GIOVANNA BACCI
"La porti un bacione a Firenze"
Riceviamo e pubblichiamo una
toccante testimonianza di affetto per la Memoria dei nostri
cari, inviataci ieri dalla sensibilissima signora Giovanna da
Firenze.
Mi chiamo Giovanna, ormai ho 58
anni e anche quest’anno ho celebrato il mio, molto intimo,
giorno della memoria. Avete ragione: la memoria è importante. Vi
scrivo soltanto per farvi sapere che molte, moltissime persone,
anche quelle improbabili come me, ricordano quella notte e ciò
che è accaduto. Magari, così come ho fatto io, lo ricordano in
silenzio, senza dirvelo perché pensano che sia insignificante.
Ma ricordiamo. E vi ringraziamo perché continuate a ricordare.
Andate avanti ! Il vostro lavoro, il vostro dolore, la vostra
dedizione è importante per tutti. Vi lascio la mia
testimonianza. Forse inutile, ma per me è solo un pensiero
posato su quelle 39 tombe.
L’anniversario. Mia sorella Daniela
è morta a 26 anni il 29 Maggio del 1984. Una morte improvvisa,
assurdamente causata da una cisti che ha rotto l’arteria
femorale. Una manciata di minuti e tutto era finito per sempre.
Esattamente un anno dopo, sulla mia bella Firenze cade
lentamente un tramonto dolce che ha i colori dell’estate.
Ceniamo prestissimo, in silenzio. Io ho vent’anni ma da quando è
morta Daniela vivo la vita come attraverso un velo. La mia
allegria, la mia energia, esistono a momenti, per il resto è una
commedia tragica dove fingo emozioni che non riconosco. Ho
iniziato l’Università, ai nuovi amici non dico nulla perché sono
imbarazzata dall’imbarazzo che provoca il dolore dell’Altro. Lo
risparmio a tutti.
È difficile sopravvivere a chi amiamo. È duro chiedersi
perché non io. È duro consolare e non chiedere consolazione.
Capisci che ogni respiro di tuo padre, di tua madre, è solo
perché tu sei ancora viva. Non puoi più sbagliare, non più.
Dopo cena, mia madre va a dormire. In realtà si chiude in
camera per poter piangere da sola. La sento singhiozzare.
Non posso lasciare mio padre da solo… C’è Juve-Liverpool,
per fortuna. La Coppa.
Io e lui siamo da sempre tifosi Viola, abbonati da quando ho
memoria. Dacché son grande però, lui va in tribuna, io in curva
Fiesole: tutte le volte che il tempo è brutto gli auguro per
scherzo che piova "a vento", così un pochino si bagnano anche
loro. Quell’anno sopporto anche la neve, perché il gioco del
pallone è il più bello del mondo. Ci credo davvero, è una
passione bellissima, quasi forte come l’Amore.
Quella sera mio padre è terreo. Come me, come la mamma, si
fa forza schiantato da un dolore che sopportiamo a stento e che,
"quella" sera, sembra più acuto. Ma c’è Juve-Liverpool, la
speranza è che forse riusciamo a non pensare per un paio d’ore.
Sono grata di questa opportunità; riesco persino a immaginare
che sarà bello vedergliela perdere anche questa volta. Mio padre
no, lui è davvero uno sportivo: se gioca una squadra italiana
spera sempre che vinca. Se invece non vince va bene lo stesso,
per lui avrà sempre vinto la Migliore.
Accendiamo la tv, lui sulla sua poltrona, io su quella "del
popolo", cioè l’altra. La voce di Pizzul, rassicurante. Per
fortuna ci sono cose che non cambiano mai.
Le prime immagini.
"Maremma quanta gente…".
"Sì, ma, boh, che stadio… Ci si lamenta del Franchi…".
All’inizio non capiamo. Ascoltiamo
poco il commento, più che altro cerchiamo di parlare tra noi per
non stare in silenzio.
Nel vedere quel caos, ce la prendiamo subito con gli
italiani, le telecamere inquadrano solo loro, chissà che avranno
combinato… Poi, ce la prendiamo con la polizia, soprattutto io,
che ogni domenica, in curva, ho la sensazione di essere
assediata e invece lì, a una finale di Coppa, vedo tre gatti in
divisa. Poi, ce la prendiamo con tutti.
"Insomma, guarda che casino… "Ovvìa, su", per una partita !
Guarda come hanno ridotto lo stadio ! La gente che aspetta…
Chissà che sete… Ci saranno bambini… E questi continuano a voler
fare a botte… Mah, sempre la stessa storia. Eh, la mamma ha
ragione a prenderci per grulli perché la domenica si va allo
stadio !".
Lentamente tra noi cala il silenzio.
Ma lo stesso non vogliamo capire.
Un morto è una tragedia, una catastrofe, un morto è Daniela.
Alcuni morti, 24 morti, 36 morti dentro uno stadio sono
incomprensibili.
Iniziamo a chiederci sottovoce se sia il caso di giocare… "È
successo qualcosa di grosso, questa volta hanno esagerato,
bisogna dare un segnale !".
No, non si dovrebbe giocare. Concordiamo. Ma l’Ordine
pubblico, la Sicurezza… Mio padre è sempre stato un uomo di buon
senso.
Le immagini continuano a scorrerci davanti agli occhi. Il
babbo ora è immobile, impietrito, ed io non oso nemmeno
guardarlo. Siamo sprofondati dentro le nostre poltrone. Muti e
attoniti.
Inizia la partita. Dobbiamo guardarla, siamo entrambi senza
alcuna forza di reagire, non abbiamo il coraggio di dire
all’altro che ne abbiamo abbastanza, perché è "quella" sera… Va
bene, va bene tutto, pur di non parlare ancora di Daniela.
Guardiamo, guardiamo.
Dopo un po’, invece, cediamo: le lacrime inondano prima il
viso di mio padre, poi il mio.
Mi alzo, mi rannicchio nella sua poltrona, tra le sue
braccia, e piangiamo insieme. Piangiamo per ognuno di quei morti
perché abbiamo finalmente capito… Ed ognuno di loro si chiama
Daniela, ha il suo viso, i suoi bellissimi capelli ricci e il
suo profumo. Ognuno di quei morti diventa nostro, come lei. E
tra i singhiozzi la chiamiamo e chiamiamo quelle povere madri, i
padri, i fratelli, i figli di quelle persone che non conosciamo.
In quei momenti ci sentiamo noi due, la loro famiglia. Sappiamo
quanto soffriranno e mentre ci stringiamo l’uno all’altra, come
naufraghi, stringiamo tutti loro.
Quando ci sembra di non aver più lacrime, spegniamo la tv e,
in silenzio, andiamo a letto anche se non dormiremo.
Non abbiamo visto il goal, né sentito Pizzul chiedere il
permesso di gioire. Non abbiamo visto la Juve alzare la coppa.
Non abbiamo visto il giro della vittoria. Ci vorranno giorni per
capire davvero, per appena intuire cosa è sommariamente
successo. Ci vorranno mesi, anni, per sentire il sapore
autentico del disgusto.
Mio padre ed io non abbiamo mai più parlato di quella sera.
Troppo dolore e persino la vergogna di non aver aiutato l’uno il
dolore dell’altra, di essere crollati, di non essere stati forti
mentre l’altro cedeva.
Ma da allora ho sempre ricordato, insieme a mia sorella, i
morti dell’Heysel. Ogni anno, giorno più, giorno meno.
Giovanna Bacci
18 giugno 2022
Fonte: Associazionefamiliarivittimeheysel.it
© Fotografia: Giardinaggio.net
NOTA BENE: Autorizzazione alla pubblicazione della lettera
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assoluto alla riproduzione integrale o parziale del testo, così
come alla sua diffusione in altri siti e canali social privati
del riferimento diretto alla fonte originaria.
A-Z |
GIUSEPPE BARRECA
"L'Heysel alla Tv"
Questa
è la storia di un bambino. Undici anni e una incontrollabile
passione per il calcio e per la Juventus. Una passione smodata
che non lo fa pranzare o cenare quando c’è una partita; che
rende le sue domeniche spesso cariche d’ansia, d’attesa e poi di
una gioia irrefrenabile o di un’enorme tristezza. Un bambino un
po’ eccessivo. Per questo il papà spesso cerca di distrarlo, di
fargli amare altre cose; ma non ci prova più di tanto, perché è
un bambino bravo a scuola. Dunque il papà gli permette di
lasciarsi andare mentre guarda in TV o ascolta alla radio le
partite della Juventus. E poi questa sera nulla può distogliere
il bimbo dalla televisione; il papà lo sa e non dice nulla.
Anche a lui piace il calcio. Il bimbo quella sera mangia poco, è
molto eccitato: è appena tornato da una gita con la scuola sul
fiume Po e non sta più nella pelle, in attesa dell’inizio della
partita. È la finale della Coppa dei Campioni, l’unica coppa
europea che la Juve non ha ancora vinto, la coppa più
prestigiosa, che la squadra insegue da anni, dopo aver perduto
ben due finali: con l’Ajax nel 1973 e con l’Amburgo nel 1983. Il
bimbo è impaziente di vedere i suoi eroi, con la maglia a
strisce bianco-nere, scendere in campo. Perché questa volta è
sicuro che vincerà la Juve: quella coppa non può sempre essere
stregata. Anche se l’avversario, il Liverpool, è uno squadrone,
composto da giocatori fortissimi, esperti. Ma forse un po’
decadenti. Per questo il bimbo, che ha seguito tutta la
cavalcata della Juve quell’anno, è fiducioso. A cena il bimbo
mangia poco, ha lo stomaco chiuso per l’agitazione. La gita sul
fiume Po è già dimenticata, perché ora c’è solo la Juve. La gita
è stata bella, con i compagni di scuola non si è parlato d’altro
che di calcio, la "Gazzetta" è stata la compagna fedele del
giorno. Il bimbo non si ricorda quali luoghi ha visitato, né
dove ha pranzato. Ha in testa solo la Juve, stasera, il
divertimento, il pallone, l’emozione, il cuore che batte in
attesa della partita. Manca poco alla partita, sono quasi le
sette e mezza. Il bimbo è impaziente. La Tv trasmette in diretta
dallo stadio di Bruxelles, lo stadio Heysel. È il 29 maggio
1985. Il bimbo è seduto sul divano vicino al papà, ma capisce
subito che c’è qualcosa che non va. Perché il papà fa commenti
strani, quasi preoccupati, mentre guarda le immagini. Pure lui
ama il calcio, ma non è juventino, è milanista. Però non
commenta la partita, che non è ancora cominciata; dice che sta
succedendo qualcosa, qualcosa di brutto. Il bimbo guarda e non
capisce, i suoi occhi non sanno ancora distinguere bene il
"brutto", soprattutto quando si tratta di una partita di
pallone, cioè di qualcosa che per lui è il massimo della
bellezza, del divertimento. Eppure in quello stadio belga
qualcosa di brutto dev’essere successo davvero. Il telecronista,
Pizzul, non racconta la partita (che dovrebbe essere già
cominciata), ma parla di incidenti; le immagini della Tv
riprendono una curva piena di bandiere bianco-nere. Ma non
sventolano affatto; il bimbo vede che i tifosi della Juve
corrono, scappano, sembrano delle formiche che fuggono davanti a
un gigante. Alcuni scappano verso il campo di gioco, ma ci sono
poliziotti a cavallo che li bloccano, li manganellano; altri
corrono verso altri tifosi, che però hanno le bandiere rosse,
sono quelli del Liverpool: e si picchiano, tanto. Il bimbo non
capisce, il papà dice: "che deficienti, che animali, cosa fanno
? Chi li ha fatti incontrare ?". I tifosi delle squadre
avversarie non dovrebbero stare lontani in una partita così ? Il
bimbo ha letto sulla Gazzetta che tra i tifosi inglesi ce ne
sono alcuni molto cattivi, tremendi, chiamati "hooligan"; non sa
cosa significa questa parola, però, ora che li vede in azione,
capisce che sono tifosi molto bravi a menare le mani, a
inseguire i tifosi avversari, a farli scappare. Ma anche gli
juventini si danno da fare, sembrano cattivi anche loro. Poi il
telecronista dice che la partita non può iniziare: forse è
rinviata, forse sospesa perché ci sono tanti feriti, qualcuno
anche grave. Feriti gravi ? Allo stadio ? Il bimbo non ci crede.
A un certo punto squilla il telefono: sono i nonni dalla
Calabria che hanno visto le immagini e chiedono se il bimbo è lì
a casa o se magari è andato a Bruxelles a vedere la partita. I
nonni ! Che esagerati ! Il papà li tranquillizza. Mentre il
bimbo sorride sentendo la telefonata, vede in Tv i giocatori
della Juve in campo. Ma non sono lì per giocare: hanno la tuta
addosso e parlano con i tifosi. Il bimbo riconosce Platini,
Tacconi, Bonini, Scirea: tanti tifosi stanno attorno a loro, li
abbracciano, li salutano, ma c’è anche qualcuno che piange, che
quasi li prega… Ma non si gioca allora ? Sono le otto e mezzo
ormai. Nessuno dice nulla in Tv. Poi, più tardi, il bimbo vede
che ci sono tifosi con le bandiere e le sciarpe della Juve che
sembrano accatastati l’uno sopra l’altro. Il papà, che è tornato
sul divano, è sconvolto, dice che sono aggrappati a un palo di
ferro, che saranno centinaia, che presto il muretto che confina
con quel palo crollerà. Molti tifosi sono scappati verso quel
muro per sfuggire ai tifosi del Liverpool: ma ora sono tutti
ammassati, schiacciati. In Tv si vedono alcune facce: c’è chi ha
i baffi, chi gli occhiali, i visi sono sconvolti. Si vede un
uomo con una giacca blu sospeso nel vuoto: ha le gambe in mezzo
alla folla, il corpo sul
vuoto,
ed è aggrappato disperatamente al palo di ferro… Poi succede che
tutti vengono giù, non si capisce bene, il telecronista dice che
deve essere crollato il muretto. Si vedono tifosi cadere, altri
tifosi correre sopra di loro, scappare, calpestare i corpi, i
maglioni, i pantaloni degli altri e fuggire, liberi finalmente,
verso il campo, verso la pista d’atletica. Il bimbo si stringe
al papà, ha una strana
paura. L’emozione per la finale di Coppa
dei Campioni è svanita. Ha visto quelle facce, quelle persone
schiacciate contro quel muro, poi le ha viste cadere tutte
insieme, a centinaia una sopra l’altra. Forse si sono salvate,
si sono tolte dalla calca. Non si sa, perché il telecronista non
dice nulla, le immagini della Tv inquadrano diversi settori
dello stadio. Sono ormai quasi le nove. La Tv continua a dire
che ci sono feriti gravi, forse "molto" gravi. Intanto il bimbo
vede che ci sono poliziotti a cavallo davanti alla curva degli
juventini, quella che è crollata. E poi vede tante ambulanze
andare e venire, sembra una "guerra", dice il papà. Poi la
notizia attesa: la partita si giocherà, l’UEFA, che organizza la
finale, dice che se non si gioca succede il finimondo. E il
bimbo ha di nuovo un sussulto d’emozione, perché ora la Juve
scende in campo e bisogna tifare, vincere quella coppa. Però non
è contento come altre volte, quando vedeva le partite… Alle
21.15 comincia la partita, con un’ora abbondante di ritardo. Il
bimbo vede i suoi eroi, recita a memoria la formazione della sua
squadra, di quella fortissima Juventus piena di italiani
campioni del mondo e di quel poeta del pallone di nome Platini.
Il bimbo non pensa ad altro, se non alla partita. Il cuore batte
forte. Ma il telecronista non alza la voce quando c’è un’azione
pericolosa, né sembra raccontare una partita; il tono della sua
voce è monocorde, mesto. Spesso non parla della partita, ma
delle notizie che arrivano dallo stadio, dagli ospedali di
Bruxelles. Dice che fuori dallo stadio sono state montate alcune
tende dove sono curati i feriti più gravi. Poi dice che sente
continuamente sirene di ambulanze. Poi dice che forse c’è stato
un morto tra i tifosi italiani; il bimbo non ci crede, il papà è
sconvolto, nemmeno lui ci crede. Ma perché il papà è così
sconvolto ? Non conosciamo nessuno che è andato a Bruxelles. Il
bimbo non capisce bene il primo tempo scivola via, zero a zero.
Ma il Liverpool è forte, il bimbo freme, ha paura, perché la
Juventus soffre, ha rischiato di prendere più volte il gol, non
ha attaccato molto. Ci manca pure di perdere anche questa finale
! Inizia il secondo tempo e la Juve sembra più intraprendente.
Finalmente i suoi campioni si sono svegliati e Platini comincia
a pennellare poesia con i piedi. La partita è combattuta,
coinvolgente, ma il telecronista non sembra accorgersene: dice
che forse c’è più di un morto, che le autorità belghe non
diffondono notizie attendibili, che certe cose non possono
succedere in uno stadio. Il bimbo non ascolta più: vede un
pallone lanciato da Platini, vede Boniek che corre verso la
porta del Liverpool, da solo. Poi però cade: l’arbitro fischia
il rigore, non si capisce bene perché, Boniek era fuori area. Ma
è rigore. Platini segna, esulta, il bimbo è felice, corre per il
salotto di casa pieno di gioia. La partita riprende e quelli del
Liverpool sembrano indemoniati: attaccano con forza, vogliono
pareggiare, Tacconi para tutto, è il migliore in campo. Alla
fine la Juve vince, la Coppa dei Campioni prende la strada di
Torino. Il bimbo ha seguito con il cuore in gola il secondo
tempo e al fischio finale può liberare la sua gioia. Non sta più
nella pelle. Il papà invece ha la faccia triste, ma non dice
nulla al bimbo, lo lascia sfogare. Forse, quando sarà più
grande, capirà, e lui gli spiegherà la tragedia che si è
consumata allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. Ma
stasera il papà vuole fare sognare suo figlio ancora un po’. Fra
qualche tempo gli parlerà dei 39 morti di quella sera.
28 maggio 2010
Fonte:
Poesiaescrittura.blogspot.com
A-Z |
DOMENICO BECCARIA
Chi inizia e chi finisce
di Domenico Beccaria
Ero a casa, con mio padre e attendevamo di assistere
alla finale di Coppa dei Campioni, come si chiamava allora, che
si disputava allo stadio Heysel di Bruxelles, tra la Juventus e
il Liverpool.
Sono
passati trentatré anni ma sembra ieri. Le immagini un po'
sfocate in bianco e nero che arrivavano dal Belgio e riempivano
d’orrore i televisori ed i cuori di tutti gli italiani, non si
possono cancellare dalla mente di chi le ha viste. Ero a casa,
con mio padre e attendevamo di assistere alla finale di Coppa
dei Campioni, come si chiamava allora, che si disputava allo
stadio Heysel di Bruxelles, tra la Juventus e il Liverpool. Mio
padre, granatissimo ma vecchio stampo, aveva lo spirito
nazionalista che lo portava a simpatizzare sempre e comunque per
il concorrente italiano che disputava il successo allo
straniero. Io, altrettanto granata, ma moderno, ero apertamente
schierato per i rossi britannici, perché per quanto nazionalista
potessi essere, ero disposto a fare eccezione se a rappresentare
il tricolore erano loro, gli acerrimi rivali cittadini. Ma
quella sera era destino che lo sport passasse in secondo piano
rispetto alla tragedia umana che si stava consumando attorno a
quel fatiscente impianto, che sarebbe stato indegno anche dei
combattimenti tra gladiatori dell'antica Roma, non solo di una
finale europea di fine Novecento. Non eravamo preparati a una
cosa così. Nessuno lo era. I corpi ammassati uno addosso
all'altro, a bramare un soffio d'aria e un centimetro di spazio,
che potevano significare la differenza tra la vita e la morte.
Qualcuno giaceva esanime a terra, con un amico o un parente che
cercava di dargli conforto. Qualcun altro invece era riverso al
suolo per sempre, la fragile fiammella che era in lui spenta per
sempre. Un padre che piange la figlia è l'immagine che
cristallizza tutto questo orrore e lo sintetizza al meglio.
Chilometri su chilometri, fatica, sacrificio, ma anche gioia e
speranza, travolti da un'insensata carica di bestie ubriache di
birra e di sangue. Non voglio stare qui ora a cercare le
responsabilità, che appaiono fin troppo chiare agli occhi di
chiunque. La storia, anche se non i tribunali, hanno detto a
chiare lettere chi e dove ha sbagliato, tanto che da quel giorno
si è innescato un lento ma inesorabile processo, che ha portato
agli stadi moderni e "sicuri" di oggi. Ma un paio di
considerazioni lasciatemele fare. L'unica cosa che ha lasciato
più allibiti della tragedia è stato che, alla faccia di tutto e
tutti, si sia disputata una partita di calcio e si sia
consegnata e, ahimè, da parte di molti, anche festeggiata una
coppa. Ordine pubblico, si disse allora e si ripete oggi. Sarà,
ma a posteriori si sarebbe potuto, anzi dovuto, dichiarare nulla
la finale, non aggiudicando il trofeo e contestualmente
devolvere, primo ma doveroso risarcimento, l'intero incasso
della serata, biglietti, diritti tv e quant'altro, alle vittime
e alle famiglie. La seconda considerazione va all'uso infame e
carognesco della tragedia e del dolore, messo in campo in molti
stadi italiani, per deridere e offendere gli avversari
bianconeri. E noi granata, mettiamoci pure una mano sulla
coscienza, la nostra parte l'abbiamo fatta, senza tirarci troppo
indietro. Non ci pareva vero, dopo trentasei anni di areoplanini
e di cori su Superga, di poterci prendere una rivincita sugli
odiati nemici, che per ferirci e offenderci non avevano esitato
ad oltraggiare la memoria degli Immortali. E anche di Meroni e
Ferrini. Ora toccava a noi, avevamo il coltello dalla parte del
manico e la ferita che sanguinava era la loro. Stolti e miopi,
non ci siamo resi conto che due cose sbagliate non ne facevano
una giusta. Ci sono voluti anni di sedimentazione delle scorie,
di metabolizzazione del dolore reciproco, di maturazione umana,
per arrivare a capire tutto questo. Non smetterò mai di
ringraziare gli amici, sì, amici bianconeri Domenico Laudadio,
Francesco Caremani, Beppe Franzo, Iuliana Bodnari, Rossano
Garlassi, Nereo Ferlat e Fabrizio Landini e mi scuso per tutti
gli altri che non riesco a citare qui, con i quali abbiamo dato
inizio e poi proseguito in questo cammino di conoscenza, poi di
comprensione e infine di redenzione. Con loro siamo cresciuti
insieme, stimolandoci un l'altro a tirare fuori il nostro lato
migliore e a diffonderlo a tutti. La mostra "Settanta Angeli in
un unico Cielo - Superga ed Heysel tragedie sorelle", realizzata
con il mio "Fratellino - Direttore" Giampaolo Muliari in
collaborazione col duo Laudadio e Caremani, ha avuto una
gestazione tribolata, con mille discussioni se la gente fosse
pronta a capire oppure no. Ma bisognava farla, erano in
settanta, da lassù, a chiedercelo e con loro c'era tutto il buon
senso del mondo, quello cui bisognerebbe attingere a piene mani
prima di aprire bocca o muovere le mani. Oggi quella mostra è
diventata itinerante e credo che molti passi avanti siano stati
fatti da entrambe le parti, ma molti ce ne sono ancora da fare,
insieme, e pur mantenendo intatte le rispettive identità e
differenze, come la leale competizione agonistica sportiva
prevede. Ma li faremo tutti, fino all'ultimo. Perché non conta
chi ha avuto la vigliaccheria di iniziare ad offendere, ma chi
avrà il coraggio di finirla.
29 maggio 2018
Fonte: Torinoggi.it
A-Z |
STEFANO BELLINI
Il "mio" Heysel
La
passione è un sentimento straordinario, ti dà sensazioni
fortissime ed intense. La passione mi ha regalato molti momenti
indimenticabili e tra questi avrei voluto fortemente che fosse
stato presente anche QUEL MOMENTO LI’… Quello del 29 Maggio
1985. Quello del grande evento, quello della rivincita, quello
della "prima volta", quello della Coppa dei Campioni (…Nome più
affascinante dell’attuale Champions League). E invece no.
Adesso, a distanza di quasi 24 anni, mi dà grande imbarazzo
ricordarmi che, quella sera, l’infinita passione per la mia Juve
prese il totale sopravvento sulla ragione. Non capivo cosa stava
succedendo, qualche indiscrezione cominciava ad uscire fuori, ma
in me cresceva il fastidio (…Sì fastidio… A pensarci adesso mi
vergogno…) tipico della festa rovinata. Ho gioito, ho esultato
ma con il freno a mano tirato, perché dentro di me avevo una
strana sensazione, un senso di tormento. Il giorno dopo la
tremenda conferma. Assolutamente stravolto, il primo pensiero fu
"non è possibile che tutto ciò sia capitato proprio alla mia
Juve", non 2 anni dopo Atene. Non sono stato presente a
Bruxelles (...Ah il destino !) ma, grazie ad un episodio casuale
accaduto il 29 Maggio 2008, ho avuto la possibilità di sentirmi
anch’io partecipe di quella maledetta sera. Collaborando alla
preparazione di una puntata speciale televisiva sull’Heysel nel
2008, ho avuto la fortuna di contattare e conoscere il signor
Otello Lorentini, padre di Roberto, uno dei 39 Angeli,
presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime. Appena
mi presento e gli spiego il motivo della mia telefonata
percepisco subito in lui un sentimento di naturale diffidenza
che capirò più tardi. Molto gentile e schietto mi dice che, di
questa tragedia, lui ne ha parlato abbastanza e che è tutto
scritto in un libro, L’UNICO CHE DICE TUTTA LA VERITA’. (N.D.R.
Le verità dell’Heysel. Cronaca di una strage annunciata di
Francesco Caremani) Continua dicendomi che in molte trasmissioni
televisive si sono dette tante fesserie, pensando più alla forma
che alla sostanza delle cose. Lo convinco ugualmente ad
intervenire telefonicamente garantendogli che potrà raccontare
tranquillamente la sua verità. Lorentini mi chiede solamente a
che ora è previsto il suo intervento perché, il giorno della
trasmissione, c’è la solenne Messa in ricordo dei defunti. Un
brivido intenso percorre la mia schiena. Onore ai defunti.
Termina la telefonata ed io penso: dov’è la Juventus in tutto
questo ? Lorentini non l’ha mai nominata ed in più mi confessa
che il nipote Andrea, figlio di Roberto, è simpatizzante
dell’Inter perché la Juve proprio non riesce a tifarla. Credo
fermamente che il ricordo dell’Heysel debba vivere sempre in noi
tifosi bianconeri e NON e credo che, in primis, debba essere
proprio la nostra amata Juventus a ricordarcelo sempre. FORZA
JUVE, vinci anche fuori dal campo !
29 maggio 2010
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
LORENZO BENOCCI
Il mio viaggio all'Heysel. Per
non dimenticarli
Ci
sono quei pochi scalini da salire, una volta arrivati alla
penultima fermata della linea 6, quella di colore azzurro. E
poi, giunti in cima, lo sguardo va, in modo naturale, dove deve
andare. Con un groppo in gola. Con gli occhi che diventano
lucidi. Sono all’uscita della metropolitana di Bruxelles,
fermata Heysel. A sinistra c’è lo stadio oggi intitolato a Re
Baldovino. Sono passati 28 anni e poco più di un mese da quel 29
maggio del 1985. Quella sera la mia Juventus giocava un’altra
finale di Coppa dei Campioni dopo soli due anni da quella
sfortunata di Atene, dove il più debole e sottovalutato Amburgo
ci beffò con il diabolico Magath. Ma ora abbiamo la possibilità
di rifarci contro quel Liverpool che l’anno prima aveva trafitto
ai rigori la Roma, direttamente a domicilio. Ricordo
perfettamente quella serata. Con l’ansia di un bambino torno a
casa con mio babbo, dopo essere stato come tutti i mercoledì a
scuola di musica. In auto parliamo della partita, e di cos’altro
potevamo parlare ? L’ansia pre-partita stava crescendo. Ma dalla
radio apprendiamo che qualcosa non è andato come doveva andare e
che anche lo svolgimento della partita sarebbe stato in dubbio.
Poco dopo, siamo davanti alla tv, a vedere quelle immagini
terribili, di guerra più che di sport, senza capire fino in
fondo cosa stava accadendo. In quei momenti un altro bambino di
quasi undici anni, esattamente della mia età, si trovava allo
stadio proprio nel settore maledetto con suo padre. Insomma, un
sogno, per lui, poter vedere la Juve che gioca una finale. Ma
quel bambino la partita non l’ha mai vista, ed a casa non c’è
più tornato. Così come suo babbo ed altri 37 spettatori, di cui
32 tifosi della Juve. I 39 angeli dell’Heysel. Sono passati 28
anni, ma sembra un giorno. Una tragedia che nessuno potrà
dimenticare, troppo intensa, troppo assurda, anche perché
sarebbe potuta accadere a chiunque. Inutile ricordare i fatti e
le responsabilità, le sappiamo. In cuor mio da sempre mi sarebbe
piaciuto fare una visita allo stadio maledetto; senza un motivo
apparente, solo per toccare quei muri dove si è compiuta una
delle più crudeli brutalità della storia recente, non solo dello
sport. Solo per riflettere. 39 persone che sono morte mentre
aspettavano l’inizio di una partita di calcio. Assurdo.
Finalmente sono potuto andare a Bruxelles (per altri motivi), e
così il mio viaggio all’Heysel si è compiuto. Chiedo ad un
giovane operaio che stava lavorando all’ingresso dello stadio
dove fossero la lapide alla memoria e la meridiana che proprio
nei giorni scorsi la municipalità di Bruxelles ha deciso di
salvare dall’abbattimento dello stadio (e la costruzione di un
nuovo impianto nello stesso punto), grazie ad una petizione
organizzata da alcuni fantastici tifosi della Juve. L’operaio mi
risponde che non lo sapeva. Anche altri due ragazzi che facevano
jogging nel perimetro esterno dello stadio non avevano mai
saputo che ci fosse la lapide. Mi rendo conto che il Belgio ha
voluto dimenticare in fretta questa pagina di vergogna, il nome
dello stadio - oggi Re Baldovino - me lo conferma.
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Arrivo
finalmente nel lato dell’ingresso principale e sullo sfondo noto
la meridiana. Qualche passante mi guarda stranito, pensa a che
cosa ci possa fare con il mazzo di fiori gialli che tengo in
mano. Mi dirigo dritto verso la meridiana, ci sono le 39 luci -
ovviamente di giorno sono spente - ma nemmeno una targhetta a
spiegare che cosa significhi questo anonimo monumento. Qualche
metro davanti nel muro dello stadio la famosa lapide, con i nomi
dei 39 angeli caduti quel 29 maggio, inaugurata nel ventennale
della tragedia dal borgomastro della capitale belga. C’è anche
il nome di quel bambino, Andrea Casùla, a cui tante volte ho
pensato in questi anni. E ci sono tutti gli altri. Mi metto a
riflettere, a ripensare alle immagini di quel giorno viste tante
volte, ai giornali che ho conservato ed ogni tanto rispolverato.
Mi chiedo perché è potuta succedere una cosa del genere. Perché
le forze dell’ordine, l’organizzazione della finale e chiunque
potesse evitare questa tragedia non ha fatto niente per
evitarla. Mi chiedo se fosse stato utile e giusto giocare quella
partita. E se i giocatori bianconeri avessero dovuto alzare
quella Coppa al cielo. Mi chiedo perché la Juventus, intesa come
società, non ha fatto abbastanza per ricordare i fratelli
bianconeri morti all’Heysel. Mi chiedo perché persone "normali",
per bene e all’apparenza pacifiche, quando vanno allo stadio e
quando parlano di Juve debbano avere questo odio inspiegabile
che va oltre lo sport fino a profanare persino la memoria di
vittime innocenti. E perché lo sport non debba rimanere tale
invece di valicare il confine dell’inciviltà e dell’odio, come
nemmeno nelle guerre fatte per motivi più importanti ciò accade
? Indossare una maglia del Liverpool con la scritta "meno" e il
numero "39" è una vergogna bella e buona; così come i cori che
dopo 28 anni risuonano ancora in alcuni (molti purtroppo) stadi
italiani. Ci vuole rispetto qualunque sia il colore calcistico
di ognuno. Riesco poi ad entrare dentro lo stadio, e mi
orizzonto fino ad arrivare a quello che fu il settore Z.
L’emozione è ancora maggiore. Mentre appoggio il mio mazzo di
fiori in quella gradinata mi siedo e penso ancora a quelle
immagini di sangue e di morte. Guardo il punto dove Zibì Boniek
subì il fallo da rigore, la porta dove Michel Platini segnò il
gol decisivo dal dischetto. La cabina - anche se oggi
trasformata dopo la ristrutturazione dello stadio - dove Scirea
lesse la comunicazione che la partita si sarebbe giocata per
motivi di sicurezza. Esco e torno davanti alla lapide ed un
giovane padre di famiglia, mi passa vicino, gli chiedo se può
farmi una foto e parliamo del mio mazzo di fiori. Si ricorda -
mi dice - della tragedia dell’Heysel anche se le sue
informazioni sono molto incerte e frammentarie. Gli dico che non
ho parenti o amici fra quei 39 morti, ma che sono qui "solo" per
ricordare quei tanti fratelli bianconeri, che erano ognuno di
noi. Insieme ai fiori anche il biglietto che ho portato a nome
di tutti gli amici dello Juventus Club Doc Valdorcia -Valdichiana
"Beppe Furino": In memoriam - 39 angeli sempre nei nostri
cuori". Depongo il mazzo di fiori, è l’ora di ripartire. Dopo
qualche passo mi giro indietro, un gruppetto di cinque-sei
persone si avvicina a leggere la lapide e il biglietto nei
fiori. Ciao Andrea, ciao angeli dell’Heysel, nessuno di noi vi
dimenticherà mai. Un ultimo pensiero è per le loro famiglie, ma
anche per Andrea Agnelli e per la società: caro presidente, si
può fare di più per ricordare l’Heysel, basterebbe davvero poco
e con costi irrisori. Un monumento all’esterno dello Stadium,
una sezione nel sito ufficiale, o qualunque altra cosa. La
Juventus è tornata a vincere, è un modello sportivo e
manageriale, lo deve essere anche di umanità. Non
dimentichiamoli, mai.
11 luglio 2013
Fonte: Agenziaimpress.it
A-Z |
MARCO BIANCALANI
Febbre a 90° e We are the
Champions: le ragioni di una passione
di Marco Biancalani
Ricordo ancora tutto di quella sera.
Avevo nove anni, un amico con cui giocai a Subbuteo per l’intero
pomeriggio emulando la finale, le prime immagini confuse dalla
tv, il telefono che iniziò a squillare. Amici, parenti, vicini,
persino la mia maestra delle elementari: "Tuo babbo è lì ?".
Perché tutti sapevano che in quelle occasioni spesso lui c’era,
ma in realtà quella sera aveva solo lo sguardo spento e gli
occhi pietrificati davanti a quelle immagini. Ebbe solo la forza
di mettermi a letto. "E la partita ?" gli chiesi, innocente.
"Non c’è nessuna partita" mi disse, rimboccandomi le coperte,
mentre mia mamma continuava a singhiozzare nell’altra stanza. 29
maggio 1985, Bruxelles, l’Heysel. Il mio Heysel, quello di un
bambino che aspettava di vincere una Champions League (allora si
chiamava ancora Coppa dei Campioni) e che invece toccò con mano
per la prima volta la tragedia, il dolore, la morte per un tifo,
un’appartenenza, uno schieramento. Nick Hornby nel suo libro
cult "Febbre a 90°" dedica all’Heysel un capitolo toccante, in
cui oltre alla naturale compassione umana cerca di analizzare
quanto avvenuto: i 39 morti avvennero per schiacciamento, non in
seguito a ferite di altro tipo. Era una pratica molto rischiosa
per provocare schermaglie, molto inglese, che portò anni dopo ad
una tragedia ancora più grande come dimensioni di vittime,
quella dello stadio Hillsborough di Sheffield nel 1989, anche
questa raccontata nel libro. Ci furono 95 morti, più del doppio
rispetto all’Heysel. Come racconta Federico Buffa in una delle
sue mirabili storie, fu lì che la Thatcher ne ebbe abbastanza:
il calcio inglese che vediamo oggi, con stadi ed erbe perfette,
nasce dal giro di vite deciso quella sera. A Bruxelles i tifosi
inglesi spingevano, quelli italiani si schiacciavano e morivano
contro un muro. La colpa ? Certo, degli Hooligans. Ma molto
anche della (dis)organizzazione belga, che decise di adibire una
curva a entrambe le tifoserie, incoscienti evidentemente anche
solo della fama che avevano i tifosi d’Oltremanica al tempo. Un
padre con un figlio di 10 anni furono ritrovati
insieme,
morti abbracciati. Potevo essere io, con mio padre, l’uomo che
la domenica non c’era mai perché spesso affrontava lunghi viaggi
da Prato a Torino. Io rimanevo dai nonni, mi rifugiavo nei
vinili di Aretha Franklin e dei Led Zeppelin mentre tenevo lo
sguardo rivolto a "Domenica In", sperando che passassero buoni
risultati in sovraimpressione. Poi iniziò a portare allo stadio
anche me e da lì è iniziata la passione, quella che Nick Hornby
descrive in "Febbre a 90°" partendo dall’idea che "tutti abbiamo
una buona ragione per amare ciò che amiamo". Il mio amore per i
dischi nasce dall’assenza, la passione per il calcio dalla
presenza, dalla prima vera cosa in comune con un genitore troppo
grande, troppo impegnato. Da allora abbiamo gioito (molto) ci
siamo guardati delusi (meno) commentando i risultati, come Nick
Hornby forse avrebbe forse voluto fare con suo padre ma non è
mai riuscito. A lui la passione è trasmessa per caso da un
genitore che se ne era andato di casa anni prima e che lo porta
allo stadio così, per passare un sabato con il figlio che non
vede mai, esattamente come andare allo zoo o al cinema. Una
squadra vale l’altra, ma Nick diventa tifoso dell’Arsenal e
quando il padre si stufa e vuole fare qualcosa di diverso, il
ragazzino spiega in maniera chiara (ancora meglio nella
divertente trasposizione cinematografica del libro, con
protagonista Colin Firth, donne fatevi avanti) come lui non
supererà mai quella fase. C’è già troppo dentro, o meglio, come
si direbbe di questi tempi, è stato contagiato. Neanch’io in
fondo l’ho mai superata, perché questo è davvero un virus da cui
non si guarisce. Come dice lo scrittore inglese, "antropologi e
sociologi hanno avuto il loro bel da fare col calcio". Ancora mi
trovo a 44 anni a vivere questi giorni di fine maggio con
tristezza, non solo per l’Heysel, ma anche per tutte le finali
di Champions perse dalla mia squadra del cuore: forse avrei
dovuto capirlo già quella sera del 1985 che non sarebbe stato
facile vincere quella coppa maledetta, neanche in futuro.
Ricordo però anche tante (forse troppe) vittorie, alcune
insperate come il 5 maggio. Al successo di un campionato
inatteso per la sua squadra, Nick Hornby dedica un capitolo
memorabile, forse quello focale dell’intero racconto. "Il più
grande momento in assoluto", lo intitola, rimarcando come
l’emozione di questa gioia inaspettata non abbia pari con
nient’altro nella vita. Il motivo ? Tutte le altre situazioni
che possono rendere un uomo felice presuppongono un’azione in
prima persona, dalla nascita di un figlio al successo
sentimentale o lavorativo. In questa no, non si può contribuire
con nulla, se non con il proprio tifo. Non sono così
assolutista, ma neanche ipocrita al punto di negare che l‘esito
di una partita o di una stagione possa influire pesantemente (e
momentaneamente, ovvio) sul mio umore. Il calcio è passione,
gioia inaspettata, ansia costante ma anche dispiaceri
lancinanti. La musica è puro godimento, anche perché quella che
non ti piace semplicemente la escludi, non la ascolti. Le
canzoni dei Queen che amo per me sono gioia, tutte tranne "We
are the champions". Quella… Dipende. Contenuta in un album
bellissimo e dal suono grezzo come "News of the World" (era il
1977, altro che glam rock, bisognava fare concorrenza al punk)
fu scritta da Freddie Mercury non solo per autocelebrazione, ma
pensando al moto popolare del calcio. Questo brano e "We will
rock you", pezzo di apertura dell’album, chiudevano i concerti
dei Queen e facevano da colonne sonore a tanti eventi sportivi,
calcistici in primis. Se alla fine della partita decisiva per
l’assegnazione del campionato o di una finale (a maggio) avevi
voglia di ascoltarla mentre i tuoi beniamini facevano il giro di
campo, allora ti era andata bene, esisteva solo quella canzone,
la rimettevi altre mille volte in cassetta nei giorni seguenti.
Altrimenti in "News of the World" saltavi direttamente al terzo
brano, "Sheer Heart Attack", un bel pezzone rock dalla chitarra
martellante che non ti avrebbe costretto a pensare. Oggi il
calcio è ancora tifo, ma soprattutto un’industria, la terza del
paese per indotto. Attenzione prima di dire che con tutti i
problemi che ci sono in Italia, chi se ne frega del calcio. Lo
stadio della mia squadra, anche nei giorni non di partita, dà
lavoro a quasi mille ragazzi fra steward, inservienti e addetti
vari. Diventa un centro per eventi e congressi, altro che i
gradini del vecchio Comunale di Torino degli anni ’80 in cui mi
sedevo con mio babbo mangiando panini con la frittata. È un
calcio diverso da quello che racconta Nick Hornby in "Febbre a
90°", forse più sicuro ma certamente meno genuino, meno
passionale. A giugno riparte il campionato. Forse questa è la
cosa meno importante fra le tante che sono successe in questi
mesi, ma forse la più importante per lanciarci il segnale che
potremmo esserne fuori. No, non mi è mancato il calcio, non ho
particolare voglia che riprenda, ma so che continuerò a tifare
appena ripartirà. E quando a luglio o agosto sarà finita
un’altra stagione, deciderò se fare di "We are the champions" la
colonna sonora di quel che resta della mia estate, oppure
dimenticarla per un po’. Di certo, nell’estate del 1985, nessuno
ha avuto voglia di cantarla davvero. Tranne Freddie durante il
Live Aid.
31 maggio 2020
Fonte:
Scattidallamialibreria.it
A-Z |
La mia opinione sull’Heysel
A
distanza di trent’anni la tragedia dell’Heysel e le sue 39
vittime, per fortuna non è finita nel dimenticatoio e da allora
tante cose sono cambiate in meglio nella gestione delle finali
delle coppe di calcio europee, nella speranza che fatti del
genere non accadano più. Grande merito della memoria rinnovata
va a chi da sempre, parenti delle vittime in primis, ha lottato
perché su quell’episodio non calasse il silenzio che in tanti,
dalle autorità federali calcistiche europee a quelle governative
belghe avrebbero invece auspicato. Ci sono un paio di aspetti
sui quali vorrei provare a spostare l’attenzione, perché vedo
che nessuno lo fa mai. Si dice: La Juventus non avrebbe dovuto
ritirare la coppa "insanguinata". Secondo me è sbagliatissima
questa considerazione. Vero che nessuna vittoria sportiva vale
anche una sola vita umana, ma è anche vero che i 39 morti, se la
Juventus non avesse accettato di ricevere la coppa, sarebbero
veramente morti invano. Quella non è la Coppa della Juventus è
la Coppa dei 39, i loro nomi vanno ricordati per sempre, al pari
delle formazioni delle due squadre in campo. Loro erano andati
fin lassù per vedere la Juve sollevare la prima Coppa dei
Campioni della sua storia, non sollevarla sarebbe stato
veramente togliere loro l’unica, anche se flebile e terrena,
ragione di un così tragico epilogo della propria vita. Perché,
secondo l’opinione comune, ci sono dei motivi validi per dare la
propria vita, fino a morire veramente e altri motivi invece non
lo devono essere ? Chi stabilisce la serietà o la futilità di
una motivazione ? Oggi non si vive più come 2000, o come 1000, o
come 500 anni fa, i valori, i modelli, i riferimenti sono
notevolmente cambiati e cambieranno ancora nel futuro. Noi
parliamo di loro, che sono morti, da sopravvissuti: da
padri-madri-figli-coniuge che hanno perso un loro caro per una
motivazione non così alta, come ad esempio un parente di un
militare che torna in una bara da una missione di pace
all’estero. Anche se non facevano nulla di eroico, li
consideriamo degli eroi, e accettiamo pur nello strazio la loro
morte come un sacrificio necessario per la crescita
dell’umanità. In realtà chi è morto è morto uguale, non
mangia-ride-canta-pensa-soffre-gioisce-ecc. più allo stesso
modo. Il come muori non ti cambia la morte, sempre morto sei. Al
massimo, tragica battuta, ti cambia la vita. Qui l’altra
considerazione, che meriterebbe che un autore scrivesse un
monologo sul tema, da affidare magari a un attore bravo come
Marco Paolini. "Io, morto all’Heysel. Perché nessuno prova a
chiedermi la mia di opinione sulla mia morte ? Vero, è una cosa
impossibile, ma come voi giornalisti o scrittori di chiara fama
fate le interviste ai grandi della storia, morti anche più di
duemila anni fa, perché non lo si fa con me ? Perché nessuno ci
prova neppure ? Forse perché io potrei dare risposte scomode,
forse perché potrei dirvi che anche nel
mio
nuovo stato di "trapassato" ho gioito della vittoria della mia
squadra, che sono contento che i giocatori abbiano fatto il giro
dello stadio con la Coppa al cielo, perché io ero andato fin lì
per quello, che sarei veramente morto per nulla se a un certo
punto alle 21 della sera di quel 29 maggio 1985 tutto si fosse
fermato e lo stadio fosse stato fatto defluire e il mio corpo
fosse tornato a casa come quello di un normale turista investito
da un’auto pirata in terra straniera. Così mi sarei anche
sentito in colpa: no… Per colpa della mia morte non hanno
giocato, per colpa della mia morte non hanno vinto la coppa… No…
Non
avrei potuto fare altro che
urlare e tifare per contribuire
alla vittoria della mia squadra,
ma così, con la mia morte avrei contribuito a non farla vincere,
non potrei sopportarlo senza poter far nulla per rimediare, da
qui, dall’aldilà. Io sono tornato in una bara dalla "campagna di
Bruxelles" della Juve, un’altra cosa certo dalla "campagna di
Russia", da dove purtroppo in milioni non sono neppure tornati
da morti. Questa è la mia opinione, non so se gli altri 38 la
pensano proprio come me. I miei cari mi mancano e sono sicuro di
mancare anche io a loro, come è per tutti qui, ma il fato ha
voluto questo per noi. Certo, se ciascuno di noi potesse
scegliere il proprio destino fino in fondo non ci sarebbero
disgrazie e malattie, vivremmo tutti 120 anni
alti-biondi-belli-ricchi. Ma a nessuno è dato di scegliere, men
che meno a noi, che, sapendolo prima che quella era la nostra
ultima serata di vita, magari avremmo chiesto almeno di
andarcene dopo la partita, non prima, il biglietto l’avevamo
pure già pagato e non ce l’hanno mica rimborsato... Insomma, se
qualcuno prima di quella sera mi avesse chiesto: "ma tu daresti
la vita perché la Juve possa vincere la sua prima Coppa dei
Campioni ?" - non so cosa avrei risposto, e non so cosa
avrebbero risposto gli altri 38 amici qui vicino a me. Adesso so
che è successo proprio così, io ho dato la mia vita, appoggiato
a quel muro, e la Juve ha in bacheca la sua Coppa dei Campioni.
Non dimenticate il mio nome, i nostri nomi, non abbiamo fatto
nessun gol, ma abbiamo scritto un pezzo di storia di quella
sera, nostro malgrado. Non dimenticateci".
15 maggio 2015
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
DINO
BOFFARDI
Siate la storia di questa
società
Un
saluto sincero e un abbraccio a voi. Io sono un ormai
trentanovenne non vedente juventino da sempre. Leggo e piango.
Come ho pianto appena acquistata l’età della ragione e come ho
pianto tutte le volte che sento parlarne. Io all'epoca avevo
undici anni. Ricordo che Papà mise sul canale Rai e pensò
addirittura si trattasse di una corsa ippica trasmessa al posto
della partita. Nella sua ignoranza non immaginava neppure
lontanamente credo, che quei cavalli che vide fossero della
gendarmeria belga dopo una tragedia simile. Poi capì. Poi capii.
Capì mia mamma e i miei zii. Ricordo che il giorno dopo a scuola
si fece un tema riguardante i fatti della sera precedente.
Tornando a me, al sentimento e al disgusto che quella sera
tragica mi ha lasciato vi dirò che non dimenticherò mai di
onorare ogni 29 maggio della mia vita con un pensiero a quei
trentanove angeli che per una partita non son più tornati a
casa. Abbraccio di vero cuore chi ha scritto di incidere i
trentanove nomi su quella coppa e concordo sul fatto che solo
così avrebbe un valore significativo. Io a Bruxelles non son mai
potuto andarci di persona ma il mio cuore ogni 29 maggio è lì. E
mi riprometto il prossimo anno di andarci finalmente. Un
pensiero fra tutti quelli che ho va ad Andrea Casula, morto
insieme a suo papà nella ressa di quella maledetta sera.
Cucciolo... Io avevo la tua età allora. Immagino solo con che
gioia andasti a vedere la tua Juve. Immagino l'allegria che
sicuramente contagiava in modo maggiore chi ti gioiva intorno,
sia in viaggio sia allo stadio. Io piccolo mio ogni volta che la
Signora vince dedico a te, sia pure in forma indiretta, la
vittoria. Ogni vittoria. A te, così come agli altri angeli che
con te resteranno sempre nel mio e nel nostro cuore. Io le
immagini non le vedrò e non le vidi mai. Ma bastò solo sentire
chi riuscì a tornare e raccontare, le persone intervistate, e
quella telecronaca asettica per darmi un colpo al cuore che
lasciò una cicatrice profonda, sia nel cuore, appunto, che nel
mio animo. Che la Juve tutta faccia qualche cosa di più per non
dimenticarvi mai e perché voi come noi siate la storia di questa
società.
8 giugno 2013
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
A-Z |
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