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ARTICOLI 1995
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ARTICOLI STAMPA GENNAIO 1995

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ARTICOLI STAMPA FEBBRAIO 1995

"Ma tu, ragazzo no, tu devi farcela a vivere"

ARTICOLI STAMPA MARZO-APRILE 1995

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ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995

Heysel, una lezione sprecata

Heysel: la morte in gioco

E vidi l'inferno del settore Z

"A terra sentii che stava finendo l’aria"

Il mio taccuino di cronista

In Belgio silenzio sull'Heysel

La follia ultrà invoca a Torino un altro Heysel

ARTICOLI STAMPA GIUGNO 1995

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ARTICOLI STAMPA LUGLIO 1995

Tragedia dell'Heysel 2 miliardi ai familiari

Per la strage dell'Heysel solo 2 miliardi di risarcimento

ARTICOLI STAMPA AGOSTO-DICEMBRE 1995

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"Ma tu, ragazzo no, tu devi farcela a vivere"

di Leonardo Gensini

Faccia a faccia con uno dei ragazzi sopravvissuti alla tragedia dell'Heysel. Il suo racconto, lucido e puntuale, ci riporta indietro di dieci anni per tornare a vivere il giorno del dramma.

C'era tanta rabbia, tanta costernazione ma anche tantissima speranza in quella frase così cruda e spietata apparsa il giorno dopo l'immane tragedia di Bruxelles, a corredo di una delle foto più significative e drammatiche messa lì, in bella mostra in prima pagina, dalla maggior parte dei giornali europei. Quel ragazzo quattordicenne, dal fisico esile, disteso per terra su uno dei tanti gradoni con le braccia incrociate, privo di sensi, accerchiato da altri corpi ormai privi di vita, accatastati l'uno sull'altro come bestie in squallidi macelli, ha avuto la forza di scacciare i demoni che lo volevano portare via. Deve molto, se non tutto, all'accortezza del poliziotto belga che, resosi subito conto della gravità della situazione, gli ha praticato senza pensarci troppo la respirazione artificiale. Era andato fino a Bruxelles, lui super tifoso della Juventus, per vedere la sua seconda finale di Coppa dei Campioni dopo la sfortunata esperienza di Atene, due anni prima, culminata con la sconfitta con l'Amburgo. Ma quel giorno, quel maledetto giorno, gli rimarrà impresso nella mente ancora per molto tempo. Purtroppo. Alessio, studente ventitreenne, trapiantato a Montecatini da sempre, ma piemontese di spirito (non solo calcistico), oggi va allo stadio come ieri, animato come al solito dal grande amore nei confronti della Juve, un amore viscerale che lo ha portato fino a dover rischiare la propria vita. Ma il 29 maggio del 1985, a Bruxelles, dove morirono 39 persone andate a "vivere" un giorno di semplice festa, cosa accadde veramente ? Chi ha le maggior responsabilità per una delle più grandi atrocità accadute all'interno di uno stadio ? Si poteva evitare ? Il famoso "settore Z" era sicuro ? Tanti, troppi dubbi avvolgono il mistero dell'Heysel. Solo Alessio, ci può riportare indietro di dieci anni e farci capire con questo rapido flash-back un po' di più su quello che è stato ma che non doveva assolutamente succedere. E per fortuna che lo Stinky (così lo chiamiamo noi amici di tutti i giorni), è un ragazzo forte con un gran voglia di vivere: ha superato il trauma, aiutato dai sanitari e dalle persone più care, e riesce a parlarne senza eccessivi problemi, scivolando spesso nella trappola della commozione (legittima) ma mantenendo comunque una certa serenità.

IL VIAGGIO VERSO LA PAURA - "Non era iniziato sotto una buona stella il nostro viaggio, visto che subito si presentò ai nostri occhi un segno premonitore. Arrivati al casello di Montecatini, insieme a mio cugino ed al suo cognato sopra una vecchia Dyane, ci venne spontaneo domandarci: i biglietti li hai tu, vero ? No, li dovevi portare tu. Insomma, i biglietti erano rimasti incredibilmente a casa: solo una strana coincidenza ? Mah, chi lo saprà mai. Ci eravamo decisi un po' tardi rispetto alla maggioranza della gente, cosicché, tramite lo Juventus Club Ciocco che aveva organizzato il volo charter da Pisa, ci appiopparono gli ultimi tagliandi disponibili, quelli cioè del settore Z rimandati indietro dall'Inghilterra perché invenduti".

IL PRIMO CONTATTO CON GLI HOOLIGANS INGLESI - "Ci fecero atterrare a Ostenda per l'intasamento all'aeroporto di Bruxelles e ci misero a disposizione un pullman che ci condusse nella capitale. Arrivati nella Grande Place, vidi per la prima volta i tifosi del Liverpool, rigorosamente a gruppi, tutti mezzi nudi, molti seduti ai tavolini dei bar con le immancabili bottiglie di birra in mano e per terra. Molti erano già ubriachi. Ma io non ci facevo caso, non avvertivo alcuna paura, mi sentivo tranquillo e contento, anche perché mi sembrava tutto così normale. Scherzavamo assieme sul risultato finale, ognuno inneggiava alla squadra del cuore con un proprio canto e poi dentro bar e ristoranti eravamo a diretto contatto con molti di loro senza alcun problema: mai e poi mai avrei immaginato che le cose avrebbero potuto avere un epilogo così drammatico".

SI APRONO I CANCELLI DELLA MORTE - "Dopo aver fatto in pullman un giro per le vie di Bruxelles, alle 15.30 ci recammo ai cancelli già aperti. Dopo una mezzoretta di coda alla biglietteria, riuscimmo ad entrare dentro lo stadio. Una cosa che non potrò mai dimenticare è l'inefficienza dell'impianto sportivo: entravamo da un'unica porta, o meglio porticina, non c'era né l'antistadio né una bozza di servizio d'ordine a controllare l'afflusso delle persone. Si poteva tranquillamente entrare senza biglietto. L'unico controllo era rappresentato dal divieto di introdurre le aste delle bandiere che, però, rimanevano a portata di mano per chiunque avesse avuto delle cattive intenzioni".

LE PRIME AVVISAGLIE - "A dividerci dal settore inglese, avevano messo su una rete che definire da pollaio era un complimento. Nel nostro settore non c'erano ultras né gruppi organizzati, solo tante famiglie in gita di piacere e qualche straniero neutrale. I primi allarmismi cominciarono ben presto, visto che gli hooligans si divertivano a tirarci le pietre che ricavavano dalle gradinate, ridotte in uno stato pietoso. Ci fu anche una piccola scaramuccia tra noi e loro, niente più. E' in quel momento che mi resi conto della pazzia assoluta dei poliziotti belgi sistemati in campo. Non solo non muovevano un dito ma scortavano sotto le gradinate i tifosi inglesi che tornavano armati nel loro settore di casse piene di birra".

LA TRAGEDIA - "Ad un certo punto notammo che i tifosi sistemati nella parte bassa della curva lanciavano pietre verso l'alto. Altro che scemi. Praticamente armarono tutto il reparto accanto al nostro. Dopo qualche attimo ci ritrovammo bersagliati da una grandinata di sassi, bottiglie vuote e pezzi di calcinacci. Subito dopo sfondarono la rete e caricarono. Ti lascio immaginare il panico che si venne a creare tra di noi. Non c'erano vie d'uscita, l'unica via di scampo era scappare dall'altra parte, verso il famoso "muretto della morte". Cominciai a correre anch'io, però mi accorsi che stavo perdendo la scarpa: feci il cenno di chinarmi per aggiustarmela e poi... Il buio. Persi conoscenza subito, travolto dalle persone che mi venivano da dietro. E' lì che ebbi un flash: ero messo in verticale rispetto ai gradoni e li sentivo premere con una inaudita pressione sulla schiena, sul collo, sul basso ventre senza che potessi muovere un dito, schiacciato chissà da quante persone. Solo un attimo per fortuna. Successivamente ci pensarono gli inglesi a sistemare le cose, rubandomi tutto e probabilmente colpendomi ripetutamente viste le escoriazioni che al risveglio avevo su tutto il corpo".

LA CERTEZZA DI AVERCELA FATTA - "L'ho vista proprio brutta, non c'è che dire, ho avuto la fortuna di farcela: bastava poco di più per essere di qua o di là. Meno male che quel poliziotto se ne accorse in tempo, altrimenti chi lo sa... Me la sono cavata "soltanto" con un trauma cranico, un trauma toracico, un taglio sotto il piede e molteplici escoriazioni. Poi, in seguito alla rottura dei vasi capillari degli occhi, ho perso leggermente (insomma ndr) la vista, ho passato dei momenti di vero sconforto, soprattutto al risveglio all'ospedale, quando mi ritrovai completamente solo e sotto choc, non sapevo se mio cugino e l'altro erano morti, non avevo né documenti né soldi. Mi consolai guardando un po' di partita. Fu così che la mattina seguente quando mio cugino mi trovò dopo una notte passata tra gli ospedali di Bruxelles alla mia ricerca, mi venne spontaneo corrergli incontro gridando: Gianfranco abbiamo vinto la Coppa. Pensa te a cosa pensavo...".

IL DOPO BRUXELLES - I medici mi hanno consigliato di tornare subito allo stadio perché avrei rischiato di rimanere scioccato nel caso in cui mi fossi trovato in mezzo ad una massa di gente. Ed io ho preso la palla al volo, visto che anche quest'anno mi sono fatto il mio bel abbonamento in curva a Torino e quando posso (vero Eleonora ? ndr) faccio un salto su. E sono andato a vedere pure il Liverpool, a Genova, in Coppa Uefa: niente di particolare, solo un piccole sussulto, più di emozione che altro, alla loro vista. Certo, io ho rivisto le immagini di quel maledetto giorno e ti posso assicurare che mi fanno effetto quanto quelle che vedo tuttora alla televisione. Se penso che quello che è successo a Genova poco tempo fa è stato tutto premeditato, tutto fatto coscientemente, al punto di arrivare ad accoltellare un ragazzo, provo ancora più schifo di dieci anni fa. Loro almeno erano ubriachi. Il mio rammarico per quel maledetto giorno rimarrà inalterato nel tempo, perché oggi come oggi non sarebbe mai successo un fatto del genere. E poi le famiglie delle vittime: nessuno ha pagato per quello che è successo, nessuno ha fatto niente per loro ma soprattutto nessuno potrà ridargli i cari perduti". Ma tu, ragazzo sì, tu ce l'hai fatta a vivere.

2 febbraio 1995

Fonte: Supertifo

ARTICOLI STAMPA FEBBRAIO 1995 

Il 29 maggio dell'85 morirono 39 tifosi: ma la violenza continua a convivere col calcio

Heysel, una lezione sprecata

di Gian Paolo Ormezzano

Dieci anni fa la strage nello stadio di Bruxelles. I dirigenti del Liverpool costruiranno un monumento.

Domani sono dieci anni dalla violenza, dalla tragedia, dal crimine dello stadio Heysel, Bruxelles: quella sera i morti furono 38, di cui 32 italiani, ed un altro dei 236 medicati o ricoverati morì poi di ferite. Erano in gran maggioranza tifosi della Juventus, arrivati nella capitale belga per incoraggiare la propria squadra impegnata contro il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni. Uno solo da Torino, uno dal Canada, molti dalla Toscana. Stavano nel settore Z, in curva, un settore destinato alla gente tranquilla, gli ultras bianconeri erano stati sistemati altrove. Ma soltanto una rete e una fila di poliziotti belgi inesperti e tremolanti divideva gli italiani dagli ultras inglesi, balordamente ammassati lì vicino. Per tutto l'interno dello stadio strapieno, 45.000 spettatori, appena 120 agenti. La tragedia si compì in pochi minuti, le sequenze sommarie sono queste: alle 19.15, un'ora e un quarto prima dell'inizio del match, cominciò il lancio di oggetti - bottiglie, petardi, spranghe: i 400 agenti fuori dallo stadio avevano fatto poco filtro - dal settore inglese a quello italiano; quasi subito ebbe inizio la pressione dei tifosi italiani più vicini alla rete divisoria sui loro compagni di gradinata, per portarsi lontani dalla gittata dei proiettili inglesi; la rete venne abbattuta e gli hooligans si presentarono, minacciosi, non a loro omologhi di bestialità, ma a gente che era lì proprio soltanto per la partita; questa gente tentò (le 19.24) una fuga, schiacciando chi stava sotto; i poliziotti belgi sul campo, quelli sì decisissimi, non solo vietarono l'apertura di cancelli di sfogo, che avrebbero permesso ai tifosi di riversarsi sul terreno, ma manganellarono chi cercava l'abbattimento o lo scavalcamento di quelle barriere; in alto un muretto, sotto la pressione della folla, cedette, e a mucchi volarono giù in tanti, da dieci metri, a sfracellarsi sul cemento. Erano le 19.27. Pochi capirono subito cosa di terribile e di orribile era accaduto. Gli hooligans si sparpagliarono, fieri della fuga dei nemici. La polizia si preoccupò di isolare e contenere la reazione sulle gradinate, più che sul campo dove i morti erano più dei vivi. E quando la portata del dramma cominciò a delinearsi, un'altra preoccupazione ufficiale fu quella di non far sapere, o di far sapere poco. I rinforzi di polizia arrivarono allo stadio alle 19.32. E poi arrivarono anche reparti dell'esercito. Si temeva la guerra aperta fra le due tifoserie. In quella italiana l'orrore e il dolore si mescolavano: qualcuno diceva che sul campo, dove ormai a reti abbattute circolava molta gente, gli hooligans inglesi ubriachi urinavano sui cadaveri, e chiedeva o anche cercava giustizia sommaria. La decisione di far disputare egualmente la partita venne presa dalle autorità civili e sportive, anche per timore di una battaglia notturna non solo allo stadio, ma in tutta Bruxelles, che bruciava già dal pomeriggio, quando bande di ultras erano arrivate al coltello: si parlava di un inglese morto (la notizia si rivelò poi tragicamente esatta). I capitani, Scirea e Neal, lessero una specie di appello alla gente, l'arbitro svizzero Daina fischiò l'inizio alle 21.42, un'ora e 12 minuti di ritardo. La Juventus vinse la partita e la Coppa, con un gol di Platini su rigore: fallo su Boniek al 56', deboli proteste inglesi anche se la scorrettezza era stata commessa fuori dall'area. L'Uefa, la federazione europea, estromise le squadre inglesi dalle coppe europee per 5 anni, il Liverpool per 7 poi ridotti a 6. L'Heysel fu ritenuto una specie di terminale di tante altre violenze degli hooligans. Il segnale forte venne recepito bene anche in Inghilterra. Due partite a porte chiuse alla Juve (per quell'accoltellato ?). Il sindaco di Liverpool venne a Torino e chiese perdono per i suoi tifosi delinquenti. La magistratura ordinaria non se la sentì di colpire chi forse aveva la responsabilità maggiore, cioè la polizia belga (e subito dopo gli organizzatori). Dieci anni dall'Heysel hanno significato, nel mondo del calcio, qualche protezione e soprattutto qualche comodità in più per gli spettatori: nel senso che da allora le regole dell'Uefa sulla capienza permettono un minore insardinamento dei tifosi negli stadi. Lo spirito dell'Heysel, il "mai più", il "never more", lì per lì sembrò essere stato raccolto più dai fanatici inglesi che da quelli italiani. E quando, 4 anni dopo, 95 tifosi del Liverpool morirono nello stadio di Sheffield, schiacciati dai loro stessi compagni ai quali la polizia, temendo l'abbattimento di un grande cancello, aveva concesso l'afflusso non graduale e non setacciato alle gradinate, non si parlò più di violenza, ma di imprevidenza. Ultimamente i disordini sono ripresi alla grande pure nel calcio inglese. In quello italiano non sono mai finiti, anche se per caso o per chissà cosa le vittime sono state, sinora, assai inferiori non solo al potenziale di violenza, ma alla concretizzazione della stessa negli eventi. Tante mischie, insomma, ma pochi morti e non troppi feriti. L'Heysel rischia di essere una svolta più quantitativa che qualitativa. La violenza non è stata ripudiata, anzi, ma le palestre sono meno comode per gli imbecilli e i criminali. E la guardia è più alzata, presso le forze dell'ordine come presso i tifosi diciamo normali. E' possibile che tragedie così grosse e assurde non si ripetano più, ma la tragedia grande della violenza nel calcio è sempre immanente, il crimine è sempre imminente. L'Heysel ha mostrato tutto ma non ha insegnato quasi nulla. Si celebrano i morti, si piangono con loro anche i vivi: quelli almeno che vorrebbero amare e godere un certo sport, un certo modo di stare nello sport, e non possono più, la rete è sempre troppo debole e dall'altra parte c'è sempre quella gente. Anzi si annuncia - lo dicono i rapporti della polizia - gente peggiore. Intanto il Liverpool ha deciso di erigere un monumento alle vittime dello stadio Heysel. Il monumento che sarà realizzato allo stadio del Liverpool sarà la copia di quello esistente al Delle Alpi di Torino. (NdR: era presso la sede della Juventus Football Club)

28 maggio 1995

Fonte: La Stampa

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

Heysel: la morte in gioco

di Rob Hughes

"Ora le autorità calcistiche hanno deciso di donare denaro agli orfani della Bosnia come segno di rispetto per le vittime della tragedia. Cercano di comprarsi l'assoluzione, ma l'orrore non si può espiare".

Stadio Heysel, 29 maggio 1985: un luogo e una data che non dovranno mai essere dimenticati. Abbiamo il dovere verso i morti (e la responsabilità verso i vivi) di assicurare che mai più le vite dei tifosi di calcio saranno schiacciate a così misero prezzo e con tale noncuranza. Le trentanove vittime dell'Heysel morirono perché, con una scelta criminale, il profitto fu anteposto alla sicurezza. Ma, mentre ventiquattro persone di Liverpool furono incriminate per omicidio involontario perché la loro fuga causò il panico che spinse i tifosi della Juventus contro il muro che crollò, le autorità che trascurarono i controlli di uno stadio che cadeva a pezzi non furono puniti. Ora, nel decimo anniversario, le autorità calcistiche considerano giusto donare "una somma considerevole" agli orfani della Bosnia come segno di rispetto per i morti dell'Heysel. Il gesto è inadeguato. Gli amministratori cercano, così, di comprarsi l'assoluzione. Fanno una donazione e supplicano le "future generazioni di evitare gli errori fatali dei loro predecessori". Insomma, dire che gli hooligans sono stati l'unica causa della catastrofe, è solo una verità di comodo. Per nascondere l'incapacità delle autorità belghe di controllare gli hooligans, e il fallimento dei loro programmi di sicurezza. L'Heysel non potrà mai essere espiato, né risarcito da espressioni di vergogna o da elemosina di denaro colpevole. Intanto nelle competizioni torna la "normalità". La Juventus parteciperà di nuovo nella Coppa dei Campioni. Il Liverpool, per la prima volta dalla sua interdizione di sette anni, si è qualificato per la Coppa Uefa. L'Everton, seconda squadra di Liverpool, ha vinto la Coppa d'Inghilterra e tornerà a giocare la Coppa delle coppe. Anche l'Everton è una vittima innocente della primavera dell'85. I suoi tifosi si comportarono decentemente quando la squadra vinse la Coppa delle coppe. Ma la Uefa, giustamente, decise che bisognava interdire i club inglesi senza eccezioni. Un divieto che ha pesato moltissimo. Gianni Agnelli, gran patron della Juventus, è stato il primo a invocarne l'abolizione dicendo: "Tutte queste coppe non hanno senso senza l'Inghilterra". l'Inghilterra ha sofferto tre volte: per la profonda vergogna causata dalla nostra gioventù, per la perdita (ancora in quel tremendo mese del 1985) di cinquantasei tifosi bruciati vivi in uno stadio a Bradford, e per il disastro di Hillsborough del 1989 che uccise novantasei supporters del Liverpool. Come all'Heysel, a Bradford e Hillsborough, la gente morì perché non aveva possibilità di fuga. Uomini innocenti, donne e bambini furono schiacciati dall'affollamento eccessivo, dal panico, da sciagurati difetti strutturali e da amministrazioni incompetenti. Che cosa abbiamo fatto per assicurare che ciò non si ripeta ? l'Italia e l'Inghilterra hanno pagato virtualmente lo stesso prezzo in termini finanziari. I 300 milioni spesi per ricostruire gli stadi italiani per i Campionati del mondo del 1990 sono paragonabili al costo della risistemazione degli stadi inglesi dopo l'ordinanza governativa che imponeva di trasformare le trappole vittoriane in moderne arene con sufficienti posti a sedere. Il risultato è più sicuro, ma non senza rischi. Gli stadi inglesi assomigliano ad aree degne di uno Stato di polizia. Telecamere nascoste registrano ogni persona che entra. Gli spostamenti tra i settori riservati ai tifosi di casa e agli ospiti sono proibiti. La minaccia bestiale degli ultras è contenuta, ma non sradicata. Eppure, le autorità politiche inglesi continuano a esportare hooligans. Il nostro governo non mostra di voler ritirare il passaporto a convinti perturbatori. Si limita a controllare le partenze di criminali con la testa rasata, le braccia tatuate con svastiche, ansiosi di provocare distruzione a Dublino o a Bruges. La violenza si è spostata da dentro a fuori gli stadi. Un tifoso inglese è stato ucciso in aprile, subito dopo l'assassinio di Genova. I prossimi Campionati europei che si terranno in Inghilterra saranno sicuri dentro le pareti degli stadi, ma pericolosissimi fuori. Una morte, e non trentanove, è già intollerabile. Tuttavia lo sport, se adeguatamente protetto, ha un valore incomparabile. Attraversa barriere di lingua e di cultura. Fa quasi, ma non del tutto, dimenticare. A Bruxelles, dove l'Heysel è stato demolito e un nuovo stadio è in costruzione, gli amministratori vogliono tenere i campionati europei del Duemila. "Dobbiamo seppellire il passato e pensare al futuro", dicono. Che lo facciano, certo, ma pensando all'avvertimento del filosofo George Santayana: "Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo". (traduzione r.c. editorialista sportivo del "Times")

28 maggio 1995 

Fonte: Il Corriere della Sera

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

E vidi l'inferno del settore Z

di Carlo Grandini 

A mezzogiorno di quel 29 maggio Jacques Hereng, collega e amico di "Le Soir", venne a prendermi in albergo e mi disse: ti porto a vedere che cosa è successo la notte scorsa alla Grande Place. Mi trovavo a Bruxelles da un paio d'ore. La trentesima finale di Coppa dei campioni, fra Liverpool e Juventus, sarebbe cominciata alle 20.15. Dunque c'era tempo e andammo alla Grande Place. E lì vedemmo il selciato che, sotto il sole, sembrava la vetrina d'un gioielliere: lampi e riflessi che masse di cristalli frantumati sprigionavano. "Vedi ? - spiegò Jacques - Questo hanno fatto gli avamposti degli hooligans: bar devastati, una rovina, sono sfuggiti ai controlli di Ostenda, stanno calando in forze, qui si prepara per stasera un rischio di guerra che le nostre autorità snobbano". Stentavo a credere all'amico Hereng e ai suoi presentimenti; in fondo davo retta a certe sensazioni e a certe speranze: le comitive dei tifosi italiani affluivano festose, la Juventus non aveva mai conquistato la Coppa dei campioni, gli hooligans già costituivano un fenomeno di turbolenza preoccupante e però, smascherati dalle prodezze del giorno prima, allo stadio sarebbero stati respinti o messi in condizione di non nuocere. Vero che allora l'orda dei barbari inglesi, frangia secessionista di un'isola civile, tendeva a trasferire nei campi di calcio l'atmosfera dell'Arancia meccanica di Burgess e Kubrick. Vero, tuttavia, che ancora non aveva conseguito una laurea in violenza di valore internazionale. E che le forze di polizia belghe, riflettevo, al momento giusto non si sarebbero lasciate sorprendere. L'Heysel era uno stadio angusto: meno di sessantamila posti per trecentomila richieste di biglietti. L'Uefa, cioè l'ente responsabile del football europeo, aveva sbagliato la scelta della sede per una finalissima che, anche a livelli di sicurezza, avrebbe preteso ben altri spazi. Ma l'idea di un massacro imminente non sfiorava nessuno... A tutto ciò pensavo salendo nella tribuna stampa dell'Heysel, alle 18.30, e prendendo posto appena a lato del "settore Zeta". Gli spalti andavano riempiendosi. La curva che appunto si esauriva nel "settore Zeta" ospitava nel tratto a me più vicino una parte dei tifosi juventini: il grosso alloggiava nella curva dirimpetto. Ma, separati appena da una fragile paratia, quasi a contatto di gomito con le pattuglie bianconere del "settore Zeta", ecco quindicimila hooligans: ondeggianti, ubriachi di birra, esplosivi, stipati in una gabbia che, in fondo, una gabbia non era. Alle 18.45 partirono i primi sassi lanciati contro gli italiani. Poi, scoppiò un razzo. Gli hooligans si dichiaravano e io chiamai la redazione del "Corriere" dal telefono che avevo sul banco di lavoro: "Attenti, la televisione non si è collegata, però qui sta per succedere qualcosa di grave". E all'improvviso fu la tragedia. A mano a mano l'urto delle bande inglesi si fece duro, travolgente. "Tenete la linea !", urlavo alla redazione. Alla mia sinistra era in atto la carica della morte: ora gli hooligans spaccavano tutto, infuriavano brandendo le aste delle bandiere come fossero lance, soffocavano contro il muretto che delimitava il "settore Zeta" e contro la rete sottostante gli sventurati italiani. Vidi, a venti metri da me, un uomo sventrato. Vidi, "tenendo la linea", ma incapace di raccontare ciò che stava accadendo, gente che cadeva dal muretto sbriciolato, che si abbatteva schiacciata verso la possibile via di fuga del campo, in un delirio di grida crudeli. Osservavo sgomento il supremo linciaggio, quasi ipnotizzato da quell'orgia di sangue, quando mi accorsi che dieci, venti persone s'accalcavano terrorizzate e ferite sotto di me strappandomi il telefono di mano: mi faccia chiamare casa, io sono vivo. Morirono in trentanove: trenta dei nostri. I dieci poliziotti, dico dieci, presenti nel momento in cui sarebbero dovuti essere centinaia, erano stati spazzati via. Sul prato, mentre in teoria la partita si sarebbe dovuta iniziare, ora caracollavano gli agenti a cavallo: presidiavano chi e che cosa, adesso ? Sui fatiscenti gradini arrossati del "settore Zeta" e ai bordi del campo si raccoglievano cadaveri e intanto era sbucato un pallone: qualcuno dei "superstiti" aveva, nonostante tutto, voglia di provarci. Morte e pazzia. La disputa della partita, affidata all'arbitro svizzero Daina, rimase a lungo in dubbio: voleva giocarla il Liverpool, era contraria la Juventus.  L'orologio correva sul più incredibile degli scempi. Calcio d'inizio alle 21.43: per scongiurare il peggio del peggio. Avrebbe vinto per 1 a 0 la Juventus. E io dovevo scrivere di quella partita.

28 maggio 1995   

Fonte: Il Corriere della Sera

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

La testimonianza

Nereo Ferlat, torinese di 43 anni, rievoca il "suo" 29 maggio nel settore Z

"A terra sentii che stava finendo l’aria"

di Stefano Bocconetti

ROMA - Una telefonata che un po' si aspettava. "Sì, ero sicuro che 10 anni dopo quella notte, chi come me ha ancora la possibilità di raccontarla, sarebbe stato cercato". Nereo Ferlat ha 43 anni. Lavora in una banca a Torino. Tolto qualche dettaglio, tutto è esattamente come nell’85. Una vita normale, insomma.  In una città che, molto "normalmente", sembra avviata sulla strada della ripresa. Idee politiche ?  "Bah, ognuno ha le sue. E non credo che mi ha cercato per parlare di politica". Vita normale, si diceva. Tranne quella notte. E così Nereo Ferlat comincia il suo racconto. Racconto che ha già fatto tante altre volte, anche su un libro. S’intitola: "L’ultima curva", stampato da una piccola casa editrice. Comincia il suo racconto, senza gli aggettivi che un po‘ tutti usano quando si riferiscono a quella notte: "curva maledetta", "match tragico" e via enfatizzando. "Siamo partiti al tramonto - dice - io ed un mio amico. In pullman: 18 ore di viaggio. E dire che io non ho mai fatto parte dei club organizzati, ma quella finale era troppo importante per me. Il costo ? 150 mila lire. All’epoca guadagnavo meno naturalmente, ma me lo potevo permettere lo stesso". Il viaggio. "Tutto molto tranquillo: siamo arrivati alla frontiera col Belgio all'alba. Me lo ricordo perché la fermata mi fece svegliare". Qualche ora dopo, l'ingresso a Bruxelles. Segni particolari ? "Nessuno. Ma proprio nessuno, tant'è che l'autista non riusciva a trovare il parcheggio: niente indicazioni". Poi, un altrettanto tranquillo pomeriggio per Bruxelles. "Monumenti no, non ne avevamo il tempo e forse neanche la voglia. Siamo stati solo a fare qualche spesa. Alle sei, infine, lo stadio. Qualcosa che potesse mettere in guardia ? "Sì e no. lo ho incontrato molti hooligans per strada, qualcuno aggressivo, altri no. Ma anche davanti a quelli più riscaldati, in fondo bastava stare al gioco, mettersi la loro sciarpetta e tutto finiva lì". Nereo ed il suo amico entrano in Curva Z. Non c’era ancora molta gente. "Un’impressione ? Mi fece tristezza pensare che la finale si sarebbe giocata in uno stadio cosi malandato: pensi solo che fra le poltroncine era nata l'erba, che nessuno aveva tolto". Nereo Ferlat non cambia il timbro della voce quando arriva a parlare di quei momenti prima della partita. "Ricordo Rush, Neal e gli altri del Liverpool che sono entrati in campo e sono andati a salutare i loro tifosi". Da una parte i fischi, dall'altra gli applausi. Come "normalmente" avveniva e avviene in tutte le partite. Poi, però, quella volta dal settore dei tifosi inglesi partì un razzo. "La curva "Z" fu presa dal panico, la gente indietreggiò verso l’uscita. E quella reazione fu interpretata dagli hooligans come la conquista di un altro pezzo di territorio. Ci misero due secondi a distruggere la rete per pollai che doveva separare le tifoserie e dilagarono nella curva". Che nel frattempo si era riempita. "Tutti correvano dappertutto, scene indescrivibili. Però…". Però, che ? "Almeno nei primi istanti, non si aveva la sensazione che ci stessimo giocando la vita". E poi ? "Poi è successo che ci siamo sentiti improvvisamente schiacciare. Dall’onda di ritorno di chi aveva cercato di scappare in altro settore o verso il terreno di gioco. Dove invece erano stati accolti a manganellate dalla polizia. Lì, ho capito. Ma forse non è la definizione giusta. Perché quando mi sono reso conto di tutto, ero già a terra. Non so se ha mai avuto la sensazione di quando senti che sta finendo l'aria, ti rendi conto che stai per morire. Ecco, io lo sapevo". Invece ? "Invece un'altra onda mi ha riportato a galla. Ma è stato per pochissimo. Stavo subito tornando giù, quando mi sono afferrato al collo di qualcuno. Chi ? Giuro: non lo so". È rimasto "a galleggiare", dice, sopra la marea umana. Il tempo di un pensiero... Quanto lungo ? "Non lo so, in quelle situazione si pensa con altri ritmi. Non so come, ma ho capito, però, che era meglio prendersi le bastonate, ma provare ad entrare sul campo. Cosi ho fatto". Nereo, ormai da solo, corse per tutto il campo fino ad arrivare alla tribuna-stampa. Perché proprio lì ? "Come tutti i tifosi, vedo sempre calcio in TV e chi non ricorda le immagini dei cronisti che partono attorniati da persone che salutano "mamma" ? Ecco, ho pensato che a casa sarebbero stati in ansia. E che l'unico modo per far sapere che ero vivo era quello di farsi riprendere. La cosa strana è che è avvenuto proprio così". Ed il suo amico ? "L'ho rivisto a notte fonda, in pullman". Che vi siete detti ? "Nulla, neanche una parola". Lo vede ancora ? "Non molto spesso". Ma è stato giusto assegnare la Coppa ? "Io so solo che sarebbe stato impossibile sospendere la partita". Lei c’è più tornato allo stadio ? "No". Non le piace più ? "Sì moltissimo. Solo che il calcio lo guardo in Tv". Scusi, signor Ferlat, lei li ha perdonati ? "Di chi parla ? Della Uefa, dei responsabili della sicurezza ? O degli hooligans ? Comunque, diciamo che quella sera l'ho tenuta ferma lì, nella mia testa. Me ne sono allontanato e ho potuto perdonare. Ma non so se può fare lo stesso chi ha perso qualcuno". E che pensa ora degli hooligans o degli ultrà nostrani ? "ln tutti questi anni, s`è scritto molto, ed anche molto inutilmente, sulla crisi di valori. Cose che condivido. Ma c`è qualcosa, che mi sono chiesto spesso: e se cioè la mia formazione sportiva potesse in qualche modo aver favorito la violenza. Penso agli insulti che chiunque di noi una volta avrà rivolto all’arbitro, agli avversari. Lo so che fra l’invadere una curva e l`insultare l’arbitro c’è una bella differenza. Però continuo a chiedermi se anch’io ho fatto tutto perché non accadesse mai. Mi chiedo se ho fatto tutto il possibile, prima dell`Heysel. Ripeto: prima. Perché ora il mio rapporto col calcio passa attraverso uno schermo. E va bene così.

28 maggio 1995

Fonte: L’Unità

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

di Marino Bartoletti

Quel giorno si ruppe qualcosa nella nostra vita di venditori di balocchi. E ancora non sapevamo che dopo tanti anni il 29 maggio 1995 ci saremmo ritrovati a ricordare non soltanto l’anniversario di una strage che ancora adesso non trova aggettivi, ma anche i quattro mesi trascorsi dal gennaio di quest’anno, giorno dell’omicidio dl Claudio Spagnolo a Marassi. Ero all’Heysel il pomeriggio di Juventus - Liverpool inviato del mio giornale, il Guerin Sportivo, di cui due anni dopo sarei diventato direttore. Nella stessa stagione conducevo anche la "Domenica Sportiva". Ricordo che aprendo la trasmissione del 2 giugno dissi rivolgendomi ai telespettatori: "Mercoledì scorso ero a Bruxelles e proprio per questo non vorrei parlarne. Anzi spero proprio che capiate che non ne vorrò parlare mai più". Purtroppo anche se così terribile, così immenso, così inenarrabile quello non sarebbe rimasto l’unico "Heysel" della mia carriera di giornalista sportivo. Mi accorgo ripensandoci che nulla di quel giorno è appannato nel ricordo. Mi resta l’angoscia che pochi attimi prima dell’esplosione della follia ti fa già capire che non stai vivendo un momento come un altro. Mi resta lo choc di quei quattro, cinque eterni agghiaccianti minuti in cui la tragedia si consuma sotto il tuo sguardo e fa sentire colpevole la tua impotenza. Mi resta il brivido che ti spinge a lasciare il posto in tribuna per correre all’esterno dello stadio col cuore in gola quasi ad esorcizzare una visione di morte che invece di lì a poco apparirà puntualissima ai tuoi occhi. Mi resta lo sgomento che attacca lo stomaco e il cervello mentre ti aggrappi a un telefono per raccontare cose che chi le ascolta non è un grado di capire. Mi resta il ricordo di una partita di calcio vissuta come una macabra rappresentazione in play-back, mi restano il disinteresse, la diffidenza, il rancore verso quella Coppa levata al cielo come un calice nell’offertorio. Fra me e il campo di gioco quel giorno si alzò un diaframma e finì col lasciare molte cicatrici nel mio modo di vivere il calcio, di raccontarlo. Quel giorno litigai per la prima volta col taccuino. Un appunto e un pensiero altrove, una nota e un momento di mestizia, uno scarabocchio e un attimo di abbandono. La penna scriveva, la mente scappava in un groviglio di realtà e di flash back. Alla vigilia avevo intervistato il portiere del Liverpool Grobbelaar, ex Iegionario, ex mercenario. "Che cosa volete che sia una partita di calcio - mi aveva detto - per uno come me che ha visto la morte in faccia ?" Già riflettei lì per lì che cosa centra il calcio con la morte. Fuori dall’Heysel c’era - e c’è - il grande Atomium, monumento alla civiltà e al progresso, mi sorpresi a pensare a cosa potessero c’entrare in quel momento la civiltà e il progresso con la barbarie a cui avevo assistito. Ho ancora quel taccuino "Dodicesimo del secondo tempo rigore (?) su Boniek segna Platini". ln quella stessa porta sullo zero a zero era finito quattro anni prima un gol da Brio che forse avrebbe spianato la strada per la finale di Coppa dei Campioni a spese dell’Anderlecht. L’arbitro inglese White lo annullò, in molti si indignarono. Che rabbia, che vergogna che tragedia per un gol annullato così. Il 29 maggio 1985 il cronista Marino Bartoletti capì che era arrivato Il momento di congedare un vecchio e malconcio amico, il vocabolario con cui a diciotto anni iniziando questo mestiere aveva sperato di raccontare lo sport.

28 maggio 1995

Fonte: L’Unità

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

Oggi sono 10 anni

In Belgio silenzio sull'Heysel

BRUXELLES - Giusto dieci anni fa, il 29 maggio 1985, si consumava la tragedia dell'Heysel. Nello stadio belga, dove si sarebbe disputata la finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus, morivano, schiacciati dai teppisti inglesi, 39 spettatori (fra di essi 32 italiani). A essere precisi, quella sera le vittime furono 38, la trentanovesima si aggiunse nei giorni successivi: vane le cure a cui i medici avevano sottoposto il tifoso. Non erano ultras, i caduti, stavano nella tranquilla zona Z. Una criminale regia aveva però concentrato lì accanto i furiosi supporters britannici. Complice, anche e non ultimo, lo scarsissimo servizio d'ordine (appena 120 agenti), si scatenò l'aggressione. La partita ebbe inizio con oltre un'ora di ritardo, s'impose la Juventus con un calcio di rigore, per fallo su Boniek, realizzato da Platini. Il Belgio si accinge a lasciar trascorrere nell'assoluta indifferenza l'anniversario della tragedia. Nulla è stato previsto dalle autorità sportive. "Non vi saranno commemorazioni", ha dichiarato seccamente ai giornalisti italiani un portavoce della federazione belga di calcio. I giornali di Bruxelles hanno dedicato negli ultimi giorni qualche articolo, i più di routine, al dramma consumatosi dieci anni fa in forza del quale l'Uefa estromise le squadre inglesi dalle coppe europee per cinque anni, il Liverpool per sette, ridotti in seguito a sei. E il Liverpool ha deciso adesso di erigere un monumento per ricordare, in memoria delle vittime dell'Heysel. Il quotidiano popolare "La dernière heure", in particolare, ha pubblicato un sondaggio secondo il quale il 63% dei belgi ritiene possibile il ripetersi di una tragedia analoga. La sola cerimonia commemorativa preannunciata è una messa nella cittadina di Lovanio, a venti chilometri dalla capitale. La funzione è stata chiesta al parroco da un emigrato italiano oggi in pensione, Cesare Marcucci, tra gli spettatori della drammatica partita. "Ogni anno domando al parroco di celebrare una messa il 29 maggio in ricordo delle vittime: quest'anno, per il decimo anniversario - ha dichiarato Cesare Marcucci ai giornalisti - gli ho chiesto una messa, come dire ?, più "di lusso".

29 maggio 1995

Fonte: La Stampa

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

La follia ultrà invoca a Torino un altro Heysel

TORINO - Oggi è l'anniversario: dieci anni fa, la tragedia dell'Heysel, i trentanove morti della curva Z, i trentadue tifosi della Juventus uccisi dalla furia degli hooligans del Liverpool. I parenti delle vittime protestano: "Il calcio s'è dimenticato di noi". Mica vero: ieri a Torino la memoria era lucidissima, tremenda. L'avversario è stato celebrato: "Cento giorni come questo: grazie Heysel". Lo striscione ha resistito in curva Maratona - il covo dei tifosi del Toro - per una decina di minuti, prima che cominciasse Torino-Reggiana. E per ricordare che loro non dimenticano, gli ultrà granata hanno insistito anche dopo, durante la gara. Cori macabri cantati da pochi, però nitidi, nettamente udibili: alé Bruxelles, forza Liverpool, squallida vendetta nei confronti degli Juventini che a ogni derby evocano la tragedia di Superga. Dal resto dello stadio, né fischi, né applausi, soltanto indifferenza. Eppure era difficile non sentire. Poi, la gente del Torino ha smesso di cantare: era il momento dell'invasione di campo, replica del gesto compiuto sette giorni prima dai "nemici". Stavolta, però, pali e traverse hanno resistito, ma forse solo perché sono stati piantonati fino all'ultimo dai Carabinieri. e. g.

29 maggio 1995 

Fonte: La Repubblica

ARTICOLI STAMPA MAGGIO 1995 

Tragedia dell'Heysel 2 miliardi ai familiari

ROMA - Vale poco più di 2 miliardi il risarcimento complessivo per le vittime italiane della sciagura di Heysel, lo stadio di Bruxelles dove il 29 maggio di dieci anni fa durante la partita Juventus-Liverpool persero la vita 39 persone, di cui 32 italiani, e oltre un centinaio furono i feriti. Il maggior aiuto è venuto da un organismo privato, la Fondazione Agnelli di Torino, mentre il Regno del Belgio si è fatto carico delle spese medico-ospedaliere per i feriti, del trasporto ai luoghi di residenza, nonché degli oneri funebri. Il governo di Londra, invece, nel luglio '86 ha accreditato alla propria Ambasciata di Roma 155 mila sterline per le famiglie colpite e ha istituito un fondo di 50 mila sterline per i casi "meritevoli di particolare assistenza".

30 luglio 1995 

Fonte: Agi

ARTICOLI STAMPA LUGLIO 1995 

Per la strage dell'Heysel solo 2 miliardi di risarcimento

Poco più di due miliardi di lire per 32 morti. Questo il risarcimento complessivo per le vittime italiane della sciagura dell'Heysel, schiacciate dalla folla il 29 maggio di dieci anni fa allo stadio di Bruxelles durante la finale di Coppa Campioni fra Juventus e Liverpool. Le cifre dei vari risarcimenti alla vittime e alle loro famiglie sono state comunicate dal sottosegretario agli Esteri, Walter Gardini, nella risposta ad una interrogazione di Modesto Mario Della Rosa di A.N. Il maggior aiuto è venuto da un organismo privato, la Fondazione Agnelli di Torino (970 milioni). Il Belgio, ha pagato solo le spese medico-ospedaliere per i feriti, il trasporto ai luoghi di residenza e gli oneri funebri. Il governo di Londra, invece, nel luglio '86, ha versato 155 mila sterline (circa 356 milioni di lire) per le famiglie  colpite ed ha istituito un fondo di 50 mila sterline per i casi "meritevoli di particolare assistenza".  L'Uefa ha raccolto 100 mila marchi (80 milioni di lire); il ministero degli Interni ha erogato 197 milioni di lire; 34 milioni sono giunti da donazioni private. In tutto 2 miliardi 52 milioni di lire.

30 luglio 1995 

Fonte: La Repubblica

ARTICOLI STAMPA LUGLIO 1995 

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