"Ma tu, ragazzo no, tu devi farcela a vivere"
di Leonardo Gensini
Faccia a faccia con uno
dei ragazzi sopravvissuti alla tragedia dell'Heysel. Il
suo racconto, lucido e puntuale, ci riporta indietro di
dieci anni per tornare a vivere il giorno del dramma.
C'era tanta rabbia, tanta
costernazione ma anche tantissima speranza in quella frase
così cruda e spietata apparsa il giorno dopo l'immane tragedia
di Bruxelles, a corredo di una delle foto più significative
e drammatiche messa lì, in bella mostra in prima pagina,
dalla maggior parte dei giornali europei. Quel ragazzo quattordicenne,
dal fisico esile, disteso per terra su uno dei tanti gradoni
con le braccia incrociate, privo di sensi, accerchiato da
altri corpi ormai privi di vita, accatastati l'uno sull'altro
come bestie in squallidi macelli, ha avuto la forza di scacciare
i demoni che lo volevano portare via. Deve molto, se non
tutto, all'accortezza del poliziotto belga che, resosi subito
conto della gravità della situazione, gli ha praticato senza
pensarci troppo la respirazione artificiale. Era andato
fino a Bruxelles, lui super tifoso della Juventus, per vedere
la sua seconda finale di Coppa dei Campioni dopo la sfortunata
esperienza di Atene, due anni prima, culminata con la sconfitta
con l'Amburgo. Ma quel giorno, quel maledetto giorno, gli
rimarrà impresso nella mente ancora per molto tempo. Purtroppo.
Alessio, studente ventitreenne, trapiantato a Montecatini
da sempre, ma piemontese di spirito (non solo calcistico),
oggi va allo stadio come ieri, animato come al solito dal
grande amore nei confronti della Juve, un amore viscerale
che lo ha portato fino a dover rischiare la propria vita.
Ma il 29 maggio del 1985, a Bruxelles, dove morirono 39
persone andate a "vivere" un giorno di semplice festa, cosa
accadde veramente ? Chi ha le maggior responsabilità per
una delle più grandi atrocità accadute all'interno di uno
stadio ? Si poteva evitare ? Il famoso "settore Z" era sicuro
? Tanti, troppi dubbi avvolgono il mistero dell'Heysel.
Solo Alessio, ci può riportare indietro di dieci anni e
farci capire con questo rapido flash-back un po' di più
su quello che è stato ma che non doveva assolutamente succedere.
E per fortuna che lo Stinky (così lo chiamiamo noi amici
di tutti i giorni), è un ragazzo forte con un gran voglia
di vivere: ha superato il trauma, aiutato dai sanitari e
dalle persone più care, e riesce a parlarne senza eccessivi
problemi, scivolando spesso nella trappola della commozione
(legittima) ma mantenendo comunque una certa serenità.
IL VIAGGIO VERSO LA PAURA
- "Non era iniziato sotto una buona stella il nostro viaggio,
visto che subito si presentò ai nostri occhi un segno premonitore.
Arrivati al casello di Montecatini, insieme a mio cugino
ed al suo cognato sopra una vecchia Dyane, ci venne
spontaneo domandarci: i biglietti li hai tu, vero ? No,
li dovevi portare tu. Insomma, i biglietti erano rimasti
incredibilmente a casa: solo una strana coincidenza ?
Mah, chi lo saprà mai. Ci eravamo decisi un po' tardi
rispetto alla maggioranza della gente, cosicché, tramite
lo Juventus Club Ciocco che aveva organizzato il volo
charter da Pisa, ci appiopparono gli ultimi tagliandi
disponibili, quelli cioè del settore Z rimandati
indietro dall'Inghilterra perché invenduti".
IL PRIMO CONTATTO CON GLI
HOOLIGANS INGLESI - "Ci fecero atterrare a Ostenda per l'intasamento
all'aeroporto di Bruxelles e ci misero a disposizione un
pullman che ci condusse nella capitale. Arrivati nella Grande
Place, vidi per la prima volta i tifosi del Liverpool, rigorosamente
a gruppi, tutti mezzi nudi, molti seduti ai tavolini dei
bar con le immancabili bottiglie di birra in mano e per
terra. Molti erano già ubriachi. Ma io non ci facevo caso,
non avvertivo alcuna paura, mi sentivo tranquillo e contento,
anche perché mi sembrava tutto così normale. Scherzavamo
assieme sul risultato finale, ognuno inneggiava alla squadra
del cuore con un proprio canto e poi dentro bar e ristoranti
eravamo a diretto contatto con molti di loro senza alcun
problema: mai e poi mai avrei immaginato che le cose avrebbero
potuto avere un epilogo così drammatico".
SI APRONO I CANCELLI
DELLA MORTE - "Dopo aver fatto in pullman un giro per le
vie di Bruxelles, alle 15.30 ci recammo ai cancelli già
aperti. Dopo una mezzoretta di coda alla biglietteria,
riuscimmo ad entrare dentro lo stadio. Una cosa che non
potrò mai dimenticare è l'inefficienza dell'impianto
sportivo: entravamo da un'unica porta, o meglio
porticina, non c'era né l'antistadio né una bozza di
servizio d'ordine a controllare l'afflusso delle
persone. Si poteva tranquillamente entrare senza
biglietto. L'unico controllo era rappresentato dal
divieto di introdurre le aste delle bandiere che, però,
rimanevano a portata di mano per chiunque avesse avuto
delle cattive intenzioni".
LE PRIME AVVISAGLIE -
"A dividerci dal settore inglese, avevano messo su una
rete che definire da pollaio era un complimento. Nel
nostro settore non c'erano ultras né gruppi organizzati,
solo tante famiglie in gita di piacere e qualche
straniero neutrale. I primi allarmismi cominciarono ben
presto, visto che gli hooligans si divertivano a tirarci
le pietre che ricavavano dalle gradinate, ridotte in uno
stato pietoso. Ci fu anche una piccola scaramuccia tra
noi e loro, niente più. E' in quel momento che mi resi
conto della pazzia assoluta dei poliziotti belgi
sistemati in campo. Non solo non muovevano un dito ma
scortavano sotto le gradinate i tifosi inglesi che
tornavano armati nel loro settore di casse piene di
birra".
LA TRAGEDIA - "Ad un
certo punto notammo che i tifosi sistemati nella parte
bassa della curva lanciavano pietre verso l'alto. Altro
che scemi. Praticamente armarono tutto il reparto
accanto al nostro. Dopo qualche attimo ci ritrovammo
bersagliati da una grandinata di sassi, bottiglie vuote
e pezzi di calcinacci. Subito dopo sfondarono la rete e
caricarono. Ti lascio immaginare il panico che si venne
a creare tra di noi. Non c'erano vie d'uscita, l'unica
via di scampo era scappare dall'altra parte, verso il
famoso "muretto della morte". Cominciai a correre
anch'io, però mi accorsi che stavo perdendo la scarpa:
feci il cenno di chinarmi per aggiustarmela e poi... Il
buio. Persi conoscenza subito, travolto dalle persone
che mi venivano da dietro. E' lì che ebbi un flash: ero
messo in verticale rispetto ai gradoni e li sentivo
premere con una inaudita pressione sulla schiena, sul
collo, sul basso ventre senza che potessi muovere un
dito, schiacciato chissà da quante persone. Solo un
attimo per fortuna. Successivamente ci pensarono gli
inglesi a sistemare le cose, rubandomi tutto e
probabilmente colpendomi ripetutamente viste le
escoriazioni che al risveglio avevo su tutto il corpo".
LA CERTEZZA DI AVERCELA
FATTA - "L'ho vista proprio brutta, non c'è che dire, ho
avuto la fortuna di farcela: bastava poco di più per essere
di qua o di là. Meno male che quel poliziotto se ne accorse
in tempo, altrimenti chi lo sa... Me la sono cavata "soltanto"
con un trauma cranico, un trauma toracico, un taglio sotto
il piede e molteplici escoriazioni. Poi, in seguito alla
rottura dei vasi capillari degli occhi, ho perso leggermente
(insomma ndr) la vista, ho passato dei momenti di vero sconforto,
soprattutto al risveglio all'ospedale, quando mi ritrovai
completamente solo e sotto choc, non sapevo se mio cugino
e l'altro erano morti, non avevo né documenti né soldi.
Mi consolai guardando un po' di partita. Fu così che la
mattina seguente quando mio cugino mi trovò dopo una notte
passata tra gli ospedali di Bruxelles alla mia ricerca,
mi venne spontaneo corrergli incontro gridando: Gianfranco
abbiamo vinto la Coppa. Pensa te a cosa pensavo...".
IL DOPO BRUXELLES - I medici
mi hanno consigliato di tornare subito allo stadio perché
avrei rischiato di rimanere scioccato nel caso in cui mi
fossi trovato in mezzo ad una massa di gente. Ed io ho preso
la palla al volo, visto che anche quest'anno mi sono fatto
il mio bel abbonamento in curva a Torino e quando posso
(vero Eleonora ? ndr) faccio un salto su. E sono andato
a vedere pure il Liverpool, a Genova, in Coppa Uefa: niente
di particolare, solo un piccole sussulto, più di emozione
che altro, alla loro vista. Certo, io ho rivisto le immagini
di quel maledetto giorno e ti posso assicurare che mi fanno
effetto quanto quelle che vedo tuttora alla televisione.
Se penso che quello che è successo a Genova poco tempo fa
è stato tutto premeditato, tutto fatto coscientemente, al
punto di arrivare ad accoltellare un ragazzo, provo ancora
più schifo di dieci anni fa. Loro almeno erano ubriachi.
Il mio rammarico per quel maledetto giorno rimarrà inalterato
nel tempo, perché oggi come oggi non sarebbe mai successo
un fatto del genere. E poi le famiglie delle vittime: nessuno
ha pagato per quello che è successo, nessuno ha fatto niente
per loro ma soprattutto nessuno potrà ridargli i cari perduti".
Ma tu, ragazzo sì, tu ce l'hai fatta a vivere.
2 febbraio 1995
Fonte: Supertifo
ARTICOLI STAMPA
FEBBRAIO
1995
Il 29 maggio dell'85 morirono 39 tifosi: ma la violenza
continua a convivere col calcio
Heysel, una lezione sprecata
di Gian Paolo Ormezzano
Dieci anni fa la strage
nello stadio di Bruxelles. I dirigenti del Liverpool costruiranno
un monumento.
Domani sono dieci anni
dalla violenza, dalla tragedia, dal crimine dello stadio
Heysel, Bruxelles: quella sera i morti furono 38, di cui
32 italiani, ed un altro dei 236 medicati o ricoverati morì
poi di ferite. Erano in gran maggioranza tifosi della Juventus,
arrivati nella capitale belga per incoraggiare la propria
squadra impegnata contro il Liverpool nella finale di Coppa
dei Campioni. Uno solo da Torino, uno dal Canada, molti
dalla Toscana. Stavano nel settore Z, in curva, un settore
destinato alla gente tranquilla, gli ultras bianconeri erano
stati sistemati altrove. Ma soltanto una rete e una fila
di poliziotti belgi inesperti e tremolanti divideva gli
italiani dagli ultras inglesi, balordamente ammassati lì
vicino. Per tutto l'interno dello stadio strapieno, 45.000
spettatori, appena 120 agenti. La tragedia si compì in pochi
minuti, le sequenze sommarie sono queste: alle 19.15, un'ora
e un quarto prima dell'inizio del match, cominciò il lancio
di oggetti - bottiglie, petardi, spranghe: i 400 agenti
fuori dallo stadio avevano fatto poco filtro - dal settore
inglese a quello italiano; quasi subito ebbe inizio la pressione
dei tifosi italiani più vicini alla rete divisoria sui loro
compagni di gradinata, per portarsi lontani dalla gittata
dei proiettili inglesi; la rete venne abbattuta e gli hooligans
si presentarono, minacciosi, non a loro omologhi di bestialità,
ma a gente che era lì proprio soltanto per la partita; questa
gente tentò (le 19.24) una fuga, schiacciando chi stava
sotto; i poliziotti belgi sul campo, quelli sì decisissimi,
non solo vietarono l'apertura di cancelli di sfogo, che
avrebbero permesso ai tifosi di riversarsi sul terreno,
ma manganellarono chi cercava l'abbattimento o lo scavalcamento
di quelle barriere; in alto un muretto, sotto la pressione
della folla, cedette, e a mucchi volarono giù in tanti,
da dieci metri, a sfracellarsi sul cemento. Erano le 19.27.
Pochi capirono subito cosa di terribile e di orribile era
accaduto. Gli hooligans si sparpagliarono, fieri della fuga
dei nemici. La polizia si preoccupò di isolare e contenere
la reazione sulle gradinate, più che sul campo dove i morti
erano più dei vivi. E quando la portata del dramma cominciò
a delinearsi, un'altra preoccupazione ufficiale fu quella
di non far sapere, o di far sapere poco. I rinforzi di polizia
arrivarono allo stadio alle 19.32. E poi arrivarono anche
reparti dell'esercito. Si temeva la guerra aperta fra le
due tifoserie. In quella italiana l'orrore e il dolore si
mescolavano: qualcuno diceva che sul campo, dove ormai a
reti abbattute circolava molta gente, gli hooligans inglesi
ubriachi urinavano sui cadaveri, e chiedeva o anche cercava
giustizia sommaria. La decisione di far disputare egualmente
la partita venne presa dalle autorità civili e sportive,
anche per timore di una battaglia notturna non solo allo
stadio, ma in tutta Bruxelles, che bruciava già dal pomeriggio,
quando bande di ultras erano arrivate al coltello: si parlava
di un inglese morto (la notizia si rivelò poi tragicamente
esatta). I capitani, Scirea e Neal, lessero una specie di
appello alla gente, l'arbitro svizzero Daina fischiò l'inizio
alle 21.42, un'ora e 12 minuti di ritardo. La Juventus vinse
la partita e la Coppa, con un gol di Platini su rigore:
fallo su Boniek al 56', deboli proteste inglesi anche se
la scorrettezza era stata commessa fuori dall'area. L'Uefa,
la federazione europea, estromise le squadre inglesi dalle
coppe europee per 5 anni, il Liverpool per 7 poi ridotti
a 6. L'Heysel fu ritenuto una specie di terminale di tante
altre violenze degli hooligans. Il segnale forte venne recepito
bene anche in Inghilterra. Due partite a porte chiuse alla
Juve (per quell'accoltellato ?). Il sindaco di Liverpool
venne a Torino e chiese perdono per i suoi tifosi delinquenti.
La magistratura ordinaria non se la sentì di colpire chi
forse aveva la responsabilità maggiore, cioè la polizia
belga (e subito dopo gli organizzatori). Dieci anni dall'Heysel
hanno significato, nel mondo del calcio, qualche protezione
e soprattutto qualche comodità in più per gli spettatori:
nel senso che da allora le regole dell'Uefa sulla capienza
permettono un minore insardinamento dei tifosi negli stadi.
Lo spirito dell'Heysel, il "mai più", il "never more", lì
per lì sembrò essere stato raccolto più dai fanatici inglesi
che da quelli italiani. E quando, 4 anni dopo, 95 tifosi
del Liverpool morirono nello stadio di Sheffield, schiacciati
dai loro stessi compagni ai quali la polizia, temendo l'abbattimento
di un grande cancello, aveva concesso l'afflusso non graduale
e non setacciato alle gradinate, non si parlò più di violenza,
ma di imprevidenza. Ultimamente i disordini sono ripresi
alla grande pure nel calcio inglese. In quello italiano
non sono mai finiti, anche se per caso o per chissà cosa
le vittime sono state, sinora, assai inferiori non solo
al potenziale di violenza, ma alla concretizzazione della
stessa negli eventi. Tante mischie, insomma, ma pochi morti
e non troppi feriti. L'Heysel rischia di essere una svolta
più quantitativa che qualitativa. La violenza non è stata
ripudiata, anzi, ma le palestre sono meno comode per gli
imbecilli e i criminali. E la guardia è più alzata, presso
le forze dell'ordine come presso i tifosi diciamo normali.
E' possibile che tragedie così grosse e assurde non si ripetano
più, ma la tragedia grande della violenza nel calcio è sempre
immanente, il crimine è sempre imminente. L'Heysel ha mostrato
tutto ma non ha insegnato quasi nulla. Si celebrano i morti,
si piangono con loro anche i vivi: quelli almeno che vorrebbero
amare e godere un certo sport, un certo modo di stare nello
sport, e non possono più, la rete è sempre troppo debole
e dall'altra parte c'è sempre quella gente. Anzi si annuncia
- lo dicono i rapporti della polizia - gente peggiore. Intanto
il Liverpool ha deciso di erigere un monumento alle vittime
dello stadio Heysel. Il monumento che sarà realizzato allo
stadio del Liverpool sarà la copia di quello esistente al
Delle Alpi di Torino. (NdR: era presso la sede della Juventus
Football Club)
28 maggio 1995
Fonte: La Stampa
ARTICOLI
STAMPA MAGGIO 1995
Heysel: la
morte in gioco
di Rob Hughes
"Ora le autorità calcistiche
hanno deciso di donare denaro agli orfani della Bosnia come
segno di rispetto per le vittime della tragedia. Cercano
di comprarsi l'assoluzione, ma l'orrore non si può espiare".
Stadio Heysel, 29 maggio
1985: un luogo e una data che non dovranno mai essere dimenticati.
Abbiamo il dovere verso i morti (e la responsabilità verso
i vivi) di assicurare che mai più le vite dei tifosi di
calcio saranno schiacciate a così misero prezzo e con tale
noncuranza. Le trentanove vittime dell'Heysel morirono perché,
con una scelta criminale, il profitto fu anteposto alla
sicurezza. Ma, mentre ventiquattro persone di Liverpool
furono incriminate per omicidio involontario perché la loro
fuga causò il panico che spinse i tifosi della Juventus
contro il muro che crollò, le autorità che trascurarono
i controlli di uno stadio che cadeva a pezzi non furono
puniti. Ora, nel decimo anniversario, le autorità calcistiche
considerano giusto donare "una somma considerevole" agli
orfani della Bosnia come segno di rispetto per i morti dell'Heysel.
Il gesto è inadeguato. Gli amministratori cercano, così,
di comprarsi l'assoluzione. Fanno una donazione e supplicano
le "future generazioni di evitare gli errori fatali dei
loro predecessori". Insomma, dire che gli hooligans sono
stati l'unica causa della catastrofe, è solo una verità
di comodo. Per nascondere l'incapacità delle autorità belghe
di controllare gli hooligans, e il fallimento dei loro programmi
di sicurezza. L'Heysel non potrà mai essere espiato, né
risarcito da espressioni di vergogna o da elemosina di denaro
colpevole. Intanto nelle competizioni torna la "normalità".
La Juventus parteciperà di nuovo nella Coppa dei Campioni.
Il Liverpool, per la prima volta dalla sua interdizione
di sette anni, si è qualificato per la Coppa Uefa. L'Everton,
seconda squadra di Liverpool, ha vinto la Coppa d'Inghilterra
e tornerà a giocare la Coppa delle coppe. Anche l'Everton
è una vittima innocente della primavera dell'85. I suoi
tifosi si comportarono decentemente quando la squadra vinse
la Coppa delle coppe. Ma la Uefa, giustamente, decise che
bisognava interdire i club inglesi senza eccezioni. Un divieto
che ha pesato moltissimo. Gianni Agnelli, gran patron della
Juventus, è stato il primo a invocarne l'abolizione dicendo:
"Tutte queste coppe non hanno senso senza l'Inghilterra".
l'Inghilterra ha sofferto tre volte: per la profonda vergogna
causata dalla nostra gioventù, per la perdita (ancora in
quel tremendo mese del 1985) di cinquantasei tifosi bruciati
vivi in uno stadio a Bradford, e per il disastro di Hillsborough
del 1989 che uccise novantasei supporters del Liverpool.
Come all'Heysel, a Bradford e Hillsborough, la gente morì
perché non aveva possibilità di fuga. Uomini innocenti,
donne e bambini furono schiacciati dall'affollamento eccessivo,
dal panico, da sciagurati difetti strutturali e da amministrazioni
incompetenti. Che cosa abbiamo fatto per assicurare che
ciò non si ripeta ? l'Italia e l'Inghilterra hanno pagato
virtualmente lo stesso prezzo in termini finanziari. I 300
milioni spesi per ricostruire gli stadi italiani per i Campionati
del mondo del 1990 sono paragonabili al costo della risistemazione
degli stadi inglesi dopo l'ordinanza governativa che imponeva
di trasformare le trappole vittoriane in moderne arene con
sufficienti posti a sedere. Il risultato è più sicuro, ma
non senza rischi. Gli stadi inglesi assomigliano ad aree
degne di uno Stato di polizia. Telecamere nascoste registrano
ogni persona che entra. Gli spostamenti tra i settori riservati
ai tifosi di casa e agli ospiti sono proibiti. La minaccia
bestiale degli ultras è contenuta, ma non sradicata. Eppure,
le autorità politiche inglesi continuano a esportare hooligans.
Il nostro governo non mostra di voler ritirare il passaporto
a convinti perturbatori. Si limita a controllare le partenze
di criminali con la testa rasata, le braccia tatuate con
svastiche, ansiosi di provocare distruzione a Dublino o
a Bruges. La violenza si è spostata da dentro a fuori gli
stadi. Un tifoso inglese è stato ucciso in aprile, subito
dopo l'assassinio di Genova. I prossimi Campionati europei
che si terranno in Inghilterra saranno sicuri dentro le
pareti degli stadi, ma pericolosissimi fuori. Una morte,
e non trentanove, è già intollerabile. Tuttavia lo sport,
se adeguatamente protetto, ha un valore incomparabile. Attraversa
barriere di lingua e di cultura. Fa quasi, ma non del tutto,
dimenticare. A Bruxelles, dove l'Heysel è stato demolito
e un nuovo stadio è in costruzione, gli amministratori vogliono
tenere i campionati europei del Duemila. "Dobbiamo seppellire
il passato e pensare al futuro", dicono. Che lo facciano,
certo, ma pensando all'avvertimento del filosofo George
Santayana: "Coloro che non ricordano il passato sono condannati
a riviverlo". (traduzione r.c. editorialista sportivo del
"Times")
28 maggio 1995
Fonte: Il Corriere della
Sera
di Carlo Grandini
A mezzogiorno di quel 29
maggio Jacques Hereng, collega e amico di "Le Soir", venne
a prendermi in albergo e mi disse: ti porto a vedere che
cosa è successo la notte scorsa alla Grande Place. Mi trovavo
a Bruxelles da un paio d'ore. La trentesima finale di Coppa
dei campioni, fra Liverpool e Juventus, sarebbe cominciata
alle 20.15. Dunque c'era tempo e andammo alla Grande Place.
E lì vedemmo il selciato che, sotto il sole, sembrava la
vetrina d'un gioielliere: lampi e riflessi che masse di
cristalli frantumati sprigionavano. "Vedi ? - spiegò Jacques
- Questo hanno fatto gli avamposti degli hooligans: bar
devastati, una rovina, sono sfuggiti ai controlli di Ostenda,
stanno calando in forze, qui si prepara per stasera un rischio
di guerra che le nostre autorità snobbano". Stentavo a credere
all'amico Hereng e ai suoi presentimenti; in fondo davo
retta a certe sensazioni e a certe speranze: le comitive
dei tifosi italiani affluivano festose, la Juventus non
aveva mai conquistato la Coppa dei campioni, gli hooligans
già costituivano un fenomeno di turbolenza preoccupante
e però, smascherati dalle prodezze del giorno prima, allo
stadio sarebbero stati respinti o messi in condizione di
non nuocere. Vero che allora l'orda dei barbari inglesi,
frangia secessionista di un'isola civile, tendeva a trasferire
nei campi di calcio l'atmosfera dell'Arancia meccanica di
Burgess e Kubrick. Vero, tuttavia, che ancora non aveva
conseguito una laurea in violenza di valore internazionale.
E che le forze di polizia belghe, riflettevo, al momento
giusto non si sarebbero lasciate sorprendere. L'Heysel era
uno stadio angusto: meno di sessantamila posti per trecentomila
richieste di biglietti. L'Uefa, cioè l'ente responsabile
del football europeo, aveva sbagliato la scelta della sede
per una finalissima che, anche a livelli di sicurezza, avrebbe
preteso ben altri spazi. Ma l'idea di un massacro imminente
non sfiorava nessuno... A tutto ciò pensavo salendo nella
tribuna stampa dell'Heysel, alle 18.30, e prendendo posto
appena a lato del "settore Zeta". Gli spalti andavano riempiendosi.
La curva che appunto si esauriva nel "settore Zeta" ospitava
nel tratto a me più vicino una parte dei tifosi juventini:
il grosso alloggiava nella curva dirimpetto. Ma, separati
appena da una fragile paratia, quasi a contatto di gomito
con le pattuglie bianconere del "settore Zeta", ecco quindicimila
hooligans: ondeggianti, ubriachi di birra, esplosivi, stipati
in una gabbia che, in fondo, una gabbia non era. Alle 18.45
partirono i primi sassi lanciati contro gli italiani. Poi,
scoppiò un razzo. Gli hooligans si dichiaravano e io chiamai
la redazione del "Corriere" dal telefono che avevo sul banco
di lavoro: "Attenti, la televisione non si è collegata,
però qui sta per succedere qualcosa di grave". E all'improvviso
fu la tragedia. A mano a mano l'urto delle bande inglesi
si fece duro, travolgente. "Tenete la linea !", urlavo alla
redazione. Alla mia sinistra era in atto la carica della
morte: ora gli hooligans spaccavano tutto, infuriavano brandendo
le aste delle bandiere come fossero lance, soffocavano contro
il muretto che delimitava il "settore Zeta" e contro la
rete sottostante gli sventurati italiani. Vidi, a venti
metri da me, un uomo sventrato. Vidi, "tenendo la linea",
ma incapace di raccontare ciò che stava accadendo, gente
che cadeva dal muretto sbriciolato, che si abbatteva schiacciata
verso la possibile via di fuga del campo, in un delirio
di grida crudeli. Osservavo sgomento il supremo linciaggio,
quasi ipnotizzato da quell'orgia di sangue, quando mi accorsi
che dieci, venti persone s'accalcavano terrorizzate e ferite
sotto di me strappandomi il telefono di mano: mi faccia
chiamare casa, io sono vivo. Morirono in trentanove: trenta
dei nostri. I dieci poliziotti, dico dieci, presenti nel
momento in cui sarebbero dovuti essere centinaia, erano
stati spazzati via. Sul prato, mentre in teoria la partita
si sarebbe dovuta iniziare, ora caracollavano gli agenti
a cavallo: presidiavano chi e che cosa, adesso ? Sui fatiscenti
gradini arrossati del "settore Zeta" e ai bordi del campo
si raccoglievano cadaveri e intanto era sbucato un pallone:
qualcuno dei "superstiti" aveva, nonostante tutto, voglia
di provarci. Morte e pazzia. La disputa della partita, affidata
all'arbitro svizzero Daina, rimase a lungo in dubbio: voleva
giocarla il Liverpool, era contraria la Juventus.
L'orologio correva sul più incredibile degli scempi. Calcio
d'inizio alle 21.43: per scongiurare il peggio del peggio.
Avrebbe vinto per 1 a 0 la Juventus. E io dovevo scrivere
di quella partita.
28 maggio 1995
Fonte: Il Corriere della
Sera
ARTICOLI
STAMPA MAGGIO 1995
La testimonianza
Nereo Ferlat, torinese
di 43 anni, rievoca il "suo" 29 maggio nel settore Z
"A terra sentii che stava
finendo l’aria"
di Stefano Bocconetti
ROMA - Una telefonata che
un po' si aspettava. "Sì, ero sicuro che 10 anni dopo quella
notte, chi come me ha ancora la possibilità di raccontarla,
sarebbe stato cercato". Nereo Ferlat ha 43 anni. Lavora
in una banca a Torino. Tolto qualche dettaglio, tutto è
esattamente come nell’85. Una vita normale, insomma. In
una città che, molto "normalmente", sembra avviata sulla
strada della ripresa. Idee politiche ? "Bah, ognuno
ha le sue. E non credo che mi ha cercato per parlare di
politica". Vita normale, si diceva. Tranne quella notte.
E così Nereo Ferlat comincia il suo racconto. Racconto che
ha già fatto tante altre volte, anche su un libro. S’intitola:
"L’ultima curva", stampato da una piccola casa editrice.
Comincia il suo racconto, senza gli aggettivi che un po‘
tutti usano quando si riferiscono a quella notte: "curva
maledetta", "match tragico" e via enfatizzando. "Siamo partiti
al tramonto - dice - io ed un mio amico. In pullman: 18
ore di viaggio. E dire che io non ho mai fatto parte dei
club organizzati, ma quella finale era troppo importante
per me. Il costo ? 150 mila lire. All’epoca guadagnavo meno
naturalmente, ma me lo potevo permettere lo stesso". Il
viaggio. "Tutto molto tranquillo: siamo arrivati alla frontiera
col Belgio all'alba. Me lo ricordo perché la fermata mi
fece svegliare". Qualche ora dopo, l'ingresso a Bruxelles.
Segni particolari ? "Nessuno. Ma proprio nessuno, tant'è
che l'autista non riusciva a trovare il parcheggio: niente
indicazioni". Poi, un altrettanto tranquillo pomeriggio
per Bruxelles. "Monumenti no, non ne avevamo il tempo e
forse neanche la voglia. Siamo stati solo a fare qualche
spesa. Alle sei, infine, lo stadio. Qualcosa che potesse
mettere in guardia ? "Sì e no. lo ho incontrato molti hooligans
per strada, qualcuno aggressivo, altri no. Ma anche davanti
a quelli più riscaldati, in fondo bastava stare al gioco,
mettersi la loro sciarpetta e tutto finiva lì". Nereo ed
il suo amico entrano in Curva Z. Non c’era ancora molta
gente. "Un’impressione ? Mi fece tristezza pensare che la
finale si sarebbe giocata in uno stadio cosi malandato:
pensi solo che fra le poltroncine era nata l'erba, che nessuno
aveva tolto". Nereo Ferlat non cambia il timbro della voce
quando arriva a parlare di quei momenti prima della partita.
"Ricordo Rush, Neal e gli altri del Liverpool che sono entrati
in campo e sono andati a salutare i loro tifosi". Da una
parte i fischi, dall'altra gli applausi. Come "normalmente"
avveniva e avviene in tutte le partite. Poi, però, quella
volta dal settore dei tifosi inglesi partì un razzo. "La
curva "Z" fu presa dal panico, la gente indietreggiò verso
l’uscita. E quella reazione fu interpretata dagli hooligans
come la conquista di un altro pezzo di territorio. Ci misero
due secondi a distruggere la rete per pollai che doveva
separare le tifoserie e dilagarono nella curva". Che nel
frattempo si era riempita. "Tutti correvano dappertutto,
scene indescrivibili. Però…". Però, che ? "Almeno nei primi
istanti, non si aveva la sensazione che ci stessimo giocando
la vita". E poi ? "Poi è successo che ci siamo sentiti improvvisamente
schiacciare. Dall’onda di ritorno di chi aveva cercato di
scappare in altro settore o verso il terreno di gioco. Dove
invece erano stati accolti a manganellate dalla polizia.
Lì, ho capito. Ma forse non è la definizione giusta. Perché
quando mi sono reso conto di tutto, ero già a terra. Non
so se ha mai avuto la sensazione di quando senti che sta
finendo l'aria, ti rendi conto che stai per morire. Ecco,
io lo sapevo". Invece ? "Invece un'altra onda mi ha riportato
a galla. Ma è stato per pochissimo. Stavo subito tornando
giù, quando mi sono afferrato al collo di qualcuno. Chi
? Giuro: non lo so". È rimasto "a galleggiare", dice, sopra
la marea umana. Il tempo di un pensiero... Quanto lungo
? "Non lo so, in quelle situazione si pensa con altri ritmi.
Non so come, ma ho capito, però, che era meglio prendersi
le bastonate, ma provare ad entrare sul campo. Cosi ho fatto".
Nereo, ormai da solo, corse per tutto il campo fino ad arrivare
alla tribuna-stampa. Perché proprio lì ? "Come tutti i tifosi,
vedo sempre calcio in TV e chi non ricorda le immagini dei
cronisti che partono attorniati da persone che salutano
"mamma" ? Ecco, ho pensato che a casa sarebbero stati in
ansia. E che l'unico modo per far sapere che ero vivo era
quello di farsi riprendere. La cosa strana è che è avvenuto
proprio così". Ed il suo amico ? "L'ho rivisto a notte fonda,
in pullman". Che vi siete detti ? "Nulla, neanche una parola".
Lo vede ancora ? "Non molto spesso". Ma è stato giusto assegnare
la Coppa ? "Io so solo che sarebbe stato impossibile sospendere
la partita". Lei c’è più tornato allo stadio ? "No". Non
le piace più ? "Sì moltissimo. Solo che il calcio lo guardo
in Tv". Scusi, signor Ferlat, lei li ha perdonati ? "Di
chi parla ? Della Uefa, dei responsabili della sicurezza
? O degli hooligans ? Comunque, diciamo che quella sera
l'ho tenuta ferma lì, nella mia testa. Me ne sono allontanato
e ho potuto perdonare. Ma non so se può fare lo stesso chi
ha perso qualcuno". E che pensa ora degli hooligans o degli
ultrà nostrani ? "ln tutti questi anni, s`è scritto molto,
ed anche molto inutilmente, sulla crisi di valori. Cose
che condivido. Ma c`è qualcosa, che mi sono chiesto spesso:
e se cioè la mia formazione sportiva potesse in qualche
modo aver favorito la violenza. Penso agli insulti che chiunque
di noi una volta avrà rivolto all’arbitro, agli avversari.
Lo so che fra l’invadere una curva e l`insultare l’arbitro
c’è una bella differenza. Però continuo a chiedermi se anch’io
ho fatto tutto perché non accadesse mai. Mi chiedo se ho
fatto tutto il possibile, prima dell`Heysel. Ripeto: prima.
Perché ora il mio rapporto col calcio passa attraverso uno
schermo. E va bene così.
28 maggio 1995
Fonte: L’Unità
ARTICOLI
STAMPA MAGGIO 1995
di Marino Bartoletti
Quel giorno si ruppe qualcosa
nella nostra vita di venditori di balocchi. E ancora non
sapevamo che dopo tanti anni il 29 maggio 1995 ci saremmo
ritrovati a ricordare non soltanto l’anniversario di una
strage che ancora adesso non trova aggettivi, ma anche i
quattro mesi trascorsi dal gennaio di quest’anno, giorno
dell’omicidio dl Claudio Spagnolo a Marassi. Ero all’Heysel
il pomeriggio di Juventus - Liverpool inviato del mio giornale,
il Guerin Sportivo, di cui due anni dopo sarei diventato
direttore. Nella stessa stagione conducevo anche la "Domenica
Sportiva". Ricordo che aprendo la trasmissione del 2 giugno
dissi rivolgendomi ai telespettatori: "Mercoledì scorso
ero a Bruxelles e proprio per questo non vorrei parlarne.
Anzi spero proprio che capiate che non ne vorrò parlare
mai più". Purtroppo anche se così terribile, così immenso,
così inenarrabile quello non sarebbe rimasto l’unico "Heysel"
della mia carriera di giornalista sportivo. Mi accorgo ripensandoci
che nulla di quel giorno è appannato nel ricordo. Mi resta
l’angoscia che pochi attimi prima dell’esplosione della
follia ti fa già capire che non stai vivendo un momento
come un altro. Mi resta lo choc di quei quattro, cinque
eterni agghiaccianti minuti in cui la tragedia si consuma
sotto il tuo sguardo e fa sentire colpevole la tua impotenza.
Mi resta il brivido che ti spinge a lasciare il posto in
tribuna per correre all’esterno dello stadio col cuore in
gola quasi ad esorcizzare una visione di morte che invece
di lì a poco apparirà puntualissima ai tuoi occhi. Mi resta
lo sgomento che attacca lo stomaco e il cervello mentre
ti aggrappi a un telefono per raccontare cose che chi le
ascolta non è un grado di capire. Mi resta il ricordo di
una partita di calcio vissuta come una macabra rappresentazione
in play-back, mi restano il disinteresse, la diffidenza,
il rancore verso quella Coppa levata al cielo come un calice
nell’offertorio. Fra me e il campo di gioco quel giorno
si alzò un diaframma e finì col lasciare molte cicatrici
nel mio modo di vivere il calcio, di raccontarlo. Quel giorno
litigai per la prima volta col taccuino. Un appunto e un
pensiero altrove, una nota e un momento di mestizia, uno
scarabocchio e un attimo di abbandono. La penna scriveva,
la mente scappava in un groviglio di realtà e di flash back.
Alla vigilia avevo intervistato il portiere del Liverpool
Grobbelaar, ex Iegionario, ex mercenario. "Che cosa volete
che sia una partita di calcio - mi aveva detto - per uno
come me che ha visto la morte in faccia ?" Già riflettei
lì per lì che cosa centra il calcio con la morte. Fuori
dall’Heysel c’era - e c’è - il grande Atomium, monumento
alla civiltà e al progresso, mi sorpresi a pensare a cosa
potessero c’entrare in quel momento la civiltà e il progresso
con la barbarie a cui avevo assistito. Ho ancora quel taccuino
"Dodicesimo del secondo tempo rigore (?) su Boniek segna
Platini". ln quella stessa porta sullo zero a zero era finito
quattro anni prima un gol da Brio che forse avrebbe spianato
la strada per la finale di Coppa dei Campioni a spese dell’Anderlecht.
L’arbitro inglese White lo annullò, in molti si indignarono.
Che rabbia, che vergogna che tragedia per un gol annullato
così. Il 29 maggio 1985 il cronista Marino Bartoletti capì
che era arrivato Il momento di congedare un vecchio e malconcio
amico, il vocabolario con cui a diciotto anni iniziando
questo mestiere aveva sperato di raccontare lo sport.
28 maggio 1995
Fonte: L’Unità
ARTICOLI
STAMPA MAGGIO 1995
Oggi sono 10 anni
In Belgio silenzio sull'Heysel
BRUXELLES - Giusto dieci
anni fa, il 29 maggio 1985, si consumava la tragedia dell'Heysel.
Nello stadio belga, dove si sarebbe disputata la finale
di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus, morivano,
schiacciati dai teppisti inglesi, 39 spettatori (fra di
essi 32 italiani). A essere precisi, quella sera le vittime
furono 38, la trentanovesima si aggiunse nei giorni successivi:
vane le cure a cui i medici avevano sottoposto il tifoso.
Non erano ultras, i caduti, stavano nella tranquilla zona
Z. Una criminale regia aveva però concentrato lì accanto
i furiosi supporters britannici. Complice, anche e non ultimo,
lo scarsissimo servizio d'ordine (appena 120 agenti), si
scatenò l'aggressione. La partita ebbe inizio con oltre
un'ora di ritardo, s'impose la Juventus con un calcio di
rigore, per fallo su Boniek, realizzato da Platini. Il Belgio
si accinge a lasciar trascorrere nell'assoluta indifferenza
l'anniversario della tragedia. Nulla è stato previsto dalle
autorità sportive. "Non vi saranno commemorazioni", ha dichiarato
seccamente ai giornalisti italiani un portavoce della federazione
belga di calcio. I giornali di Bruxelles hanno dedicato
negli ultimi giorni qualche articolo, i più di routine,
al dramma consumatosi dieci anni fa in forza del quale l'Uefa
estromise le squadre inglesi dalle coppe europee per cinque
anni, il Liverpool per sette, ridotti in seguito a sei.
E il Liverpool ha deciso adesso di erigere un monumento
per ricordare, in memoria delle vittime dell'Heysel. Il
quotidiano popolare "La dernière heure", in particolare,
ha pubblicato un sondaggio secondo il quale il 63% dei belgi
ritiene possibile il ripetersi di una tragedia analoga.
La sola cerimonia commemorativa preannunciata è una messa
nella cittadina di Lovanio, a venti chilometri dalla capitale.
La funzione è stata chiesta al parroco da un emigrato italiano
oggi in pensione, Cesare Marcucci, tra gli spettatori della
drammatica partita. "Ogni anno domando al parroco di celebrare
una messa il 29 maggio in ricordo delle vittime: quest'anno,
per il decimo anniversario - ha dichiarato Cesare Marcucci
ai giornalisti - gli ho chiesto una messa, come dire ?,
più "di lusso".
29 maggio 1995
Fonte: La Stampa
ARTICOLI
STAMPA MAGGIO 1995
La follia ultrà invoca a Torino un altro Heysel
TORINO - Oggi è l'anniversario:
dieci anni fa, la tragedia dell'Heysel, i trentanove morti
della curva Z, i trentadue tifosi della Juventus uccisi
dalla furia degli hooligans del Liverpool. I parenti delle
vittime protestano: "Il calcio s'è dimenticato di noi".
Mica vero: ieri a Torino la memoria era lucidissima, tremenda.
L'avversario è stato celebrato: "Cento giorni come questo:
grazie Heysel". Lo striscione ha resistito in curva Maratona
- il covo dei tifosi del Toro - per una decina di minuti,
prima che cominciasse Torino-Reggiana. E per ricordare che
loro non dimenticano, gli ultrà granata hanno insistito
anche dopo, durante la gara. Cori macabri cantati da pochi,
però nitidi, nettamente udibili: alé Bruxelles, forza Liverpool,
squallida vendetta nei confronti degli Juventini che a ogni
derby evocano la tragedia di Superga. Dal resto dello stadio,
né fischi, né applausi, soltanto indifferenza. Eppure era
difficile non sentire. Poi, la gente del Torino ha smesso
di cantare: era il momento dell'invasione di campo, replica
del gesto compiuto sette giorni prima dai "nemici". Stavolta,
però, pali e traverse hanno resistito, ma forse solo perché
sono stati piantonati fino all'ultimo dai Carabinieri. e.
g.
29 maggio 1995
Fonte: La Repubblica
ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995
Tragedia dell'Heysel 2 miliardi ai familiari
ROMA - Vale poco più di
2 miliardi il risarcimento complessivo per le vittime italiane
della sciagura di Heysel, lo stadio di Bruxelles dove il
29 maggio di dieci anni fa durante la partita Juventus-Liverpool
persero la vita 39 persone, di cui 32 italiani, e oltre
un centinaio furono i feriti. Il maggior aiuto è venuto
da un organismo privato, la Fondazione Agnelli di Torino,
mentre il Regno del Belgio si è fatto carico delle spese
medico-ospedaliere per i feriti, del trasporto ai luoghi
di residenza, nonché degli oneri funebri. Il governo di
Londra, invece, nel luglio '86 ha accreditato alla propria
Ambasciata di Roma 155 mila sterline per le famiglie colpite
e ha istituito un fondo di 50 mila sterline per i casi "meritevoli
di particolare assistenza".
30 luglio 1995
Fonte: Agi
ARTICOLI
STAMPA LUGLIO 1995
Per la strage dell'Heysel solo 2 miliardi di risarcimento
Poco più di due miliardi
di lire per 32 morti. Questo il risarcimento complessivo
per le vittime italiane della sciagura dell'Heysel, schiacciate
dalla folla il 29 maggio di dieci anni fa allo stadio di
Bruxelles durante la finale di Coppa Campioni fra Juventus
e Liverpool. Le cifre dei vari risarcimenti alla vittime
e alle loro famiglie sono state comunicate dal sottosegretario
agli Esteri, Walter Gardini, nella risposta ad una interrogazione
di Modesto Mario Della Rosa di A.N. Il maggior aiuto è venuto
da un organismo privato, la Fondazione Agnelli di Torino
(970 milioni). Il Belgio, ha pagato solo le spese medico-ospedaliere
per i feriti, il trasporto ai luoghi di residenza e gli
oneri funebri. Il governo di Londra, invece, nel luglio
'86, ha versato 155 mila sterline (circa 356 milioni di
lire) per le famiglie colpite ed ha istituito un fondo
di 50 mila sterline per i casi "meritevoli di particolare
assistenza". L'Uefa ha raccolto 100 mila marchi (80
milioni di lire); il ministero degli Interni ha erogato
197 milioni di lire; 34 milioni sono giunti da donazioni
private. In tutto 2 miliardi 52 milioni di lire.
30 luglio 1995
Fonte: La Repubblica
ARTICOLI
STAMPA LUGLIO 1995
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