potrebbe trovare punti di sinergia con
il Ministro dell'istruzione Valditara, perché si preveda
per i prossimi anni una serie di incontri anche nelle
scuole, dove il racconto della vicenda Heysel possa
divenire così non solo un gesto di manutenzione della
memoria ma anche uno spunto di riflessione e un
ammonimento severo per il futuro. Credo che memoria e
rispetto debbano procedere sulla stessa strada. Perché
sono fronti legati indissolubilmente sul tema Heysel. E
credo che quella strada vada illuminata a dovere. Perché
senza memoria saremmo tutti più fragili e indifesi.
Senza memoria, saremmo luci spente.
Fonte:
Tuttosport
© 29 maggio 2023 (Testo
© Fotografia)
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#Heysel #36annifa
di Emilio Targia
La
mattina seguente a quella assurda strage, volli tornare
all'Heysel. Avevo bisogno di capire meglio cosa fosse
successo. E se davvero fosse successo. Quando scesi dal
metrò istintivamente mi fermai in un chiosco per
comprare un mazzo di fiori. E a piedi raggiunsi lo
stadio, circondato da forze dell'ordine e da decine di
troupe televisive. Ero fermamente intenzionato a deporre
nella "Curva Z" quel mazzo di fiori, simbolico, anche a
testimonianza dei tanti che avrebbero voluto farlo e non
potevano. Ma uno dei gendarmi mi sbarrò la strada. Solo
dopo le mie rimostranze, piuttosto pesanti, mi fissò per
un istante, restò in silenzio, e mi fece entrare.
Dentro, un silenzio irreale. Attraversai la pista di
atletica e raggiunsi il "Bloc Z". Un campo di battaglia.
Nell'aria solo il rumore del nastro di plastica bianca e
rossa che delimitava l'area, flagellato dal vento.
Cominciai a salire la gradinata lentamente. In terra,
sciarpe, brandelli di vestiti e bandiere, panini,
scarpe, calzini, bottigliette di plastica, cappellini,
occhiali. Il sogno spogliato e offeso di una festa
mancata. Mi avvicinai al punto in cui crollò il muretto.
Mi accorsi di balaustre di ferro in terra piegate come
dopo il passaggio di un tornado. Mi fermai a guardare
ogni singolo oggetto di quella specie di sindone di
cemento marcio. Erano oggetti vivi, che sembravano
fissarci, chiedere aiuto, raccontare ogni istante della
notte precedente. Arrivato di fronte al muretto,
sbriciolato come fosse stato di sabbia, deposi il mazzo
di fiori e restai lì, inginocchiato, non so per quanto
tempo. Scesi poi lentamente, continuando a fissare in
terra, scorgendo anche bulloni, sassi e vetri. L'
arsenale a buon mercato degli Hooligans. I proiettili di
fortuna degli assassini. Quella curva deserta, infilata
nel vento e nel silenzio, quella ferita ancora aperta,
spalancata, sembrava ancora urlare per la follia della
notte precedente. Ogni singolo oggetto, ogni millimetro
di quella maledetta curva di quello stadio marcio scelto
dall’Uefa sembrava urlare.
(NdR: nella foto Emilio Targia
immortalato nel gesto raccontato 30 anni dopo nel suo
libro)
Fonte: Facebook
(Pagina Autore)
© 30 maggio 2021
(Testo
©
Fotografia)
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L’Heysel, la Storia,
la Memoria
di Emilio Targia
La
bellezza del calcio. In Inghilterra, del "Football". Ci
pensavo qualche giorno fa, mentre in campo a Liverpool
tutti piangevano dopo l’impresa contro il Barcellona in
Champions League. E quell’inno fantastico, "You’ll never
walk alone", e i brividi che si respiravano nell’aria,
dentro a quel coro avvolgente. "Come si può - mi
chiedevo - trasformare tutta questa bellezza in orrore ?
Come si può deragliare in modo così volgare e violento
da una simile magia ?". Come è potuto succedere, dunque,
quel pomeriggio di 34 anni fa ? Chi spense
l’interruttore di quella gioia fanciullesca per
infilarci tutti dentro a un incubo assurdo ? Chi aumentò
i giri di quella giostra fino a farci finire dentro a un
frullatore impazzito ? Sappiamo chi. Sappiamo come.
Sappiamo della assurda concatenazione di errori e
negligenze che provocarono quella strage. Quello
schiaffo che interruppe la chimica di quella magia, di
quell’attesa festante dentro a un pomeriggio di luce e
di migliaia di bandiere impazienti. L’urlo di un
ragazzo: "Guardate laggiù ! Nell’altra curva ! Gli
inglesi caricano ! Caricano !". Poi le notizie che
rimbalzarono veloci, imprecise, frammentarie, concitate.
Mentre gli altoparlanti gracchiavano surreali inviti
alla "calma". L’unica pratica impossibile in quella
centrifuga di rabbia e paura. Altro che calmi. Eravamo
arrabbiati. Spaventati. Impotenti. E quello stadio,
ormai, era come una stanza satura di gas che poteva
esplodere alla prima scintilla. In cielo, beffardi,
sfrecciavano addirittura degli aerei militari. Un altro
rumore assurdo e surreale che piombò su di noi. I nostri
pensieri angosciati rivolti alle nostre famiglie, gli
amici, ai quattrocento milioni di persone che davanti
alla tv scopriranno di essere in diretta con una guerra
e non con una finale di Coppa dei Campioni. Lo stadio
era un campo di battaglia, e sopra di noi arrivarono
anche alcuni elicotteri. Dei Puma bianchi e rossi. "Il
muretto non c’è più, è crollato ! È crollato !" L’urlo
disperato di una ragazza ci spinse a guardare nuovamente
verso il settore Z.
Era
vero, il muretto non c’era più. Cristo santo. Saranno
caduti di sotto ? Magari si sono salvati proprio grazie
al crollo. O erano troppo in alto per sopravvivere ?
Saranno caduti uno sull’altro ? Si moltiplicavano le
domande, e come al solito, nessuno poteva risponderci.
Non in quell’attimo, non lì. Angoscia senza risposta.
L’odore di bruciato nell’aria infettava le narici.
Irritava la gola. Poi quel sussurro che passò di bocca
in bocca, e quando arrivò fu come un pugno nello
stomaco: "sono morti in 7 in quella calca". "No sono 20,
forse 21…". O forse sono di più. O forse non era vero.
Nessuna certezza. Ma era qualcosa che ti cambiava il
respiro, il battito del cuore. Come se il braccio di una
gru ti agganciasse e ti tenesse sospeso per un attimo
sopra lo stadio, costringendoti ad astrarre per capire,
per comprendere, per salvarti. Un attimo soltanto, poi
la gru ti molla e ti ributta giù, in quell’incubo, senza
riguardo. Intanto, gli altoparlanti dello stadio
continuavano a diffondere messaggi personali: "Francesco
Rossi comunica al cugino Daniele di aspettarlo di fronte
all’ingresso tribune". E così via. Lentamente, il prato
sembrò svuotarsi. Confusamente. In sottofondo, urla,
cori, elicotteri. E gli zoccoli dei cavalli sulla pista
di atletica. Alle 21.30 su tutto quel rumore di fondo,
così estraneo a un campo di calcio, si appoggiò come un
abbraccio la voce di Gaetano Scirea, il capitano della
Juventus. Arrivò chiara e dolce, nonostante il riverbero
metallico dell’amplificazione: "La partita verrà giocata
per consentire alle forze dell’ordine di organizzare
l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete
alle provocazioni. Giochiamo per voi". Dio.
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Finalmente
una voce. Qualcuno che ci parlò, che si rivolse a noi
per dirci qualcosa, qualunque cosa. Eravamo tutti
prigionieri dentro a una specie di bolla. Si accesero i
riflettori, il prato sgombro. Sgombro ma non libero.
Circondato, piuttosto. Da centinaia di poliziotti in
assetto antisommossa. Almeno mille, o duemila, se non di
più. Avevamo forse sognato ? Galleggiavamo su qualcosa
che non capivamo. Ci guardavamo negli occhi l’uno con
l’altro, in preda alle domande e allo smarrimento.
Cercavamo un linguaggio comune. Un appiglio. Come
congelati dentro quello stadio che ormai era lontano da
noi, lontano da tutto. Zombies che camminavano sulle
macerie di un sogno. Eravamo allo stadio Heysel, ma
anche altrove. In un non-luogo privo di risposte certe.
Guardammo la partita come attraverso un vetro. Le
immagini sfocate, l’audio attutito. Il tempo rallentato.
Tuttavia, tentammo ugualmente di agganciare il nostro
sguardo al pallone che rotolava, di farci catturare e
"stordire" da quella partita. Ne avevamo un disperato
bisogno, per metabolizzare qualcosa che era parecchio
più grande di noi, e che rischiava di travolgerci. Che
ci aveva già travolto e risucchiato. In cima al settore
M della nostra curva, un bengala rosso illuminò lo
striscione dello Juventus Club Torino, che non era stato
rimosso come gli altri. Una illusione di normalità. Dopo
la partita, fecero uscire prima i tifosi inglesi, con
grande celerità.
Continuammo
a fissare i riflettori dell’Heysel, il campo verde ormai
vuoto e il rosso ocra della pista di atletica, del tutto
inghiottita dagli stivali dell’esercito belga, che
occupava ogni corsia. Dopo pochi minuti non c’era più
nessuno nel settore degli inglesi. Il bloc Z restava
intanto muto e deserto, immerso nel suo dolore assurdo e
innocente. Oggi. Oggi occorre preservare la memoria di
quella notte. Proteggerla dalle imprecisioni, dalle
infiltrazioni, dalle approssimazioni. Una volta, per
ricordarsi qualcosa di importante, si faceva un nodo al
fazzoletto. Non c’era il bip di un telefonino, ma un
semplice nodo di stoffa. Per la scrittrice americana
Barbara Kingsolver "la memoria è una faccenda
complicata, è imparentata con la verità ma non è la sua
gemella". A me piace pensare che si possa imbrigliare il
destino di questa frase. Se non sovvertirlo. E che nel
caso dell’Heysel la memoria possa diventare almeno
sorella della verità. Possa provare a far immaginare il
dolore, quel dolore di cui nessuno parla mai. Occorre
educare alla memoria. E occorre fare manutenzione. A me
piace pensare alla manutenzione della memoria come ad un
lavoro in cui sporcarsi le mani quotidianamente, tra
grasso e bulloni, e viti e colla e chiodi e vernice.
Fino a quando, un bel giorno, chissà, nell’ennesima
discussione al bar o sui social su quel 29 maggio, la
smetteranno di rivolgersi a noi con le solite frasi
fatte, e cominceranno a chiederci, finalmente, di
raccontare loro la vera storia dell’Heysel. E la storia
di Nino, di Andrea, di Francesco, di Giuseppina, di
Roberto, di Loris…
Fonte:
Juventibus.com © 29 maggio 2019
Fotografie:
Associazione Quelli di... Via Filadelfia ©
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Heysel #persempre:
quei momenti nel Bloc Z
di Emilio Targia
Il
giorno seguente, il 30 maggio del 1985, volli tornare
allo stadio Heysel. Forse perché ancora non avevo capito
quel che era successo, non lo avevo realizzato. Forse
solo per istinto, per una urgenza del cuore, per gli
insondabili motivi che spingono tutti noi a gesti che
sentiamo come irrinunciabili, urgenti, doverosi.
Entrare, con un mazzo di margherite in mano, non fu
facile. Ma alla fine, dopo aver alzato parecchio i toni
della voce, gli agenti mi fecero entrare. Una volta
dentro, mi ritrovai in un silenzio irreale. Guardare il bloc Z faceva gelare il sangue. Un attimo, serviva un
bel respiro. Attraversai la pista di atletica e
raggiunsi la curva. Di fronte, uno spettacolo difficile
da dimenticare. Le gradinate erano un vero e proprio
campo di battaglia. Il vento sibilava e sbatteva contro
il nastro di plastica bianca e rossa che delimitava
l’area della strage. Era l’unico rumore che spezzava
quel silenzio terribile. Mi avvicinai con discrezione.
In terra una lunga sequenza di sciarpe, bandiere
strappate, brandelli di vestiti, giornali. E poi panini
ancora incartati nel cellophane, calzini, bottigliette,
cappellini, cinture, felpe, occhiali, buste di plastica.
E scarpe. Tante scarpe. Il sogno di tanti tifosi
spogliato. Offeso. Violentato. Salii sulle gradinate,
lentamente, passando sotto la recinzione di plastica. I
gendarmi lì intorno mi fissarono, senza fermarmi.
Raggiunsi il punto in cui il muretto cedette. Gli
oggetti a terra erano tantissimi. Fu una sensazione
terribile, come camminare sopra un sudario, su una
gigantesca sindone di cemento andato a male. Rallentai
ancora il passo, per non disturbare quel luogo ancora
così fresco di dolore. Le balaustre di ferro erano
completamente piegate. Il peso della folla in fuga le
aveva divelte come fossero state di burro. Tutto, era di
burro, in quello stadio. Continuai a salire con
circospezione, quasi in punta di piedi, senza calpestare
nessuno degli oggetti in terra, che fotografavano in
modo impressionante quel che era accaduto poche ore
prima. Quegli oggetti sembravano fissarmi. Sembravano
urlare, dentro a quel silenzio assurdo. Macerie di
guerra, eppure oggetti vivi. "Voglio solo abbracciarvi"
pensavo tra me e me. Lasciare un mazzo di fiori,
interrompere per un istante quello strazio senza senso.
E senza amore. Senza perché. Solo un po’ di calore nel
gelo di quella curva che nessun sole riuscirà più a
scaldare. Posai il mio mazzo di margherite vicino al
muretto crollato e restai lì, in ginocchio, di fronte a
quell’abisso. Non so per quanto. Forse 5 minuti, forse
di più. Chiusi gli occhi, pensai e ripensai alla sera
precedente, forse sciolsi una preghiera. Poi scesi piano
le gradinate, fissai ancora tutti quegli oggetti in
terra, che ancora sembravano chiedere aiuto. Feci fatica
ad andare via. Mi sentivo in colpa. Avrei voluto restare
lì, a proteggere quel luogo, quegli oggetti, quelle
sciarpe. Il vento che aumentava alle spalle mentre
scendevo dal Settore Z disegnava una specie di sibilo,
di respiro, quasi un lamento. Mi vennero i brividi. Alla
fine mi girai, per accomiatarmi con un ultimo sguardo da
quella curva maledetta. E mi inchinai ad accarezzare
l’ultimo gradino, come fosse una cosa viva. In mezzo
alle sciarpe e alle scarpe, sassi, vetri, bulloni.
L’arsenale operaio degli assassini. I proiettili a buon
mercato degli hooligans.
Fonte:
Juventibus.com © 29 maggio 2018
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L’Heysel e la
manutenzione della memoria
di Emilio Targia
Deve
essere un vizio maledettamente umano. Quello della
propensione all’oblio. Una specie di basso istinto.
Malsano, contagioso. Lo si può scegliere per autodifesa,
come anestesia contro il dolore. O si può provare a
imporlo, a se stessi e agli altri, per comodità, per
superficialità. O per vigliaccheria. Heysel è una parola
che schiocca come una frustata. Che evoca solo e
soltanto quella notte, quella strage. E’ un termine
ormai svuotato del suo originario valore. Heysel non è
più uno stadio, così come Ustica non è più un’isola, né
l’Italicus un treno. In Belgio quello stadio prima lo
hanno abbattuto, e poi lo hanno ricostruito, nel 1995.
Cambiandogli nome: Stadio Re Baldovino. Come se bastasse
quello, a cancellare la Storia. A cancellare quel che
significa davvero Heysel. Del vecchio Heysel resta oggi
solo il cancello principale. Unico testimone di quella
sciagurata notte del 29 Maggio 1985. Che io non posso,
né voglio, dimenticare. Una notte cominciata dentro a
una luce speciale. Un tramonto gialloarancione che
sembrava il contraltare ideale di quelle bandiere
bianconere infilate dentro a un sogno. Come gli
ombrelloni ancora chiusi sulla spiaggia al mattino
presto. Quando soffia un’aria piena di promesse. I cori
dei tifosi bianconeri erano partiti un po’ in disordine,
tanto erano emozionati. Come bambini. Ciascuno intento a
coltivare il proprio senso di gioia e di stupore, con lo
sguardo fisso sul verde del prato. Ciascuno a "cantare"
un po’ per conto proprio. Poi pian piano i sentimenti si
erano organizzati, e avevan trovato ritmo ed equilibrio.
E soprattutto un senso di comunione. Finalmente dentro a
un unico canto. Fino a quel battere di mani serrato,
ordinato. A scandire i cori. Le rime storiche. Gli
slogan più cari. E io ero lì immobile, fermo a guardare
e ad ascoltare. Silenzioso. Sull’onda di quella chimica
speciale che si forma nell’aria e che assomiglia così
tanto a un incantesimo. Poi quel batter di mani
bruscamente interrotto. Poi le mani che ora indicavano
"laggiù". La prima carica degli inglesi. Mentre il canto
spezzato diventava un urlo. E le bocche della curva Z,
spalancate nella paura, respiratori d’emergenza. Un
click sull’interruttore e la più bella delle luci
svanisce in un attimo. Gli spalti mutano in fronte di
guerra. Il campo da gioco diventa via di fuga. E la
curva Z un girone dell’inferno. E noi lì smarriti,
raggelati. Immobili. Con le pale degli elicotteri dentro
al nostro sguardo attonito. Vera giustizia, come noto,
non fu mai fatta. Difficile individuare, accertare e
provare tutte le singole responsabilità nella follia del
branco impazzito. E allora, ci resta la memoria. La cui
solidità non passa solo attraverso un monumento. O un
anniversario. Occorre che divenga prima di tutto risorsa
condivisa, consapevolezza, comprensione. Una specie di
sentimento comune. Occorre che le istituzioni, le
scuole, i media sostengano e preservino la memoria.
Memoria che sembra ancora oggi infastidire i principali
responsabili di quella strage. Tanto che nel 1990, in
quello che era lo stadio Heysel, in occasione della
partita tra il Malines e il Milan, al capitano rossonero
Franco Baresi viene impedito di deporre una corona di
fiori in prossimità del vecchio settore Z, al Milan
viene impedito di portare il lutto al braccio, né si
osserva un minuto di silenzio prima del match. Episodi
come questo accrescono il rischio che la memoria possa
dunque sfilacciarsi, affievolirsi, perdersi. Col
pericolo che resti alla fine solo quel nome, Heysel,
senza dentro la storia di quel che accadde davvero
quella notte. Senza il suo significato più profondo, il
suo dolore tagliente, i suoi volti segnati. Heysel come
una scatola vuota. Una volta si faceva un nodo al
fazzoletto, per rammentarsi qualcosa di importante. Non
c’era il bip di un telefonino, ma un semplice nodo di
stoffa. La scrittrice americana Barbara Kingsolver
sostiene che la memoria è una faccenda complicata, è
imparentata con la verità ma non è la sua gemella. A me
piace pensare che si possa imbrigliare il destino di
quella frase. Se non sovvertirlo. E che nel caso
dell’Heysel la memoria possa divenire almeno sorella
della verità. Che possa provare a far immaginare il
dolore. Quel dolore di cui nessuno parla mai. E creare
gli anticorpi contro qualunque manipolazione o
strumentalizzazione. Tenere lontana la retorica e
respingere l’ipocrisia. Non ci sarà qualcuno che lo farà
per noi. Perché la memoria è un lavoro. Una scelta.
Necessita di manutenzione e amore. Un compito che spetta
a tutti e a ciascuno. Fatelo, allora, quel nodo al
fazzoletto. Che senza memoria, saremmo luci spente.
(Tratto dal libro
"Quella notte all’Heysel" – Sperling&Kupfer)
Fonte:
Juventibus.com
© 29 maggio 2017
Fotografie:
Vincenzo Nicolello © GETTY IMAGES
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