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ARTICOLI GIUGNO-DICEMBRE 2015
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ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO-DICEMBRE 2015
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GIUGNO-DICEMBRE 2015
ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015

"Da soli per avere giustizia"

Romanzo di una strage

Bruxelles: l’Hiroshima del pallone

Ipotesi amichevole Belgio-Italia per ricordare l’Heysel

La tragedia dell'Heysel e la caduta del governo belga

Bonucci, vincere per vittime Heysel

"Infiltrati" contro l’intolleranza

Nereo Ferlat: l’Ultima curva

Per ricordare la strage dell’ Heysel

ARTICOLI STAMPA e WEB LUGLIO 2015

L'incubo Heysel compie 30 anni

ARTICOLI STAMPA e WEB AGOSTO - SETTEMBRE 2015

-

ARTICOLI STAMPA e WEB OTTOBRE 2015

... Pizzul: "Le autorità del Belgio hanno voluto cancellare la serata"

Luzhniki e Heysel, tragedie gemelle

Belgio-Italia, il 13 novembre a Bruxelles nel ricordo della tragedia dell’Heysel

Partita doppia

ARTICOLI STAMPA e WEB NOVEMBRE 2015

... Agnelli: "Heysel ? Impegno quotidiano per evitare altre tragedie"

Heysel: il ricordo e quel calcio maledetto che (non) s’è fermato

ARTICOLI STAMPA e WEB DICEMBRE 2015

Heysel, il dovere della memoria

Le famiglie italiane hanno combattuto nei tribunali. Un giornalista è stato vicino a loro

"Da soli per avere giustizia"

di Francesco Caremani

Ricordo ancora quella sera del 29 maggio 1985 e i giorni seguenti. Un ricordo violento, perché quello che accadde cambiò per sempre il mio essere ragazzo, tifoso, e ha cambiato anche il giornalista che sono diventato. L’Heysel è una cicatrice che fa male ancora oggi e che non se ne vuole andare, forse proprio perché in troppi hanno cercato di cancellarla, ma non c’è cura. Anzi, una ci sarebbe: una memoria condivisa che dovrebbe avere (ha) come assioma l’unica verità storica e processuale riconosciuta dall’Associazione fra i familiari delle vittime dell’Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, che a Bruxelles perse il padre Roberto, giovane medico aretino medaglia d’argento al valore civile per essere morto mentre salvava un connazionale. "Abbiamo sconfitto l’Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la sono cavata" mi ha detto Otello Lorentini prima di soccombere sotto gli acciacchi della vecchiaia e morire lo scorso maggio. Otello era il padre di Roberto e il nonno di Andrea. Lui le udienze del processo di Bruxelles se l’è fatte tutte. Prendeva l’aereo da Roma e poi cercava i giornalisti per informarli di quanto stava accadendo. Un processo per il quale i familiari delle vittime italiane si sono autotassati. Otello Lorentini fondò la prima Associazione per avere giustizia di fronte a una strage in cui tutti volevano farla franca: gli hooligans inglesi come l’Uefa, le istituzioni sportive come la politica belga. La paura era che le 39 vittime fossero uccise una seconda volta dall’ignavia, spesso in malafede, di un Paese che preferisce rimuovere le tragedie. Soprattutto per questo Otello e gli altri hanno litigato spesso, seppure a distanza, con Giampiero Boniperti. Perché, come mi ha detto Antonio Conti (che ha perso la figlia Giuseppina, 17 anni), guardandomi negli occhi: "Sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore non se ne va". In questi trent’anni non si è dimenticata solo la strage, ma anche la solitudine, la dignità e la forza con cui i familiari delle vittime sono andati avanti: "Mi hanno detto che m’avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l’ero comprata con quei soldi" ricorda Rosalina Vannini, vedova di Giancarlo Gonnelli. "Nessuno sa cosa ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i problemi che ha avuto nostra figlia Carla". Lei dell’Heysel non vuole ancora parlare. E allora, cosa ci resta di una battaglia condotta in solitudine da 32 famiglie italiane, fattesi forza nella figura di un uomo che aveva perso l’unico figlio per una partita di calcio ? Sicuramente c’è la condanna dell’Uefa, passata anch’essa sotto i tacchi di una certa inconsistenza giornalistica, che l’ha resa per sempre corresponsabile delle manifestazioni che organizza. Se gli stadi delle finali delle Coppe europee devono avere determinati requisiti di sicurezza (con biglietti nominali, dotati di microchip) non lo si deve certo all’evoluzione del calcio, bensì alla testardaggine di Otello Lorentini e allo choc di vedere tutti gli imputati assolti in Primo grado. Così il presidente dell’Associazione decise, insieme con gli altri familiari delle vittime italiane, di citare direttamente la Uefa, che è stata poi condannata in Appello e in Cassazione. A Hillsborough, Sheffield, il 15 aprile 1989, morirono 96 tifosi del Liverpool. È la strage che ha dato il via ai grandi cambiamenti che fanno della Premier League il campionato più sicuro dal punto di vista degli impianti. Disorganizzazione e inadeguatezza delle forze di polizia sono forse le cause più importanti, ma questo lo stabilirà l’inchiesta ancora in corso dopo 26 anni. Ecco, se avessero imparato la lezione del 29 maggio 1985, se avessero riflettuto invece di respingere le accuse e cercare di nascondere la vergogna dell’Heysel, forse Hillsborough sarebbe rimasto solo il nome di uno stadio. In Italia, se possibile, è andata anche peggio. Nel 1995, per il decennale, a Otello Lorentini promisero una puntata del Processo del Lunedì ad Arezzo, ma poi non se ne fece niente. Nel 2010 ci fu la prima messa della Juventus, che con la presidenza di Andrea Agnelli ha intrapreso, con difficoltà, un cammino verso i familiari delle vittime. Dietro, 25 anni di vuoto. "Ho ricevuto l’invito ma non andrò, ognuno ha la sua coscienza" mi disse Maria Teresa Dissegna, che all’Heysel ha perso il marito Mario Ronchi, uno dei tre interisti morti a Bruxelles. Abbandono, fastidio, oblio: questo hanno continuato a subire i familiari delle vittime e coloro che sono morti il 29 maggio 1985, insieme alle continue offese negli stadi italiani, quasi mai sanzionate: "In tutti questi anni la Procura federale non mi è sembrata così pronta e attenta" dice Andrea Lorentini. La memoria va allenata, perché non accada mai più. Lo dobbiamo a Otello Lorentini, Domenico Laudadio, Annamaria Licata, Claudio Il Rosso, il Nucleo 1985, lo Juventus Club Supporters Juve 1897, il Comitato "Per non dimenticare Heysel" di Reggio Emilia, Andrea Lorentini e a tutti gli altri famigliari. Senza edulcorazioni, ipocrisie di parte e interessi economici. Anche per questo vado fiero della scritta che posso esibire sul mio libro "Heysel, le verità di una strage annunciata": "L’unico libro ufficialmente riconosciuto dall’Associazione familiari vittime Heysel". Chi ha ancora voglia di raccontare quello che è accaduto 30 anni fa, faccia i conti con le famiglie delle vittime. La storia dell’Heysel sono loro, nessuno si senta offeso.

Giugno 2015

Fonte: Guerin Sportivo

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

Romanzo di una strage

di Nicola Calzaretta

Tra le 100 partite di Coppa dei Campioni, ce n'è una che segna una ferita profonda per noi italiani. Trent'anni fa, il 29 maggio 1985, l'Heysel entrò nelle nostre case. Trentanove vittime, centinaia di feriti, una carneficina attuata dagli hooligans e consentita dall'incapacità delle autorità belghe.

Giuseppina Conti e Barbara Lusci. Ci sono anche due donne fra le trentanove vittime dell’Heysel. Oltre ad Andrea Casula, 11 anni di vita quando l’orda degli hooligans al seguito del Liverpool decise che una serata di calcio avrebbe dovuto trasformarsi in una tragedia. Era il 29 maggio 1985. Alle 19.08, la prima carica degli inglesi. Alle 19.15 la fine dell’aggressione. Due donne. Non una rarità per gli stadi la presenza femminile, si badi bene. Ma in quel triste elenco, una spia. Un segnale che, in quella che rimane una delle pagine più disperate e dolorose dello sport, più di una cosa non abbia funzionato a dovere.

UN APPUNTAMENTO ATTESO. Bruxelles, 29 maggio 1985. Alle 20.15 è previsto l’inizio della finale di Coppa dei Campioni. È l’appuntamento clou della stagione visto che in estate (è anno dispari) il calendario non prevede competizioni internazionali ufficiali. Si gioca all’Heysel, un vecchio impianto inaugurato negli anni Trenta e che oggi non esiste più, essendo stato demolito e ricostruito. I gradoni delle curve si sfaldano con un niente, sembra una costruzione giocattolo, simile al Lego, facilissimo da smontare e ogni pezzo diventa potenzialmente un’arma micidiale. Questo è l’Heysel, con le sue minuscole porte per accedere al campo, larghe non più di ottanta centimetri. È lo stadio della Nazionale belga, nel passato ha già ospitato alcune finali europee e la Uefa lo ha ritenuto idoneo anche per l’ultimo atto della Coppa dei Campioni stagione 1984-85. Il trofeo se lo contendono Juventus e Liverpool, di nuovo di fronte dopo la finale secca di Supercoppa Europea del gennaio precedente, che ha visto la prevalenza dei bianconeri. È una sorta di rivincita e la rivalità tra bianconeri e Reds è forte. Anche per questo si prevedono numeri consistenti di tifosi al seguito delle due squadre. Quelli della Juventus non stanno nella pelle. Al primo giro utile, Atene e la sua delusione potrebbero essere finalmente spazzate via nel dimenticatoio. Per questo il popolo bianconero è in fibrillazione e, fin dal giorno della conquista della finale, corre felice alla caccia dei biglietti per assistere al grande evento, con la buona speranza che stavolta l’esito sarà diverso da quello di due anni prima. Anche i tifosi dei Reds si mobilitano. Non faranno certamente mancare il proprio sostegno ai loro giocatori che, come recita il loro celebre inno, non "cammineranno mai soli", figuriamoci stavolta. Sono temuti, ma l’anno prima nella finale di Coppa Campioni all’Olimpico di Roma coi giallorossi, grazie all’organizzazione italiana e a 5.000 agenti, gli hooligans sono stati comunque contenuti.

INGLESI GIÀ UBRIACHI. Bruxelles, 29 maggio 1985. È un mercoledì, un tempo sinonimo di Coppe europee. Classica giornata primaverile, la migliore cornice ambientale per giocarsi una finale europea e per assistere allo spettacolo dagli spalti. In realtà, l’atmosfera in città non è propriamente leggera. Gli inglesi la sera prima hanno dato già ampi e inequivocabili segnali di irrequietezza, mettendo a soqquadro il salotto buono di Bruxelles, nella Grand Palace. Trecento, quattrocento hooligans, ubriachi a dovere, hanno infranto le vetrine dei tanti negozi che si affacciano sulla piazza. Tutto questo tra volgarità assortite, strafottenza e cialtroneria. Uno scempio che è proseguito anche la mattina dopo, quella del giorno della partita. Birra ovunque, in lattina o bottiglie. Visi stravolti dall’alcol e atteggiamenti aggressivi e incontrollati di chi non ha saputo e voluto mantenere il controllo di se stesso. Di chi lo ha fatto deliberatamente, senza dover rispondere ad alcuna provocazione e, cosa ancora più grave, senza nessun intervento della gendarmeria locale, che è rimasta a osservare, mentre si accaniva contro alcuni tifosi bianconeri che si erano lasciati andare a cori rumorosi per le vie cittadine e per questo multati. La situazione non migliora con l’approssimarsi dell’inizio della partita. Nel pomeriggio, i tifosi dei Reds si accampano attorno allo stadio. Molti a petto nudo, qualcuno scoperto totalmente, sempre più gonfi di birra e in completo stato di ubriachezza. Segnali che le autorità belghe, incredibilmente, non colgono. Tra gli italiani che hanno seguito la Juventus, oltre ai tifosi organizzati tra cui gli inevitabili ultras, c’è un po’ di tutto. C’è chi ha approfittato per farsi una gita culturale visitando la città sede del Parlamento Europeo e farsi magari una fotografia sotto l’Atomium. C’è chi ha trascinato con sé il babbo tifoso della Fiorentina, perché è pur sempre una finale di una coppa e quando ci ricapita ? C’è chi ha portato con sé il figlio undicenne perché possa apprezzare il clima del grande evento così da poterlo raccontare poi ai suoi amichetti.

I BIGLIETTI DEL SETTORE "Z". Si va allo stadio. I vari settori dell’Heysel sono contraddistinti dalle lettere dell’alfabeto. Ai tifosi del Liverpool sono destinati quelli di curva contrassegnati dalla "X" e dalla "Y". Oltre diciassettemila posti. Ma i Reds sono venticinquemila, una fetta dei quali senza biglietto. Lo spicchio di curva individuata dalla lettera "Z" può contenere circa seimila persone. Nelle intenzioni degli organizzatori i biglietti di quel settore, vendibili solo in Belgio, sono appannaggio del pubblico neutrale di casa, in modo da creare una zona cuscinetto tra le due tifoserie. Giusta idea. Il guaio è che molti, moltissimi di quei tagliandi relativi al settore "Z" sono nel frattempo arrivati nelle mani di tifosi italiani, proprio quelli che erano andati a Bruxelles unendo l’utile al dilettevole. Famiglie, il babbo con il figlio undicenne, i tifosi di altre squadre italiane in compagnia di amici o parenti bianconeri. E diverse donne. Non certo i gruppi organizzati, né gli ultras in servizio permanente effettivo. È evidente che qualcuno ha pensato bene di andare ad acquistare i biglietti a Bruxelles, per poi rivenderli agli italiani, lucrandoci sopra per arrivare a un prezzo cinque o sei volte maggiore di quello originario. Questo anche tramite le agenzie di viaggi che offrivano pacchetti comprensivi dell’ingresso allo stadio a qualche Juventus Club. E che l’aria sia pesante lo si legge in alcuni articoli dei quotidiani italiani, i quali invitano i tifosi bianconeri che andranno nel "Bloc Z" a "passare in incognito".

L’INGRESSO DEGLI HOOLIGANS. Si entra nello stadio. Gli italiani sono controllati da capo a piedi. Gli inglesi affluiscono a fiumana. I pochi inservienti destinati agli ingressi sono di fatto soli, poca o nessuna assistenza da parte delle forze dell’ordine. Gli hooligans hanno vita facile. Ubriachi, aggressivi, violenti, entrano con intere scatole di birra sotto braccia. Hanno coltelli e anche dei lanciarazzi. E poi spranghe di ferro e legno raccolte in un cantiere vicino lasciato incredibilmente incustodito. Passano anche molti di quelli senza biglietto. E chi non vi riesce attraverso gli accessi ordinari, scavalca il muro di cinta accanto alla tribuna, quello che poi crollerà. E il gioco è fatto. Le curve X e Y si popolano all’istante. Quasi gonfiandosi, al limite dell’esplosione. I tifosi bianconeri, di contro, prendono posto nel settore "Z". Certo, la vicinanza con i supporters avversari un po’ preoccupa. Tuttavia rimane uno spazio vuoto tra le due tifoserie a fare da cuscinetto, anche se la rete che divide i due settori non ha la parvenza dell’invalicabilità. Qualcuno degli italiani ha dei timori e cerca di barattare i suoi biglietti con quelli di altri settori. Le forze dell’ordine scarseggiano. In prossimità della recinzione che divide il settore "Z" dagli altri si contano cinque agenti. Sul campo ce ne è uno in più, oltre a una poliziotta con un cane, più preoccupati di colpire chi invaderà il terreno di gioco che del resto. Fuori, circa trenta agenti sono impegnati a inseguire un rapinatore.

LE CARICHE E LA TRAGEDIA. Bruxelles, 29 maggio 1985. Alla partita manca poco più di un’ora, ma gli inglesi già da un po’ di tempo danno segni di nervosismo. E così partono le prime provocazioni verbali contro i "nemici" del settore "Z". I tifosi bianconeri non replicano. Un’arrendevolezza che la dice lunga sullo stato d’animo di chi è andato allo stadio solo per godersi un grande momento di sport e che non aspetta altro che la gara abbia inizio. Ma gli hooligans hanno gli occhi velati di follia e la mente completamente offuscata dall’alcol. Dalle parole passano ai fatti. E iniziano i primi lanci di bastoni, bottiglie, lattine e pezzi di muro facilmente strappati dai gradoni fatiscenti dello stadio. Gli italiani a questo punto hanno paura. Si arrabbiano, si indignano, ma non rispondono in alcun modo alle offese ricevute. Forse confidando nell’intervento degli agenti, che invece non arriva. Sono le 19.08. Per gli "animals" è il momento di attaccare. La rete di divisione è divelta con facilità. In centinaia si avventano sugli italiani che indietreggiano, in preda alla paura e al panico. La tragedia ha inizio. In pochi secondi, nello spazio che potrebbe contenere mille persone, ce ne sono cinque o sei mila. La calca umana si infrange contro il muro di cinta che di lì a poco cede, crollando. Alcuni tifosi vengono letteralmente sommersi e schiacciati. Altri sono colpiti da spranghe, coltelli e pezzi di vetro, perfino da razzi. Crolla anche la recinzione che dà verso lo stadio. Chi non muore asfissiato o schiacciato, finisce sventrato o infilzato dalla rete. È un’ecatombe. Nella quasi totale inerzia della polizia belga. La follia degli hooligans prosegue per sette lunghissimi minuti. I nostri cercano in tutte le maniere una via di fuga. C’è chi si riversa in campo e viene anche manganellato. Sette minuti di follia. Sul terreno rimangono 38 corpi senza vita, di cui 31 italiani. I feriti non si contano. Alcuni di loro riescono a raggiungere gli spogliatoi per le prime cure. C’è anche il dottor La Neve, medico sociale della Juve, che presta i soccorsi. Le scene sono raccapriccianti. I corpi dei caduti vengono allineati in un corridoio dietro lo stadio. I volti sono coperti da bandiere bianconere. C’è spazio solo per lo strazio, la disperazione, il senso di impotenza. Mentre gli animali inglesi, non sazi, si accaniscono ancora, tirando in aria gli oggetti dei morti e dei feriti, senza alcun pudore. Tra i sopravvissuti appena scampati all’onda di morte, qualcuno si dispera, consapevole che la sua vita è letteralmente passata su quella di un’altra persona. Qualche altro con il volto insanguinato rivela di aver preso a bottigliate in faccia gli inglesi andando loro incontro piuttosto che indietreggiare. Scene di guerra, incredibile. E 38 morti, che poi diventeranno 39 nei giorni successivi. Ci sono anche loro, Giuseppina Conti e Barbara Lusci. Le due donne. C’è anche Andrea Casula, morto con il babbo. Con i suoi undici anni è il più piccolo tra le vittime delle furia degli hooligans. C’è chi ha provato a rianimarlo. Si chiama Roberto Lorentini, di Arezzo, ha trentun anni, è all’Heysel con il padre Otello, tifoso viola, e altri parenti. È medico. Si è salvato dall’attacco omicida. Potrebbe scappare verso la vita. Ma vede quel bambino esanime e torna indietro. Gli pratica la respirazione bocca a bocca. Pochi istanti dopo viene travolto anche lui dall’onda barbara. E muore. Per il suo gesto un anno dopo, il 29 maggio 1986, verrà insignito della medaglia d’argento al valor civile.

IL FREDDO DELLA MORTE. Sull’Heysel cala il gelo e il freddo della morte. In pochi minuti si è consumata una strage. E la partita ? All’ipotetico inizio manca meno di un’ora. Sul terreno di gioco ci sono tifosi impauriti e feriti. Alcuni giocatori della Juve, quelli della panchina, Prandelli, Limido, Bodini, insieme a Koetting che è in borghese, vanno verso le curve. Cercano di capire. I loro tifosi gli dicono di non giocare, che ci sono dei morti. Il resto della squadra è nello spogliatoio. Le notizie arrivano anche lì. Non tutto è chiaro, quale sia il numero delle vittime forse nessuno lo sa con esattezza. Ma che là fuori è successo di tutto e che c’è stato l’inferno, questo tutti lo hanno capito. Sono scossi, impauriti, smarriti. Bodini, destinato alla panchina per far posto a Tacconi, seguirà la gara tenendosi la mano sullo stomaco per contenere i conati di vomito. Il più provato sembra essere Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato. Non si gioca. Questo dicono i giocatori della Juve. Invece si giocherà. Per motivi di ordine pubblico, come dirà nei giorni immediatamente successivi alla strage Jacques Georges, presidente dell’Uefa: "Mi sono trovato di fronte a un caso di coscienza, a una delle decisioni più gravi della mia vita. Ho ritenuto che annunciare il rinvio della partita avrebbe significato creare presupposti per un altro massacro. Gli spettatori si sarebbero riversati fuori dallo stadio e chi avrebbe controllato la loro furia ? C’erano tante persone che avevano visto morire i propri cari o i propri amici. Ci saremmo trovati di fronte a una vera e propria guerra e oggi i morti sarebbero stati molti, molti di più". La decisione è presa. Brio, Cabrini e Tardelli vanno verso la curva "M-N-O" dei tifosi juventini per invitarli alla calma. Alle 21.30 i capitani delle due squadre, Scirea e Neal, dalla cabina radio dello stadio leggono un comunicato in cui spiegano il perché ci sarà la partita, con l’invito rivolto a tutti a mantenere la calma e a non rispondere alle provocazioni. Si gioca per motivi di ordine pubblico, quello che le autorità belghe non hanno saputo garantire. E appare veramente incredibile la serie di errori commessi dalle istituzioni della nazione ospitante, la cui inefficienza è apparsa a tutti colossale. Dall’inerzia davanti alle follie degli inglesi per le strade e le piazze, all’inadeguatezza delle forze fuori e dentro lo stadio.

INIZIA LA PARTITA. Bruxelles, 29 maggio 1985. Ore 21.41. L’arbitro Daina fischia l’inizio della partita. La telecronaca è affidata a Bruno Pizzul che avverte i telespettatori: si limiterà alla fredda cronaca. In campo le due squadre si affrontano come se fosse una partita vera. Anzi, la partita è vera. Non mancano scontri di gioco e rudezze. Tacconi svetta su tutte le palle alte. Boniek appare ispirato. Briaschi gioca con un ginocchio malconcio, ma è ficcante. Il primo tempo si chiude sullo 0-0. Nel frattempo, la gendarmeria belga si è organizzata. I tifosi feriti sono stati portati negli ospedali. I corpi delle vittime sono presso gli istituti di medicina legale per le autopsie che dovranno stabilire le esatte cause della morte. Inizia il secondo tempo. E al 60’ si verifica l’evento decisivo. Fallo di Gillespie su Boniek lanciato a rete. Daina fischia il rigore, anche se l’intervento è fuori area. Sul dischetto va Platini e realizza il rigore spiazzando Grobbelaar, il portiere clown. Poi si lascia abbracciare dai compagni, l’espressione del suo volto tradisce rabbia più che gioia. Colpisce semmai l’esultanza della panchina che al gol scatta in campo. La gara prosegue. Il risultato non cambia. Vince la Juventus. La Coppa è consegnata nello spogliatoio, ma poi i bianconeri ritornano sul terreno e mostrano il trofeo ai tifosi. Segue giro di campo con annessa esultanza. Immagini stridenti dopo tutto quello che è successo. E fanno ancora più male le scene di giubilo per le strade cittadine in Italia. Come si può gioire per una Coppa insanguinata ? Qualcuno chiede quasi all’istante che il trofeo venga restituito all’Uefa. La Juventus non ci sta. Giampiero Boniperti dice che quella Coppa è vinta proprio in nome di chi ha perduto la vita all’Heysel.

UN DRAMMA CHE RESTA. Bruxelles, 29 maggio 1985. Una triste data consegnata alla storia. Trentanove morti. Trentadue italiani, quattro belgi, due francesi e un irlandese. 257 i nostri connazionali feriti. L’Uefa assume subito duri provvedimenti contro le squadre inglesi che vengono escluse dalle competizioni europee per 5 anni, 6 per il Liverpool. Due partite a porte chiuse per la Juventus nella successiva edizione della Coppa dei Campioni come punizione per le intemperanze degli ultras avvenute lontano dal settore Z. Quella dell’Heysel è una delle pagine più nere nella storia del calcio e dello sport. Anche per la scia di dolore, recriminazioni, solitudine che si porta dietro. Come l’incredibile vicenda delle autopsie e degli scambi di cadavere. Corpi già martoriati da una morte atroce, vilipesi da interventi approssimativi dei medici belgi e poi ricomposti frettolosamente e adagiati in bare recanti nomi diversi. Effetti personali spariti e poi ricomparsi. Per tacere del comportamento delle autorità belghe, omertoso e offensivo. La battaglia legale, portata avanti con fatica, alla fine ha portato alla condanna dell’Uefa, considerata civilmente responsabile dei fatti accaduti all’interno dello stadio. Quella dell’Heysel è una storia vera. Fatta di vite spezzate e di dolore permanente. E di una memoria che deve essere coltivata e non calpestata. Per questo si è ricostituita l’Associazione dei familiari delle vittime, presieduta da Andrea Lorentini, figlio di Roberto e nipote di Otello. "La memoria va allenata. Così come va promossa la cultura dello sport e dei suoi valori più autentici" afferma Andrea. "Questi sono i nostri obiettivi. E ci fa piacere constatare che Andrea Agnelli abbia dimostrato una maggiore sensibilità che ha portato a intraprendere un primo passo verso un percorso comune".

Giugno 2015

Fonte: Guerin Sportivo

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

Carlo Nesti a Radio Vaticana: "Nella strage dell'Heysel, l'uomo bestiale ha aggredito l'uomo innocente"

Bruxelles: l’Hiroshima del pallone

"Per tanto tempo - dice Carlo Nesti, a Giancarlo La Vella della Radio Vaticana Italia, nella rubrica "Non solo sport" del lunedì, alle 12.35 - almeno fino ai miei 30 anni, e cioè fino al 1985, sono riuscito a rigirare fra le mani il pallone, e, in generale, il mondo del calcio, come un giocattolo. Dentro un recinto ideale, avevo collocato figurine, prati, spogliatoi, penne, microfoni, radioline... Le campane della domenica mattina, le code ai botteghini, le attese sulle gradinate, i fischi di inizio contemporanei, e le voci senza volto di "Tutto il calcio minuto per minuto". Ma mercoledì 29 maggio 1985, purtroppo, il destino ha mandato per sempre in soffitta quel giocattolo. Curva Z: come mai migliaia di tifosi della Juve pacifici, famiglie senza nessuna smania di violenza, nello stesso settore dei terribili hooligans ? E come mai un cordone di pochi poliziotti impauriti a separarli ? Neppure il tempo di riflettere un attimo, e, 2 ore prima dell'incontro, cominciarono le cariche degli inglesi contro i nostri connazionali, che indietreggiarono, compressi uno sull'altro, sparendo in una zona d'ombra. Non lo potevo ancora sapere, ma quella macabra zona d'ombra era lo spartiacque, per loro, fra la vita e la morte, e per me, e tanti altri, fra il calcio-fiaba e il calcio-strazio. Fu veramente l'Hiroshima del pallone, la "bomba atomica", nella storia del teppismo da stadio, che, quando esplode, cambia chiunque di noi. Nella strage dell'Heysel, l'uomo "bestiale" ha aggredito l'uomo "innocente". Se volessi usare il linguaggio biblico, senza esagerare, direi che quel giorno ho visto Caino scegliere la violenza, e sopprimere, purtroppo, Abele"… (Omissis Testo Articolo riguardante altri argomenti)

2 giugno 2015

Fonte: Tuttojuve.com

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

Ipotesi amichevole Belgio-Italia per ricordare l’Heysel

di Stefano Grandi

Un’amichevole di pace per ricordare i morti dell’Heysel, di cui è caduto il trentennale il 29 maggio scorso. E’ l’idea che circola tra la federcalcio belga e quella italiana, come riporta l’agenzia Sid. Nel prossimo settembre, allo stadio Re Baldovino, si potrebbe tenere questa sfida Belgio-Italia per commemorare la strage in occasione della finale di Coppa Campioni dell’85 tra Juventus e Liverpool quando persero la vita 39 persone per i disordini causati dalle opposte tifoserie. Non è ancora stata fissata una data ma potrebbe essere quella del 1 settembre, visto che il 3 e il 6 settembre sono date impegnate, perché si gioca per le qualificazioni agli Europei del 2016.     

2 giugno 2015

Fonte: Sportevai.it

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

La tragedia dell'Heysel e la caduta del governo belga

di Giuseppe Di Matteo

Da rito collettivo di tifoserie gaudenti a maschera funeraria del pallone. La finale di coppa dei Campioni del 29 maggio 1985 tra Juventus e Liverpool doveva essere una festa dello sport, oltre che una meritata passerella per le due squadre più forti dell’Europa di allora. E invece si trasformò nell’evento più tragico della storia del calcio europeo. Per quella partita era stato scelto lo stadio "Heysel" di Bruxelles, un impianto fatiscente e non abbastanza capiente per eventi sportivi di quella portata. I disagi iniziarono subito. Furono venduti più biglietti di quelli previsti e lo stadio si riempì in ogni ordine di posto, provocando le prime scaramucce tra i fortunati che potevano assistere alla finale e chi non riusciva ad entrare. Poche ore prima dell’inizio del match cominciarono gli scontri. Le due curve erano separate ma i tifosi del Liverpool attaccarono il settore Z, occupato da spettatori che avrebbero dovuto essere neutrali ma che poi risultarono appartenere alla tifoseria juventina. In pochi minuti la situazione sfuggì di mano. Gli inglesi ebbero la meglio sul fragile cordone di polizia che presidiava il settore Z. Fuggi fuggi generale, poi parte della gradinata crollò. Tragico il bilancio: 39 morti, di cui 32 italiani. Nonostante ciò, si decise di giocare per questioni di ordine pubblico. Per la cronaca: la Juventus vinse 1-0, goal di Platini su rigore. Ma nonostante il commento del telecronista della Rai, Bruno Pizzul - che al fischio finale parlava di "ritorno dell’evento sportivo" - c’era ben poco da festeggiare. La gioia era smorzata dalle prime notizie che cominciavano a circolare. E l’entusiasmo frenato dalla presenza dei soldati chiamati a presidiare la pista atletica a pochi metri dal campo di gioco. A trent’anni di distanza da quella tragedia fioccano pubblicazioni e convegni di ogni tipo, che riportano scrupolosamente indietro le lancette dell'orologio per cercare di capire cosa accadde effettivamente. Eppure, in pochi ricordano che quella "partita" ebbe strascichi molto pesanti, tanto da provocare la caduta del governo belga nel luglio successivo. Si trattava della maggioranza di centro-destra guidata dal premier democristiano Wilfried Martens. La commissione parlamentare d’inchiesta sulla notte dell’Heysel aveva immediatamente inchiodato il governo alle sue responsabilità, accertando gravi carenze di ordine pubblico. Le colpe maggiori ricaddero sul ministro dell’Interno Charles Ferdinand Nothomb, reo di non aver gestito al meglio la situazione. Secondo il rapporto la Gendarmeria, corpo alle dipendenze dello stesso ministero, non aveva effettuato alcun sopralluogo nello stadio prima dell’inizio della partita. E già nel pomeriggio c’erano stati i primi scontri tra italiani e inglesi. Ma parte delle colpe ricaddero anche sulla UEFA. Tra le due curve era stata prevista una zona "neutrale", il settore Z, in teoria destinata ai tifosi belgi. In realtà i biglietti di quella curva "cuscinetto" furono venduti agli italiani. La relazione della commissione denunciava anche che durante le cariche gran parte della Gendarmeria si trovava fuori dallo stadio e non riuscì a intervenire tempestivamente quando iniziarono i tafferugli. La tragedia provocò un putiferio in Parlamento. A protestare furono soprattutto i liberali per bocca del loro leader, il ministro della Giustizia Jean Gol, il quale scrisse una lettera di dimissioni e chiese la testa di Nothomb, che però non sembrava per nulla intenzionato a lasciare. Il premier belga a quel punto tentò prima di ricucire lo strappo con i liberali, poi rassegnò le dimissioni, subito respinte dal re Baldovino. Era il 16 luglio 1985. Ma quella maggioranza di governo era ormai al capolinea. Le elezioni anticipate vennero fissate in ottobre. Il tema della sicurezza fu l’argomento principe di una campagna elettorale molto agitata, ma paradossalmente della questione Heysel si parlò poco, nonostante una relazione ufficiale del governo belga avesse messo in evidenza che ben 8 stadi su 18 in Belgio non rispettavano le norme di sicurezza. In quegli anni il Paese doveva fronteggiare anche altri problemi. La pressione fiscale imposta dal governo aveva dimezzato il deficit pubblico e portato l’inflazione al 5 per cento, ma al costo di un durissimo risanamento. Il potere d’acquisto delle famiglie si era ridotto, la disoccupazione sfiorava il 14,5 per cento. Ma soprattutto, c’era l’incubo del banditismo, non di rado caratterizzato da atti terroristici: la banda del Brabante Vallone e le Cellule comuniste combattenti seminavano il terrore colpendo supermercati e banche. Una spirale di violenza di fronte alla quale l’opinione pubblica appariva disorientata. Qualcuno affermò che la tragedia dell’Heysel riguardava i belgi solo in parte, forse perché quei morti erano per la maggior parte italiani. E a rileggere le cronache dell’epoca, appare paradossale anche la giustificazione del ministro Nothomb, che a poche ore dal disastro si era limitato a una sterile difesa d’ufficio auspicando che le squadre inglesi non giocassero mai più negli stadi belgi. Certo è che nonostante i veleni e i sospetti di quella campagna elettorale alla fine il governo fu riconfermato dagli elettori: per Martens si trattava della sesta volta in sei anni. Quasi tutti i ministri rimasero al loro posto, Nothomb compreso. Nel 2005 l’ex ministro ritornò sulla tragedia dell’Heysel, e dichiarò al quotidiano Le Soir che "la colpa fu degli organizzatori della partita". Come se quel dramma potesse essere racchiuso in 90 minuti.

2 giugno 2015

Fonte: Cafebabel.it

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

Bonucci, vincere per vittime Heysel

Il difensore della Juventus, quella tragedia sia uno stimolo.

(ANSA) - ROMA, 5 GIU - "Vorremmo vincere anche per dedicare la vittoria alle vittime dell'Heysel": così il difensore della Juventus Leonardo Bonucci, alla vigilia della finale di Champions League. "Il ricordo di quella tragedia - aggiunge nella conferenza stampa accanto a Gigi Buffon - può essere uno stimolo, per dedicare la vittoria a chi ha perso la vita per seguire la squadra del cuore". A Bruxelles, il 29 maggio 1985, prima della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, morirono 39 tifosi bianconeri.

5 giugno 2015

Fonte: Ansa.it

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

"Infiltrati" contro l’intolleranza

di Sebastiano Vernazza

Il 29 maggio è stato "celebrato" (si fa per dire) il trentesimo anniversario della strage dell’Heysel. Il fatto che oggi come allora la Juve sia in finale di Champions League - nel 1985 si chiamava Coppa dei Campioni - non significa nulla, è soltanto una coincidenza, e in ogni caso all’Olympiastadion di Berlino non dovrebbe ripetersi nulla di simile, perché le misure di sicurezza attorno a un evento del genere si sono moltiplicate per mille. Quella sera del 1985 a Bruxelles, per Juve-Liverpool, soltanto quattro poliziotti presidiavano il settore Z, la fetta di stadio in cui si consumò la tragedia. Trentanove furono le vittime e, leggendo gli articoli rievocativi per il trentennale, ci ha colpito un particolare che ignoravamo: tre dei morti non erano tifosi juventini, ma interisti, persone andate in Belgio per accompagnare amici o parenti bianconeri. Nino Cerullo, Mario Ronchi e Tarcisio Salvi, questi i loro nomi e cognomi. Chissà se stasera a Berlino ci saranno interisti al seguito, per fare compagnia a conoscenti juventini. Viviamo tempi in cui il tifo, complici Facebook e Twitter, si è radicalizzato e la rivalità tra juventini e interisti è sfociata in una specie di guerra santa, ma forse i social rappresentano soltanto la realtà virtuale. Nella vita vera è successo che degli interisti siano morti per vedere una finale della Juve e, chi lo sa, magari cinque anni fa al Bernabeu per Inter-Bayern sedevano viceversa degli juventini. Sarebbe bello se gli "infiltrati" uscissero dall’ombra e raccontassero le loro storie, sarebbe uno schiaffo agli intolleranti della rete (e delle curve).

6 giugno 2015

Fonte: Sportweek (Supplemento Gazzetta dello Sport)

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

Nereo Ferlat: l’Ultima curva

di Smemorato

Nei primi giorni di giugno del 1985 il mio amico ed allora collega Nereo Ferlat, scosso dagli eventi straordinari che gli erano accaduti a cominciare dal pomeriggio del 29 maggio 1985 a Bruxelles, capitale d’Europa, mi chiese di scrivere qualche riga su quell’avvenimento tragico e terrificante che porta il nome di strage dello stadio Heysel.

Accettai di buon grado perché ero rimasto estremamente colpito ed addolorato da quell’avvenimento che aveva tolto la vita a 38 persone (aumentate successivamente a 39) e spento i miei sogni di tifoso. Dovevo attendere il 1996 per vedere vincere alla Juventus la sua prima Coppa dei Campioni. Oggi la chiamano Champions, ma per me resta sempre Coppa dei Campioni d’Europa. Scrissi allora le mie impressioni, un paio di pagine dattiloscritte, niente di più. Le consegnai a Nereo, ma inspiegabilmente non volli firmare la manleva che serviva all’editore per la cessione dei diritti d’autore. Sinceramente non so ancora spiegarmi il perché. Conservai quei fogli e li usai come segnalibro quando Nereo mi consegnò una copia de "L’ultima curva". Credo che siano ancora lì, ma non trovo più il libro che sicuramente giace nei cartoni di un trasloco di vent’anni fa. Prometto che se lo ritrovo lo pubblicherò su queste pagine. Non ci ho messo tanto a procurarmi una copia della riedizione del libro, appena ho saputo tramite i miei contatti Facebook che Nereo l’aveva data alle stampe rinnovata ed accresciuta di testi e molte immagini significative. Un’altra occasione di memoria. In effetti a trent’anni di distanza da quel fatidico evento, la perseveranza di migliaia di tifosi juventini che hanno passato e passano il testimone del ricordo alle generazioni successive, fa sì che i 39 Angeli dell’Heysel siano sempre al nostro fianco. Nessuna persona è veramente morta se non muore nel cuore di chi resta, per sempre, e se è un cuore grande come quello di Nereo e dei tanti, come me, che ne tramandano la memoria senza stancarsene i Martiri dell’Heysel sono destinati a rimanere con noi finché ci saremo. Naturalmente la nuova edizione del libro di Nereo Ferlat "29-5-1985 "Z" - L’ultima curva" farà la sua parte per conservare questa memoria. Il libro ha una prefazione scritta da Beppe Franzo, il quale ha voluto riprendere e sottolineare la frase "Nessuna persona è veramente morta se non muore nel cuore di chi resta, sempre" riportata anche dai tifosi dello Stadium sullo striscione che hanno dedicato ai 39 morti all’Heysel durante l’ultima partita di campionato giocata in casa dalla Juventus contro il Napoli e vinta per 3 a 1. Fra l’altro, nella nuova edizione, si può leggere la poesia "39 angeli all’Heysel" di Domenico Laudadio, il gestore del sito della memoria. Inoltre è presente una scelta di riproduzioni fotografiche di giornali dell’epoca e le fotografie di quella triste giornata scattate da Paolo Gugliotta, fotografo della polizia scientifica di Roma. Molte buone ragioni per leggerlo e conservarlo.

9 giugno 2015

Fonte: Losmemoratodicollegno.wordpress.com

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

Per ricordare la strage dell’ Heysel

di Ceresa Caterina

Sono trascorsi trent’anni dalla Strage dell’Heysel. Trent’anni da quando, in una sera di fine maggio, trentanove persone inermi morirono massacrate dentro uno stadio, prima che si giocasse la Finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Dentro il decrepito stadio di Bruxelles e precisamente nel Settore Z, trentadue italiani, quattro belgi, due francesi, un irlandese persero la vita ed altri centinaia rimasero feriti durante un vero e proprio assalto messo in atto dagli hooligans inglesi. Il 29 maggio ricorreva il trentesimo anniversario di quella strage ma come e quanto è stato ricordato da stampa, televisione, vertici sportivi, autorità politiche ? Per rapidi accenni, senza approfondire e senza spiegare più di tanto quel che accadde. Quanto alla Juventus, si è limitata a far celebrare una messa. Non c’è da stupirsi: fin dai primi momenti venne messa in atto una "congiura del silenzio";  tutti volevano porre una pietra sopra  quella giornata perché troppo grandi erano le colpe commesse, troppo vaste le complicità,  troppo impegnative le decisioni che si sarebbero dovute prendere. Si sono invece impegnati a fondo per far ricordare questo anniversario il giornalista Francesco Caremani, autore del libro "Heysel - Le verità di una strage annunciata" (l’unico ufficialmente riconosciuto dall’Associazione Famigliari delle Vittime) ed il suo editore Luca Turolla, titolare della "BRADIPOLIBRI", che si sono sottoposti ad un autentico "tour de force". Nell’Alto Canavese sono stati presenti due volte a Rivarolo ed altrettante a Cuorgnè per incontrare studenti e cittadini.  Il riscontro c’è stato: "I ragazzi - dice Turolla - sono stati attentissimi e si sono commossi, come capita sempre quando scoprono questa storia di cui sapevano poco o nulla". Un po’ meno soddisfacente l’afflusso di pubblico nell’incontro pomeridiano di Cuorgnè, svoltosi giovedì 28: erano presenti più che altro testimoni oculari di quella tragedia, ma si trattava del pomeriggio di un giorno feriale… I tifosi partiti in quei giorni per Bruxelles con il locale "Juventus Club" erano tanti: sessantotto. Fortunatamente non si trovavano nel settore preso d’assalto: "Nessun italiano avrebbe dovuto essere  lì" – ha ricordato polemicamente Roberto Scotti, oggi assessore allo Sport del Comune di Cuorgnè, che aveva organizzato il viaggio in qualità di Presidente del club.

Bradipolibri:  Heysel e  Grande Torino.

A proposito delle iniziative per ricordare la Strage dell’Heysel, merita un elogio la casa editrice che ha pubblicato il libro di Caremani: la "BRADIPOLIBRI" di Torino. Non solo per questo volume ma per lo spirito con il quale affronta le tematiche sportive. All’inizio di maggio (in concomitanza con l’anniversario della tragedia di Superga) i locali della Manifattura di Cuorgnè avevano ospitato una mostra organizzata dalla BRADIPOLIBRI e dedicata al mito del "Grande Torino". Libri, riproduzioni di articoli di giornali, cartoline, annulli filatelici ed anche qualche cimelio: la valigia di Valentino Mazzola, per esempio (una modesta ed usurata valigia diversissima da quelle esibite dai calciatori di oggi). Poi un pallone Anni Quaranta, scarpe da gioco risalenti allo stesso periodo, un plastico dello stadio "Filadelfia". Tutto faceva pensare ad un indirizzo editoriale preciso, imperniato sull’esaltazione di un mito sempre attuale e di sicura presa. Parlando con l’editore Luca Turolla era invece venuto fuori un ritratto ben più complesso ed importante, fatto intuire dall’annuncio: "A fine mese, per il Trentennale dell’Heysel, presenteremo il libro che abbiamo pubblicato, l’unico approvato dall’Associazione Familiari delle Vittime".  Mettere insieme la disgrazia aerea in cui perì per fatalità l’intera squadra del Grande Torino e la strage nella quale persero la vita per dolo decine di tifosi juventini è un segnale preciso di un certo modo di vedere le cose. Infatti la BRADIPOLIBRI si occupa di sport e di letteratura sportiva ma lo fa con senso critico ed intenti pedagogici: "L’intento è quello di aggregare le persone attraverso il calcio, vista la sua diffusione, e diffondere i valori positivi dello sport". Non solo: "Scrivere di sport è un pretesto per far leggere i ragazzi".

A Rivarolo, una mostra sull’Heysel.

Un altro evento  legato al trentennale dell’Heysel è stata la mostra ospitata a Rivarolo lo scorso fine settimana ed intitolata "Settanta Angeli in un unico Cielo - Heysel e Superga tragedie sorelle". Ad organizzarla sono stati la "SaladellaMemoria Heysel.it" ed il "Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata" insieme all’Assessorato alla Cultura del Comune di Rivarolo. La "Casa della Memoria Heysel"  è un Museo Virtuale Multimediale messo in piedi all’inizio del 2009 da un tifoso juventino, Domenico Laudadio, per onorare una sorta di impegno con sé stesso. Voleva in qualche modo redimersi da una colpa: quella di aver festeggiato, a vent’anni, la conquista a Bruxelles della Coppa insanguinata. Dopo ripetuti ed infruttuosi tentativi di coinvolgere la società bianconera nel progetto di creare una Sala-museo permanere da allestire  a Torino, aveva deciso di realizzare a sue spese un Museo virtuale. In seguito la Juventus ha cambiato atteggiamento e, nel nuovo "J Museo", inaugurato nel 2012, ha dedicato ai Caduti dell’Heysel una stele luminosa con i loro nomi e cognomi. Il Sito-Museo si è associato al comitato "Per non Dimenticare Heysel" di Reggio Emilia ma soprattutto si è gemellato con il "Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata" tanto che i due loghi compaiono insieme sui rispettivi siti istituzionali, definendo le due sciagure "Tragedie Sorelle". Da questa collaborazione è nata la mostra "Settanta Angeli in un unico Cielo": un messaggio forte per il recupero dei veri valori sportivi contro la degenerazione che vede le tifoserie trasformarsi in bande di strada. Si deve rispettare la memoria di tutte le disgrazie e di tutte le vittime del calcio: questo è il messaggio che la "SaladellaMemoria Heysel" ed il "Museo del Grande Torino" intendono diffondere.

Il libro sulla strage dell’Heysel.

Francesco Caremani, giornalista aretino, ha un legame emotivo molto forte con la strage dell’Heysel: tifoso della Juve, amico di uno dei morti, scampato al massacro perché un brutto voto gli aveva precluso il viaggio. Ha sempre seguito da vicino l’impegno di Otello Lorentini, suo concittadino e padre dell’amico ucciso, fondatore e presidente dell’Associazione Famigliari delle Vittime. Questo è "il libro che non avrei mai voluto scrivere": uscito nel 2003, è stato poi ripubblicato dalla casa editrice torinese BRADIPOLIBRI. Raccoglie testimonianze dirette, articoli di giornale, atti giudiziari e costituisce un atto d’accusa verso i tanti colpevoli di quella strage. "Eravamo venuti a Bruxelles per fare del male" – avrebbe poi confessato uno degli hooligans, che nel pomeriggio avevano fatto scempio della città, devastandone il centro senza che nessuno li contrastasse. Allo stadio - sottolinea l’autore - "sarebbero bastati cento poliziotti perché non accadesse nulla" ma il Ministero dell’Interno non li schierò. Quei pochi erano nei posti sbagliati e fecero le cose sbagliate come multare gli italiani per innocue violazioni amministrative o sottoporli ad estenuanti controlli all’ingresso mentre gli ultrà inglesi, ubriachi fradici, entravano liberamente portando con sé casse di birra ed armi improprie. Impreparazione, incoscienza ? Molto peggio fu quel che accadde dopo: invece di bloccare i colpevoli della strage, i pochi poliziotti bastonarono gli italiani in cerca di scampo;  i medici incaricati delle autopsie fecero scempio dei cadaveri, ai quali vennero addirittura sottratti oggetti d’oro e portafogli; i magistrati, invece di cercare i colpevoli di omicidio (tutti rimpatriati velocemente senza prima identificarli) si concentrarono sugli atti di violenza commessi dagli ultrà juventini dopo la strage. La partita si giocò ugualmente: per motivi di ordine pubblico - dissero l’UEFA e le autorità belghe. La Juventus vinse quella coppa. I suoi dirigenti, i calciatori e molti tifosi, nonché il telecronista della RAI, festeggiarono la vittoria come se non fosse successo nulla. "Non è tanto l’esultanza dei primi momenti a colpire - sostiene Caremani - ma quella successiva, con la Coppa alzata trionfalmente al ritorno in Italia. Penso che andasse restituita e si potrebbe ancora farlo: è un gesto che avrebbe senso anche oggi ed Otello Lorentini (ora defunto) la pensava come me". Lorentini decise di lottare per ottenere giustizia ma non poteva farlo da solo: era necessario dividere le ingentissime spese e riuscì a riunire tutti i famigliari delle vittime. Il processo di primo grado fu una farsa: 14 modeste condanne contro gli hooligans per omicidio colposo, nessun responsabile fra le autorità belghe (ministro dell’Interno, borgomastro di Bruxelles, Gendarmeria, Polizia di Bruxelles). "Il Belgio non poteva condannare sé stesso - spiega Caremani - così scaricarono tutte le  colpe sull’anello più debole: il capitano che aveva la responsabilità dei gendarmi in servizio dentro lo stadio". Ma Lorentini non si diede per vinto e citò in giudizio l’UEFA, responsabile di aver scelto per puro tornaconto di far giocare le squadre in quella struttura: era piccola, insicura ed assolutamente inadeguata ma aveva il pregio di costare poco. La battaglia fu dura e solitaria: lo Stato Italiano faceva orecchie da mercante, la nostra magistratura rimase ferma, in attesa; le istituzioni del Calcio meglio non parlarne… "Siamo un paese - dice ancora Caremani - che vuole vittime discrete e silenziose". La condanna per l’UEFA arrivò: "Fu una sentenza storica, purtroppo poco pubblicizzata dai mezzi d’informazione, e non mancò chi accusò i famigliari degli uccisi di essersi fatti i soldi sulla pelle dei morti. Ma la condanna ci fu e dobbiamo ad Otello Lorentini se oggi in Europa abbiamo stadi sicuri".

23 giugno 2015

Fonte: 12alle12.it

ARTICOLI STAMPA e WEB GIUGNO 2015 

L'incubo Heysel compie 30 anni

di Stefano Canola

Un paio d'ore di svago dagli esami di maturità incombenti, la partita alla tivù con amici juventini tra spaghetti, birre e sfottò. Il mio programma per il 29 maggio 1985 s'è scontrato con l'incubo Heysel, il peggio che si potesse immaginare attorno a un evento sportivo. Come un film dell'orrore sceneggiato da Steven King, solo che il sangue e i morti a Bruxelles, prima della finale di Coppa Campioni Juventus-Liverpool, erano veri. Andò tutto storto per colpa di delinquenti e incapaci: hooligan, forze "dell'ordine'', addetti "alla sicurezza", organizzatori, venditori dei biglietti. A completare il macabro quadro i festeggiamenti conclusivi e quel trofeo sollevato sulla scaletta dell'aereo, malgrado tutto. Trent'anni son passati, invano. Il calcio professionistico è spesso ancora in mano a delinquenti e incapaci e l'unica magra consolazione è che la violenza dopo quella strage ha mietuto vittime alla spicciolata, non più 39 in un colpo solo. Tu ragazzo che canti i cori del tifo pensaci alle parole: quelli dell'Heysel erano gente come te, senza spranghe né passamontagna.

Giugno/Luglio 2015

Fonte: Corriere Vicentino

ARTICOLI STAMPA e WEB LUGLIO 2015 

Tragedia dell’Heysel, interviene Pizzul:

"Le autorità del Belgio hanno voluto cancellare la serata"

"Commentare quella partita, dopo quei tragici fatti, non è stato un compito agevole. Sono stati momenti che hanno lasciato una profonda ferita dentro la mia coscienza di uomo. Per me è stato immediatamente qualcosa di inconcepibile e inaccettabile che per una partita di pallone ci fossero così tanti morti". Lo ha detto Bruno Pizzul questa mattina ad Arezzo, a margine del convegno "Dall’Heysel una Speranza. Dalla memoria un impegno per i valori dello sport", promosso per il trentennale della tragedia avvenuta nello stadio Heysel di Bruxelles. "In questi anni, sicuramente, si sarebbe potuto fare qualcosa di più per ricordare le vittime di quel tragico giorno - ha anche detto Pizzul - Qui ad Arezzo c’è sempre stata una particolare attenzione alla tragedia, anche perché ha pagato il suo tributo di vite umane in quella notte. Ciò che mi ha lasciato perplesso è stato l’atteggiamento delle autorità belghe, che hanno cercato in tutti i modi di cancellare quella serata, anche perché loro hanno avuto delle responsabilità organizzative notevoli. Però il momento luttuoso è stato così grande e doloroso che sarebbe dovuto essere comunque ricordato adeguatamente, anche al di fuori dell’Italia".

9 ottobre 2015

Fonte: Ansa.it

ARTICOLI STAMPA e WEB OTTOBRE 2015 

Luzhniki e Heysel, tragedie gemelle

di Beppe Franzo

L’Heysel, per noi emblema assoluto della tragedia calcistica, mutò, in molti allora giovani ultras come me, la visione di un immaginario mitico su cui si cullavano i sogni di una generazione irrequieta e irriverente.

In quel lontano 29 maggio 1985, s’infuse la consapevolezza che di calcio si poteva anche morire. Con morti assurde legate ad eventi calcistici ci si era già dovuti confrontare, ma gli eventi di quella sera belga assursero una prospettiva del tutto nuova, drammatica. La morte si manifestò in diretta Tv e i famigliari di quelle innocenti vittime iniziarono un lungo dramma esistenziale, per molti non ancora terminato. Migliaia di tifosi juventini si prodigano nel ricordo di quelle 39 vittime, sentendo quell’evento parte integrante della loro "fede calcistica". Essere tifoso della Juve vuol dire, anche, passare attraverso l’Heysel, seppure solo ricordandolo, vista la giovane età di molti di essi. Manifestazioni di sentita partecipazione si celebrano ogni anno a Torino, Reggio Emilia, Meda, senza dimenticare le altre innumerevoli commemorazioni indette in comuni dove ebbero residenza i 39 Martiri dell’Heysel. In un’altra parte del mondo, in Russia, un’altra tragedia, quella dello Stadio Luzhniki di Mosca, riveste analoga importanza e attaccamento emozionale. Il 20 ottobre del 1982 al termine dell'incontro Spartak Mosca-Harlem, gara di Coppa Uefa giocata sotto la neve, la polizia lasciò aperta una sola uscita per far defluire i 16 mila tifosi presenti sulle gradinate. A cinque minuti dalla fine della partita, mentre buona parte della gente si allontanava già dallo stadio, lo Spartak segnò il secondo gol. L’ululato del pubblico giunse improvviso e inaspettato alle orecchie dei tifosi che sfollavano, molti dei quali tentarono immediatamente di ritornare sugli spalti. La spinta di chi cercava il rientro si scontrò contro il muro umano di coloro intenti a guadagnare l’uscita. Aleksandr Prosvetov, un ragazzino qualunque innamorato dei colori rosso-bianchi, quella sera andò al "Luzhniki" a sostenere lo Spartak. Oggi, giornalista di "Sport Express", ricorda così quei tragici attimi: "Oscurità, scalini scivolosi, sotto il peso della gente la struttura della scala si piegò su se stessa. A me andò bene. Io ero lontano dall’uscita, ma sentivo le urla, capiì subito che stava succedendo qualcosa di terribile". Le sue sensazioni divennero ben presto una macabra realtà. La scala non resse e, calpestati dalla calca, persero la vita "almeno" 66 tifosi moscoviti (le cifre "ufficiose" parlano di molti di più). Come documenta Riccardo Pessarossi, giornalista di Sputnik Italia, cosa successe veramente quella sera nessuno lo seppe. Il giorno dopo il dramma, soltanto il quotidiano Vechernaya Moskva pubblicò uno scarno trafiletto, in linea con i tempi che furono: "Ieri, 20 ottobre 1982, dopo la partita di calcio allo stadio centrale "Lenin", durante l’uscita degli spettatori, a causa di una violazione dell’ordine di movimento delle persone, ha avuto luogo un incidente. Ci sono dei feriti. Sono in corso le indagini per appurare la dinamica dei fatti". Il Regime sovietico insabbiò la tragedia del Luzhniki per anni. Solo durante la Glasnost emerse la verità, o almeno una parte di essa. Quella dell’inchiesta istituzionale, che accertò 66 decessi e condannò il custode dello stadio a 18 mesi di lavori forzati. (1) E quella, diversa, dei parenti delle vittime e dei testimoni oculari, che il 20 ottobre del 1982 sopravvissero. Uno di loro era il sedicenne Andrej Chesnokov, stella del tennis russo dei primi anni ’90, che raccontò così la sua esperienza: "La gente cadeva dagli scalini ghiacciati, trascinando a terra i vicini, come fossero pedine di un domino. Per salvarmi scavalcai il parapetto e "nuotai" sui corpi che giacevano gli uni sopra gli altri. Alcuni alzavano le mani, chiedevano aiuto. Però non riuscivano a muoversi. Io trascinai con me un ragazzino più piccolo e lo portai ad un’ambulanza. Ma era già morto. Andando via vidi che nell’antistadio i cadaveri erano centinaia". (2) Oleg Churbanov, un tifoso allora presente, racconta dell’accaduto: "Sono capitato in mezzo alla calca, ho provato a uscire, ma non ci sono riuscito. Era troppo tardi. Come nei film ho perso conoscenza e mi sono risvegliato ingessato sul letto dell'ospedale. A quanto pare sono tra quelli "nati con la camicia". Avevo solo 14 anni. Molti ragazzi sono morti quella sera". (3) Un dramma che colpì decine e decine di famiglie moscovite, costrette per anni a rispettare quel rigido protocollo del "silenzio forzoso", rotto solo nel 1989 dal Sovetskij Sport, che pubblicò il primo articolo dedicato alla tragedia, denunciando la volontà delle autorità di insabbiare il tutto, impedendo persino ai familiari delle vittime di scrivere sulle lapidi "morto in un incidente allo stadio Luzniki". Gli stessi giocatori olandesi dell'Haarlem, dichiararono a posteriori di aver lasciato lo stadio senza accorgendosi di quanto stava accadendo. Da allora, a ricordo di quelle inconsapevoli vittime, si prodiga in un passionale ricordo l’intera tifoseria biancorossa. Essere tifoso dello Spartak, vuol dire confrontarsi con la tragedia di Luzhniki, testimoniandone annualmente il ricordo, proprio come avviene qui da noi per l’Heysel. Nel 2007 venne finalmente inaugurato un monumento ai caduti vicino alla "tribuna b" (che reca in calce una scritta in russo, inglese e spagnolo: "A tutti i caduti negli Stadi"), la curva dei tifosi dello Spartak e gli ex giocatori delle squadre coinvolte, si ritrovarono al Luzhniki per una partita amichevole. Heysel e Luzhniki sono "tragedie gemelle" per tutta una serie di analogie e coincidenze nefaste. Quelle stesse analogie riscontrate da alcuni esponenti delle diverse tifoserie, che faranno sì che le stesse si incontrino, a ricordo delle vittime del Luzhniki, lassù in cielo accanto ai nostri Angeli. Nel 2014, a Torino in occasione della "Giornata della Memoria contro ogni violenza nell'ambito sportivo" indetta a ricordo delle vittime dell’Heysel, notai con stupore la partecipazione di un giornalista di una testata russa, lì giunto, prima ancora che per motivi lavorativi, a testimoniare il suo affetto per quei morti in terra belga. Da lui avvicinato per una breve intervista, esternai il mio pensiero, che venne minuziosamente trascritto e reso pubblico: "La partecipazione a questa giornata e l'interesse mostrato anche dalla Russia testimoniano che il ricordo della tragedia dell'Heysel è più che mai sentito. Conosco i fatti dello stadio Luzhniki e sarebbe bello per il prossimo ottobre o magari per il 2015, portare una nostra delegazione a Mosca, oppure organizzare un momento istituzionale comune con la parte russa, perché la memoria non ha confini". Un’occasione che gli amici russi non si sono lasciati sfuggire e, grazie all’invito dei tifosi, dei famigliari delle vittime e dello Spartak, una delegazione dell’Associazione "Quelli di Via Filadelfia" presenzierà quest’anno alle manifestazioni commemorative dell’evento. Per portare in terra di Russia il nostro affetto, perché lo Sport e il Calcio possano essere motivo di reale comunanza e fratellanza tra i popoli, per portare una rosa a tutti i caduti negli stadi.

NOTE: (1) Yuri Panchikhin, assunto da soli due mesi e mezzo, aveva cercato di salvare alcune vite, ma fu costretto a raccontare una versione voluta dalle autorità, in cui disse, tra l’altro, di essere colpevole psicologicamente. I giudici interpretarono queste parole come la sua confessione, condannandolo a 3 anni, di cui scontò 18 mesi ai lavori forzati. (2) Riccardo Pessarrossi (Trent’anni dalla "Tragedia Segreta" del Luzhniki). (3) Testimonianza rilasciata da Oleg Churbanov a Riccardo Pessarossi.

16 ottobre 2015

Fonte: Gruppo Via Filadelfia 88

ARTICOLI STAMPA e WEB OTTOBRE 2015 

Belgio-Italia, il 13 novembre a Bruxelles nel ricordo della tragedia dell’Heysel

Concluso con successo il capitolo qualificazioni, per la Nazionale arriva il tempo delle amichevoli. Un incontro di lusso quello in programma il 13 novembre: allo stadio "Re Baldovino" di Bruxelles gli Azzurri di Antonio Conte scenderanno in campo (ore 20.45) contro il Belgio, nel suo momento di massimo splendore. Attualmente terza nel Ranking FIFA, infatti, la nazionale belga festeggerà il 5 novembre - giorno in cui sarà resa nota la nuova classifica mondiale - il primo posto, scavalcando Argentina e Germania, diventando così la squadra numero uno al mondo. Il ritorno dell’Italia a Bruxelles, in quello che fu lo stadio Heysel, sarà anche l’occasione per commemorare, nel trentesimo anniversario, le vittime della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool del 29 maggio 1985. Poco prima dell’inizio della gara, i disordini sugli spalti provocarono la morte di 39 persone, di cui 32 italiane, oltre a 600 feriti, una tragedia mai dimenticata. Italia e Belgio si sono già incontrate 20 volte e il bilancio è a favore dell’Italia con 13 vittorie, 4 pareggi e 3 sconfitte. L’ultima gara risale all’amichevole giocata allo stadio "Artemio Franchi" di Firenze il 30 maggio 2008 e vinta dagli Azzurri 3-1. Tre gli incontri disputati dagli Azzurri allo stadio "Re Baldovino": due nella fase finale del Campionato Europeo 2010, il 14 giugno contro il Belgio in una partita che l’Italia vinse 2-0 e il 24 giugno con gli Azzurri ancora vincitori per 2-0 contro la Romania; infine il 2 giugno 2010 in una amichevole contro il Messico, che si impose per 2-1.

20 ottobre 2015

Fonte: Vivoazzurro.it

ARTICOLI STAMPA e WEB OTTOBRE 2015 

Partita doppia

di Nereo Ferlat

Il prossimo 13 novembre, all’ex stadio Heysel, ora Re Baldovino non andrà soltanto in scena una partita amichevole tra le furie rosse Belghe e l’Italia di Conte. Quella sera, a distanza di trent’anni in cui molti alla moda dello struzzo hanno nascosto la testa sotto la sabbia, quella sera si giocherà anche la partita della memoria ! Memoria di chi c’era e non ha dimenticato, di chi non c’è più e non va dimenticato, memoria per chi non sa cosa è successo in quella sera da tregenda perché non era ancora nato e che va educato perché non si ripeta più un simile orrore ! Io ero là e la "signora in nero" mi è passata accanto, io ero là e le grida di terrore rimbombano ancora in quella curva rifatta ad hoc perché venissero ovattate dal tempo, io ero là e ho visto i morti ed i feriti, io ero là ed ho visto la rete per polli e la fuga precipitosa dei 5 poliziotti che dovevano difenderci dagli attacchi dei 5000 hooligans, io ero là ed ho deciso di cominciare a battere il tasto del ricordo dal mio ritorno a casa contro chi voleva ridurre questo ciclone ad una semplice pioggerella autunnale ! Alzatevi in piedi e onorate queste vittime poi si potrà anche giocare la partita…

21 ottobre 2015

Fonte: Juwelcome.com

ARTICOLI STAMPA e WEB OTTOBRE 2015 

Juventus, Agnelli: "Heysel ? Impegno quotidiano per evitare altre tragedie"

Il presidente del club bianconero: "Quando accadono queste tragedie non c'è nulla che possa lenire il nostro dolore"

FIRENZE - "Bisogna adoperarsi quotidianamente per evitare che episodi del genere accadano ancora". Così il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, in un messaggio inviato al Consiglio regionale della Toscana, in occasione della cerimonia di conferimento del Gonfalone d'argento, massima onorificenza dell'Assemblea toscana, all'associazione dei familiari delle vittime dell'Heysel, in programma oggi pomeriggio. "Quando accadono tragedie come l'Heysel, che ancora oggi ci lascia increduli e impotenti, non c'è nulla che possa lenire il nostro dolore - scrive il presidente della Juventus. Tuttavia, possiamo fare in modo che avvenimenti del genere non accadano in futuro. Sfortunatamente, la storia, come in questo caso, è anche memoria di vittime umane". IMPEGNO - Per Agnelli "è quindi nostro impegno, in quanto uomini, tributare il doveroso omaggio a tutte le vittime di quella giornata e dimostrare la nostra vicinanza ai loro cari". L'associazione dei familiari delle vittime dell'Heysel "non solo persegue con le sue attività questo lodevole intento, ma si prefigge come principale obiettivo la promozione della non violenza nello sport, che da sempre dovrebbe rimandare a valori positivi e autentici", scrive ancora Andrea Agnelli, che si congratula con l'Assemblea toscana "per la lodevole iniziativa e con Andrea Lorentini per l'onorificenza ottenuta in questa giornata". ROSSI - "Sono passati trent'anni, ma le ferite non si sono ancora rimarginate. Sono ancora lì, aperte e piene di disperazione dei familiari delle vittime". Lo scrive Paolo Rossi, ex centravanti della Juventus e dell'Italia campione del mondo in Spagna '82, in una lettera in occasione della consegna del Gonfalone d'argento del Consiglio regionale della Toscana all'associazione dei familiari delle vittime dell'Heysel. Pablito, spiega una nota, ha inviato la lettera al vicepresidente del Consiglio regionale, Lucia De Robertis. "Io quella sera c'ero e posso raccontare le mie impressioni su quella inconcepibile, quanto ingiustificabile, serata - scrive. Quella sera né l'atmosfera, né il contesto della gara potevano far presagire una simile catastrofe. Doveva essere una giornata di festa e di gioia". E invece si trasformò "in un campo di morte ancor prima che il gioco avesse inizio. Un massacro, prima ancora che il fischietto dell'arbitro riuscisse a scandire l'avvio della contesa tra le due formazioni. Io ero lì, pronto a giocare, ma come molti altri non sapevo cosa fosse accaduto. Ignaro del dramma, continuai a rincorrere il pallone e a cercare il gol. Con me, i miei compagni di squadra". Per Rossi "nell'arco di quindici minuti esatti si era consumata un'atrocità senza eguali. Inutile la gara da noi disputata e del tutto fuori luogo il giro di campo e l'esultanza dei giocatori, me compreso, ancora inconsapevoli. Impossibile, poi, capire fino in fondo di chi fosse la colpa". Ancora oggi "a distanza di trent'anni, tanto dolore e troppe lacrime versate, ci si interroga sulla sciagura dell'Heysel, augurandosi che quantomeno possa essere servita da lezione per non ripetere gli stessi errori, per evitare altro sangue e lacrime preziose". "Io ero lì, ma non conoscevo la portata di quel dramma umano. Chiedo scusa, ma non sapevo. Nessuno di noi sapeva, né immaginava". Oggi, chiude Paolo Rossi, "il mio pensiero non può che andare alle vittime, e alle loro famiglie, che hanno combattuto e si sono adoperate, nel corso di questi lunghi e faticosi anni, affinché emergesse la verità. Sono con voi, con tutto il mio affetto e la mia vicinanza". CHIELLINI - "Mi rendo conto della responsabilità che abbiamo ai nostri giorni noi calciatori. Purtroppo certe volte sbagliamo ma credo che in questi anni ci siamo resi conto un po’ tutti dei messaggi che mandiamo, di come siamo diventi opinion leader per tutti i bambini e le nuove generazioni. Tante volte una cresta fa molto di più di qualsiasi discorso dei genitori". Lo ha detto il difensore azzurro Giorgio Chiellini a margine della cerimonia di conferimento del Gonfalone d'argento, massima onorificenza del Consiglio regionale, alla rinata associazione dei familiari vittime dell'Heysel. "Sono diventato da poco papà, inevitabilmente ti cambia qualcosa dentro - ha aggiunto - e cominci a pensare anche a certe cose. Spero che si continui a migliorare e sono contento di cosa si è fatto nel calcio negli ultimi anni sia a livello di sicurezza che di educazione. Mi auguro che si viva questo sport sempre di più con grande passione ma anche con grande rispetto". Il giocatore ha sottolineato di voler "fare i complimenti ad Andrea Lorentini che è un ragazzo come me dato che abbiamo la stessa età e siamo toscani entrambi, per l'iniziativa della costituzione di una associazione delle vittime dei familiari dell'Heysel, e per i valori che sta portando avanti". Per Chiellini "le parole che esprime per parlare di ciò che ha vissuto ti rimangono dentro, si sente tanta passione e sono sicuro che il suo contributo servirà a dare una mano al calcio per crescere e affinché non si verifichino più in futuro certi tipi di tragedie". TAVECCHIO - "Il calcio è gioia, gioco di squadra, comunicazioni di valori importanti, agonistici e culturali, è tutto ciò che suscita una palla che rotola, che fa emozionare i nostri giovani. Mi auguro che non si ripeta più una tragedia simile come quella dell'Heysel. Sono sicuro che insieme possiamo creare una coscienza di responsabilità. Puntiamo a stadi senza barriere, dobbiamo fermare l'ideologia mentale di certi pensieri". Lo ha detto Carlo Tavecchio, presidente della Figc, nel corso della cerimonia per il conferimento del Gonfalone d'argento del Consiglio regionale della Toscana, massima onorificenza dell'Assemblea, all'associazione dei familiari delle vittime dell'Heysel. "Bisogna avere senso civico ed onestà - ha aggiunto. Per questo la Figc è a disposizione per qualsiasi iniziativa che porti a far emergere i valori della correttezza sportiva così come li rappresenta Chiellini che è qui oggi con noi stasera". Per Tavecchio "questo riconoscimento ad una organizzazione importante come quella che ha costituito Lorentini valga come ricordo di un qualcosa di drammatico. Il calcio non merita di essere legato ad episodi come queste grandi tragedie umane. Trentanove morti sono una catastrofe. Bisognerebbe capire come è accaduto, soprattutto per colpe dovute ad imperizia".

9 novembre 2015

Fonte: Tuttosport.com

ARTICOLI STAMPA e WEB NOVEMBRE 2015 

Heysel: il ricordo e quel calcio maledetto che (non) s’è fermato

di Massimiliano Morelli

Heysel è un viaggio a ritroso nel tempo vecchio di trent’anni ma ancora vivo nella memoria. E’ la svolta (maligna) del calcio, è la violenza perpetrata in uno stadio cui oggi hanno cambiato nome - che provincialismo becero - dedicandolo al re Baldovino, è l’assassinio di trentanove tifosi, è uno squarcio nell’anima di chi c’era e nell’animo della passione calcistica. E’ una partita di pallone trasformata in tragedia, è una sequela di errori e una sequenza di frasi di circostanza, è una infinità di bugie, parole allegoriche, alla resa dei conti indici puntati contro nessuno e pollici versi. E’ un libro scritto da Francesco Caremani che descrive in maniera minuziosa quel maledetto giorno di maggio, è un momento della nostra esistenza vissuto davanti alla televisione con lo sguardo incredulo e la mente attonita. E’ storia impossibile da cancellare, ma è la stessa storia che tanti hanno disconosciuto, perché è più facile non prendersi responsabilità. Heysel è una squadra italiana che alza la coppa dei campioni bagnata dal sangue, è Gaetano Scirea che parla al microfono per attenuare la tensione e Michel Platini, che esulta dopo aver segnato un rigore assegnato come contentino. E’ la tv a colori che si sofferma su persone inermi, schiacciate dalla folla, ferite, morte. E’ le istituzioni che smentiscono e disconoscono responsabilità, è una stele che ricorda quei trentanove morti. E’ un sistema calcio che troppo tardi si ricorda del passato.

14 novembre 2015

Fonte: Sporteconomy.it

ARTICOLI STAMPA e WEB NOVEMBRE 2015 

Heysel, il dovere della memoria

di Roberto Bertoni

Due libri, una ricostruzione autobiografica e un monologo interamente dedicato al tema della follia, per raccontare una notte che nessuno sportivo ha mai dimenticato. Parliamo del dramma dello stadio Heysel nel quale i 29 maggio 1985 persero la vita trentanove tifosi, di cui trentadue italiani, a causa delle cariche e della violenza disumana degli hooligans inglesi.

Juventus-Liverpool: una finale di Coppa dei Campioni trasformatasi in tragedia, una partita preceduta da ore d'inferno, con gli scalmanati sostenitori dei "Reds", guidati da un parà reduce della guerra nelle isole Malvine, che si lanciarono all'assalto degli inermi sostenitori bianconeri situati nel settore "Z", schiacciandoli sotto il peso di un muro di calcestruzzo friabile, emblema della vecchiezza e dell'inadeguatezza di quel catino di morte. La notte dell'innocenza. Heysel 1985, memorie di una tragedia e Quando cade l'acrobata entrano i clown: Heysel, l'ultima partita: Mario Desiati e Walter Veltroni, che all'epoca erano il primo un bambino di otto anni e il secondo un giovane dirigente politico non ancora trentenne. Due libri simili, sia pur diversissimi nella struttura narrativa, che ho voluto leggere l'uno dietro l'altro per inquadrare meglio un evento storico sul quale non si è mai riflettuto abbastanza, specie se si considera che l'autore della frase che dà il titolo all'opera di Veltroni è quel Michel Platini che segnò il rigore decisivo e che non ha mai voluto che si parlasse troppo di ciò che accadde quella notte. Lo capiamo: forse, negli anni, avrà ripensato a quell'esultanza o all'assurdo gesto compiuto l'indomani dal vicecapitano Brio, il quale all'arrivo a Torino si permise di alzare la coppa al cielo, e avrà provato un moto di vergogna. Lo capiamo, ma non possiamo non esercitare il dovere della memoria, soprattutto quando abbiamo a che fare con due testi dal ritmo incalzante, capaci di scavare nel profondo, di scuotere le nostre coscienze e di indurci a riflettere su cosa eravamo e su cosa siamo diventati, su come siano cambiati in peggio il caldo e la società nell'ultimo trentennio. L'Italia craxiana e l'Inghilterra iper-liberista thatcheriana di allora si proiettano nel presente e ci dicono che tutto ciò che non andava all'epoca non va nemmeno oggi, tracciando delle inquietanti similitudini fra decenni lontani ma non troppo; decenni che sembrano quasi prendersi per mano in un continuum storico di tristezza e decadenza, degrado e perdita dei valori, smarrimento sportivo e spaesamento collettivo, come se quella partita fosse stata solo l'inizio di un buio che si protrae senza sosta da trent'anni esatti. Struggente il racconto di Veltroni, con quest'uomo che, in vacanza per festeggiare il decimo anniversario di nozze, narra a sua moglie la barbarie alla quale ha assistito dieci anni prima, mentre lei dorme beata e non saprà mai di quell'unica bugia che il marito le disse a pochi giorni dal matrimonio per compiere una fuga d'amore calcistica trasformatasi in uno scenario assurdo che gli sarebbe potuto costare la vita. "Mi giro, il tuo corpo è illuminato dalla luna, un po' di brezza agita le tende bianche. Mi giro di nuovo, immaginando il mare. Lo vedo avanzare, ora, in una nuvola di polvere. Ha una bottiglia rotta tra le mani, il sole fa sul vetro un riflesso accecante. Mi odia, senza conoscermi", scrive Veltroni. E sembra quasi che prenda per mano il piccolo Desiati e lo conduca via: via da quell'inferno, via da quell'orrore, via, semplicemente via, per comporre, a cinque anni di distanza l'uno dall'altro, due testi in cui l'incubo è tuttora attuale, vivo, fra noi, con le sue urla e i suoi silenzi, prima che inizi una gara buona ormai solo per le statistiche. (Tratto da Confronti: mensile di fede, politica, vita quotidiana)

Dicembre 2015

Fonte: Torrossa.com

ARTICOLI STAMPA e WEB DICEMBRE 2015 

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