Heysel, la
tragedia e i "mai più sprecati"
di Roberto Belingheri
Ti basta guardarlo, per capire. Ti
basta guardare negli occhi il superstite dell’Heysel, per capire
una volta di più cos’è stato l’Heysel. Ha gli stessi occhi di un
superstite del Vajont visto su a Erto, o di qualche vecchio
della Val di Scalve quando parla del Gleno.
Ha gli stessi occhi, scommettiamo, di
uno che era a New York e sentì con le sue orecchie l’ultimo
rombo di quel 767 che andava basso e veloce verso le Torri
gemelle. Ha gli stessi occhi di chi sa che oggi potrebbe essere
sottoterra e invece è ancora qui. Vivo, condannato a vita al
racconto, e dunque a rivivere il dramma e a risentire vicino
l’odore della morte. Heysel non è una tragedia, non è "solo" una
strage. Heysel è un tornante della storia, una ferita ancora
aperta. Heysel è una password che riapre il passato. Ricordi
dov’eri quella sera, il giorno dopo, con chi ne parlavi. Ricordi
la maestra delle elementari, la signora Maria, che si presentò
in classe con la radiolina, per sentire le notizie di Bruxelles.
Heysel è una lezione, un monito: mai più, si disse migliaia di
volte. Mai più gli hooligans e le loro nostrane imitazioni, mai
più soldatini inermi a cavallo dentro gli stadi, che servono a
niente. Quanti "mai più" sono stati sprecati, dopo l’Heysel.
Perché un dato è certo, inconfutabile: il calcio non ha mai
dichiarato guerra all’Heysel. Si è tenuto dentro il ricordo, lo
ha cicatrizzato, ma poi scusate, the show must go on. Lo
dimostrò quella sera, con la partita che si giocò per forza, per
non contare altri morti. Vince il male minore, e pazienza. Il
male minore è la filosofia di fondo del calcio europeo,
italiano, bergamasco. Il violento c’è ma sì, che vuoi che sia.
Sono ragazzotti vivaci, meglio farli sfogare in uno stadio che
altrove. Sbagliato. Perché questo è il cancello che una volta
spalancato ti fa correre veloce verso ragionamenti perversi come
quelli sentiti lunedì sera dalle parti di Roma, dove cantavano
vittoria perché in fondo il derby era finito con due soli
accoltellati. Gravi, ma vivi. Quel che il calcio non ha capito,
o se l’ha capito nulla fa per difendersi, è che è diventato il
pretesto per gli sfoghi peggiori. Violenti beceri da noi;
nazionalisti criminali in taluni Paesi esteri; le mafie al Sud.
Quel che il calcio perversamente insiste a non fare è domandarsi
perché proprio il calcio sia la calamita di tutto questo. Per i
soldi che vi girano, certo. Ma forse anche per la voluta assenza
di anticorpi, se non la sottile complicità che per convenienza o
quieto vivere spesso viene mantenuta con chi tira le redini dei
greggi delle curve.
L’Heysel è una ferita aperta. Lo vedi
da quanto questo trentesimo anniversario ha scoperchiato le
emozioni della gente. Eppure il calcio non ha capito quella
lezione, non ha onorato quei morti rendendosi diverso da se
stesso. È stata bella, nei giorni scorsi, la commemorazione
delle vittime fatta dalla curva della Juventus. Migliaia di
cartelli bianchi sventolati in curva con i nomi dei 32 che non
tornarono da Bruxelles. Eppure, è proprio quella della Juventus
una delle curve più violente del calcio italiano. È la curva che
tira bombe carta - a Bergamo, che certo non può dare lezioni di
nonviolenza, lo ricordiamo bene - tra i tifosi avversari. È una
curva tra le più aggressive, intransigenti, talebane del calcio
italiano. Ricorda i morti dell’Heysel perché sono i suoi, ma
nella stessa sera non disdegna schifosi incitamenti al Vesuvio
perché faccia il suo lavoretto su Napoli e dintorni. O non manca
di esporre striscioni osceni sulla tragedia di Superga. Un morto
è un morto, invece, e la pietà dovrebbe volare ventimila metri
sopra il tifo. È dura dirlo, ma è così: trent’anni dopo
l’Heysel, il nostro calcio non l’ha ancora capito. E lascia che
ogni domenica il male minore faccia gol a porta vuota..
29 maggio 2015
Fonte: Ecodibergamo.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO
2015
La curiosità
L'arbitro Daina ? Era svizzero.
Ma con genitori di Berbenno
A Berbenno era una notte col
fischietto, quella dell'Heysel. Quattrocento bergamaschi a
Bruxelles e un pezzetto in incognito, l’arbitro André Daina, 44
anni allora. Svizzero di Eclépens, dicono il certificato di
nascita e la scheda dell'Uefa, bergamasco per dna della Valle
lmagna, raccontavano a Berbenno. Dove sono nati papà Andrea e
mamma Prassede, emigrati un giorno per fare "la stagione" in
Svizzera e poi rimasti in Svizzera
per quasi tutte le stagioni, compresa quella della nascita dei
figli Andrè e Ruggero. A metà degli anni '80 Daina è uno degli
arbitri Uefa più quotati ed è anche un personaggio curioso. E’
ingegnere chimico, ma prima di prenderlo a fischiate, il pallone
lo ha preso a calci. Giocatore nelle giovanili dello Young Boys,
poi al Servette, al Losanna e in nazionale, 4 presenze dal '63
al '65, ha appeso la carriera al chiodo nel '72 e nel '73 è
diventato arbitro. E anche da fischietto è un razzo. Quando si
trova in mezzo alla tregenda dell'Heysel, Daina ha già più di
una tacca internazionale alla cintura e ha già diretto Platini
agli Europei '84. Nell’intervista al nostro giornale, domenica 2
giugno 1985, Daina definisce "un'idiozia" l’accusa di aver
favorito i bianconeri a titolo compensativo e spiega di aver
dato il via libera alla gara per evitare che il finimondo
continuasse. "Non si trattava più di una partita ma di un
avvenimento così tragico che il calcio sembrava anacronistico",
disse. Daina non incrociò più la Juve, gli inglesi invece sì, in
Inghilterra-Polonia a Messico '86. Di nuovo un pezzo di
Liverpool nella prima e unica partita mondiale dello svizzero di
Berbenno. Si. Pe..
29 maggio 2015
Fonte: Il Gazzettino
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, 30 anni fa la
tragedia
Platini: "Continuo a giocare quella
partita"
Il 29 maggio 1985 39 tifosi della
Juventus morirono prima della finale di Coppa Campioni col Liverpool.
"Trent'anni fa, all'Heysel, giocai
una finale di Coppa dei Campioni che ancora oggi continuo a giocare.
Non ho mai dimenticato quella partita". Così il presidente dell'Uefa
Michel Platini, stella della Juve negli anni '80. "Trent'anni dopo
- scrive sul sito dell'Uefa - sono il presidente dell'organismo
che organizzò quella finale e, con i miei colleghi ed i miei amici
delle federazioni, dei campionati e dei club, lavoriamo quotidianamente
per assicurare che l'orrore di quella serata non si ripeta mai più.
Questo impegno - prosegue Platini - si è tradotto in un incessante
lavoro nel corso di questi anni per garantire la sicurezza degli
impianti sportivi di tutta Europa".
LA TRAGEDIA - Sono trascorsi 30 anni dalla
tragedia dell'Heysel: la notte più buia del calcio mondiale. I tifosi
juventini - 32 erano italiani - andati a Bruxelles con la speranza
di festeggiare la prima Coppa dei Campioni bianconera trovarono
una morte orribile nel settore Z dello stadio, travolti dalla furia
degli hooligans inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre
o precipitati dalle gradinate, poco prima che iniziasse la finale
Juve-Liverpool. Morti, però, anche per l'inadeguatezza dell'Heysel
e dei servizi di sicurezza ed ordine pubblico. Un ricordo ancora
oggi terribile per i parenti delle vittime, per i sopravvissuti,
per chi aveva seguito le cariche degli hooligans, il caos e la disperazione
dei tifosi che cercavano scampo dagli altri settori dell'Heysel
o in tv. Una "Coppa maledetta" che la Juve aveva inseguito per 30
anni, sfuggita già due volte, nel '73 a Belgrado, dieci anni dopo
ad Atene. Un trofeo che oggi molti protagonisti dell'epoca non sentono
come un trofeo conquistato, ricordando che in pratica furono obbligati
a giocare. Ma ci sono anche tifosi juventini che, al contrario,
la considerano un premio alla memoria delle 39 vittime, allineate
nelle stanze dello stadio mentre sul campo si consumava la partita
più surreale nella storia del calcio europeo, vinta dalla Juventus
con un calcio di rigore segnato da Platini. Una partita giocata
con un intero spicchio dell'Heysel, senza più tifosi, transennato
davanti alle macerie ed alle cose perse dai tifosi nella calca.
"Non sapevamo cosa era davvero successo, avevamo avuto notizie di
un morto, forse due, ma non potevamo immaginare una tragedia così
grande", avrebbero detto poi i giocatori bianconeri.
I neo campioni d'Europa avevano festeggiato sotto la curva
dell'Heysel subito dopo il 90', ma il giorno dopo, al rientro a
Torino, quando le notizie sulle tragedia erano diventate ufficiali
e chiare nella loro drammaticità, ogni traccia di gioia era scomparsa
dai loro volti. Sergio Brio, scendendo sulla scaletta dell'aereo,
stringeva la Coppa, ma senza esultare. All'Heysel il club bianconero
aveva consegnato al delegato Uefa Gunther Schneider la nota ufficiale
spiegando perché aveva detto sì alla richiesta di giocare comunque:
"La Juve accetta disciplinatamente, anche se con l'animo pieno di
angoscia, la decisione dell'Uefa, comunicata al nostro presidente,
di giocare la partita per motivi di ordine pubblico". Il presidente
di allora, Giampiero Boniperti, non ha mai voluto riparlare di quella
finale così dolorosa. Neppure per l'attuale massimo dirigente bianconero,
Andrea Agnelli, è facile tornare sull'argomento: "Ho sempre fatto
fatica a sentire mia quella Coppa - ha detto in occasione del venticinquennale
dell'Heysel - anche se i giocatori mi hanno sempre detto che fu
partita vera". E Marco Tardelli, in un'intervista alla Rai, qualche
anno fa ha spiegato e chiesto scusa: "Era impossibile rifiutarsi
di giocare, ma non dovevamo andare a festeggiare, l'abbiamo fatto
e sinceramente chiedo scusa".
Le vittime dell'Heysel saranno ricordate
a Bruxelles con una cerimonia pubblica e a Torino in una messa alla
Chiesa della Gran Madre di Dio, alle 19,30. "La giornata del 29
maggio - sottolinea la società bianconera - sarà dedicata al ricordo
da parte di tutti i tesserati Juventus. Per troppi anni quelle 39
vittime - rimarca sul sito ufficiale - sono state oggetto di scherno
finalizzato unicamente ad attaccare i colori bianconeri: un'azione
vile che non dovrebbe trovare cittadinanza in nessuno stadio ed
in nessun dibattito sportivo. Questo anniversario dovrà essere utile
anche alla riflessione per evitare che simili comportamenti si ripetano"..
29 maggio 2015
Fonte: Ansa.it
ARTICOLI STAMPA e WEB
29 MAGGIO 2015
Heysel 1985-2015. Conte, tifoso rimasto sotto le macerie:
"Ho chiesto un biglietto per finale
di Berlino, Juve mi ha detto no"
di Francesco Casula
Divenuto il volto della tragedia
in cui persero la vita 39 persone, dopo tanti anni di silenzio ha
raccontato il dolore di quei momenti alla Gazzetta del Mezzogiorno.
"Davanti a me c’era un uomo con la telecamera.
Ricordo di aver letto ‘Italia’ sulla macchina da presa e iniziai
a urlargli di aiutarmi, ma lui continuava a riprendere. Qualche
tempo dopo mi dissero che aveva vinto anche un premio. Non metto
piede in uno stadio da quel 29 maggio 1985 e avevo deciso di tornarci
proprio per vedere di nuovo la Juventus in finale e così ho scritto
alla società: ho spiegato chi ero, quello che avevo passato in quella
curva Z e ho chiesto due biglietti per Berlino. Mi hanno risposto
che i biglietti sono nominativi e numerati, ma se volevo potevo
vedere la sfida con il Napoli". Inizia così il racconto di Gaetano
Conte a La Gazzetta del Mezzogiorno. Il tarantino divenuto suo malgrado
il volto di quella tragedia in cui persero la vita 39 persone, dopo
tanti anni di silenzio e persino una diffida vana per evitare di
rivedere il suo viso barbuto in tv, al quotidiano pugliese ha descritto
i suoi ricordi, i suoi dolori e il suo sogno svanito. Voleva riprendere
da dove aveva lasciato, dal sogno di vedere la sua Juve sollevare
la Coppa dei Campioni come la chiama ancora nostalgicamente. Ha
chiesto alla figlia di spedire una mail, ma non è bastato. Lui che
da quel giorno non è più tornato allo stadio: la finale contro il
Barcellona, dovrà guardarla in tv. "Però lo so che a rispondermi
è stato qualcuno dello staff perché se fossi riuscito a scrivere
direttamente al presidente Andrea Agnelli, mi avrebbe accontentato".
Forse avrebbe potuto superare quella paura che ancora lo attanaglia.
Quando qualcuno lo salvò dalle macerie che gli bloccavano le gambe
fu sistemato su una barella di fortuna: "All’improvviso mi voltai
a guardare gli altri feriti. Accanto a me c’era il corpo di una
bambina. Avrà avuto 14 o 15 anni: aveva la gola tagliata. Ho passato
tre giorni e tre notti a piangere".
Sotto quelle macerie c’era finito per un altro piccolo tifoso: "Portai
con me un ragazzo disabile. Aveva 15 anni e per fargli vedere la
partita qualche settimana prima andai al comune e lo feci inserire
sul mio stato di famiglia. In quella bolgia è stato il mio unico
pensiero: quando riuscii a metterlo in salvo caddi per lo sfinimento.
Lì cominciò l’inferno. La folla mi travolse e persi i sensi. Quando
pochi minuti dopo mi risvegliai avevo le gambe bloccate dalle macerie
e davanti a me c’era un uomo con la telecamera. Ricordo di aver
letto ‘Italia’ sulla macchina da presa e iniziai a urlargli di aiutarmi,
ma lui continuava a riprendere. Gli dicevo di tirarmi fuori dalle
macerie, ma quello continuava a girare. Qualche tempo dopo mi dissero
che aveva vinto anche un premio. Ci pensi ? Io stavo morendo e lui
aveva vinto un premio".
Ricorda ogni momento di quella giornata fino a quando la folla non
lo travolse: la sua gamba è così livida che ogni giorno deve prendere
pillole antidolorifiche. "Per curare le conseguenze di quella finale:
ho girato l’Italia, ma non c’è niente da fare, mi devo tenere il
dolore. Pensavo solo di ricominciare da dove avevo lasciato e invece
la dovrò guardare in tv. Peccato. Però vinciamo noi, ho giocato
un biglietto con il risultato finale. Vinciamo noi".
29 maggio 2015
Fonte: Il Fatto Quotidiano
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Dalglish:
"Ma gli juventini tirarono sassi per primi"
"Forse senza la violenza di Roma
non sarebbe successo nulla"
di Stefano Boldrini
Un muro di gomma. Trent’anni dopo, parlare
dell’Heysel crea ancora un profondo imbarazzo ai giocatori di quel
Liverpool. Oggi, alle 9.30, la strage del 29 maggio 1985 sarà ricordata
all’Anfield con un cerimonia privata. Ian Rush, ambasciatore dei
reds, parteciperà alle 19.30 alla messa di Torino, ma il tentativo
di raccogliere la sua testimonianza su quanto avvenne nello stadio
di Bruxelles è stato stoppato dal club. L’ex difensore Alan Hansen
è categorico: "Non parlo dell’Heysel". Mark Lawrenson, altro illustre
ex, oggi commentatore della Bbc, dopo un primo contatto telefonico,
è sparito. UNICA VOCE - Solo Bruce Grobbelaar, l’ex portiere del
Liverpool, che vive in Canada ed è sempre stato un "cane sciolto",
ha raccontato la sua versione dell’Heysel a Repubblica: "Furono
estremisti di destra, del National Front, a provocare il caos. I
veri tifosi del Liverpool trascorsero la mattinata della partita
a bere birra con i tifosi della Juve". Grobbelaar ha avuto il coraggio
di dire la verità: "Capimmo che era successo qualcosa. Sapevamo
abbastanza per non giocare". Grobbelaar, come ricorda Marco Tardelli,
dopo la partita salì sul pullman della Juve e chiese scusa a nome
dei tifosi del Liverpool. DALGLISH - Altri compagni di squadra hanno
invece sostenuto sempre la tesi di non essere a conoscenza che il
crollo del muro e la calca della gente avessero provocato numerose
vittime. Nella sua autobiografia, Kenny Dalglish afferma che l'origine
della tragedia dell'Heysel va individuata negli scontri di un anno
prima, quando il Liverpool giocò la finale di Coppa dei Campioni
contro la Roma all'Olimpico: "I nostri tifosi furono aggrediti da
quelli avversari. Nei bus che portavano i nostri fans allo stadio
si scatenò l'inferno. Non si può certo giustificare il comportamento
dei nostri tifosi, ma anche all'Heysel furono i fans italiani della
Juventus a lanciare per primi i sassi contro i nostri. Reagire è
umano e il ricordo di quanto era accaduto a Roma l'anno precedente
era ancora fresco nella mente dei nostri tifosi. Se quelli della
Roma avessero lasciato in pace i nostri, i fans del Liverpool non
sarebbero stati così aggressivi con quelli della Juventus. E se
quelli della Juventus non avessero cominciato a lanciare sassi contro
i nostri, non sarebbe accaduto nulla". OFFESI - Dietro i silenzi
e gli imbarazzi di oggi ci sarebbe anche un'altra spiegazione. I
giocatori del vecchio Liverpool sarebbero rimasti offesi per il
comportamento di una parte dei tifosi della Juventus presenti il
5 aprile all'Anfield quando, in occasione di una sfida di Champions
tra le due squadre vinsero i Reds 2-1 - i fans bianconeri voltarono
le spalle durante la cerimonia di ricordo. E' così, purtroppo: l'Heysel
continua a far male e a dividere.
29 Maggio 2015
Fonte: La Gazzetta dello Sport
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, 30 anni dopo: a Liverpool la strage è tabù, la città sceglie
il silenzio
di Paolo Avanti
Pioggia di celebrazioni su Sheffield,
per Bruxelles prevale l’imbarazzo. Come spiega Keith, assiduo frequentatore
della Kop: "Fui trattato come un criminale anche se non ero responsabile
di nulla. Non ne parlo da allora e non ne voglio più parlare".
Sono passati trent’anni ma a Liverpool
la ferita dell’Heysel non è ancora cicatrizzata. È un trauma di
cui si parla poco, sperando che l’oblio serva a curarlo. Mentre
la tragedia dell’Hillsborough del 1989 (96 tifosi Reds morti schiacciati
in curva prima della semifinale di FA Cup con il Nottingham Forest)
è stato un lutto ampiamente elaborato con cerimonie da pelle d’oca
e una (sacrosanta) battaglia legale ("Justice for 96") per ristabilire
la verità su quella strage (all'Hillsborough gli hooligan non c’entravano),
sull’Heysel è calata una cappa di silenzio. Comprensibile: se a
Sheffield i tifosi del Liverpool erano le vittime, quattro anni
prima a Bruxelles furono i carnefici, seppure con un’enorme dose
di corresponsabilità della gendarmeria belga e della Uefa. TABU’
- Nei pub e nei luoghi di ritrovo della tifoseria Reds, in una città
completamente cambiata rispetto a quella del 1985, si preferisce
evitare l’argomento. "Non ne parlo da allora e non voglio mai più
parlarne - racconta Keith, assiduo frequentatore della Kop, presente
all'Heysel. Fu uno shock terribile che mi ha cambiato la vita. Fui
trattato come un criminale anche se non ero responsabile di nulla".
È il refrain che si sente un po’ dappertutto in una città irriconoscibile
rispetto a quella di 30 anni fa: là dove c’erano fabbriche vuote,
tensioni sociali e disoccupazione alle stelle (in alcuni quartieri
quella giovanile sfiorava il 90%), oggi c’è un vivace centro meta
del turismo beatlesiano e di quello calcistico. E mentre trent'anni
fa gli hooligan imperversavano dovunque andassero a giocare le squadre
inglesi, oggi il calcio d’Oltremanica è un esempio di sicurezza
e i problemi con la violenza dei tifosi sono più frequenti alle
nostre latitudini. ORGOGLIO E COLPA - Tutto è cambiato, ma la tragedia
di Bruxelles resta. Quanto accadde nel 1985 fu una mazzata per una
città già in profonda crisi. Sintomatica la reazione di una ragazza
intervistata pochi giorni dopo il dramma: "È stato disgustoso. Dovunque
andremo porteremo per sempre con noi la vergogna e la colpa per
tutto questo". Liverpool pianse quei morti, scrissero Andrew Ward
e John Williams in Football Nation, "ma pianse anche per la ferita
inflitta all’orgoglio della città, perché il Liverpool Football
Club era una delle ultime cose di cui andare fieri in quegli anni".
Nel decennio '80 i tifosi inglesi erano sinonimo di violenza. Liverpool,
invece, si sentiva un’isola felice: mai i tifosi Reds erano stati
coinvolti in gravi incidenti. Bruxelles fu anche per questo uno
choc che sconvolse la città, un pugno in faccia difficile da incassare.
L'illusione di essere diversi morì nella curva Z, insieme ai 39
tifosi juventini. Aveva probabilmente ragione Nick Hornby quando
disse che l’Heysel fu l’approdo inevitabile di una cultura, quella
degli hooligan, Reds compresi, fatta di piccole e grandi sopraffazioni,
gesti e riti violenti che non poteva che portare, prima o poi, a
una tragedia simile.
29 maggio 2015
Fonte: La Gazzetta dello Sport
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
PER NON DIMENTICARE
di Piero Bianco
29 maggio 1985, Juventus-Liverpool
era solo la finale di Coppa Campioni: divenne la notte più buia
del calcio. Gli hooligans, l’invasione del settore Z, i 39 morti:
una ferita ancora aperta.
Chi fa un viaggio all’inferno non può,
e non deve, dimenticare. Mai. Soprattutto chi ha avuto in sorte
un biglietto di ritorno alla vita, non quello maledetto di sola
andata che dirottò 39 tifosi juventini (32 italiani) a morire come
bestie nel settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles. Dove l’inferno
calò improvviso e impietoso mercoledì 29 maggio 1985. Doveva essere
una grande festa dello sport quella finale di Coppa Campioni tra
Juventus e Liverpool, fu invece un’apocalisse senza pari. Un film
dell’orrore che scorre indelebile, oggi come trent’anni fa, nella
mente di chi c’era e vide lievitare, come un malefico tsunami, l’onda
barbarica che caricava, calpestava, uccideva. Quegli inglesi che
ammazzavano urlando e ridendo, ebbri di alcool e di follia. Minuti,
ore interminabili, immersi nel delirio, dopo l’incredulità iniziale:
"Sta succedendo davvero ?". Difficile persino raccontare quanto
l’uomo possa scendere in fondo agli abissi dell’animo mentre sventola
la bandiera di una insana passione sportiva. Ma all’Heysel le responsabilità
erano reali e evidenti, sebbene dopo sei anni di processi farseschi
agli organizzatori e ai responsabili del servizio d’ordine tutto
sia svanito in una bolla di sapone. Non il ricordo: quello si tramanderà
nei secoli. Come il flash-back della notte maledetta, un nastro
che si riavvolge a ogni anniversario.
L’invasione del settore Z.
Come è successo ? E perché ? Quel film
dell’orrore ha un prologo inquietante, l’assalto degli hooligans
ai pacifici tifosi bianconeri nella Grand Place, cuore di Bruxelles.
Sono le 12 e le eleganti vetrine del centro vanno in frantumi, i
seggiolini dei dehors volano in aria. Gli inglesi sono già ubriachi
fradici. La polizia li disperde, li sottovaluta, loro si dirigono
allo stadio come mandrie imbizzarrite. Alle 18.15, due ore prima
del fischio d’inizio l’Heysel, fatiscente e inadeguato per una finale
di Coppa, è già stracolmo. La curva Z è un settore neutro, dovrebbero
esserci solo belgi a fare da cuscinetto tra inglesi e italiani.
Invece i biglietti sono finiti anche a molti juventini, felici di
aver incrociato i bagarini. Gli hooligans ringhiano vicini, troppo,
separati da pochi e impreparati agenti. Mezz’ora dopo partono lanci
di sassi ai bianconeri. Un razzo esplode, l’onda assassina ondeggia
minacciosa. Poi, il finimondo. Altri hooligans, senza biglietto,
premono dall’esterno della curva per entrare. Sono le 19.22. Due
minuti dopo, il secondo assalto: irrompono centinaia di hooligans
in un settore già strapieno. Crolla il debole muro di sostegno,
la folla è travolta dai calcinacci, schiacciata dalla furia dei
teppisti, sempre più eccitati. Chi cerca riparo verso il campo viene
respinto a manganellate dalla stupidità dei 120 poliziotti di servizio,
che non ci capiscono nulla. Sembra una guerra. Feriti in cerca di
soccorso negli spogliatoi, dispersi che cercano parenti e amici.
Il caos totale. In tribuna stampa si vede che sulla sinistra, settore
Z, la folla tenta di scappare. Ma arrivano notizie imprecise. L’unica
certezza: "Ci sono dei morti". Corriamo a vedere, cerchiamo di capire.
Bruno Pizzul, in diretta Rai, tenta di non trasmettere il panico
a chi ha parenti allo stadio. L’era degli smartphone e delle tragedie
in diretta mediatica è ancora lontana, non ci sono cellulari né
telefoni funzionanti, solo le postazioni fisse dei giornalisti,
che vengono prese d’assalto. "Fate un numero, per favore, dite a
mamma che sono vivo". Decine, centinaia di suppliche. Si dovrebbe
giocare, ma la partita non comincia.
"Si deve giocare".
Giù, nell’antistadio, la guerra continua.
La Croce Rossa allestisce una tenda davanti alla tribuna centrale
e le prime salme vengono raggruppate proprio lì, molte incustodite,
altre abbracciate dallo strazio di amici e parenti. Arriva Gianni
Agnelli e intuisce che non sarà una serata di sport: scende per
un istante dalla sua limousine e subito ci risale. L’Avvocato se
ne va, turbato, mentre il figlio Edoardo (dirigente della Juventus)
è dentro gli spogliatoi, dove i giocatori già sanno. Non tutto,
ma sanno. Dicono a Trapattoni e Boniperti che non giocheranno: "Non
avrebbe senso". D’accordo anche i giocatori del Liverpool, però
il capo della polizia Mahieu e il sindaco di Bruxelles, Brouhon,
ordinano di scendere in campo "per evitare una guerra civile". Scirea,
il capitano, legge un messaggio alla folla: "Amici, restate calmi,
giocheremo per voi". La partita comincia alle 21.43 in un clima
surreale. Davanti alla tv, in Italia, c’è anche Sandro Pertini,
con milioni di tifosi. Pizzul racconta, accenna a morti e feriti
senza aggiungere dettagli e senza mai drammatizzare. Boniek viene
atterrato (fuori area), Platini trasforma il rigore e poi solleverà
il trofeo ("Un omaggio ai tifosi caduti", dirà dopo per stemperare
le polemiche), la Juve vince una coppa come mai, nemmeno nel peggiore
degli incubi, avrebbe immaginato. All’Heysel si contano ancora i
morti. Quaranta ambulanze e decine di taxi fanno la spola con gli
ospedali per trasportare i feriti. Non c’è gioia, solo disperazione.
La notte è lunga e drammatica, una folla di disperati vagabonda
per tutta Bruxelles, ospedale dopo ospedale, con il cuore in gola,
nella speranza di sentirsi dire: "Sì, è ricoverato qui". E ricevendo
quasi sempre un no. Un viaggio del dolore tra l’ospedale di Jette
e quello francese, il Saint-Pierre, la clinica Saint-Jean. Il caos
resta totale, nessuno fornisce identità certe, soltanto il passaparola
dei superstiti guida quelle penose ricerche.
L’alba dell’orrore.
Quando cade l’ultima speranza, parenti
e amici delle 39 vittime vengono dirottati all’obitorio. È già mattina.
Il giorno dopo. Due ore di attesa e si spalanca una porticina sul
retro: la folla silenziosa finalmente viene ammessa e scopre - noi
con loro - uno stanzone spoglio. Altra interminabile attesa. Ore
e ore. Proteste, lacrime. Non può essere carino un ospedale militare
adibito a obitorio, ma qui non c’è rispetto: né per i vivi, né per
i morti. Chi cerca il figlio, chi un amico, la moglie, il padre,
il fratello: dove sono ? Nel pomeriggio di quel 30 maggio 1985 re
Baldovino e la regina Fabiola entrano improvvisamente nello stanzone
per abbracciare, una ad una, tante persone sconvolte. Stringono
mani che tremano di rabbia: "Mi dispiace, scusateci, faremo di tutto
per aiutarvi". Baldovino ha negli occhi un dolore autentico, non
recita un copione. Per il suo Belgio è stata una vera debacle. Il
re resta mezz’ora a consolare gli inconsolabili, poi se ne va e
si spalanca la porta sull’orrore: entrate, sceglietevi pure il vostro
morto. I corpi sono allineati sul pavimento, buttati lì senza pietà.
Ancora sporchi e insanguinati, come erano stati raccolti la sera
prima nello stadio maledetto. Esplode furibonda l’ira dei parenti:
una vergogna, un insulto. Solo il giorno dopo infermieri pietosi
metteranno una pezza, prima dell’autopsia e del mesto rientro delle
salme su un aereo militare. A Bruxelles i feriti, visitati tre giorni
dopo da Platini e da alcuni dirigenti juventini, continuano a domandarsi
come e perché tutto questo sia successo.
29 maggio 2015
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
29 maggio
1985 la fine dell’innocenza del calcio
I 39 dell’Heysel morti come in
guerra in un giorno di festa
di Stefano Tamburini
Lo stadio di Bruxelles divenne
un cimitero sotto la furia ultrà e per quella strage nessuno ha
mai pagato abbastanza.
Come in guerra, peggio che in guerra, perché
in guerra almeno lo sai che puoi morire. E invece, quel mercoledì
di 30 anni fa, il 29 maggio 1985, in un angolo di Bruxelles per
migliaia di persone fu come piombare nell’orrore di Beirut squarciata
dalle bombe. Ma non c’erano armi, a causar la morte era la guerriglia
scatenata da un branco di lupi travestiti da uomini. Da hoolingans
che trasformarono lo stadio in un cimitero. Quelli che furono travolti,
senza neanche capire perché, erano lì per assistere a una festa,
la finale della coppa dei campioni di calcio fra Juventus e Liverpool.
Si trovarono schiacciati, sommersi, soffocati, stritolati o volati
nel vuoto per una disperata roulette con in palio un modo meno atroce
di morire. E quelli che riuscirono a fuggire o che furono strappati
a quella fuga dall’altro mondo, negli occhi avranno per sempre l’orrore
per aver visto l’inferno sulla terra. Morirono 39 persone, 32 italiani,
quattro belgi, due francesi e un irlandese. Oltre seicento i feriti
nella notte che segnò per sempre la perdita dell’innocenza del calcio,
una notte di quelle che purtroppo non finiscono mai. Sì, perché
non è mai arrivata l’alba del ravvedimento, della presa di coscienza
collettiva. L’orrore di quelle ore, interminabili, resta ancora
oggi in striscioni e cori criminali che inneggiano a quella bestialità
e che basano le radici nella cultura dello sport trasfigurato in
strumento di odio e sopraffazione. Fra i 32 morti italiani c’erano
anche tre tifosi dell’Inter, quella era un'epoca in cui l’amicizia
valeva davvero più della fede sportiva: poteva capitare di andare
allo stadio insieme con il sostenitore di un’altra squadra e assistere
a una partita che alla fine, al massimo, avrebbe regalato qualche
sfottò. E che poi si sarebbe conclusa davanti a una birra con tante
risate. Già, la birra. Cominciò tutto da lì, o anche da lì, perché
solo un incapace o un malato di mente avrebbe potuto scegliere quello
stadio decrepito, costruito negli anni Trenta del secolo scorso
e mai ristrutturato, con reti di separazione degne di un pollaio
e gradoni fatti con i sampietrini. Bastava un calcio ben dato per
trasformarli da durissimi cuscini ad armi improprie in mano a un
esercito di animali con sembianze umane, stravolti dalla loro imbecillità
e da un carico di alcol inimmaginabile. Avevano già messo a ferro
e fuoco il centro della capitale belga ma allo stadio trovarono
solo pochi poliziotti e i rinforzi finirono per aggiungere terrore
e morte. Sì, perché quelli che morirono o che rischiarono di morire
si trovarono schiacciati nell’ultima parte della curva, il settore
Z, e il terreno di gioco era l’unica via verso la salvezza. E proprio
lì trovarono agenti a cavallo che sembravano usciti dal circo invece
che da un’accademia: brandivano il manganello e respingevano quei
disperati in fuga dalla morte. Si fermarono solo quando capirono
che avevano di fronte l’orrore e c’è una scena che resta indelebile,
quella di un poliziotto che si sente male e vomita fra i cadaveri
mentre il suo cavallo va in mezzo al prato e si mette a mangiar
l’erba dell’area di rigore. Poco dopo, 28 di quei poliziotti furono
fatti uscire dallo stadio per andare a inseguire un ladro di salsicce.
Un altro agente rimandò indietro il portiere sudafricano del Liverpool,
Bruce Grobbelaar, che si era avvicinato per dare una mano ai soccorritori.
Lo spogliatoio inglese era a due passi dalla tragedia ma fu tutto
inutile, in linea con la terrificante sequenza di bestialità che
si aggiunse a quella originale. Non c’era una vera e propria postazione
di pronto soccorso, le transenne divennero barelle, i medici che
arrivarono da altri settori dello stadio operarono a mani nude,
anche una tracheotomia con un coltello per tentare inutilmente di
salvare una delle vittime. E poi, dopo, cadaveri rispediti in Italia
ancora nudi e squarciati dalle autopsie, scambiati fra di loro,
uomini dati per morti e invece solo feriti. Per tutto questo nessuno
ha pagato veramente. Undici hoolingans sono stati assolti dopo quattro
anni di processo mentre altri 14 hanno ricevuto una condanna mite
(appena tre anni) con la condizionale e quindi neanche un giorno
di vera galera. L’Uefa, l’organizzazione del calcio europeo, l’ha
fatta franca così come il Comune di Bruxelles. Il capitano della
gendarmeria, quello che ha privilegiato la caccia al ladro di salsicce,
se l’è cavata con nove mesi. L’Uefa ha escluso per un po’ le squadre
inglesi ma ha proseguito con la sua ottusa imbecillità burocratica
dando il peggio anche durante gli Europei del 2000. Nello stadio
dell’orrore, finalmente ristrutturato, si giocò la sfida Belgio-Italia,
e l’Uefa fu irremovibile: niente lutto al braccio e niente minuto
di raccoglimento. Gli azzurri entrarono in campo stringendo un fiore
bianco nella mano sinistra. Poco prima Paolo Maldini e Antonio Conte,
capitani dell’Italia e della Juventus, andarono a deporre una corona
e a pregare di fronte al settore Z.
Davanti a quella curva, con i cadaveri
ancora sul selciato, trent’anni fa un’ora e mezzo dopo l’orario
prefissato fu comunque dato il calcio d’inizio della partita. La
televisione tedesca si rifiutò di trasmetterla, quella austriaca
mandò immagini mute con una sovrimpressione: "Quella che stiamo
trasmettendo non è una manifestazione sportiva". Vero, tremendamente
vero, non era una partita. Era solo l’ultimo atto di un oltraggio
all’umanità..
29 maggio 1985
Fonte: Il Mattino di Padova
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
30 Anni
di Heysel: Bambagia, Veleni e Melassa
La Memoria si alleni, ma sia sempre
la Verità a salire sul podio più alto.
di Domenico Laudadio
Che sensazione strana, e molto più del
precedente 25°. In Italia campeggia questa pessima consuetudine
socio-mediatica della memoria che fa il salto della cavallina a
cinque anni alla volta. Un mese, una settimana, il giorno che cade,
poi la rincorsa si ferma.
Fra qualche ora molte televisioni e quasi tutti i giornali riavvolgeranno
il canapo marinaro dimenticato nei fondali dell’oblio rimuovendo
l’ancora dalle sabbie ataviche e spronando le vele al vento dei
ricordi di quella sera di maggio, quando un pallone prese le sembianze
del clown, rimbalzando beffardo a pochi metri dai corpi nel cimitero
dell’Heysel. Ritorneranno così le immagini televisive dai colori
sbiaditi del 29 maggio 1985 a Bruxelles e soltanto lo strazio è
rimasto intatto anche per chi ha tinto i capelli di argento. Qualcuno
di loro li ha già raggiunti, altri hanno combattuto e magari vinto
sopravvivendo ad un dolore scorpione, al suo veleno che paralizza
i giorni. Familiari delle vittime, silenziosi e dignitosi, in tutti
questi anni gli unici a poter parlare, gli ultimi ad essere interpellati
da chi si iscrive alla sarabanda della presunzione. Non mi dispiace
di non accodarmi alla nenia, talvolta ipocrita e meschina, del coro
bianco dei soloni di una desolante assuefazione a fatti che ancora
urlano vendetta, alla misconoscenza delle verità storiche e processuali.
Si può stendere un sudario pietoso sui particolari più truci, ma
non certamente rinunciare all’identificazione delle responsabilità
di quanti furono gli artefici o colposamente sodali della carneficina
di 39 innocenti. Lascio alla scrittura dei mestieranti le
emozioni da prefiche, le morali semplicistiche da trenta denari.
Dico solo che il male supremo non è tanto quella coppa di acciaio,
ma negli occhi di chi ancora oggi non prova vergogna a risollevarla,
giustificandosi dietro il paravento della compensazione. E allora
comprendi perché è stata conservata frettolosamente nella bambagia,
come un primogenito cieco dalla nascita che resterà a vita nella
sua immeritata tenebra. Inutile muovergli sonagli, non vi sorriderà
mai. La melassa di troppe parole non restituisce all’assenza di
quei cari il senso compiuto. Si può avvicinare a stento e con discrezione
una preghiera. Eppure anche Cristo si è arreso in croce alla solitudine,
lo facciano anche i farisei del grande calcio e rinnovino i templi
dove si adorano anche certi dei fasulli che si vendono a corrotti
di mafie. Forse, allora, finalmente quel sangue dei martiri versato
tragicamente e copiosamente rifiorirà in prati più verdi..
"Il valore della Memoria, il dovere della Verità"… A fare e disfare
la tela delle congetture, la Penelope devota al politichese corretto
si arrenderà all’evidenza. Non è stato il muretto crollato, non
sono morti per "cause naturali" come scritto nelle autopsie frettolose
e infami di medici militari senza onore. "Una verità condivisa"…
E’ come sposare insieme nella geometria il taglio di una torta nuziale
a più piani. Il tocco maldestro e la mano esperta non sono fatti
per l’amore eterno, a meno che non riscoprano l’emozione e l’umiltà
in un tremito. Perché davanti a quei trentanove nomi e cognomi si
abbassano vessilli e alabarde, si snocciola il silenzio come un
rosario e si bacia la terra dalle ginocchia. "Il valore della Memoria, il dovere della Verità"… A fare e disfare
la tela delle congetture, la Penelope devota al politichese corretto
si arrenderà all’evidenza. Non è stato il muretto crollato, non
sono morti per "cause naturali" come scritto nelle autopsie frettolose
e infami di medici militari senza onore. "Una verità condivisa"…
E’ come sposare insieme nella geometria il taglio di una torta nuziale
a più piani. Il tocco maldestro e la mano esperta non sono fatti
per l’amore eterno, a meno che non riscoprano l’emozione e l’umiltà
in un tremito. Perché davanti a quei trentanove nomi e cognomi si
abbassano vessilli e alabarde, si snocciola il silenzio come un
rosario e si bacia la terra dalle ginocchia.
29 maggio 2015
Fonte: Giulemanidallajuve.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
30 anni fa la tragedia
dell'Heysel
Il 29 maggio 1985 39 tifosi della
Juventus morirono prima della finale di Coppa Campioni col Liverpool.
"Per non dimenticare mai. Sempre nei nostri
cuori". Il centrocampista della Juventus Claudio Marchisio commenta
così, su Twitter, le 39 vittime dell'Heysel nel trentesimo anniversario
della tragedia. "Trent'anni fa, in questo giorno, si è svolta una
terribile tragedia. Tante persone sono morte in occasione di una
partita di calcio. Vi chiedo di alzarvi in memoria delle persone
che hanno perso la vita all'Heysel". Questo invece quanto chiesto
dal presidente della Fifa, Sepp Blatter, poco dopo l'apertura del
congresso della federazione stamane a Zurigo. "Michel Platini, segnò
il gol della vittoria della Juve contro il Liverpool, in quel triste
giorno che vide la morte di 39 persone".
Trentanove palloncini bianchi si alzano
in volo. All'Heysel, ora stadio re Baldovino, trent'anni dopo, si
onora la memoria delle 39 vittime della curva Z - 32 gli italiani
- quando la festa per la finale di Coppa dei campioni Juventus-Liverpool
si trasformò in violenza e sulle gradinate morirono i tifosi bianconeri
schiacciati dalla folla impaurita. Un minuto di silenzio. Corone
di fiori. Cordoglio. Ma nemmeno un rappresentante del Liverpool
alla cerimonia. Il vento gelido frusta il gazebo rosso dove sono
stati fatti accomodare i notabili. Ci sono l'attuale sindaco di
Bruxelles Yvan Mayeur e quello dell'epoca Freddy Thielemans; il
presidente del J-Museum Paolo Garimberti e l'ex difensore della
Juventus Sergio Brio; l'ambasciatrice del Regno Unito presso il
Belgio Alison Rose ed il suo omologo italiano Alfredo Bastianelli;
il presidente della federazione dei tifosi di calcio britannica
Malcolm Clarke e l'assessore allo sport Alain Courtois. Si scandiscono
uno ad uno i nomi dei morti. Si liberano i 39 palloncini bianchi.
Tutt'attorno decine di giornalisti, qualche familiare delle vittime
e una ventina di supporter della Juve, seguono la traiettoria verso
il cielo. "Una data da non dimenticare mai", dice Brio. "Un dramma
che ha lasciato una lezione importante", secondo Garimberti. "Nessun
supporter deve andare allo stadio per non tornare più", afferma
Clarcke, "sorpreso" per l'assenza di esponenti del Liverpool. "Avevo
11 anni ed un biglietto per il blocco Z. Solo un caso mi ha fatto
ritrovare dalla parte opposta, nell'area M", racconta Romolo Putzu,
nato a Bruxelles da genitori italiani. Poco distante c'è Rebecca
Jacques, arrivata qui dalla Francia con madre e figlie per ricordare
il padre Francois, morto a 45 anni. "Ci pensiamo ogni giorno". Anche
per loro l'orologio si è fermato a quel 29 maggio 1985, come recita
la poesia incisa sulla targa a memoria, sul muro dello stadio.
Heysel: Juve ricorda "il giorno più triste"
- "Doveva essere un momento di festa, di attesa, di tensione sportiva.
Si è trasformato in tragedia". La Juventus ricorda così, nel trentesimo
anniversario, le 39 vittime "innocenti" dell'Heysel. E, sul suo
sito internet, ricorda il 29 maggio del 1985 come "il giorno più
triste" della storia bianconera. "Trentanove famiglie furono segnate
per sempre da un dolore che non riusciamo neanche ad immaginare",
si legge ancora sul sito web del club bianconero. "Quanto accadde
quella sera è scolpito nella memoria di qualsiasi tifoso. Di coloro
che erano presenti a Bruxelles, di chi era seduto davanti alla tv,
anche di chi allora era troppo giovane o magari non era ancora nato.
Sono passati trent'anni e oggi - sostiene la società - ci si può
solo stringere nel ricordo. La Juventus lo farà partecipando insieme
all'Associazione fra i Familiari delle Vittime dell'Heysel alla
Santa Messa, celebrata alle 19.30 nella Chiesa della Gran Madre
di Dio a Torino. Saranno presenti i giocatori della Prima Squadra,
lo staff tecnico e i dirigenti della società. La Juventus partecipa
anche alla cerimonia pubblica a Bruxelles, rappresentata dal presidente
del J-Museum Paolo Garimberti e da Sergio Brio. Alla cerimonia che
si tiene a Liverpool sono presenti Gianluca Pessotto e Massimo Bonini.
Su Juventus.com per tutto il giorno queste righe rimarranno la prima
notizia dell'home page, la cover delle pagine ufficiali sui vari
social network e l'unico post pubblicato su Facebook saranno in
ricordo delle vittime. Il resto sarà silenzio - conclude la Juventus.
Per onorare la loro la memoria. Per cercare di dare conforto alle
loro famiglie. Per ribadire l'auspicio che il vile scherno di cui
quelle 39 vittime sono state oggetto per troppi anni finisca, una
volta per tutte. Per fare comprendere che una simile follia non
si dovrà ripetere. Mai più".
Presidente supporter Gb, momento buio nostro
calcio - La tragedia dell'Heysel "è stato un momento davvero buio
per il calcio inglese, che ha colpito tutti. Un dramma che speriamo
non si ripeta mai più", così Malcolm Clarke della Federazione dei
tifosi di calcio britannica, a margine della commemorazione, a 30
anni dal dramma dello stadio Heysel, a Bruxelles. "Penso che il
comportamento dei supporter britannici sia molto migliorato rispetto
al passato - afferma Clarke. Sono un po' sorpreso che non ci siano
rappresentanti del Liverpool qui oggi. Ma sono qui io, in rappresentanza
di tutti i tifosi del mio Paese, per onorare quei morti. Nessun
supporter deve andare allo stadio per non tornare più a casa". Alla
cerimonia era presente anche l'ambasciatore italiano in Belgio,
Alfredo Bastianelli: "Essere qui oggi è essenziale, da una parte
per commemorare le vittime, ma soprattutto perché si riporti all'attenzione
di tutti la necessità che tragedie di questo tipo non si ripetano.
Che lo sport sia occasione di gioia e di competizione, ma non di
violenza e di morte".
29 maggio 2015
Fonte: Ansa.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, 30
anni fa l'immane tragedia
La Juventus: ''Il giorno più triste
della nostra storia''
Trentesimo anniversario della strage
di Bruxelles in cui morirono 39 persone (32 italiane) prima della
finale di Coppa dei Campioni tra i bianconeri e il Liverpool. Il
club ricorda i caduti: ''Quanto accadde quella sera è scolpito nella
memoria di qualsiasi tifoso''. Da Zurigo messaggi anche di Blatter
e Platini.
TORINO - Il giorno della memoria e del
dolore. Sono passati 30 anni esatti da quel maledetto 29 maggio
1985, data in cui un avvenimento sportivo si è trasformato in una
delle più dolorose pagine della storia del calcio. Quel giorno morirono
39 persone (di cui 32 italiane) poco prima dell'inizio della finale
di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool allo stadio Heysel
di Bruxelles.
"IL GIORNO PIU' TRISTE" - Attraverso il
proprio sito ufficiale, la Juventus ha ricordato le vittime di quella
giornata nera: "29 maggio 1985, il giorno più triste della nostra
storia. Doveva essere un momento di festa, di attesa, di tensione
sportiva. Si è trasformato in tragedia. Trentanove persone innocenti
quella sera persero la vita. Trentanove famiglie furono segnate
per sempre da un dolore che non riusciamo neanche ad immaginare.
Quanto accadde quella sera è scolpito nella memoria di qualsiasi
tifoso. Di coloro che erano presenti a Bruxelles, di chi era seduto
davanti alla tv, anche di chi allora era troppo giovane o magari
non era ancora nato". L'intero club bianconero (giocatori della
prima squadra, staff tecnico e dirigenti) parteciperà insieme all’
Associazione fra i Familiari delle Vittime dell'Heysel alla Santa
Messa che verrà celebrata alle 19.30 presso la Chiesa della Gran
Madre di Dio a Torino".
"MAI PIU' UNA FOLLIA SIMILE" - Manifestazioni
che non si terranno soltanto a Torino. La Juventus è presente anche
alla cerimonia pubblica a Bruxelles, rappresentata dal presidente
del J-Museum Paolo Garimberti e da Sergio Brio. Proprio in Belgio
sono state posate corone di fiori e sono stati liberati in cielo
39 palloncini bianchi ciascuno con il nome di una delle vittime,
32 delle quali italiane. Alla cerimonia che si tiene a Liverpool
sono presenti Gianluca Pessotto e Massimo Bonini. Sul sito Juventus.
com per tutto il giorno queste righe rimarranno la prima notizia
dell'home page, la cover delle pagine ufficiali sui vari social
network e l'unico post pubblicato su Facebook saranno in ricordo
delle vittime. "Il resto sarà silenzio
- conclude la
Juventus. Per onorare la loro la memoria. Per cercare di dare conforto
alle loro famiglie. Per ribadire l'auspicio che il vile scherno
di cui quelle 39 vittime sono state oggetto per troppi anni finisca,
una volta per tutte. Per fare comprendere che una simile follia
non si dovrà ripetere. Mai più".
IL RACCONTO DI BRIO
- Presente quel
giorno in campo e oggi a Bruxelles nei pressi del teatro di quella
tragedia, Sergio Brio ha ricordato la tragedia di 30 anni fa: "Ho
ricordi bruttissimi. Una serata tragica. Io devo ricordare le famiglie
che hanno perso i loro cari e questa data non si dovrà scordare
mai. La Juve fece di tutto per poter sistemare le cose
- spiega
- ma non ci
riuscì. Boniperti non voleva giocare. Ma la Uefa lo impose perché
altrimenti la Juventus avrebbe perso 3-0 ed eventuali morti negli
scontri, casomai ci fossero stati, se li sarebbe dovuti assumere
lui. A quel punto Boniperti decise di giocare. Venne nello spogliatoio
e ci disse -
lo ricordo come se fosse oggi
- c'è stato
un morto tra i nostri tifosi. Onoriamolo. Dobbiamo vincere per lui.
La partita si giocherà. Fate la vostra partita. A tutt'oggi questa
data del 29 maggio non ha insegnato niente al calcio".
PLATINI: "RICORDO INDELEBILE"
- Alla fine
si giocò e la Juventus vinse 1-0 grazie al gol di Michel Platini.
Presente a Zurigo nel giorno cruciale per le elezioni del nuovo
presidente Fifa, l'ex campione francese ha ricordato la tragedia
di Bruxelles: "Trent'anni fa, allo Stadio Heysel di Bruxelles, giocai
una finale di Coppa dei Campioni che ancora oggi continuo a giocare
- scrive Le
Roi in una nota pubblicata sul sito della Uefa
- Non ho mai
dimenticato quella partita, come non l'hanno dimenticata tutti coloro
che erano presenti quella sera, che hanno perso uno dei loro cari
e per i quali tutto è cambiato in una fatale manciata di minuti.
Trent'anni dopo, sono il presidente della Uefa, l'organismo che
organizzò quella finale, e con i miei colleghi e i miei amici delle
federazioni, dei campionati e dei club, lavoriamo quotidianamente
per assicurare che l'orrore di quella serata non si ripeta mai più.
Questo impegno si è tradotto in un incessante lavoro nel corso di
questi anni per garantire la sicurezza degli impianti sportivi di
tutta Europa. In occasione del trentesimo anniversario di quel drammatico
evento, i miei pensieri sono rivolti alle trentanove vittime e ovviamente
ai loro cari, ai quali voglio esprimere la mia vicinanza e ribadire
il mio impegno instancabile nel fare tutto ciò che è in mio potere
per impedire che una tale tragedia possa ripetersi". SILENZIO A ZURIGO
- Prima dell'inizio
del Congresso Fifa per le elezioni del nuovo presidente, a Zurigo
si è tenuto un minuto di silenzio. "30 anni fa oggi, 39 tifosi di
calcio provenienti da quattro paesi, sono morti all'Heysel in Belgio.
Ci ricorderemo di loro oggi". Con questo tweet il presidente della
Fifa, Seppe Blatter, ha ricordato i 39 caduti. Anche Malcolm Clarke
della Federazione dei tifosi di calcio britannica ha lanciato un
messaggio di cordoglio da Bruxelles: "Penso che il comportamento
dei supporter britannici sia molto migliorato rispetto al passato
- afferma. Sono
un po' sorpreso che non ci siano rappresentanti del Liverpool qui
oggi. Ma sono qui io, in rappresentanza di tutti i tifosi del mio
Paese, per onorare quei morti. Nessun supporter deve andare allo
stadio per non tornare più a casa". Alla cerimonia in Belgio era
presente anche l'ambasciatore italiano in Belgio, Alfredo Bastianelli:
"Essere qui oggi è essenziale, da una parte per commemorare le vittime,
ma soprattutto perché si riporti all'attenzione di tutti la necessità
che tragedie di questo tipo non si ripetano. Che lo sport sia occasione
di gioia e di competizione, ma non di violenza e di morte".
BUFFON: "MONITO COSTANTE NELLA LOTTA ALLA VIOLENZA" -
"Ogni anno l'anniversario dell'Heysel ci ricorda una delle
pagine più dolorose del nostro calcio e di tutto lo sport in
generale". Lo scrive su
Twitter il portiere della Juventus Gianluigi Buffon. "Oggi più che
mai sono convinto che questi 39 nomi e 39 volti debbano essere un
monito per tutti nella lotta contro qualunque forma di violenza".
29 maggio 2015
Fonte: Repubblica.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
A proposito dell'Heysel
di Antonio La Rosa
Ho avuto modo di rivedere la trasmissione
di Giovanni Minoli, relativa alla tragedia dello stadio Heysel di
venti anni addietro, trasmissione che ha sicuramente avuto il merito
di avere una volta per tutte raccontato i fatti per quelli che sono
stati, e non per come parecchi li hanno voluti vedere. Intanto ritengo
di poter dire che in questa trasmissione si è notata la differenza
che esiste tra il giornalismo ed il pennivendolismo fazioso della
stampa sportiva: un giornalista serio deve andare alla ricerca della
verità, raccontare i fatti nel modo come realmente si sono verificati,
lasciando all’ascoltatore o lettore di trarre le sue opinioni, non
raccontare la sua versione dei fatti, da utilizzarsi a dimostrazione
di teoremi già preconfezionati. Non entro nel merito di certe immagini
davvero agghiaccianti ed inedite per me (io ho solo un ricordo della
diretta televisiva, nella quale non si vide granché, e delle immagini
molto scarne trasmesse nei telegiornali dei giorni successivi),
o delle giustificazioni un po’ risibili del tifoso inglese, né ritengo
sia il caso di commentare oltre il dolore di chi quella tragedia
la visse personalmente; ma sicuramente dalla trasmissione sono emerse
delle realtà di cui finora non si è molto parlato, anche perché
parlarne poteva significare dare una visione più veritiera dei fatti
e dunque sputtanare in buona sostanza certi censori morali di bassa
lega che in questi anni ci hanno infestato dei loro commenti ipocriti.
Intanto adesso sappiamo tutto che la grande responsabilità dell’accaduto
fu dell’UEFA che non ebbe in alcuna preoccupazione di verificare
le condizioni di uno stadio che doveva ospitare un evento di quella
importanza: la descrizione di uno stadio fatiscente, pieno di calcinacci
e materiale vario che poteva essere una vera manna per i violenti,
è la prova che certe volte i padroni del calcio operano le scelte
per ragioni incomprensibili ma solo di geopolitica e di interessi
economici. Però abbiamo appreso pure altre importanti verità. Che
il clima fosse surreale e di grande confusione penso lo abbia descritto
al meglio una persona seria come Francesco Morini, all’epoca DS
dei bianconeri: nella bolgia c’era chi piangeva per quanto accaduto,
ma c’era pure chi gli chiedeva di far firmare gli autografi ai giocatori,
cosa che dimostra che in fondo i presenti non avevano totalmente
la contezza e la gravità dell’accaduto. Abbiamo anche sentito le
dichiarazioni dei giocatori, da Tacconi a Tardelli, anche esse confermanti
il clima di assurda confusione che si era creata in quei momenti.
Ma le cose che finora sono state sempre taciute, sono ben altre
e finalmente sono state dette. Prima verità occultata dai media
di casa nostra è che chi materialmente decise che si giocasse la
gara fu il capo della polizia belga, e dunque le autorità di quello
stato (cosa confermata anche dall’allora ministro degli esteri De
Michelis, presente peraltro alla partita) imposero la disputa ad
ogni costo della gara: quindi non fu una richiesta diciamo derivante
dalle società, ma una imposizione di polizia per ragioni di ordine
pubblico. Seconda verità occultata dai media di casa nostra è che
la Juventus, per bocca di Boniperti, non voleva affatto giocare
la partita, anzi voleva ritirare la squadra e andare via, proprio
per quanto accaduto, e la cosa è stata confermata anche dalle altre
interviste (mi riferisco alla figlia dell’allora sindaco della città
di Bruxelles): quindi c’era una precisa volontà della società di
evitare l’evento agonistico, ormai privo di senso di fronte a quella
tragedia. Terza verità direi da sempre abilmente occultata dai media
di casa nostra, e sulla quale adesso emerge la grande menzogna di
un ipocrita come Zibì Boniek, è che furono i dirigenti del Liverpool
a dire che, se si giocava la partita, doveva essere partita vera
e quindi valida per la conquista della coppa dei campioni. Queste
tre verità mai chiaramente evidenziate dai nostri cosiddetti giornalisti
sportivi, che ritengo diano una luce finalmente chiara su quanto
accaduto quella sera. Premetto, a scanso di equivoci, che dal mio
punto di vista non aveva senso giocare, e giocare sul serio, quella
partita, proprio per la gravità della tragedia, e premetto che confermo
la mia opinione che quella situazione di apparente avvenimento calcistico
era davvero assurda surreale e illogica in quel momento, oggi però
finalmente sappiamo chi volle far giocare la Juventus a tutti i
costi, quale era la volontà della società bianconera, e chi volle
che la partita avesse un significato competitivo (chi vince si aggiudica
la coppa, insomma finale vera) furono i dirigenti del Liverpool
e non i dirigenti della Juventus. Ecco che a questo punto, piaccia
o no, quei comportamenti esecrati da tutti i ciarlatani antijuventini
(mi sto riferendo alla esultanza dopo il gol di Platini, al giro
di campo dei giocatori per festeggiare con i tifosi, alla esibizione
della coppa all’arrivo a Torino), hanno un suo significato, un suo
valore, una sua giustificazione: in una situazione davvero drammatica,
alla Juventus fu imposto di giocare, e fu imposto di giocare per
la Coppa, non per ragioni di ordine pubblico, il che significa che
quella partita fu "vera" nei contenuti, anche se assurda ed irriverente
al cospetto di quanto accaduto attorno. Come dire: la Juventus vinse
davvero la coppa sul campo (possiamo discutere sul rigore fasullo,
che farebbe il paio con qualche fuorigioco nettissimo di anni dopo),
quel risultato fu pienamente legittimo dal punto di vista tecnico,
perché, assurdo quanto si voglia, quella fu una finale vera di calcio,
e dunque che dei giocatori, nel momento di totale ed assurdo coinvolgimento
dell’evento, abbiano fatto il giro del campo a festeggiare, fu una
conseguenza direi obbligata e naturale di scelte folli sulle quali
non c’era stata alcuna responsabilità della società bianconera.
Ma dire ciò da parte dei nostri media ufficiali, sarebbe come dire
che per anni ci hanno preso per il culo, avendo usato la tragedia
dell’Heysel non come dramma da ricordare e da utilizzare come lezione
per il futuro (una tragedia che deve riportarci a vedere il calcio
come sport, come gioia, come momento di divertimento e non come
occasione di sfogo per frustrazioni e violenze inconsce), ma come
episodio per speculare sulla Juventus come società, sulla Juventus
come giocatori che vi parteciparono a quell’evento (tranne il "pentito"
Boniek), sulla tifoseria bianconera, accusata di insensibilità di
fronte ad una tragedia. Oggi grazie a questa trasmissione sappiamo
finalmente qualcosa di più, che nel passato c’è stata abilmente
occultata, e soprattutto sappiamo che una cosa è trovarsi dentro
la tragedia, altra è vederla è giudicarla da fuori. Le parole finali
di Tardelli credo siano emblematiche: in quel momento riteneva giusto
fare quello che ebbe a fare, giro di campo compreso, ma oggi chiede
scusa per quello che fece, un modo come dire che in quel momento
lui e tutti gli altri non si rendevano conto di dove si trovavano,
di che immane tragedia stavano vivendo da protagonisti inconsapevoli,
di come si trovavano a recitare in un teatrino dell’assurdo, senza
voler in alcun modo essere irriverenti ed insensibili, ma oggi a
mente serena e rivendendo cosa successe realmente, prova vergogna
dei suoi comportamenti. Insomma una onesta autocritica, che purtroppo
altri avvoltoi e sciacalli non faranno mai.
29 maggio 2015
Fonte: Scrivoquandoequantovoglio.blogspot.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Trent’anni fa l’Heysel: anche la Brianza ricorda i 39 tifosi morti
allo stadio
di Chiara Pederzoli
Sono passati 30 anni. Il 29 maggio
1985, trentanove tifosi della Juventus morirono prima della finale
di Coppa dei campioni con il Liverpool. Fu la strage dell’Heysel.
Trentanove morti, 32 di nazionalità italiana e anche un 49enne,
di Brugherio, allo stadio col fratello che rimase ferito. E oggi
anche la Brianza ricorda.
Trentanove morti da non dimenticare. Sono
passati 30 anni da una delle pagine più nere e difficili del calcio
italiano ed europeo. Nessuno scandalo scommesse, quella volta. Ma
una tragedia: il 29 maggio 1985 trentanove tifosi della Juventus
morirono prima della finale di Coppa dei campioni con il Liverpool.
Fu la strage dell’Heysel. Trentanove morti, 32 di nazionalità italiana
e anche Antonio Ragnanese, 49 anni di Brugherio, allo stadio col
fratello Ciro che rimase ferito. Originari della Puglia, si erano
trasferiti con le famiglie in due villette vicine là dove la cittadina
si stava ingrandendo. Diversi altri i brianzoli presenti. E oggi
anche la Brianza ricorda. I tifosi bianconeri ospitati dal settore
Z dello stadio di Bruxelles furono caricati a ondate dai tifosi
inglesi ubriachi. Morirono schiacciati contro le cancellate o cadendo
dalla balaustra. Seicento invece i feriti. Una strage che in molti
seguirono in televisione, ma che inizialmente non arrivò in campo.
O almeno. "Non sapevamo cosa era davvero successo, avevamo avuto
notizie di un morto, forse due, ma non potevamo immaginare una tragedia
così grande", avrebbero detto poi i giocatori bianconeri. Dopo un
rinvio lunghissimo, le squadre furono mandate in campo per giocare.
"La Juve accetta disciplinatamente, anche se con l’animo pieno di
angoscia, la decisione dell’Uefa, comunicata al nostro presidente,
di giocare la partita per motivi di ordine pubblico", scrisse la
società in una nota. Vinse la Juve con un gol di Michel Platini
su rigore. I giocatori festeggiarono in campo e se ne pentirono
immediatamente, appena resi ufficiali i numeri della tragedia. Il
giorno dopo Sergio Brio scese dall’areo sollevando la coppa - la
prima della storia della società - senza esultare. Tutte le vittime
saranno ricordate a Bruxelles con una cerimonia pubblica e a Torino
in una messa alla Chiesa della Gran Madre di Dio, alle 19.30. "La
giornata del 29 maggio - sottolinea la società bianconera - sarà
dedicata al ricordo da parte di tutti i tesserati Juventus. Per
troppi anni quelle 39 vittime sono state oggetto di scherno finalizzato
unicamente ad attaccare i colori bianconeri: un’azione vile che
non dovrebbe trovare cittadinanza in nessuno stadio ed in nessun
dibattito sportivo. Questo anniversario dovrà essere utile anche
alla riflessione per evitare che simili comportamenti si ripetano".
Venerdì 29 maggio una cerimonia è in programma anche a Meda. Lo
Juventus Club Meda DOC - Gaetano Scirea 1991 dà appuntamento alle
18.45 al campo sportivo "Città di Meda" (o alle 18.30 in sede) per
posare un mazzo di fiori in memoria delle vittime davanti alla targa
posta sulla tribuna. "Vi chiediamo di perdere mezzora della vostra
giornata per non dimenticare i 39 angeli che persero la vita per
tifare la nostra maglia", spiega il club invitando a partecipare.
29 maggio 2015
Fonte: Ilcittadinomb.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
L'anniversario
L'Heysel 30 anni dopo, nero su
bianco
di Angelo Marchi
Trent'anni fa oggi la tragedia
di Bruxelles: tanti i libri che la rievocano, con gli occhi di chi
c'era, di un bambino tifoso, o semplicemente di chi non può dimenticare.
Sono passati 30 anni esatti dalla strage
dei 39 tifosi (32 italiani) morti allo stadio Heysel di Bruxelles
dove si giocava la finale dì Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool.
E la ferita è ancora aperta. Sono molti i libri pubblicati in questi
giorni che riportano le storie di quel giorno, visti da angolature
diverse, da età diverse, da tifosi e spettatori, da testimoni diretti
di quella follia. I terribili hooligans, supporter del Liverpool,
si scatenarono nella tribuna Z prima dell'inizio investendo migliaia
di altri tifosi pacifici: molti morirono schiacciati sulle transenne,
altri cercarono riparo sul terreno di gioco e presero pure le botte
della polizia, che sulle prime li aveva scambiati per invasori di
campo. Un'ora di follia, poi si giocò lo stesso, per evitare guai
ulteriori. Una partita fasulla e surreale, con morti e feriti a
bordo campo. "La notte dell'innocenza" (Rizzoli) s'intitola la storia
scritta da Mario Desiati, che il 29 maggio del 1985, era un bambino
di otto anni, emozionato perché la sera la sua Juventus contenderà
al Liverpool la Coppa dei Campioni. Quando accende il televisore
non può sapere che all'Heysel si è appena consumata una delle più
gravi tragedie della storia del calcio. La sua è una ricostruzione
chirurgica della diretta che incollò al televisore milioni di italiani
sgomenti e disgustati; è la rievocazione della partita vista con
gli occhi increduli di un bambino, è una riflessione sull'eredità
dell'Heysel. Cosa ha lasciato quella notte alla nostra cultura sportiva
e al suo immaginario ? Siamo cresciuti da allora o siamo rimasti
lì, con il calcestruzzo insanguinato che si sgretola sotto i piedi,
in uno stadio sempre più desolatamente vuoto ? "La partita del diavolo
(Absolutely Free), a firma di Roberto Renga e Chiara Bottini, è
invece un noir a due voci, mescola realtà e finzione, storie di
persone e cronache dall'Heysel. Il Diavolo è impersonato dalla scelta
di uno stadio non adatto alla finale di Coppa, da quel settore dove
i tifosi italiani non dovevano esserci, dai pochi agenti destinati
all'evento pur sapendo della sinistra furia degli hooligans. Francesco
Caremani nella nuova edizione di Heysel, le verità di una strage
annunciate (Bradipolibri Prefazione di Walter Veltroni e Roberto
Beccantini) ripercorre in più anche le vicissitudini delle famiglie
delle vittime. Sottolineando che se oggi gli stadi per le finali
di Champions devono avere determinati requisiti di sicurezza, lo
devono a Otello Lorentini, l'uomo che ha lottato in tribunale per
difendere la memoria dei figlio Roberto, perso sulle gradinate della
Curva Z mentre cercava di salvare un altro tifoso. L’unico, piccolo,
spiraglio positivo di una tragedia immane e indimenticabile.
29 maggio 2015
Fonte: Avvenire
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, trent’anni di rimorsi
di Roberto Beccantini
Sono passati trent’anni dalla strage che
non ci ha insegnato nulla. Era il 29 maggio 1985, stadio Heysel
di Bruxelles. In palio, la Coppa dei Campioni. In campo, Juventus
e Liverpool. "Olocausto" titolò il "Guerin Sportivo". Trentanove
morti, quasi tutti italiani e juventini. Il più piccolo, Andrea
Casula, aveva undici anni. C’ero anch’io, quel giorno, inviato della
"giornalaccio rosa dello Sport". Mi occupai di un problema marginale,
anche se paradossalmente cruciale: si gioca o non si gioca ? Tampinai
i burocrati dell’Uefa, imbarazzati e deliranti: si giocò. E’ difficile
spiegare a un ragazzo d’oggi perché successe e perché, soprattutto,
gli aggressori furono più efficaci degli aggrediti nell’affrontare
il cancro della violenza e ridurne la metastasi. Di calcio, da quella
sera, si è continuato a morire, ferire e infierire, fino agli accoltellati
dell’ultimo derby. Tolleranza zero ? Non proprio. Stadi di proprietà
? Uno solo, quello della Juventus. Cultura sportiva ? Ai
minimi storici. La provocazione di qualche striscione non basta:
a Bruxelles la feccia del Liverpool fu lo strumento che la nemesi
(non il caso) usò per punire la miopia dell’Uefa, la negligenza
della gendarmeria e del governo belgi, la golosità degli spacciatori
di biglietti, che riempirono di pacifiche comitive il fatale settore
Z, confinante con gli spicchi rossi degli inglesi. I lanci e le
cariche degli hooligans portarono alla fuga, la fuga portò al crollo
del muretto, il crollo del muretto portò all’ecatombe. In assenza
dei cellulari che avrebbero diffuso la notizia del massacro da curva
a curva, moltiplicandone probabilmente gli effetti, l’ordalia ebbe
comunque luogo "per motivi di ordine pubblico" e finì 1-0, decisa
dall’unica cosa finta di quella notte, il rigore su Boniek. L’esultanza
di Platini, sbagliata, e l’esposizione del trofeo al ritorno, sbagliatissima,
arroventarono un "dopo" che, viceversa, avrebbe avuto bisogno di
unguenti comuni per rimarginare l’immane ferita. Penso a Otello
Lorentini, che perse il figlio Roberto. Con il nipote Andrea, figlio
di Roberto, ha dato voce alla parte più colpita e più debole: le
famiglie dei morti. Che la terra sia lieve anche a lei, eroico Otello.
Non era mai capitato che l’Uefa venisse condannata in sede giudiziaria.
Capitò. Continua a capitare, in compenso, che nei nostri Colossei
si tifi per un altro Heysel o un’altra Superga, a testimonianza
di come e quanto le vittime abbiano preferito scimmiottare gli aguzzini,
invece di combatterli. In questi casi l’enfasi e il tifo spingono
ad analisi frettolose, a verifiche talvolta faziose. Intervistai
Giampiero Boniperti in occasione dei 25 anni. Restava fermo sulla
sua idea: "Riconsegnare "quella" Coppa avrebbe voluto dire: morti
dell’Heysel, siete crepati per niente". I parenti dei defunti non
gradirono, e ricucire lo strappo fu doloroso, travagliato. Richiese
tempo, pazienza. Nessuno era preparato all’apocalisse. Dirigenti,
giornalisti, giocatori, spettatori; nessuno. Sia chiaro, non è una
scusante: L’Heysel continua ad agitare i sentimenti più estremi.
Marco Tardelli ha chiesto pubblicamente scusa. Michel Platini si
ritirò nel giro di due anni, anche per colpa di quel pugno al cielo.
"Trent’anni dopo - ha confessato in "Parliamo di calcio", editore
Bompiani - non è ancora chiaro nel mio spirito ciò che è accaduto,
forse non lo sarà mai, e trent’anni dopo vorrei dire che non lo
rifarei. Non avrei dovuto attendere trent’anni, trenta minuti sarebbero
stati sufficienti". L’importante è allenare la memoria. Siamo pigri,
quando ci fa comodo. E con l’Heysel ci ha fatto comodo spesso.
29 maggio 2015
Fonte: it.sports.yahoo.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Bruxelles commemora
il "giorno più triste"
"L'Heysel è la pagina nera dello
sport mondiale e della storia della Juventus", come l'ha definita
il tecnico dei bianconeri Massimiliano Allegri.
I ricordi del "giorno più triste" nella
storia della Juventus riaffiorano prepotenti, nel trentennale dell'Heysel.
Impossibile dimenticare, giusto ricordare, con una partecipazione
che mai era stata così ampia e diffusa negli altri anniversari,
le 39 vittime innocenti nel settore Z dello stadio di Bruxelles,
tifosi juventini morti per sfuggire alla furia degli hooligan inglesi.
Nel pieno della lunga vigilia di Berlino, "la pagina nera dello
sport mondiale e della storia della Juventus", come l'ha definita
Massimiliano Allegri, è stata ricordata a Bruxelles, a Liverpool,
a Torino, dove la Juventus al gran completo, prima di partire per
Verona, ha presenziato alla messa nella chiesa della Gran Madre
di Dio. Accanto a giocatori e staff tecnico, il presidente Andrea
Agnelli, con la mamma Allegra, Giovanni Trapattoni e Stefano Tacconi,
che della Juve dell'Heysel erano l'allenatore e il portiere. E ancora
la vedova Scirea, Mariella, l'ex giocatore e dirigente Roberto Bettega,
il presidente della Lega Calcio italiana Maurizio Berretta, il sindaco
di Torino Piero Fassino e la super tifosa Evelina Christillin. L'omaggio
alle vittime ha invaso anche i siti ufficiali dei club e delle istituzioni
del calcio, i social network ed i blog dei tifosi. All'Heysel di
Bruxelles si è tenuta la cerimonia, alla presenza degli ambasciatori
d'Italia, Alfredo Bastianelli, e di Gran Bretagna, del sindaco di
Bruxelles, del presidente del museo della Juve, Paolo Garimberti,
e dell'ex juventino Sergio Brio. Sono state posate corone di fiori
e sono stati liberati in cielo 39 palloncini bianchi ciascuno con
il nome di una delle vittime, 32 delle quali italiane. I nomi sono
stati scanditi anche all'Anfield di Liverpool, lo stadio del club
inglese dove, a rappresentare la Juventus, c'erano il dirigente
Gianluca Pessotto, che ha posato 39 gigli bianchi, e l'ex giocatore
Massimo Bonini. Un minuto di silenzio è stato osservato a Bruxelles
e a Liverpool, al congresso Fifa di Zurigo, ed a Torino all'assemblea
degli azionisti di Exor, la holding della famiglia Agnelli presieduta
da John Elkann, alla quale era presente anche Andrea Agnelli. A
Vinovo, Allegri ha anteposto il suo ricordo alle domande della conferenza
stampa della vigilia di campionato: "Oggi non c'è da fare altro
che commemorare le vittime - ha detto - e stringerci con affetto
ai loro famigliari". Il 29 maggio 1985 "avevo quasi 18 anni - ha
aggiunto l'allenatore della Juventus su twitter - quella sera di
30 anni fa, davanti alla tv, rimasi sotto choc quando capii cosa
era successo. Un pensiero ai 39 dell’Heysel". Tra i protagonisti
in campo all'Heysel c'era Platini: "Non ho mai dimenticato quella
partita, ancora oggi continuo a giocarla. E, come presidente dell'Uefa,
con i miei colleghi ed i miei amici delle federazioni, dei campionati
e dei club, lavoro quotidianamente per assicurare che l'orrore di
quella serata non si ripeta mai più".
29 maggio 2015
Fonte: Ticinonews.ch
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Dalglish shock: "All'Heysel iniziarono i tifosi della Juventus,
reagire è umano"
Kenny Dalglish ricorda a modo suo
la tragedia dell'Heysel: "Il lancio di pietre cominciò dai tifosi
della Juventus, reagire è umano".
Quella di oggi è la giornata del ricordo
commosso per le vittime di una tragedia assurda. Sono infatti passati
trent'anni da quella che verrà per sempre ricordata come la strage
dell'Heysel. Il Liverpool ha ricordato oggi quella che è stata una
delle pagine più tristi della storia del calcio attraverso una cerimonia
privata che si è tenuta ad Anfield Road mentre a Torino si terrà
una messa alle 19.30 alla quale parteciperà tutta la Juventus in
blocco oltre a Ian Rush in rappresentanza dei Reds. Tra i protagonisti
di quella giornata maledetta anche Bruce Grobbelaar che a Repubblica
ha raccontato: "Furono estremisti di destra, del National Front,
a provocare il caos. I veri tifosi del Liverpool trascorsero la
mattinata della partita a bere birra con i tifosi della Juve". Ben
diverse invece le parole utilizzate da Kenny Dalglish nella sua
autobiografia e riportate dalla Gazzetta dello Sport: "I nostri
tifosi furono aggrediti da quelli avversari. Nei bus che portavano
i nostri fans allo stadio si scatenò l’inferno. Non si può certo
giustificare il comportamento dei nostri tifosi, ma anche all’Heysel
furono i fans italiani della Juventus a lanciare per primi i sassi
contro i nostri. Reagire è umano e il ricordo di quanto era accaduto
a Roma l’anno precedente era ancora fresco nella mente dei nostri
tifosi. Se quelli della Roma avessero lasciato in pace i nostri,
i fans del Liverpool non sarebbero stati così aggressivi con quelli
della Juventus. E se quelli della Juventus non avessero cominciato
a lanciare sassi contro i nostri, non sarebbe accaduto nulla". Quello
che è certo è che il mondo del calcio è cambiato per sempre da quel
giorno e che nulla potrà restituire alle proprie famiglie coloro
che erano andati a seguire una partita e che non sono mai più tornati.
29 maggio 2015
Fonte: Goal.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, per non dimenticare…
di Simone Balocco
Il sogno di ogni tifoso di calcio
è quello di vedere la propria squadra del cuore disputare una finale
di Champions League e magari vederla alzare al cielo la coppa: la
sera del 29 maggio 1985, 32 tifosi juventini, allo stadio Heysel,
teatro della finale di Coppa dei Campioni, non videro la loro squadra
vincere, ma trovarono la morte.
Oggi si celebra (tristemente) il trentesimo
anniversario della strage dell’Heysel che costò la vita in tutto
a 39 persone, le trentadue appena accennate e altre sette persone
tra i tifosi neutrali presenti nel settore Z dello stadio belga:
quattro belgi, due francesi ed un irlandese, per un totale di 36
uomini, due donne (italiane), un bambino di 11 anni, quattrocento
feriti in tutto. Lo stadio Heysel, prima di allora, era stato teatro
di altre quattro finali di Coppa dei Campioni, una di Coppa Uefa
e tre di Coppa della Coppe. Costruito in occasione del centenario
dell’indipendenza del Belgio, l’impianto, situato nei pressi dell’Atomium,
nonostante fosse la sede delle partite casalinghe della Nazionale
dei "diavoli rossi", presentava grossi problemi strutturali ed organizzativi,
ma la Uefa decise l’anno prima che vi si sarebbe giocata la finale
della coppa europea più importante. Quella sera di fine maggio si
affrontarono per la seconda volta in pochi mesi i campioni d’Europa
uscenti del Liverpool ed i campioni d’Italia in carica della Juventus:
i Reds e la Vecchia Signora si incontrano il 16 gennaio precedente
per la finale della Supercoppa europea che vide la vittoria della
squadra italiana, vincitrice l’anno precedente della Coppa della
Coppe. Per la squadra del Trap la partita dell’Heysel era la terza
finale europea consecutiva, mentre il club inglese la coppa l’aveva
vinta già quattro volte, l’ultima l’anno prima in finale contro
la Roma. Per la Juve era il terzo tentativo nella coppa più prestigiosa
d’Europa e cercava il primo storico successo. Quel mercoledì alle
20.15 si sarebbe giocata la finale numero trenta della Coppa dei
Campioni e allo stadio erano presenti complessivamente 58mila spettatori,
ma la sera precedente gli hooligans, i temibili tifosi inglesi noti
in tutta Europa per il loro tifo violento e per la loro propensione
per la birra, picchiarono persone inermi alle fermate degli autobus,
spaccarono le vetrine di molti esercizi commerciali ed alcuni di
loro rapinarono una gioielleria fuggendo con un bottino di oltre
300 milioni di lire. La gendarmeria di Bruxelles non fece nulla
per impedire agli inglesi di fare ciò che volevano in città. Il
giorno dopo, i tifosi inglesi, in minoranza rispetto agli italiani,
furono sistemati nei settori X ed Y per un totale di 17.200 unità,
ma a loro si unirono altri otto mila giunti in Belgio senza biglietto
che entrarono armati di coltelli, lancia razzi e con casse di birra
al seguito; i tifosi juventini furono fatti accomodare nella curva
opposta a quella dei Reds, i settori M, N e O ed erano in tutto
23.200. Accanto ai due settori destinati ai tifosi del Liverpool
e la tribuna, fu creato un settore "cuscinetto" composto esclusivamente
da tifosi non appartenenti a nessuna delle due squadre, i cosiddetti
tifosi "neutrali", (il già citato settore Z), per un totale di 6mila
posti. Per motivi organizzativi quel settore non sarebbe dovuto
andare a nessun tifoso "dichiarato", mentre invece moltissimi biglietti,
complici il bagarinaggio fuori dallo stadio e "pacchetti" delle
agenzia di viaggio errati, andarono nelle mani dei tifosi italiani
(non ultras) della Juventus con sciarpa al collo e bandiera bianconera
in mano. Già dall’esterno, lo stadio appariva logoro, fatiscente
e dentro era peggio in quanto le gradinate erano rotte, scheggiate
ed era facile ricavare dei sassi: uno stadio non adeguato per una
manifestazione come la finale di Coppa dei Campioni. I cancelli
dello stadio si aprirono intorno alle 18.30 e gli hooligans iniziarono
a spostarsi dal loro settore verso lo Z facendo partire i primi
insulti verso i tifosi avversari, che non si scomposero, anche perché
non erano tifosi violenti o pronti allo scontro (c’erano tante famiglie,
per intenderci). Alle ore 19.08 gli hooligans iniziarono a caricare:
rompendo la rete di recinzione che divideva i settori, superarono
gli appena cinque gendarmi impegnati nel servizio d’ordine e riuscirono
ad entrare nel settore "cuscinetto". Gli spettatori iniziarono a
scappare di corsa verso l’uscita o verso il campo, ma tantissimi
si riversarono a ridosso di un muretto che cadde, travolgendo quelli
che non erano stati schiacciati e soffocati dalla ressa: alle 19.15,
quando finì la carica degli hooligans, si contarono trentotto vittime.
La trentanovesima morì dopo il ricovero in ospedale. Alle 19:22
i poliziotti dentro lo stadio chiamarono i rinforzi, che arrivarono
sette minuti dopo quando era troppo tardi. Alle 19.49 i tifosi inglesi
tornarono ai loro posti e la "mattanza" finì. Le bandiere bianconere
servirono come veli funerari per coprire pietosamente le salme.
La gente piangeva, urlava, si metteva le mani nei capelli e chiamava
disperatamente parenti ed amici che erano lì con loro. L’Heysel
sembrava un teatro di guerra. Alle 20.15 l’arbitro svizzero Diana
avrebbe dovuto fischiare l’inizio del match, ma il fischio fu rimandato.
Alle 20.28 i giocatori della Juventus si presentavano in campo dirigendosi
verso la curva bianconera, anch’essa in parte devastata da coloro
che avevano divelto le reti per cercare di andare a difendere i
compagni dalla parte opposta. I giocatori furono sommersi da tifosi
che volevano sapere se la partita si sarebbe giocata, cosa era successo
realmente e qualcuno chiese anche un autografo. Alle 21.15 i capitani
della due squadre, Gaetano Scirea e Phil Neal, lessero un comunicato
in cui dissero che la partita si sarebbe disputata: non giocare
quella partita avrebbe potuto peggiorare la situazione. Molti giocatori
juventini non avrebbero voluto giocare, ma furono obbligati a farlo.
Il match, disputato in un clima surreale, finì 1 a 0 con rete di
Michel Platini su calcio di rigore procurato per fallo di Gillespie
su Boniek. Il fallo del giocatore del Liverpool avvenne molti metri
fuori dall’area di rigore, ma l’arbitro concesse la massima punizione
per i torinesi che segnarono e vinsero la coppa. La premiazione
avvenne negli spogliatoi, ma la "coppa dalle grandi orecchie" venne
portata dentro al campo per farla vedere ai tifosi italiani giunti
a Bruxelles per vedere vincere la loro squadra dopo due finali perse.
Marco Tardelli, in un’intervista di anni dopo, disse quella coppa
non se la sentiva come propria e si scusò per i festeggiamenti sotto
la curva. In Italia, nonostante si sapesse della strage e delle
vittime, i tifosi juventini scesero in piazza a festeggiare la prima
vittoria in Coppa dei Campioni dopo due finali perse. La Uefa andò
giù pesante contro l’Inghilterra calcistica: per cinque anni le
squadre della FA furono escluse dalle coppe europee ed i Reds ebbero
un anno in più di squalifica, mentre la Juventus fu punita con due
partite da giocare a porte chiuse la stagione successiva per le
intemperanze dei propri tifosi, ma riuscì a barattare un turno chiedendo
di iniziare l’edizione successiva dal primo turno e non dagli ottavi
come avrebbe dovuto in quanto detentrice del trofeo. Lo stadio Heysel
venne abbattuto il 23 agosto 1994, ricostruito ed intitolato alla
memoria di re Baldovino. Il nuovo impianto ospitò alcune partite
degli Europei del 2000, ma a livello europeo, a parte la finale
di Coppa delle Coppe del 1996, non gli venne più assegnata nessuna
finale. Il 5 aprile 2004 le due squadre si rincontrarono ad Anfield
road nei quarti di finale di Champions e la Kop, la curva del Liverpool,
fece una coreografia speciale con la scritta "friendship" (amicizia),
come segno di scusa e di smorzamento degli animi dopo i tragici
fatti dell’Heysel, ma la tifoseria juventina ignorò le scuse. Il
mondo degli stadi da quel momento cambiò, ma anche il calcio inglese
cambiò: la strage del 15 aprile 1989 di Hillsborough, che causo
la morte di 96 tifosi del Liverpool non per fatti violenti ma per
la precarietà di quello stadio, fu la goccia che fece traboccare
un vaso già saturo ed il governo inglese diede un forte giro di
vite con il cosiddetto "rapporto Taylor". Sulla tragedia dell’Heysel
sono stati scritti libri, girati documentari e, soprattutto, il
2 marzo 1986, Otello Lorentini, che all’Heysel perse il figlio Renato
(NdR: Roberto) che si fermò ad aiutare un bambino in difficoltà,
riunì le 31 famiglie italiane e fondò l’Associazione famiglie vittime
dell’Heysel. Il processo, che iniziò subito dopo, vide la partecipazione
di solo diciannove famiglie e dopo sei anni, e tre gradi di giudizio,
furono condannati 26 hooligans (riconosciuti tramite dei video dentro
lo stadio) per omicidio, mentre per "omessa prevenzione" furono
condannate l’Uefa, la Federcalcio belga, il Ministro degli Interni
del Belgio, il sindaco di Bruxelles e la gendarmeria. Sono passati
trent’anni e questi tre decenni non hanno cancellato la rabbia ed
il dolore per una partita sognata da tante persone che invece una
massa di animali li ha portati alla morte. Molte persone sono rimaste
così scioccate da non seguire più il calcio da allora: il calcio,
come tutti gli sport, è una passione ma non deve portare alla morte.
Tutti si chiesero come hanno potuto gli hooligans aver fatto ciò
quando tutti sapevano che erano una tifoseria violenta: decuplicare
il servizio d’ordine ? Dare agli inglesi un altro settore come è
stato fatto per gli juventini ? Bloccare alla frontiera quelli senza
biglietto ? Nulla si è potuto contro autentici criminali contro
i quali il servizio d’ordine belga ha fallito clamorosamente il
suo compito. L’organizzazione dei belgi, malgrado tutte le assicurazioni
fornite, fu di una carenza incredibile, visto che l’anno prima,
sempre a Bruxelles ci furono pesanti incidenti tra le tifoserie
di Anderlecht e Tottenham in Coppa Uefa. Parafrasando l’epitaffio
della targa commemorativa di Superga, "solo la morte li vinse".
E la Juventus vinse quella coppa anche per loro. A distanza da allora,
i bianconeri, il prossimo 6 giugno, giocheranno la loro settima
finale Champions. Quei trentadue tifosi juventini forse ora sarebbero
in possesso del prezioso biglietto dell’Olympiastadion come fecero
trent’anni prima per l’Heysel. E chi ancora oggi insulta quei morti,
dovrebbe solo vergognarsi.
29 maggio 2015
Fonte: Sportpaper.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel 30 anni dopo, la memoria vale più delle vittorie
di Riccardo Pessarossi
Se quelli appena trascorsi sono
tra i giorni più neri della FIFA, il 29 maggio di trent'anni fa
fu la notte nera dell'UEFA, quando allo stadio Heysel prima della
finale di Coppa Campioni Liverpool- Juventus trentanove persone
morirono schiacciate dalle cariche degli hooligans inglesi.
Allora l' UEFA scelse lo stadio Heysel
di Bruxelles come sede della finale di Coppa Campioni tra Juventus
e Liverpool, un solo anno dopo quella di Roma, dove i reds inglesi
si erano già scontrati con i tifosi giallorossi nella Capitale.
Le condizioni fatiscenti dello stadio, unite alle negligenze della
polizia belga portarono al tragico epilogo che ancora oggi lascia
aperti diversi spunti di riflessione. Quello più sentito, proviene
dai famigliari delle 39 vittime, che per questi 30 anni hanno portato
avanti la loro battaglia alla ricerca della verità e del rispetto
per i cari che quella sera partirono per andare a vedere una partita
di calcio e non fecero mai ritorno a casa. Il loro ricordo ha preso
la forma di un monologo teatrale dal titolo emblematico "Heysel
- Io sono la memoria, lettera da Bruxelles", messo in scena a Torino
con la collaborazione della Consulta Regionale dei giovani del Piemonte.
Trent'anni dopo, il ricordo a lungo rimasto un inspiegabile tabù
- ha beneficiato di un maggiore risalto, si spera non soltanto per
via della cifra tonda e della coincidenza che vedrà i bianconeri
giocare nuovamente una finale del massimo torneo continentale. Della
tragedia dell'Heysel si è parlato diffusamente in tv e sui giornali
ed il valore della memoria ha varcato i confini: il Liverpool, i
cui hooligans trent'anni fa furono artefici della carneficina, allo
stadio di Anfield Road ha dedicato una targa ai caduti di Bruxelles. Anche nella capitale belga, su iniziativa
delle autorità locali e dell'ambasciata italiana si è svolta una
commemorazione delle vittime, alla quale era presente Beppe Franzo,
presidente dell'associazione "Quelli di Via Filadelfia" e figura
storica del tifo juventino, che condivide con Sputnik Italia il
racconto della giornata: "Ero presente allo stadio Heysel quella
drammatica sera di 30 anni fa e mi trovavo su quella pista di atletica
insieme ai tifosi che non volevano che la partita si giocasse. Pochi
mesi dopo, nell'estate del 1985, quando non avevo ancora elaborato
il lutto, mi recai insieme a tre amici allo stadio Heysel e con
molta difficoltà, scavalcando una rete, riuscii a deporre un fiore
sul luogo dove morirono i 39 tifosi. Oggi lo stadio è completamente
nuovo e non ci sono più tracce di quella tribuna. Le autorità belghe,
che allora furono del tutto inadeguate, hanno organizzato una cerimonia
in ricordo di quella sera, aperta a tutti coloro che si sentivano
in dovere di esserci. Personalmente ho provato una forte commozione
a rientrare in quel posto: il momento più toccante è stato quando
si sono levati in aria 39 palloncini bianchi con dei cartoncini
recanti i nomi dei morti di quella sera. Il vento, come se fosse
stato guidato dal destino, ha soffiato proprio in direzione di quello
che era il settore Z, portando quei palloncini proprio dove quelle
persone persero la vita".
Per un altro ricorso del destino, oggi
il presidente dell'UEFA è proprio Michel Platini, allora capitano
della Juventus (NdR: il capitano era Gaetano Scirea, il vice Sergio
Brio) che alzò quella coppa al cielo di Bruxelles. Il passaggio
dal campo alla scrivania ha cambiato la prospettiva su quegli eventi
e nell'anniversario della tragedia - coinciso con l'assemblea per
la rielezione di Blatter a presidente della FIFA - Platini ha rivolto
questo messaggio: "30 anni fa ho giocato la finale di Coppa dei
Campioni allo stadio Heysel di Bruxelles e continuo a giocare quella
finale. Non mi ha lasciato, così come non ha lasciato nessun altro
di quelli che erano lì quella notte e rimane con tutti coloro che
hanno perso un proprio caro e la cui vita è cambiata nel giro di
pochi terribili minuti. 30 anni dopo sono presidente dell'UEFA,
che organizzò quella partita ed ogni giorno lavoro con i miei colleghi
e amici delle Federazioni nazionali e dei club per fare in modo
che non possa più ripetersi l'orrore di quella notte. Nel 30° anniversario
di quella notte tragica posso solo esprimere il mio più profondo
cordoglio e ripetere che faccio tutto quello che è nelle mie facoltà
affinché tragedie simili non si ripetano".
Purtroppo al di fuori dei discorsi, tuttora
ci si imbatte ancora in episodi di violenza e dileggio delle vittime
delle tragedie legate al calcio, perpetrati sui gradoni di molti
stadi in nome della diversa appartenenza calcistica. Al contrario,
proprio la comune passione per questo sport dovrebbe unire al di
là dei colori, nel ricordo di chi non c'è più, come sottolinea Beppe
Franzo: "L'Heysel è sempre stato una sorta di simulacro non condiviso.
Il fazionismo delle varie tifoserie ha fatto sì che la tragedia
non venisse mai percepita nella sua drammaticità e nella sua dimensione
italiana. Purtroppo nei vari stadi italiani da tempo si usa questa
cifra, il 39, con il segno meno davanti per insultare la tifoseria
juventina e la memoria del popolo bianconero. La nostra risposta
è il simbolo +39, che ha una valenza duplice: significa che quei
39 angeli sono con noi e li sentiamo parte integrante del nostro
tifo; ma +39 è anche il prefisso nazionale dell' Italia. Vogliamo
che questa tragedia venga ricordata non solo in un contesto legato
al tifo calcistico, ma venga riconosciuta come un dramma italiano
condiviso. A questo proposito, noi come associazione, ci terremmo
ad essere presenti anche a Mosca il 20 ottobre, quando viene ricordata
la tragedia, per molti versi simili, dello stadio Luzhniki. In conclusione,
il tempo passa e cambiano le generazioni, ma solo il valore della
memoria lascia accesa la speranza che simili fatti di cronaca non
si ripetano veramente più.
29 maggio 2015
Fonte: It.sputniknews.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel 2015
La missione del ricordo
di Guido Vaciago
Stadi nuovi e lotta alla violenza ecco
il lascito di quella tragedia. Le cause della sciagura. Dall'assalto
degli hooligans del Liverpool alle responsabilità degli organizzatori.
Trent'anni fa prima della finale di Coppa Campioni a Bruxelles morirono
39 spettatori (32 italiani di fede bianconera), schiacciati nella
curva Z. Nel giorno della commemorazione delle vittime dell’Heysel,
30 anni dopo, analizziamo in cinque approfondimenti le cause, i
fatti di Bruxelles e i significati che la memoria di quella tragedia
possiede ancor oggi, 29 maggio 2015.
1) Cosa successe ?
Il 29 maggio del 1985 si giocava la finale
di Coppa dei Campioni a Bruxelles, nello stadio Heysel. Disputavano
la finale Juventus e Liverpool, le due squadre più forti d’Europa
in quel momento. Prima della partita, nella curva dove erano stati
sistemati, follemente, sia i tifosi della Juventus (per lo più famiglie,
nessun ultrà) che quelli del Liverpool, si scatenò la violenza degli
inglesi. Venne divelta la rete da pollaio, che pretendeva di dividere
le due fazioni, e gli hooligans del Liverpool caricarono. I tifosi
bianconeri arretrarono spaventati e la calca asfissiante iniziò
a fare le prime vittime fra coloro che, caduti a terra, vennero
schiacciati o non riuscirono a riemergere. La pressione della folla
sul parapetto laterale della maledetta curva Z fece crollare il
muretto, causando ulteriori vittime, ma dando anche sfogo. In pochi
minuti, durante i quali le forze dell’ordine belga assistettero
sostanzialmente inermi, morirono 39 persone. La partita si giocò
lo stesso, per ragioni di ordine pubblico e per permettere alla
polizia belga di organizzare il deflusso dei tifosi, potenzialmente
ancora più pericoloso. La Juventus vinse 1-0, ma nessuno poté godere
fino in fondo di quella vittoria.
2) Di chi fu la colpa ?
Certamente delle autorità locali. L’organizzazione
della partita fu disastrosa. Venne clamorosamente sottovalutata
la pericolosità della tifoseria inglese (ben nota in tutta Europa).
Si mise a disposizione dell’evento un numero ridicolmente esiguo
di poliziotti. Si mischiarono con decisione demenziale tifosi della
Juventus e del Liverpool nello stesso settore, divisi solamente
da una rete. Non si aprirono immediatamente i cancelli che potevano
rappresentare un varco di salvezza verso la pista di atletica e
il campo, durante il terribile momento di schiacciamento. Nessun
intervento, da quello della polizia a quello del personale medico,
fu tempestivo e tutto sembrò frutto di improvvisazione. Se, per
quei 39 morti, ci sono dei colpevoli contro i quali puntare il dito
a distanza di 30 anni, questi sono i membri dell’organizzazione
della finale, che - di fatto - non pagarono mai.
3) Quali furono le colpe degli inglesi
?
Le abitudini violente degli hooligans inglesi
erano note da diversi anni. Quella notte i tifosi del Liverpool
si presentarono, come sempre, completamente ubriachi alla partita
e la loro follia si scatenò su tifosi inermi: dall’altra parte della
curva c’erano infatti famiglie, bambini e italiani che vivevano
in Belgio. La furia demente degli ultrà del Liverpool non si fermò
nemmeno di fronte a questo. Va detto che, a differenza degli organizzatori,
gli inglesi pagarono e l’Heysel (insieme a Hillsborough) segnò il
severo cambio di rotta del governo Thatcher: il piano varato in
quegli anni spazzò via il fenomeno hooligans.
4) Cosa ha lasciato l’Heysel ?
Quella notte è forse, inconsapevolmente,
nata la Champions League e il nuovo concetto di Coppe Europee, in
cui l’organizzazione degli eventi ha effettuato un salto di qualità.
Oggi le probabilità di un nuovo Heysel nelle competizioni Uefa sono
minime, forse vicine allo zero. La violenza non è stata estirpata
dal calcio, ma si ha maggiore consapevolezza nel gestirla e nel
prevenirla. La strada è ancora lunga, soprattutto in Italia, e molto
tempo è stato sprecato in questi trent’anni, ma non è passato del
tutto invano.
5) Perché bisogna ricordare ?
Chiunque ami il calcio, ne sia tifoso o
solo appassionato, non può concepire che si possa morire per assistere
a una partita. Le vittime dell’Heysel devono essere un simbolo per
tutte le vittime di una violenza assurda che insudicia lo sport.
A Bruxelles non sono morti dei tifosi della Juventus. A Bruxelles
sono morti dei tifosi. Chiunque lo sia, quando ne infama la memoria,
infama anche se stesso.
29 maggio 2015
Fonte: Tuttosport
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, oggi sono 30 anni: il ricordo più brutto e doloroso
Con la Juventus che torna in finale,
il ricordo della tragedia di 30 anni fa scuote ancora.
TORINO - Alla gioia e alla trepidazione
del popolo bianconero per la finale di Berlino si mescola il ricordo
più brutto e doloroso: la tragedia dell'Heysel con le sue 39 vittime
innocenti di cui proprio oggi ricorre il trentennale. Tifosi juventini
- 32 erano italiani - andati a Bruxelles con la speranza di festeggiare
la prima Coppa dei Campioni bianconera e che invece trovarono una
morte orribile nel settore Z dello stadio, travolti dalla furia
degli hooligans inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre
o precipitati dalle gradinate, poco prima che iniziasse la finale
Juve-Liverpool. Morti, però, anche per l'inadeguatezza dell'Heysel
e dei servizi di sicurezza ed ordine pubblico. Un ricordo ancora
oggi terribile per i parenti delle vittime, per i sopravvissuti,
per chi aveva seguito le cariche degli hooligans, il caos e la disperazione
dei tifosi che cercavano scampo dagli altri settori dell'Heysel
o in tv. Una "Coppa maledetta" che la Juve aveva inseguito per 30
anni, sfuggita già due volte, nel '73 a Belgrado, dieci anni dopo
ad Atene. Un trofeo che oggi molti protagonisti dell'epoca non sentono
come un trofeo conquistato, ricordando che in pratica furono obbligati
a giocare.
TROFEO ALLA MEMORIA DEI 39 - Ma ci sono
anche tifosi juventini che, al contrario, la considerano un premio
alla memoria delle 39 vittime, allineate nelle stanze dello stadio
mentre sul campo si consumava la partita più surreale nella storia
del calcio europeo, vinta dalla Juventus con un calcio di rigore
segnato da Platini. Una partita giocata con un intero spicchio dell'Heysel,
senza più tifosi, transennato davanti alle macerie ed alle cose
perse dai tifosi nella calca. "Non sapevamo cosa era davvero successo,
avevamo avuto notizie di un morto, forse due, ma non potevamo immaginare
una tragedia così grande", avrebbero detto poi i giocatori bianconeri.
I neo campioni d'Europa avevano festeggiato sotto la curva dell'Heysel
subito dopo il 90', ma il giorno dopo, al rientro a Torino, quando
le notizie sulle tragedia erano diventate ufficiali e chiare nella
loro drammaticità, ogni traccia di gioia era scomparsa dai loro
volti. Sergio Brio, scendendo sulla scaletta dell'aereo, stringeva
la Coppa, ma senza esultare. All'Heysel il club bianconero aveva
consegnato al delegato Uefa Gunther Schneider la nota ufficiale
spiegando perché aveva detto sì alla richiesta di giocare comunque:
"La Juve accetta disciplinatamente, anche se con l'animo pieno di
angoscia, la decisione dell'Uefa, comunicata al nostro presidente,
di giocare la partita per motivi di ordine pubblico".
IL DOLORE DI BONIPERTI - Il presidente
di allora, Giampiero Boniperti, non ha mai voluto riparlare di quella
finale così dolorosa. Neppure per l'attuale massimo dirigente bianconero,
Andrea Agnelli, è facile tornare sull'argomento: "Ho sempre fatto
fatica a sentire mia quella Coppa - ha detto in occasione del venticinquennale
dell'Heysel - anche se i giocatori mi hanno sempre detto che fu
partita vera". E Marco Tardelli, in un'intervista alla Rai, qualche
anno fa ha spiegato e chiesto scusa: "Era impossibile rifiutarsi
di giocare, ma non dovevamo andare a festeggiare, l'abbiamo fatto
e sinceramente chiedo scusa".
LA MESSA PER RICORDARE LE VITTIME - Le
vittime dell'Heysel saranno ricordate a Bruxelles con una cerimonia
pubblica e a Torino in una messa alla Chiesa della Gran Madre di
Dio, alle 19.30: "La giornata del 29 maggio - sottolinea la società
bianconera - sarà dedicata al ricordo da parte di tutti i tesserati
Juventus. Per troppi anni quelle 39 vittime - rimarca sul sito ufficiale
- sono state oggetto di scherno finalizzato unicamente ad attaccare
i colori bianconeri: un'azione vile che non dovrebbe trovare cittadinanza
in nessuno stadio ed in nessun dibattito sportivo. Questo anniversario
dovrà essere utile anche alla riflessione per evitare che simili
comportamenti si ripetano".
IL RICORDO DELLA JUVE - Anche la Juventus
ha voluto ricordare la tragedia di 30 anni fa con un messaggio apparso
sul proprio sito web: "29 maggio 1985, il giorno più triste della
nostra storia. Doveva essere un momento di festa, di attesa, di
tensione sportiva. Si è trasformato in tragedia. Trentanove persone
innocenti quella sera persero la vita. Trentanove famiglie furono
segnate per sempre da un dolore che non riusciamo neanche ad immaginare.
Quanto accadde quella sera è scolpito nella memoria di qualsiasi
tifoso. Di coloro che erano presenti a Bruxelles, di chi era seduto
davanti alla tv, anche di chi allora era troppo giovane o magari
non era ancora nato. Sono passati trent'anni e oggi ci si può solo
stringere nel ricordo. La Juventus lo farà partecipando insieme
all'"Associazione fra i Familiari delle Vittime dell'Heysel" alla
Santa Messa che verrà celebrata alle 19.30 presso la Chiesa della
Gran Madre di Dio a Torino. Saranno presenti i giocatori della Prima
Squadra, lo staff tecnico e i dirigenti della società. La Juventus
parteciperà anche a Bruxelles, alla cerimonia pubblica che avrà
luogo nella capitale belga, rappresentata dal presidente del J-Museum
Paolo Garimberti e da Sergio Brio. Alla cerimonia che si terrà a
Liverpool saranno presenti Gianluca Pessotto e Massimo Bonini. Su
Juventus.com per tutto il giorno queste righe rimarranno la prima
notizia dell'home page, la cover delle pagine ufficiali sui vari
social network e l'unico post pubblicato su Facebook saranno in
ricordo delle vittime. Il resto sarà silenzio. Per onorare la loro
la memoria. Per cercare di dare conforto alle loro famiglie. Per
ribadire l'auspicio che il vile scherno di cui quelle 39 vittime
sono state oggetto per troppi anni finisca, una volta per tutte.
Per fare comprendere che una simile follia non si dovrà ripetere.
Mai più".
29 maggio 2015
Fonte: Corrieredellosport.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel,
trent’anni dalla strage
di Andrea Mauri
Sono passati trent’anni da quel
29 maggio 1985, trent’anni dalla follia hooligans, trent’anni da
una strage che niente ci ha insegnato. Nell’inferno del settore
Z dell’Heysel sono morti 39 tifosi juventini, schiacciati e calpestati
dagli hooligans del Liverpool, il più giovane aveva 11 anni.
Tutto inizia alle sette e venti, i tifosi
dei Reds sfondano le leggere recinzioni che li separavano dai tifosi
della Juventus e cercano lo scontro. I tifosi provano a scappare,
chi dai cancelli di ingresso, chi invadendo il campo, ma il risultato
è il medesimo. I cancelli erano incredibilmente chiusi con i lucchetti,
rotti molti minuti dopo dai pompieri, mentre la polizia a cavallo
ricaccia i tifosi dal campo alla tribuna. Molti sono morti schiacciati
dal fuggi-fuggi generale, altri dal crollo del muro provocato da
alcuni tifosi intenti a scavalcare i cancelli. "The show must go
on" avrebbe detto qualcuno, ed alle ventuno e quaranta l’arbitro
dà il fischio di inizio alla finale, vinta poi dalla Juventus con
l’unica cosa finta di quella sera, il rigore su Boniek. Trent’anni
dopo nulla è cambiato. Allo stadio si continua a subire aggressioni
e a morire, i morti vengono puntualmente insultati senza alcun rispetto
e allora la domanda è una: cosa ci ha insegnato la strage dell’Heysel
? La risposta è facile: niente.
29 maggio 2015
Fonte: Milanoreporter.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
29 Maggio
2015
Heysel, trent'anni dopo: una ferita
ancora aperta
di Stefania Castella
Il 29 maggio del 1985 non era un giorno
come tanti, no, era un giorno speciale, per tanti. Giovani e non
più giovani, bambini attaccati alle mani di padri, nonni, fratelli.
Cappellini, magliette, giornali, risate, cori. Un giorno speciale.
Quanti tifosi, quanta gente, quanta folla. Immagino facce come quella
di mio padre, di mio fratello, immagino l’emozione di chi per la
prima volta varcava i cancelli di uno stadio e chi alla fine ci
era stato mille altre volte e sempre con la stessa emozione della
prima. Cose da tifosi, di un mondo in cui per un giorno solo, respirare
la stessa aria del tuo campione del cuore, veder passare la maglia
della tua squadra, può bastarti per la vita, non dovrebbe costarti
la vita. Bruxelles, finale di Coppa dei Campioni, Juventus - Liverpool,
lo stadio Heysel gremito. Italiani e inglesi in curve opposte in
quella struttura che, molti avrebbero raccontato dopo, appariva
a tratti fatiscente. Eppure quello stadio di manifestazioni ne aveva
ospitate tante. Inaugurato nel 1930 la sua capienza di circa 70.000
persone ne aveva fatto un vanto per il paese, di certo negli anni
’80 nonostante il prestigio, le sue condizioni non erano probabilmente
la priorità per qualcuno.
Tra gli scampati che oggi raccontano, qualcuno
ricorda di essersi salvato perché salito sul tetto del bagno, unico
per tutta una curva, della grandezza di una cabina telefonica. Altri
tempi, forse neanche l’ombra delle strutture super tecnologiche
moderne che si vedono in giro. Gli italiani occupavano i settori
M, N, O, i tifosi del Liverpool X, Y affiancati al settore Z di
tifosi lontani dai club organizzati, tifosi italiani, juventini,
separati da basse reti metalliche dalla curva del Liverpool ai quali
si erano uniti i "Cacciatori di Teste" (Headhunters) tifosi del
Chelsea. Palla al centro prevista per le 20.15 ma già un’ora prima,
come già ore prima, il fermento sembrava dare i primi segnali. Tutto
accade quando la parte più accesa della tifoseria inglese, gli Hooligans,
comincia a spingersi verso il settore Z come nell'intento di conquistare
un territorio nemico. I tifosi che forse avrebbero potuto respingere
gettandosi nella rissa, erano lontani, per cui l’ondata servì soltanto
a sfondare le reti divisorie a creare panico a spingere chi era
nel settore a cercare una via di fuga. Molti si diressero verso
il basso cercando di raggiungere il prato, ma vennero rispediti
indietro dai pochi agenti. In tutto quel marasma le manganellate
delle forze dell’ordine arrivavano nel caos respingendo chi tentava
di scavalcare, saltare, scappare dalla bolgia infernale che si stava
creando. Questa compressione fu a ondate successive, la seconda,
la peggiore, troppo potente, la folla ormai concentrata quasi del
tutto a ridosso del muro che non regge a quella spinta. È l’inferno.
Qualcuno si tiene, altri cadono, volano di sotto, uno sull'altro,
qualcuno sviene, la pressione di corpi su corpi, è insostenibile.
Chi si tira via, cerca di tirare via gli altri. Qualcuno corre,
tanti non ne hanno la forza, cadono stremati, sotto shock. A terra,
distesi, corpi. A terra, scomposti, pezzi di vita, una scarpa, un
documento, una foto. Strisce di sangue, tante lacrime e quelle non
si vedono, le senti solo bruciare forte sulla faccia. Le immagini, trent'anni dopo, mettono ancora
i brividi. Le testimonianze di chi ha vissuto quei momenti sono
racconti da Miracolati, le sensazioni ancora vivide parlano della
totale disorganizzazione, dei pochi agenti, su tutto, quella recinzione
da rete di pollaio a dividere tifosi "tranquilli" da una parte notoriamente
più agguerrita. Inutile. L’esplosione di chi cercava di raggiungere
l’uscita era stata apocalisse. E una parte del mondo, quelle immagini
le vedeva in diretta Tv. La voce di Bruno Pizzul incerta, imbarazzata,
raccontava di tafferugli, diranno poi, che già dalla parte opposta
si faceva fatica a capire cosa stesse accadendo. Diranno poi, che
per questo e per evitare danni ulteriori, quella partita, quella
sera, si sarebbe giocata comunque. I morti: 39, tra questi 32 italiani,
4 belgi, 2 francesi, 1 irlandese, 6000 feriti, un campo di guerra,
un domino dove vedi la gente cadere abbattendosi l’una all'altra,
cercando di tenersi stretta a chiunque per non cadere. Le grida
di aiuto saranno spesso voci disperse nella folla e folla di troppe
facce per distinguere i vivi e i morti. Da casa, attraverso lo schermo,
la sensazione di qualcosa di surreale. Lo Stadio Heysel fu abbattuto
successivamente, oggi si chiama "Re Baldovino" in onore del Re del
Belgio a trent'anni di distanza, quei fatti, è doveroso ricordarli
ancora. Una targa fuori da quello stadio riporta la memoria. Onore
ai caduti come si fa per le battaglie.
L’ "Associazione fra i Familiari delle
vittime dell’Heysel" (con il patrocinio della Presidenza del Consiglio
Regionale del Piemonte e della Consulta Regionale dei Giovani) terrà
una commemorazione nel giorno 29 maggio 2015 alle ore 15.30 presso
la Sala Viglione nella sede del Consiglio Regionale Piemonte, Palazzo
Lascaris in via Alfieri 15, a
Torino. SI ricorderà riflettendo, si terrà un monologo teatrale
"Heysel: Io sono la memoria-Lettera da Bruxelles" di Domenico Laudadio
(membro dell’associazione) con l’interpretazione dell’attrice Francesca Cassottana che evocherà le fasi di quel dramma, le cause, le responsabilità.
L’Associazione si unirà poi alla Juventus Football Club per la celebrazione
della Messa in suffragio dei caduti di Bruxelles (19.30 Chiesa "Gran
Madre di Dio"). Recentemente l’assessore allo sport di Bruxelles
Alain Courtois ha spiegato: "Vogliamo voltare pagina vogliamo demolire
questo posto maledetto per l'Europa e per il mondo intero. Ma le
vittime restano nel cuore di tutti i tifosi". Noi ricordiamo quei
corpi senza divisione di maglia o di colore, perché sebbene vi fossero
squadre distinte quel giorno, tutto il calcio perdeva un pezzo,
e il dolore non riportava sulla maglia nessun colore, nessun numero,
nessuna differenza.
29 Maggio 2015
Fonte: Ilgiornaleweb.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, trent’anni dopo ospite a Bruxelles della RTBF
di Gabriella Greison
Sono stata invitata dalla RTBF, la televisione
nazionale belga, per partecipare alla trasmissione dedicata ai 30
anni dell’Heysel. Avevo scritto due settimane fa un reportage sul
Fatto Quotidiano, in cui raccontavo la strage, la tragedia, dal
punto di vista dei belgi, essendo andata allo stadio Re Baldovino
per cercare nuove testimonianze. Con me c’era ospite anche Stefano
Tacconi, il portiere della Juventus che giocò quella partita, e
che insieme a Platini riprese l’aereo per il Belgio per andare in
ospedale a trovare i feriti, il giorno dopo che arrivarono in Italia.
La trasmissione è stata molto interessante, ricca di spunti nuovi,
e il punto di vista belga è un elemento da non sottovalutare. Sono
molto fiera di aver partecipato al programma, in veste di giornalista
e scrittrice che si è spellata le mani nel corso degli anni per
raccontare il calcio "come luogo abitabile" (come mi ha detto Valdano
un giorno), e che davanti a questo dramma non fa altro che studiare
e leggere e documentarsi, facendosi domande su domande, e cercando
di rigirarle a chi ha il potere di cambiare il cose. Abbiamo anche
parlato della violenza negli stadi oggi (sono stata negli stadi
più violenti del mondo, e ho raccontato nei miei reportage zone
d’ombra e momenti di sollievo), e il parere di un tifoso inglese
presente ha fatto scattare subito uno scambio di battute molto acceso.
Il presentatore era Michel Lecompte, molto stiloso, molto forte
come presenza intellettiva, come garbo, e come modo di fare: questo
ha permesso di tenere le argomentazioni su un livello alto. Il tifoso
inglese, Pascal Geens, sosteneva che i supporter del Liverpool siano
stati istigati dagli italiani, nel commettere le violenze. Sosteneva
che l’anno prima a Roma per la finale di Coppa del Campioni, Roma-Liverpool,
si siano aperte le sfide, con agguati fuori dallo stadio per tifosi
dei Reds, e quello accaduto all’Heysel nel 1985 fu soltanto un regolamento
di conti. Ecco, questo passaggio mi ha fatto molto indignare: ho
ricordato come il Times stesso abbia titolato il giorno successivo
che gli italiani hanno istigato gli inglesi, e che questo concetto
è intollerabile. Non porta a niente. Innesca solo conseguenze disastrose
e a ripetizione. E’ un modo di interpretare le cose del tutto di
parte, che non aiuta certo a risolvere la situazione. La dialettica,
seppur in francese, ha avuto toni accesi. Ma quel che conta sono
anche le altre testimonianze e il resoconto di Tacconi, che con
molta pacatezza, ha anche ricordato che i teppisti non c’entrano
niente con i supporter del calcio. Per me, vale la stessa considerazione.
Il dolore è personale e non può essere condiviso. Ma la memoria
restituisce dignità al dolore. Dietro ogni dramma esiste una vita,
e siamo obbligati a stare vicini a queste vite, ricordando i drammi
come quello dell’Heysel. La memoria è un lavoro, una scelta. Le
vittime dell’Heysel non sono juventini, sono italiani, sono persone:
non sbagliamoci, questa distinzione minerebbe in modo imperdonabile
il peso reale della tragedia, perché la ridurrebbe ad un fatto calcistico,
e quindi è sbagliata. Per questo sono fiera di aver partecipato
e aver difeso la memoria. Ero bambina quando seguivo già il calcio
in tv, e quando successe l’Heysel non capivo niente, facevo domande
in casa e nessuno mi sapeva rispondere. Ora, da grande, sono io
che riporto le domande a chi può dare risposte (anche qui il calcio
è un pretesto, come ricordo spesso). E comunque il calcio, come
diceva Javier Marias, deve tornare ad essere un ritorno settimanale
all’infanzia.
29 maggio 2015
Fonte: Ilfattoquotidiano.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, 30 anni di dolore
Le celebrazioni in ricordo della
tragedia del 29 maggio 1985 in cui morirono 39 tifosi.
di Silvia Garbarino
Trent’anni. Un compleanno incancellabile
dalla memoria dei tifosi juventini e dei tifosi di calcio. Il 29
maggio 1985 finale di Coppa Campioni, stadio Heysel a Bruxelles,
Juventus e Liverpool stanno per scendere in campo quando la barbarie
umana prende il sopravvento sull’evento sportivo. Gli hooligans
invadono il settore Z dove ci sono singoli, coppie di padri e figli,
fidanzati, di tutto fuorché degli assatanati di violenza. La pressione
diventa orda che distrugge il debole muro di recinzione e chi si
trova in quel settore viene calpestato. Moriranno 39 persone.
Per ricordare quel lutto oggi alle 15 nella Sala Colonne
di Palazzo Civico (piazza Palazzo di Città 1) Francesco Caremani
presenta il libro "Heysel. Le verità di una strage annunciata".
Con l’autore Andrea Lorentini, presidente dell’Associazione familiari
vittime Heysel. Stamattina l’assemblea degli azionisti di Exor si
è aperta con un minuto di silenzio. Il presidente John Elkann ha
invitato ad un minuto di raccoglimento per le vittime della tragedia
accaduta 30 anni fa. Stasera la Juventus parteciperà insieme all’Associazione
fra i Familiari delle Vittime dell’Heysel alla Santa Messa, celebrata
alle 19.30 nella Chiesa della Gran Madre di Dio a Torino. Saranno
presenti i giocatori della Prima Squadra, lo staff tecnico e i dirigenti
della società. Alla cerimonia pubblica a Bruxelles, la società bianconera
sarà rappresentata dal presidente del J-Museum Paolo Garimberti
e da Sergio Brio. Alla cerimonia che si tiene a Liverpool sono presenti
Gianluca Pessotto e Massimo Bonini.
29 maggio 2015
Fonte: Lastampa.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
In memoria dei caduti
dell’Heysel
"Non morti, ma caduti dell’Heysel perché
fu una battaglia ed a morire furono degli innocenti. Una tragedia
che ha lasciato molti feriti, non solo nel corpo, ma nell’animo".
Con queste parole, rotte dalla commozione, Darwin Pastorin, l’illustre
giornalista molto vicino all’Associazione familiari vittime dell'Heysel,
ha rievocato la tragedia verificatasi poco prima dell’inizio della
finalissima di Coppa dei Campioni (ora Champions League) tra Juventus
e Liverpool, esattamente trent’anni fa, il 29 maggio del 1985. L’evento,
in memoria dei tragici fatti di Bruxelles e organizzato dall’associazione,
è stato ospitato nella Sala Viglione di Palazzo Lascaris, dove a
portare il saluto dell’Assemblea a nome dell’Ufficio di presidenza
e della Consulta regionale dei giovani, è stato Alessandro Benvenuto,
affinché "la memoria di quella tragedia venga preservata". Il momento
culminante dell’incontro si è avuto con la lettura da parte dell’attrice
Francesca Cassottana di una lettera scritta, al figlio, da Domenico
Laudadio (tra i presenti) per spiegare con parole accorate il susseguirsi
degli eventi di quella infausta giornata. Andrea Lorentini, presidente
dell’Associazione e figlio di Roberto, una delle vittime e nipote
di Otello, primo presidente dell’Associazione medesima, ha spiegato
come "la memoria non possa prescindere dal dovere della verità",
mentre Francesco Caremani - autore dell’unico libro riconosciuto
dalle vittime – "Heysel, le verità di una strage annunciata", ha
spiegato quanta strada ci sia ancora da fare nel mondo dello sport,
particolarmente in Italia, per evitare che simili fatti possano
ripetersi. È stato anche proiettato un breve video rievocativo.
Tra i moltissimi ospiti, componenti dell’associazione e non, che
hanno parlato delle varie sfaccettature della vicenda, importante
la partecipazione di Domenico Beccaria, presidente del "Museo del
Grande Torino", che ha affermato l’importanza degli sportivi nell’onorare
i morti di simili eventi senza distinzione di maglia anzi, nel cogliere
queste opportunità per andare oltre la memoria e contribuire, con
questi atteggiamenti, a costruire un ambiente del calcio più sano
ed etico. Già lo scorso anno vi fu una iniziativa comune "Settanta
angeli in un unico cielo" in memoria dei 31 morti di Superga (i
campioni del Grande Torino e gli accompagnatori) e dei 39 di Bruxelles
(dei quali 32 italiani, quasi tutti bianconeri, senza dimenticare
che ci furono ben 600 feriti a causa della furia degli Hooligans).
29 Maggio 2015
Fonte: Cr.piemonte.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
L’Heysel all’inizio
della storia
di Giacomo Raccis
Il 29 maggio 1985, esattamente trent’anni
fa, a Bruxelles si gioca la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus
e Liverpool: da una parte Platini, Boniek, Scirea, Tardelli; dall’altra
Rush, Dalglish, Grobbelaar. Juventus e Liverpool sono le due squadre
più forti d’Europa; già a gennaio si sono sfidate nella prima edizione
della Supercoppa Europea e ad affermarsi è stata la Juventus, con
una doppietta del centravanti polacco. Adesso sono arrivate a contendersi
nuovamente un titolo europeo, il più prestigioso. Anche per questo
una semplice partita diventa, sulla bocca, di tutti, "la partita
del secolo", o "le match dusiècle", come si sente dire per le strade
di Bruxelles. L’attesa nei giorni precedenti è molto sentita e non
priva di tensioni: si dice che un numero imprecisato di hooligans
inglesi arriveranno a Bruxelles senza biglietto e che qualcuno abbia
messo in circolazione centinaia di biglietti falsi, facendo confluire
sulla capitale belga un numero di tifosi enormemente maggiore rispetto
alla capienza dello stadio Heysel. Il quale, visto da Avenue des
Athlètes, non sembra nemmeno tanto adatto - per bellezza e per struttura
- a ospitare un evento sportivo di simile portata. A metà del pomeriggio,
quando le strade cominciano a riempirsi di giovani con sciarpe rosse
e bianconere, la situazione sembra comunque tranquilla. L’arrivo
in città dei tifosi inglesi non ha finora prodotto gli scontri che
si temevano. Ed è un bene, perché la polizia belga, schierata lungo
le strade e intorno allo stadio, a piedi e a cavallo, non ha per
niente l’aria di poter rintuzzare un’eventuale carica. Quello che
non succede fuori, però, succede dentro lo stadio: perché gli organizzatori
si sono premurati di mettere agli antipodi i sostenitori organizzati
di Liverpool e Juventus, ma hanno assegnato ai tifosi italiani non
appartenenti ai club un settore, lo Z, che si trova proprio di fianco
ai settori X e Y, occupati dagli hooligans. Proprio su quello spicchio
di gradinata, un’ora prima del fischio di inizio (stabilito per
le 20.15) si scatena l’inferno: gli inglesi si lanciano sulle fragili
reti divisorie e caricano i tifosi juventini - per lo più famiglie
- in una sorta di lotta di conquista. La situazione degenera quando,
sotto il peso della carica inglese, la tribuna crolla su se stessa,
schiacciando sotto il peso delle lastre di cemento centinaia di
corpi inermi. La polizia, schierata all’interno dello stadio, impedisce
ai tifosi di scappare in direzione del campo, aggravando ulteriormente
la situazione. D’altra parte, di lì a poco le squadre dovranno uscire
per il riscaldamento e non è possibile occupare il terreno di gioco.
La cosa più assurda di questa tragica serata, infatti, deve ancora
andare in scena, perché "l’assurdo è così banale che le squadre
entrano in campo". Per la televisione italiana, la voce di Bruno
Pizzul, mai così atona, sentenzia la messa in onda dell’osceno:
mentre i referti su morti e feriti vengono continuamente aggiornati,
mentre i sopravvissuti tempestano di telefonate le redazioni televisive
per chiedere di segnalare in diretta che loro sono vivi, la "partita
del secolo" viene giocata (qualcuno dirà per evitare di aggravare
ulteriormente la situazione già drammatica), come se nulla fosse.
Boniek viene atterrato in area da un difensore del Liverpool, Platini
si presenta sul dischetto di fronte a Grobbelaar, trasforma il rigore:
ed esulta, "come forse non aveva mai fatto in vita sua". Così scriveva Nicola Lagioia, qualche anno
fa, in "Riportando tutto a casa" (2009). Per il tramite del proprio
alter ego romanzesco, Lagioia provava a tradurre in parole tutto
il disagio che quell’episodio procurò nella sensibilità di un’intera
generazione europea:
"Non fu semplicemente una doccia fredda, non fu l’interruzione di
una festa. Eravamo in una dimensione nuova… come se il mondo esterno
e la nostra intimità si stessero schiantando, con il rischio di
diventare tutt’uno. […] Seguimmo la partita senza sapere cosa stessimo
guardando. Era la morte, ed era un gioco, ed era in qualche modo
uno show televisivo […] la prima notte in cui la morte e lo spettacolo
salirono i gradini di una scala planetaria per mano". Infatti, se
oggi un ragazzo di ventotto anni come me può raccontare con precisione
quanto avvenuto a Bruxelles il 29 maggio del 1985, è perché la tragedia
dell’Heysel fu ripresa in diretta dalle televisioni di tutta Europa.
Prima della Guerra del Golfo, prima dell’11 settembre, i fatti di
Bruxelles inaugurano una nuova epoca, quella della storia che, passando
attraverso il tubo catodico, arriva a sconquassare la vita di milioni
di telespettatori seduti comodamente nelle proprie case e trasformati,
improvvisamente e inaspettatamente, in testimoni della Storia. La
tragedia dell’Heysel passò rapidamente da episodio di cronaca a
fatto storico, insediandosi al centro dell’immaginario collettivo
e sancendo il passaggio a un nuovo paradigma dell’esperienza della
realtà. Più ancora che per chi rimase a casa, però, naturalmente
quell’episodio fu traumatizzante per chi vi si trovò coinvolto.
Ed è quel punto di vista che cercano tutti i tentativi di ricostruzione
letteraria della tragedia dell’Heysel, mossi dalla convinzione che
se una verità è custodita in quegli avvenimenti, senz’altro la si
potrà trovare nelle parole e negli occhi di chi vide tutto "dal
vivo" e senza la mediazione di uno schermo televisivo. Chi si cimenta
in questo tentativo, però, finisce per scontrarsi con una "indicibilità"
di fondo di quei fatti, che oppongono resistenza alla scrittura.
Accade così anche per il romanzo che arriva
oggi a commemorare i trent’anni dalla tragedia e che non a caso
s’intitola "Il giorno perduto". Perché l’impressione è proprio quella
di un evento che, nonostante l’eurovisione televisiva e nonostante
la mole di parole pronunciate nei giorni, nei mesi e negli anni
a venire a commento di quei fatti, abbia scavato al cuore comune
della coscienza europea uno spazio vuoto, un buco nero della memoria,
dove non è possibile tornare attraverso un esercizio della volontà,
ma solo per mezzo delle imponderabili connessioni date da coincidenze
o improvvise epifanie. Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto, gli
autori di questo Racconto di un viaggio all’Heysel, da poco portato
in libreria da 66thand2nd, ricostruiscono da una doppia prospettiva
i giorni carichi di attesa che precedettero la partita e le ore
allucinate in cui questa si svolse. Il giorno perduto si costruisce
così come un romanzo a due voci. Una è quella inglese di Cartwright,
che indossa i panni di Christy, soprannominato Monk per la sua aria
schiva, giovane di Liverpool che vive insieme alla nonna e a un
padre costretto a letto perché stroncato dall’amianto; Christy sbarca
il lunario facendo qualche lavoro di tanto in tanto, è in costante
emergenza economica e si sente sempre "ai margini della folla, un
po’ dentro e un po’ fuori", "tranne nei rari, felici pomeriggi in
cui si lascia trascinare dall’onda e dalle canzoni dello Spion Kop",
la curva dei tifosi del Liverpool. L’altra voce è quella che Favetto
presta a Domenico Dezzotti detto Mich e ai suoi amici Angelo, Charlie
e Miranda, ragazzi provenienti da Rueglia, un paesino in Valchiusella,
provincia di Torino, decisi ad affrontare l’impresa di un viaggio
fino a Bruxelles in R4 per andare a vedere i propri beniamini, e
anche per fare il tifo per Gianni Koetting, l’amico del campetto
arrivato al palcoscenico europeo. Christy e Mich sono i protagonisti
di due viaggi speculari e convergenti su Bruxelles, meta momentanea
su cui vengono proiettati desideri e aspettative. La partita di
calcio, le possibili formazioni, il risultato finale sono naturalmente
un sottofondo costante nell’intera settimana che precede l’incontro;
lo sono per Chris, che lungo la strada - a Londra, a Dover, a Calais
- non vede altro che giovani e adulti con le sciarpe rosse, agli
angoli delle strade, nelle macchine, alle fermate dei pullman; lo
sono per Mich, perché su quelli si concentrano le frizzanti conversazioni
dei quattro amici stipati nello spazio angusto della R4 e nelle
soste a Bardonecchia, nelle campagne francesi e a Parigi. Tutto
un continente, infatti, sfila davanti agli occhi dei due protagonisti
e l’impressione è davvero che l’Europa intera si stia mobilitando
per questa partita, per questo evento destinato a rimanere nella
memoria di tutti. A sovraccaricare ulteriormente il significato
del match, ci sono poi, come sempre, le attese personali dei due
personaggi, che investono la partita della "promessa di un altrove",
della responsabilità di un riscatto umano ed esistenziale che dia
una svolta alle loro vite. Smetterla con una vita grama, fatta di
umiliazioni e orizzonti corti e ritrovare la fiducia in se stesso,
prendere il destino sulle proprie spalle e portarlo altrove, foss’anche
a qualche centinaio di chilometri da casa: questo significa per
Chris il viaggio verso l’Heysel. Per Mich, invece, quel viaggio
dovrà essere la fine di un’esperienza, quella di un ragazzo sempre
troppo impegnato a interpretare al meglio l’idea che gli altri hanno
di lui, e l’inizio di una nuova vita, più libera, più sincera e
senz’altro più felice. Per Mich come per Christy, allora, "Questa
è l’avventura da cui ripartire".
I piani del destino però sono diversi e
non hanno nessun riguardo per queste attese; che magari verranno
anche soddisfatte, ma che si sconnetteranno definitivamente dal
ricordo di una partita di calcio. Perché anche se quella partita
si gioca, la memoria non ne conserva traccia. Al suo posto si impongono
sguardi disorientati, frasi smozzicate e, soprattutto, silenzio.
Arrivati al momento dell’evento tragico, infatti, le voci convergenti
di Cartwright e Favetto si interrompono e lasciano spazio al bianco
delle pagine. Di quello che è accaduto, le parole non servono a
dire altro che il dato: "Trentadue italiani, quattro belgi, due
francesi, un nordirlandese. E seicento feriti". L’essenziale è l’unica
cosa che si può opporre all’oscenità pornografica delle immagini
che ritraggono i corpi rimossi con barelle improvvisate o i giocatori
esultanti sul campo, o alle parole insensate di chi in diretta prova
a "spiegare" quello che sta accadendo. Il resto dev’essere lasciato
vuoto, per lasciare spazio alla commozione, alla riflessione, alla
constatazione che in quel frangente qualcosa, delle normali strutture
di interpretazione della realtà, ha fatto difetto, lasciando gli
uomini incapaci di comprendere quanto sta accadendo. Qualcosa di analogo all’esperienza intrecciata
di Christy e Mich è stato messo in narrazione da Laurent Mauvignier
in un romanzo ancora non tradotto in Italia, Dans la foule (2006):
a prendere la parola qui sono quattro personaggi tutti direttamente
coinvolti nell’episodio del crollo della tribuna del settore Z dell’Heysel.
Non c’è voce narrante a mediare le loro parole: tutto quello che
si può conoscere dei fatti affiora dalle loro voci e dai loro pensieri,
riportati in presa diretta da un narratore stenografo che rinuncia
a mettere insieme, a collegare i fatti, a costruire impalcature
di senso. Non si può trovare un senso in quello che è accaduto,
non si può cercare di farsene una ragione. E infatti i quattro protagonisti
di Dans la foule rimarranno tutti, in maniere diverse, marchiati
da quanto hanno vissuto. Il trauma lavorerà dentro, scavando un
buco nero - un altro - che impedirà loro di elaborare il lutto.
Il silenzio che nel Giorno perduto resta impresso nel bianco delle
pagine centrali, quelle corrispondenti agli attimi della tragedia,
in Dans la foule si riempie di parole; parole che però restano tutte
al di qua della soglia della comunicazione, rimangono mute, inespresse,
rinunciando ad attivare qualsiasi processo di condivisione di esperienza.
Tutto resta sottinteso negli sguardi, nei movimenti, nei silenzi;
a fare difetto, infatti, non è il contenuto della comunicazione,
bensì proprio le parole, inadeguate a dire quello che è stato visto
e provato. Servirebbe qualcosa di impossibile, parole che "prendano
il posto dei morti rimasti sul campo", come se si trattasse di una
guerra e non di una partita di calcio. È così che l’evento scava
un solco tra i "sopravvissuti" e nulla riesce più a colmarlo. Resta,
a coprire tutto, il velo di un oblio che basterebbe un’intermittenza
del cuore a squarciare, perché l’oblio è "come un vestito abbandonato
in mezzo allo stadio e la cui assenza ci sarà ricordata ogni giorno,
ogni minuto, reclamando che gli si opponga un silenzio totale".
Di fronte a questo muro di silenzio l’unica soluzione, comune al
libro di Mauvignier e a quello di Favetto e Cartwright, è la moltiplicazione
degli sguardi e delle voci. Riportare da più punti di vista, attraverso
differenti sensibilità, tutto quello che c’è prima e tutto quello
che c’è dopo l’evento, per provare a inserirlo in una mappa emotiva
ed esperienziale che se non può dargli senso, quantomeno può fornirgli
profondità. La polifonia, inoltre, riesce a sfaccettare la realtà
- pur riproducendola sotto le spoglie della finzione - e affranca
così la narrazione degli eventi - di quegli eventi che si possono
vedere e rivedere su Youtube, di cui si sente parlare nei giorni
delle ricorrenze e che tutti ormai conoscono anche nel dettaglio
- dal racconto mediatico, dalle interpretazioni vulgate, dalla commozione
preconfezionata. Il sismografo della letteratura trova così, ancora
una volta, lo spazio della propria necessità e lavora con la realtà
non per cercarne un’impossibile verità, ma per riposizionarne il
senso nel quadro di una magnifica e spaventosa complessità.
29 maggio 2015
Fonte: Minimaetmoralia.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
L’Heysel,
trent’anni dopo. Quando uccisero l’anima
di Gianluca Barni
PISTOIA - Furono sufficienti pochi minuti
d’immagini televisive, di gente in fuga dalla morte di corpi accatastati
di urla strazianti e gesta bestiali ed eroiche, per farci crescere
di anni. Per farci crescere male. Il 29 maggio 1985, in occasione
della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool,
la tragedia del settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles ci consegnò
39 angeli, volati in Cielo per la furia cieca degli hooligan, e
un pallone sfregiato per sempre. Doveva essere una partita di calcio,
fu il punto di non ritorno. Da allora sono trascorsi 30 anni e ogni
tanto verrebbe da pensare, invano. Sì, perché la lezione che ne
scaturì è stata compresa da pochi, pochissimi. Il football è migliorato
grazie a indomiti sognatori (e ci vengono subito in mente Otello
Lorentini e l’associazione "Fra i familiari delle vittime dell’Heysel":
l’Uefa fu poi riconosciuta responsabile dell’organizzazione di eventi
sportivi), ma è anche peggiorato, perché l’uomo è il peggior nemico
di se stesso e ha continuato a farsi del male. A uccidersi per veder
rotolare una sfera. Non assistemmo a una gara sportiva, trent’anni
fa, ma alla follia omicida, all’overdose da pallone. Fummo incollati
al tubo catodico dal sangue di innocenti arrivati in Belgio per
fare festa. Come essere catapultati all’Inferno, per vedere l’effetto
che fa. Fu disputata una farsa, una partita falsa per timore di
dilatare all’infinito la carneficina. Fu decretato un penalty per
un fallo avvenuto alcuni metri fuori area, quasi a voler sporcare
ulteriormente la recita. Qualcuno alla fine ebbe il coraggio di
alzare una Coppa che non avrebbe dovuto essere riconsegnata soltanto
perché non doveva essere neppure sollevata. Bruno Pizzul, il telecronista
Rai dell’epoca, fu immenso nel suo e nel nostro dolore, strazianti.
Cercò di limitare il racconto, di non adoperare iperboli, di non
farsi notare, come gli arbitri bravi, bravi davvero. Ma anche in
questo caso, una telecronaca che andrebbe studiata - e che all’epoca
fu persino contestata - non ha fatto proseliti, perché trent’anni
dopo non si fa altro che gridare, sbraitare, mostrarsi invasati.
Invasati come coloro che, superbi, pensarono di potersi permettere
di togliere la vita altrui. In un attimo, per gioco. Iddio possa
perdonarli. Noi, a distanza di tre decenni, non ci riusciamo. Vorremmo
e non ce la facciamo. Lo desidereremmo, ma poi… Un’immagine e la
morte dentro: l’anima.
29 maggio 2015
Fonte: Lineefuture.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, la tragedia immane che da 30 anni nutre gli idioti
di Tony Damascelli
Nella finale di Coppa Campioni
morirono schiacciati dagli hooligans 39 tifosi della Juve. Da quel
giorno gli ultrà delle curve ne insultano spesso la memoria nei
loro beceri cori. SI GIOCÒ LO STESSO. La Juve batté il Liverpool.
L’arbitro sapeva dei morti, diede un rigore inesistente. PLATINI
CHOCCATO. Il trofeo fu posto davanti alla curva. Le Roi iniziò a
pensare al ritiro.
Pagine mille e mille racconti, mille le
memorie, mille i fotogrammi. Tutti per una notte sola, quella notte
maledetta che tutti vorremmo cancellare, come un incubo che ti segue
e insegue e dal quale non riesci e non puoi liberarti. Perché il
cimitero dell'Heysel non ha fiori, non ha tombe, non ha sepolcri
ma resta un luogo che ha voluto cambiare il nome per la vergogna,
nel tentativo vigliacco di fuggire alla verità. Lo hanno chiamato
Baldovino, un re, pure lui scomparso ma otto anni dopo, per un colpo
al cuore. Il regno del Belgio, quella notte di maggio, non aveva
castelli e fiabe ma soltanto un antro di voci urlanti e di lacrime,
di strazio. Il football ? Che cosa c'entrava e che cosa può c'entrare
il gioco del pallone ? Perché si può e si deve morire per una partita
di calcio ? L'elenco dei morti, trentanove, è un colpo di frusta
sul nostro corpo di vivi e sopravvissuti, Z è l'ultima lettera dell'alfabeto,
fu l'ultimo respiro per quella macchia bianca e nera che aveva pagato
cinquantamila lire un biglietto per stare in piedi, ammassato, compresso,
in curva. Ma c'era la Juventus, c'era la finale, c'era il sogno
di sempre e altre partite avevano visto le stesse immagini, come
a Basilea l'anno primo, sempre una finale, di coppa delle coppe,
sempre curve e gradinate di folla ma la sfida era contro il Porto.
I portoghesi e non gli inglesi, nessun hooligano, nessuna lama di
coltello o mazza di ferro a picchiare contro la speranza e la passione,
soltanto il tifo, la gioia e la sofferenza. Il paese piatto di Jacques
Brel quella sera a Bruxelles era tragicamente vero e grigio, "où
des diables en pierre décrochent des nuages", gli angeli in pietra
presero a precipitare non dalle nuvole ma dal settore Y, era un
branco di lupi decisi a vendicare le botte di Roma, buscate l'anno
prima, negli scontri della finale contro la squadra di Falcao. Accadde,
dunque, quello che tutti non vorremmo più rivedere, rileggere, riascoltare,
la morte arrivò e qualcuno ebbe anche il tempo e la sensazione di
intuirla, di sentirne l'odore fetido, il suo colore buio, bambini
e adulti, gente di ogni terra, mentre, improvviso, fu il fragore
cupo di mattoni che si sbriciolavano e un muro che crollava, lo
schianto di vite ormai disperate, soffocate. Uno, due, tre, aumenta
la conta tremenda, aumentavano i corpi fermi, giacenti, senza respiro,
gli occhi fuori dalle orbite, altri spenti. E sangue. Lo stadio
intorno, la partita da giocare perché quelli dell'Uefa non avevano
spazio, tempo, testa, cuore per capire, scegliere, decidere. L'alveare
era ormai impazzito, poliziotti e medici, giornalisti e calciatori,
gendarmi e cavalli, manganelli e infermieri, onde di un mare nerissimo.
Juventus e Liverpool giocarono infine la partita, segnò Michel Platini,
su un calcio di rigore inesistente che l'arbitro André Daina, svizzero,
concesse forse per rimediare al dramma dei tifosi juventini morti,
di cui lui, come tutta l'Uefa, sapeva. Platini festeggiò con il
braccio alzato come un fantasma di un altro pianeta. "Quando l'acrobata
cade entrano i clowns". Furono le sue parole, incomprese e sfruttate.
Finita la partita prese coscienza della tragedia e del proprio errore,
fu la "sua" morte professionale, fu l'inizio di pensieri diversi
che lo indussero a non ritornare più all'Heysel, in quella terra,
in quella città, con il fastidio di un peccato commesso, di un'offesa
alla memoria di chi era venuto in quel luogo per vedere giocare
proprio lui, Michel Platini, le roi, per fare festa e convivere
una notte di gioia. Fu l'inizio del suo pensiero al ritiro anticipato
dalla carriera. La coppa venne deposta davanti a quella curva abbandonata
dal mondo. Trent'anni sono un tempo lunghissimo e, assieme, breve,
ferocemente breve quando il ricordo è così aspro, quando la memoria
va alla morte, al dolore che non può avere spiegazione. Trent'anni
non sono ancora serviti alla ciurma di idioti, detti tifosi ma meglio
sarebbe dire e scrivere Jene, che di quei morti non hanno ricordo
se non per l'insulto, lo sberleffo, il ghigno nelle loro curve di
falsa passione, discariche di menti drogate. Il calcio cerca di
correre più veloce della vita e non riesce a fermarsi, per riflettere,
per rispettare il silenzio di chi non c'è più. E che, per lui, soltanto
per lui, ha finito la propria esistenza, in una sera di maggio.
Oggi troverà appena il tempo per la commozione. Domani tornerà a
urlare il proprio volgare disprezzo.
29 maggio 2015
Fonte: Ilgiornale.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
La partita infinita
delle famiglie
"La memoria si allena"
di Giulia Zonca
Processi chiusi, resiste l’associazione
delle vittime. "Ma ciascuno di noi ha il proprio pezzo di storia".
Per chi ha perso qualcuno dentro lo stadio
dell’Heysel ogni 29 maggio arriva sempre nello stesso modo. Non
importa che siano i 30 anni, i 29 o i 18, che la messa sia privata
o condivisa, è sempre una spia che si accende, un dolore latente
e un’emozione, il ricordo che si rinnova e il bisogno di non dimenticare:
"La memoria si allena", è la semplice perfetta frase che ripetono
tutti. Molte famiglie lo chiamano "giorno del raccoglimento", semplice,
spoglio, un momento intimo impossibile da spiegare, non ha bisogno
di rituali, si muove da solo con il suo carico: tutto si amplifica
perché l’anniversario è per sua natura collettivo: "Il cuore torna
alla tragedia e per fortuna la testa ti porta via". I parenti difendono
le immagini private, quelle che salvano perché mantengono il calore
a dispetto dell’assenza. C’è un filo conduttore pubblico che è l’associazione,
passata in gestione già alla seconda generazione, e poi c’è un grumo
di ricordi, personali e protetti che non vengono scambiati neanche
tra chi ha in comune una notte d’orrore.
Le testimonianze
Andrea Lorentini oggi è il presidente dell’associazione,
l’ha ereditata dal nonno che l’aveva messa in piedi per avere giustizia.
Ora che il processo è chiuso resta la volontà di tramandare, di
raccontare la verità perché nulla venga dimenticato, perché le responsabilità
non sbiadiscano. Poi ci sono le fitte, come la voce squillante di
Andrea che si abbassa quando parla del padre Roberto, medico e medaglia
d’argento al valore civile, deceduto mentre cercava di salvare un
bambino. Di fare il suo lavoro: "Non ho alcun ricordo di lui, ero
troppo piccolo ma sono cresciuto con il suo esempio. Ci ha lasciato
il suo grande altruismo". Andrea fa il giornalista sportivo, non
ha chiuso il calcio dentro una scatola nera "anzi sono convinto
che possa esprimere dei valori, non lo associo a quell’inferno".
Sembra strano ma non ha mai scambiato il suo pezzo di storia con
la famiglia di chi la completa, con la sorella e la mamma di Andrea
Casula, la vittima più giovane, il bimbo che il padre di Andrea
cercava di rianimare all’Heysel.
La memoria collettiva
La sorella del piccolo Andrea, Emanuela,
oggi è vicepresidente ma Lorentini trova normale che "ognuno tenga
per sé il proprio pezzo di famiglia". La storia collettiva è finita
sul prato insanguinato, non c’è altro da dire. Emanuela un giorno
ha chiesto alla madre di smontare la cameretta totem del fratello
tenuta uguale a se stessa nonostante gli anni. È successo tanto
tempo fa, Emanuela aveva già capito che la memoria si allena in
un altro modo. Come sottolinea Fabrizio Landini che in quel macello
ha perso uno zio: "La memoria non va riesumata ma protetta, coltivata".
Quando Giovacchino Landini era in vita, la famiglia gestiva una
trattoria a Torino, ora si sono trasferiti in Liguria, tornano ogni
anno per la messa: "Mio zio si sapeva godere la vita, peccato che
non abbia potuto farlo a lungo come meritava. Io ero e sono rimasto
tifoso della Juve, lo zio era così innamorato di quella squadra
che non mi sono mai immaginato un tradimento. Non vado allo stadio,
non per paura per...". Le parole mancano, forse quella giusta è
distanza. Quel filtro quasi impossibile tra il dolore e il ricordo.
Per restare in equilibrio bisogna allenare la memoria, senza mescolare
l’esempio da tramandare con le storie da custodire.
29 maggio 2015
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
La
testimonianza. Lorentini, figlio di una vittima
"La Juve ha ancora paura della
strage"
di Andrea Scanzi
LE COLPE DELL’UEFA. La società
teme Platini, il presidente che allora esultò. Come mi hanno raccontato
giornalisti che lo conoscono bene, non gradisce che si parli dell’Heysel,
mai.
La sintesi è semplice: per 25 anni la Juventus
non ha fatto nulla, e negli ultimi cinque abbiamo ottenuto due messe
e un angolo nel museo del nuovo stadio dedicato alle vittime dell’Heysel.
Un po’ poco". Andrea Lorentini ha 33 anni, uno in più di quelli
che aveva il padre Roberto quando morì trent’anni fa all’Heysel,
prima della finale di Coppa Campioni Juventus-Liverpool, 29 maggio
1985. "Io avevo tre anni, mio fratello un anno e mezzo. Mio padre
era medico. Settore Z, quello famigerato, quello del muro crollato.
Era riuscito a uscire dallo stadio e a mettersi in salvo. Poi, una
volta fuori, ha visto un ragazzo a terra ferito ed è rientrato dentro
lo stadio per soccorrerlo. Mentre gli stava facendo la respirazione
bocca a bocca, è stato travolto da una seconda ondata di persone.
Non si è più rialzato". Dallo scorso gennaio Andrea, giornalista
aretino, ha ricostituito l’Associazione familiari vittime dell’Heysel.
NE HA EREDITATO la guida che era stata del nonno paterno Otello,
scomparso un anno fa. "Mio nonno ha dedicato larga parte della sua
vita a dare giustizia a mio padre e alle vittime, seguendo all’estero
per sei anni e mezzo il processo che ha portato alla condanna dell’Uefa".
A gennaio Lorentini scrive ad Andrea Agnelli. Il presidente risponde
con una email, lo invita in sede. L’incontro dura un’ora e sembra
andare tutto bene. "Per la prima volta la Juventus ascoltava i familiari
delle vittime dell’Heysel. Con Boniperti non era mai successo, il
nulla assoluto. Lo stesso con la Triade. Con Agnelli avevamo pianificato
due cose per il trentennale: una messa e qualcosa che sancisse una
memoria finalmente condivisa. Un monologo, da recitare allo Juventus
Stadium, partendo da una lettera scritta da Domenico Laudadio, membro
della nostra associazione". La messa stasera ci sarà (ore 19.30),
il monologo no. "Credevamo che Agnelli e questa Juve fossero pronti.
Invece, non appena abbiamo alzato l’asticella, si sono defilati".
Il nervo scoperto resta ancora il ruolo dell’Uefa. "La Juve voleva
addebitare ogni colpa agli hooligan, ma è un falso storico. La polizia
belga sbagliò tutto, c’erano solo quattro poliziotti a controllare
gli spalti e l’esercito arrivò a strage già avvenuta. Ancora più
colpevole fu l’Uefa, che permise che il Settore Z (destinato ai
tifosi neutrali) fosse concesso agli italiani e che scelse uno stadio
fatiscente. Optò per l’Heysel di Bruxelles perché era il più grande
in Belgio. L’80% dell’incasso andava all’Uefa, che non aveva alcuna
responsabilità sugli eventi da lei organizzata. È cambiato tutto
solo con la sentenza del 1991, che ha ritenuto l’Uefa corresponsabile
del disastro". Perché, nel 2015, la Juve sarebbe ancora così omertosa
? "Per Boniperti quella fu una vera vittoria sportiva. Se racconti
interamente la storia, offuschi i ‘meriti’ di società e squadra.
Non dimentico, e la cosa continua a farmi male, che tanti calciatori
esultarono dopo la partita e addirittura il giorno dopo scendendo
dall’aereo. Con Agnelli poco è cambiato". C’è dell’altro. "Ricordare
le responsabilità dell’Uefa significherebbe disturbare il manovratore.
ECCO PERCHÉ anche le altre società e gran parte dei giornalisti
hanno fatto pochissimo. C’è un’ignoranza incredibile attorno all’Heysel.
Lo capisci anche dai cori vergognosi che ancora oggi si levano negli
stadi. Insultano "39 juventini morti" senza neanche sapere che non
tutte le vittime erano italiane e che, pure tra i connazionali,
non tutti erano juventini. Sono morti anche tre interisti, per dire.
E poi c’è Platini". All’Heysel fu tra i più esultanti. Oggi è presidente
Uefa. "La Juve non vuole urtarlo. Come mi hanno raccontato giornalisti
che lo conoscono bene, Platini non gradisce che si parli di Heysel.
In alcun modo". Niente monologo, dunque. "La versione propostaci
dalla Juventus era troppo edulcorata e non abbiamo dato l’avallo.
A noi interessa la storia senza censure, quella che racconto nelle
scuole". Oggi, però, a Torino (ore 15.30, Consiglio regionale) ci
sarà comunque un evento organizzato dall’Associazione Vittime. "Riprenderemo
anche un piccolo passaggio del monologo. Poi un dibattito, la messa
e alle 22.30 parteciperò allo speciale Heysel su Rai Sport. Meglio
di niente, ma l’amarezza resta. Speravamo, con Agnelli, di aprire
una pagina nuova. Non è stato così".
29 maggio 1985
Fonte: il Fatto Quotidiano
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Sotto
la lente - Heysel, una ferita sempre aperta
di Carmen Vanetti
Più che un articolo questo di oggi è un
ricordo, un ricordo di 39 angeli sacrificati sull’altare della bestialità
(dis)umana (che raramente perde l’occasione di dar fulgida prova
di sé). Qualsiasi argomento alla ribalta della cronaca, qualsiasi
scandalo, qualsiasi polemica devono oggi cedere il passo al ricordo
di questa tragedia, che ci costringe, a 30 anni di distanza, a "renovare
infandum dolorem", una sofferenza così indicibile che mai potrà
essere cancellata, o anche solo lenita. Trentanove morti (nella
stragrande maggioranza tifosi bianconeri, ma le tragedie non hanno
colore), e circa 600 feriti: quella che avrebbe dovuto essere una
splendida serata di calcio, la finale di Champions League 1985,
divenne in realtà una delle pagine più nere del calcio, proprio
perché il disastro non fu una fatalità, ma frutto di gravi colpe
a tutti i livelli. Da chi aveva messo a stretto contatto i pericolosi
hooligans britannici (nei settori X e Y) e
gruppi di tifosi juventini (l’ormai tristemente noto settore
Z), all’Uefa che aveva permesso che una finale di tale portata si
svolgesse in uno stadio fatiscente, un decrepito relitto palesemente
inadeguato sotto il profilo della sicurezza, ai responsabili
dell’ordine pubblico che avevano affidato la sorveglianza a forze
di polizia troppo esigue e incapaci di far fronte alla situazione,
tanto che risultarono di ostacolo anziché di aiuto a quanti cercavano
salvezza. La ricerca delle responsabilità e dei colpevoli (gli sconsiderati
organizzatori ricevettero praticamente solo un buffetto) e la squalifica
di cinque anni dalle competizioni internazionali per i club inglesi
non sono nemmeno un cerottino sulla ferita, anzi gettano quasi più
sale perché lasciano chiaramente intendere che la tragedia poteva,
anzi doveva, essere evitata. Così come lasciano il tempo che trovano
le polemiche sull’opportunità di disputare comunque la partita e
consegnare la coppa: quello che resta di quella sera sono solo le
39 bare. La partita, intesa come evento sportivo, era finita ancor
prima di iniziare. Purtroppo pare che la lezione non sia stata appresa.
Non solo il tifo becero e disumano (quello che plaude all’Heysel
e ad altre tragedie come la morte di Ale&Ricky) alligna sempre
più come una mala erba; c’è molto di più, perché ormai i nostri
stadi non possono più essere visti come luoghi sicuri, in balia
come sono (stadi, ma anche zone limitrofe) di
gruppi violenti che nulla hanno a che fare con lo sport.
Il calcio (tutto lo sport in genere) è vita, gioia, voglia di vivere:
non sia necessario riflettere su altre tragedie e piangere altri
morti per riportarlo alla sua vera natura.
29 maggio 2015
Fonte: Tuttojuve.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, un minuto di silenzio a 30 anni dalla tragedia
Il ricordo di quella finale maledetta
giocata Il 29 maggio del 1985, in cui persero la vita 39 tifosi
della Juventus.
Un giorno tremendo, in cui una partita
di calcio si è trasformata in un incubo. Blatter ha voluto ricordare
al congresso Fifa la ricorrenza della strage dell'Heysel, osservando
un minuto di raccoglimento: "Trent'anni fa, in questo giorno, si
è svolta una terribile tragedia. Tante persone sono morte in occasione
di una partita di calcio. Vi chiedo di alzarvi in memoria delle
persone che hanno perso la vita all'Heysel". Michel Platini, che
ha segnato il gol della vittoria della Juve contro il Liverpool,
in quel triste giorno che vide la morte di 39 persone, era accanto
al presidente, nella sua posizione di vice-presidente Fifa. Sul posto. Un minuto di silenzio è stato
osservato di fronte alla stele che allo stadio Heysel di Bruxelles
ricorda le 39 vittime del dramma di 30 anni fa. In una cerimonia
alla presenza degli ambasciatori d'Italia, Alfredo Bastianelli,
e di Gran Bretagna, del sindaco di Bruxelles, del presidente del
museo della Juve, Paolo Garimberti, e dell'ex juventino Sergio Brio,
sono state posate corone di fiori e sono stati liberati in cielo
39 palloncini bianchi ciascuno con il nome di una delle vittime,
32 delle quali italiane. Il racconto di Brio. "Ho ricordi bruttissimi.
Una serata tragica. Io devo ricordare le famiglie che hanno perso
i loro cari e questa data non si dovrà scordare mai", così l'ex
giocatore della Juventus Brio davanti alla tribuna dello stadio
Heysel, dove 30 anni fa in occasione della Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool
ci furono 39 morti e 600 feriti. "La Juve fece di tutto per poter
sistemare le cose - spiega - ma non ci riuscì. A tutt'oggi questa
data del 29 maggio non ha insegnato niente al calcio". Brio spiega
che i giocatori dal campo non si erano accorti di niente perché
stavano facendo il riscaldamento. "Abbiamo avuto l'impressione che
stesse accadendo qualcosa - dice - ma non sapevamo di alcun morto".
"Boniperti non voleva giocare. Ma la Uefa lo impose - ricorda -
perché altrimenti la Juventus avrebbe perso 3-0 ed eventuali morti
negli scontri, casomai ci fossero stati, se li sarebbe dovuti assumere
lui. A quel punto Boniperti decise di giocare. Venne nello spogliatoio
e ci disse, lo ricordo come se fosse oggi, c'è stato un morto tra
i nostri tifosi. Onoriamolo. Dobbiamo vincere per lui. La partita
si giocherà. Fate la vostra partita". L'incidente. Sono trascorsi 30 anni dalla
tragedia dell'Heysel: la notte più buia del calcio mondiale. I tifosi
juventini - 32 erano italiani - andati a Bruxelles con la speranza
di festeggiare la prima Coppa dei Campioni bianconera trovarono
una morte orribile nel settore Z dello stadio, travolti dalla furia
degli hooligans inglesi ubriachi, schiacciati contro le balaustre
o precipitati dalle gradinate, poco prima che iniziasse la finale
Juve-Liverpool. Morti, però, anche per l'inadeguatezza dell'Heysel
e dei servizi di sicurezza ed ordine pubblico. Il ricordo. Un ricordo ancora oggi terribile
per i parenti delle vittime, per i sopravvissuti, per chi aveva
seguito le cariche degli hooligans, il caos e la disperazione dei
tifosi che cercavano scampo dagli altri settori dell'Heysel o in
tv. Una "Coppa maledetta" che la Juve aveva inseguito per 30 anni,
sfuggita già due volte, nel '73 a Belgrado, dieci anni dopo ad Atene.
Un trofeo che oggi molti protagonisti dell'epoca non sentono come
un trofeo conquistato, ricordando che in pratica furono obbligati
a giocare. Ma ci sono anche tifosi juventini che, al contrario,
la considerano un premio alla memoria delle 39 vittime, allineate
nelle stanze dello stadio mentre sul campo si consumava la partita
più surreale nella storia del calcio europeo, vinta dalla Juventus
con un calcio di rigore segnato da Platini. Una partita giocata
con un intero spicchio dell'Heysel, senza più tifosi, transennato
davanti alle macerie ed alle cose perse dai tifosi nella calca. La decisione di giocare. All'Heysel il
club bianconero aveva consegnato al delegato Uefa Gunther Schneider
la nota ufficiale spiegando perché aveva detto sì alla richiesta
di giocare comunque: "La Juve accetta disciplinatamente, anche se
con l'animo pieno di angoscia, la decisione dell'Uefa, comunicata
al nostro presidente, di giocare la partita per motivi di ordine
pubblico". Il presidente di allora, Giampiero Boniperti, non ha
mai voluto riparlare di quella finale così dolorosa. Neppure per
l'attuale massimo dirigente bianconero, Andrea Agnelli, è facile
tornare sull'argomento: "Ho sempre fatto fatica a sentire mia quella
Coppa - ha detto in occasione del venticinquennale dell’Heysel -
anche se i giocatori mi hanno sempre detto che fu partita vera".
E Marco Tardelli, in un'intervista alla Rai, qualche anno fa ha
spiegato e chiesto scusa: "Era impossibile rifiutarsi di giocare,
ma non dovevamo andare a festeggiare, l'abbiamo fatto e sinceramente
chiedo scusa".
La cerimonia. Le vittime dell'Heysel saranno
ricordate a Bruxelles con una cerimonia pubblica e a Torino in una
messa alla Chiesa della Gran Madre di Dio, alle 19,30. "La giornata
del 29 maggio - sottolinea la società bianconera - sarà dedicata
al ricordo da parte di tutti i tesserati Juventus. Per troppi anni
quelle 39 vittime - rimarca sul sito ufficiale - sono state oggetto
di scherno finalizzato unicamente ad attaccare i colori bianconeri:
un'azione vile che non dovrebbe trovare cittadinanza in nessuno
stadio ed in nessun dibattito sportivo. Questo anniversario dovrà
essere utile anche alla riflessione per evitare che simili comportamenti
si ripetano".
29 maggio 2015
Fonte: Globalist.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Trent’anni fa la
tragedia dell’Heysel
di Massimo Righi
Oggi ricorre il trentennale dell’anniversario
della strage dell’Heysel, dove persero la vita 39 persone prima
della finale di Coppa dei Campioni. Nel ricordo dei fatti, emerge
l’impegno di chi non si è mai dato per vinto nella ricerca della
verità.
Sono passati trent’anni da quella che si
può considerare una delle pagine più nere della storia del calcio
italiano ed europeo, ovvero la strage dell’Heysel dove il 29 maggio
del 1985 persero la vita 39 persone poco prima della finale di Coppa
dei Campioni giocata a Bruxelles fra Liverpool e Juventus. Sono
stati anni di processi, di accuse, di ricerca delle responsabilità
per una tragedia annunciata data l’organizzazione approssimativa
dell’evento e alla scelta dello stadio, alquanto fatiscente, crollato
sotto il peso delle persone e dalla loro paura durante l’invasione
degli hooligans inglesi nel famigerato settore "Z". Ad oggi sono
ancora troppi gli interrogativi che coprono la verità e che lasciano
impuniti i responsabili di quanto accaduto, moltiplicando il dolore
e l’amarezza di chi in 30 anni ha combattuto per la giustizia e
la verità.
La strage - In occasione della finale di
Coppa dei Campioni fra Liverpool e Juventus, giocata a Bruxelles
nello stadio Heysel (ora Re Baldovino), accadde un fatto di cronaca
nera fra i più gravi della storia del calcio. Prima del fischio
d’inizio, a causa dell’invasione degli hooligans inglesi nel settore
adiacente al loro, denominato Z e occupato per lo più da tifosi
della Juventus, i supporters iniziarono a scappare impauriti. Il
fuggi-fuggi portò la gente ad ammassarsi sul muro opposto, il quale
cedette sotto il peso della calca, provocando la morte di 39 persone,
di cui 32 italiane. Gran parte dei presenti rimasero schiacciati
e calpestati nella corsa verso una via d’uscita, per molti rappresentata
da un varco aperto verso il campo da gioco. Ciò nonostante, l’incontro
si disputò ugualmente dopo quasi un’ora e mezzo di rinvio: la decisione
fu presa dalle forze dell’ordine belghe e dai dirigenti UEFA, per
evitare ulteriori tensioni. La follia degli hooligans inglesi che
volevano "prendere la curva", l’impreparazione delle autorità belghe
e della polizia locale che non si era resa conto della gravità della
situazione e aveva iniziato a caricare i tifosi che invadevano il
campo per mettersi in salvo, oltre all’inadeguatezza della struttura
e alla paura diffusa, furono le cause determinanti della tragedia.
Ma non va sottovalutata la vendita scriteriata e selvaggia dei tagliandi
del settore Z ai tifosi italiani, i quali furono sistemati in quella
parte dello stadio per accontentare l’ingente richiesta di biglietti.
In questo modo i tifosi furono sistemati in prossimità degli hooligans,
mettendo a repentaglio l’incolumità degli stessi i quali sarebbero
dovuti essere sistemati nella curva opposta, dov’era presente la
maggior parte dei fans juventini.
L’impegno di Lorentini e Caremani - Nel
trentennale da quella immane tragedia, sono stati in tanti ad impegnarsi
affinché la verità venisse a galla, combattendo per questa. Il neo
presidente dell’"Associazione Familiari delle vittime dell’Heysel"
Andrea Lorentini, che all’Heysel ha perso il padre Roberto, giovane
medico aretino medaglia d’argento al valor civile, morto nel tentativo
di salvare un connazionale, si è posto l’obiettivo di difendere
la memoria della tragedia e di chi quel giorno perse la vita, ricoprendo
il ruolo che aveva il nonno Otello all’interno dell’associazione
da esso fondata. Anche il giornalista aretino Francesco Caremani,
si è speso nella ricerca della verità sulla triste vicenda dell’Heysel
che ancora oggi richiede chiarezza. Il suo libro "Heysel, le verità
di una strage annunciata", è un contributo di grande valore per
non dimenticare e continuare a difendere la dignità di chi quel
giorno è scomparso senza che fosse fatta piena luce sui fatti.
29 maggio 2015
Fonte: Ilpallonegonfiato.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Trent'anni passati inutilmente
Heysel, la strage rimossa
di Gianni Cerasuolo
Nella notte del 29 maggio 1985
si consumò un dramma che ancora dà fastidio. La vera Coppa andrebbe
data al cinismo, al disimpegno e soprattutto al mancato rispetto
per il dolore.
Il massacro dell’Heysel viene "commemorato"
ogni domenica nei nostri stadi così: "Ti ricordi lo stadio Heysel
/ le bandiere del Liverpool / diecimila sono partiti / 39 non tornan
più…". Lo cantano un po’ di canaglie della curva Fiesole, a Firenze,
base musicale il vecchio brano di Marcella Bella, Montagne verdi.
Anche quelli del Torino si esibiscono su queste note. A Roma, invece,
molti farabutti della sponda giallorossa sono più rockettari e preferiscono
Vasco di Cosa succede in città ? E allora si attacca con: "Cosa
succede? / Cosa succede a Bruxelles? / Cosa succede all’Heysel?
/ Guarda qui, guarda lì / son trentanove e son tutti sottoterra…". La carneficina dello stadio Heysel (accadde
a Bruxelles 30 anni fa, il 29 maggio 1985, finale di Coppa Campioni
tra Juventus e Liverpool, 39 morti, 32 italiani) offre da sempre
spunti per l’idiozia da stadio. Una strage rimossa, un ricordo che
infastidisce come succede per altre storie drammatiche collettive
che hanno segnato il nostro paese. Come se le vittime della "partita
della morte" appartenessero solo ad un tifoseria, al club più amato
e detestato. E non a tutta la nazione. Sono andato a guardare le
regioni di provenienza dei 32 morti ed ho contato: 7 venivano dalla
Lombardia, 4 dal Piemonte e dalla Toscana, 3 dal Veneto e dalla
Sardegna, 2 dall’Abruzzo, dalla Sicilia e dalla Puglia e 1 rispettivamente
dal Friuli, dall’Umbria, dal Lazio, dalla Liguria e dall’Emilia
(le altre 7 vittime: 3 erano residenti in Belgio, 3 in Francia e
1 era irlandese). Alcuni erano originari del Sud, come Luciano Rocco
Papaluca che veniva da Grotteria, in provincia di Reggio Calabria.
Un paio forse non erano nemmeno tifosi juventini ma interisti che
avevano seguito in Belgio i loro amici di fede bianconera. Insomma,
un mosaico dell’Italia come da sempre si caratterizza il tifo per
la Juve. A trent’anni di distanza bisogna, invece,
ancora ascoltare offese di ogni genere per quei poveri morti. L’esecuzione
delle "montagne verdi" è stata fatta da una parte della Fiesole
appena nello scorso aprile quando Fiorentina e Juve si sono affrontate
nella semifinale di ritorno della Coppa Italia. Poi coro chiama
coro, così come striscione segue a striscione. Durante la partita
con il Napoli allo Juventus Stadium si ricordano i morti dell’Heysel
ma, per mantenersi in allenamento, si cantano anche ritornelli contro
i napoletani. Se quelli del Toro inneggiano al Liverpool, quelli
della Juve rispondono sbeffeggiando la sciagura di Superga. E gli
altri ricordano il "volo" di Pessotto e, in risposta, quegli altri
se la prendono con Facchetti. I napoletani promettono vendetta per
Ciro Esposito e i romanisti espongono striscioni offensivi contro
la madre del ragazzo: una spirale che alimenta l’odio e la vergogna.
L’Heysel non ci ha insegnato quasi nulla. Abbiamo contato altri
morti, altri feriti, gli ultimi nel derby di Roma di lunedì. La
violenza continua. Altrove, in Inghilterra, hanno cercato di arginarla,
di contenerla, di punirla dopo l’Heysel e la strage di Sheffield,
quella avvenuta quattro anni dopo la finale tra Juve e Liverpool
(96 morti tra i supporters dei Reds, a Hillsborough un altro stadio
in rovina e altri tragici errori di organizzazione). Margaret Thatcher
usò ogni mezzo, come aveva fatto per reprimere gli scioperi nelle
miniere e il terrorismo dell’Ira. Ma l’hooliganismo è stato reso
impotente non solo con la repressione. C’è stata anche una ribellione
di chi voleva tifare e godersi una partita di pallone. Da noi, no. Roberto Beccantini, ex firma
della Stampa, uno dei migliori giornalisti sportivi, ha scritto
nell’introduzione alla nuova edizione del libro di Francesco Caremani
"Heysel. La verità di una strage annunciata", (BradipoLibri), uscito
dodici anni fa ed ora riedito in occasione del trentennale del terribile
fatto: "Era il 2003 quando uscì il libro. Il 2 febbraio 2010 abbiamo
celebrato, in sordina, il terzo anniversario dell’uccisione dell’ispettore
Raciti… Siamo il paese degli slogan ("tolleranza zero"), dei tornelli,
delle tessere del tifoso e dei tifosi con le tessere. Siamo quelli
che un nero non può essere italiano, riferito a Mario Balotelli;
siamo quelli che "Opti Poba è venuto qui che prima mangiava le banane"…
Siamo quelli che mai più un altro Ciro Esposito… Siamo quelli, sempre
quelli". Aggiungo: siamo quelli del "non si può sempre pensare di
dare soldi a queste quattro lesbiche", quelli che hanno consegnato
il calcio di periferia in mano alle mafie, quelli che si spartiscono
la tv del pallone probabilmente in maniera fraudolenta. Tanto per
completare un quadro decadente e incivile.
Del resto, l’Heysel fu dimenticato già qualche ora dopo il
massacro. Fu cancellato da quell’esultanza fuori luogo di Platini
dopo aver messo a segno il rigore inesistente che consegnò la Coppa
alla squadra diretta da Giovanni Trapattoni. Da quel giro di campo
festoso degli juventini mentre oltre il muro dello stadio maledetto
erano stesi i corpi dei tifosi uccisi dalla furia degli hoolingans
e i lamenti dei feriti (oltre 600) erano ancora alti. Dai caroselli
dei tifosi a Torino nella notte, nonostante fosse ormai noto il
tragico bilancio della finale. Dai silenzi e dalle omissioni della
stessa società torinese che ha scelto, almeno negli anni passati,
di parlare il meno possibile di quella drammatica serata. Non è
un caso che tra il club e l’Associazione fra le famiglie delle vittime
di Bruxelles i rapporti siano stati spesso tesi, al limite della
rottura. Adesso, con la presidenza di Andrea Agnelli le cose sono
cambiate. Allo Juventus Stadium ci sono 39 "stelle" con i nomi delle
vittime e una parte dello "J Museum" è dedicato a quei morti.
Ma anche per questo trentennale non sono mancate le frizioni.
Quelli dell’Associazione volevano che venisse rappresentato un testo
teatrale, alla Juve non è piaciuto, è stato modificato, i familiari
delle vittime hanno dato l’ok ma hanno fatto sapere anche che parteciperanno
soltanto alla messa in ricordo dei loro morti: "Quello sarà l’unico
momento condiviso con il club bianconero" hanno scritto in un comunicato
pubblicato da "Arezzo Notizie". La città toscana ebbe due giovani uccisi:
Roberto Lorentini, 31 anni, un medico, un uomo generoso che rimase
travolto dalla furia degli hooligans mentre cercava di soccorrere
qualcuno, con ogni probabilità un bambino sardo, Andrea Casula,
11 anni, la più giovane vita sacrificata in quel massacro. Per quel
gesto Lorentini ebbe la medaglia d’argento al valor civile ("d’argento
e non d’oro, così lo Stato risparmiò una piccola pensione…" accusava
il padre, Otello). L’altra vittima aretina si chiamava Giuseppina
Conti detta Giusy, una ragazza di 17 anni. Otello Lorentini, scomparso
lo scorso anno ad 89 anni, ha impiegato metà della sua vita a combattere
una battaglia difficile e spesso solitaria affinché i colpevoli
venissero puniti e non si dimenticassero i 39. "La Juve non si è
mai fatta viva" si lamentava spesso. Aggiungendo: "Boniperti non
ci ama… Tre giorni dopo la catastrofe disse che si doveva mettere
una pietra sopra l’accaduto. Evidentemente, l’intenzione della Juventus
era di stendere un velo sui fatti dell’Heysel, in modo da salvare
il famoso "stile Juve" che io non ho mai condiviso". Il genitore
vide scomparire all’improvviso il figlio Roberto che era accanto
a lui nel famigerato settore Z dell’Heysel. Quando lo ritrovò "mi
sembrava che gli battesse ancora il cuore, invece era la mia tempia
che martellava sul suo petto". Fu Otello a fondare l’Associazione
e fu lui con la sua tenacia a sconfiggere in appello la protervia
dell’Uefa che l’aveva passata liscia nel primo processo in Belgio.
L’Uefa fu costretta a pagare dei risarcimenti ai superstiti e si
vide condannare il segretario generale, Hans Bangerter, a tre mesi
con la condizionale. Una pena mite ma quello fu il riconoscimento
della responsabilità dell’organizzazione calcistica, sebbene il
presidente, che allora era Jacques Georges, venisse assolto. Nei
processi in Belgio, impostati e condotti male dalla pubblica accusa,
alla fine hanno pagato i pesci piccoli. Ci furono gravissime responsabilità
per quello che successe da parte dell’organizzazione locale. Lo
stadio cadeva a pezzi. Gli hooligans - guidati da un ex parà (l’ex
portiere del Liverpool, Bruce Grobbelar ha detto a Repubblica che
quel giorno a Bruxelles c’era gente del National Front, l’estrema
destra inglese, venuta da Londra, che scatenò l’assalto e poi scomparve:
dovevano fare casino e mettere in cattiva luce quelli di Liverpool,
che molti odiavano, secondo lui) - "caricarono" i tifosi della Juve
rompendo pezzi di gradinata che si sbriciolava come pasta frolla
e lanciandoli verso il Block Z. Quelli di fede bianconera non dovevano
stare in quel settore, destinato ai belgi o a spettatori neutrali,
però i biglietti furono
venduti anche da agenzie italiane e da club juventini e provenivano
probabilmente dal mercato nero. Le forze di polizia erano presenti
in maniera ridicola: 7-8 poliziotti a dividere gli inglesi dagli
italiani in quella parte dello stadio dove era stata eretta una
rete inadeguata ("tipo tennis" dissero molti testimoni). I walkie
talkie degli agenti non funzionavano perché le pile erano scariche;
incapaci e mal diretti, quei poliziotti furono capaci di infliggere
solo manganellate ai pochi tifosi italiani che riuscirono a mettersi
in salvo sul prato mentre il muro della curva Z crollava. Il ministro
degli Interni, che si guardò bene dal dimettersi, il sindaco, il
capo della polizia non furono toccati; venne condannato un capitano:
pochi mesi con la condizionale. Pesci piccoli. Accade sempre così,
anche da noi. Su YouTube, ci sono pochi frammenti che riprendono
la polizia a cavallo mentre fa il suo ingresso nel piccolo stadio
a passo di parata, dopo che i morti già si contavano a decine. Tragicamente
comici. Mentre intorno c’era gente che si disperava, persone moribonde,
corpi che venivano adagiati confusamente su barelle improvvisate
con le recinzioni in ferro. Altri che venivano portati a spalla,
come si fa con i quarti di bue. Nel civile Belgio, sede della Comunità
europea, furono talmente cinici, in quella occasione, che anche
con i morti si comportarono malissimo. Lo denunciò Lorentini, lo
scrissero i giornali italiani. Le autopsie furono eseguite in maniera
sommaria, molti corpi, mutilati orrendamente, non vennero ricuciti
e furono riconsegnati in condizioni pietose ai familiari. In qualche
caso le bare portavano nomi sbagliati; delle vittime furono scambiate
con altre: "Non eravamo pagati per gli straordinari", fu la risposta
fredda e impudente di certi medici di Bruxelles. "L’Italia ci mise
fretta per la riconsegna dei cadaveri", fu la versione ufficiale.
I nostri magistrati chiesero la riesumazione dei corpi. Lo ricordava,
commuovendosi, Lorentini nel libro di Caremani. Soltanto da poco,
i belgi hanno riconosciuto i loro errori e hanno reso omaggio ai
morti. I pochi inglesi condannati se la cavarono con qualche anno
di galera mai scontato.
Show must go one. Forse quella volta lo
spettacolo dovette continuare per scongiurare il peggio: la vendetta
degli italiani, dei Fighters, gli ultrà juventini, che si agitavano
minacciosi già prima degli assalti inglesi. Si temeva anche qualche
altra pazzia dei tifosi dei Reds, ubriachi dalla testa ai piedi.
"Giochiamo per voi" disse Scirea ai microfoni dello stadio. D’altro
canto il calcio non si è fermato nemmeno l’11 settembre 2001: la
sera stessa dell’attacco alle Torri Gemelle si scese in campo per
la Champions, all’Olimpico andò in scena Roma-Real Madrid. Poi il
giorno dopo l’Uefa ci ripensò e sospese le partite, rossa di vergogna.
Bruno Pizzul durante una telecronaca surreale - che gli fu a lungo
rimproverata ma quella sera tutta l’informazione Rai fu sbagliata
- fece in tv una premessa prima dell’inizio della partita, ore 21.40:
"Consentitemi di non definirla finale di Champions, è che si gioca
una semplice partita per motivi di ordine pubblico". All’Heysel
molti juventini non volevano scendere in campo, lo stesso Giampiero
Boniperti, allora presidente bianconero, andò dai capi dell’Uefa
a dire: "Prendo la squadra e la riporto a casa". E quelli gli risposero,
secondo la testimonianza di Francesco Morini, ex difensore e all’epoca
ds bianconero: "Allora vi assumerete la responsabilità degli incidenti
e su di lei ricadrà la colpa di quello che può succedere". Edoardo
Agnelli, il figlio dell’Avvocato presente negli spogliatoi, esclamò:
"Incredibile, si gioca". Giocarono, la Juve vinse 1-0 e si assicurò
la Coppa che gli era sfuggita da troppo tempo. La Coppa venne mostrata
come il più bello dei trofei il giorno dopo sulla scaletta dell’aereo
atterrato a Caselle. Bettino Craxi, che era presidente del Consiglio,
disse chiaro e tondo che quella partita non andava giocata. Ancora
oggi la tifoseria juventina è combattuta su quella vittoria sporca
di sangue. Trapattoni si è espresso recentemente: "Restituiamo la
Coppa all’Uefa". E così anche qualche giocatore, Tardelli ad esempio.
Andrea Agnelli, che al tempo dell’Heysel aveva dieci anni, nel venticinquennale
della strage ha sottolineato: "È una Coppa che facciamo fatica a
sentire nostra". Mario Soldati pochi giorni dopo quel 29 maggio
disse a Repubblica: "La Juve si è comportata in maniera perfetta.
Chi condanna il tripudio dei giocatori dimentica che loro non potevano
conoscere l’esatta dimensione del dramma… Non mi vergogno di aver
gioito per quella vittoria. Erano anni che noi juventini la aspettavamo…
È assurdo pensare di restituire il trofeo… Sarebbe come punire la
Juventus…". Di altro
parere Italo Calvino che, intervistato dallo stesso quotidiano,
ammise, pur non essendo tifoso juventino: "Da principio anch’io
ho provato una naturale soddisfazione per lo smacco sportivo - almeno
quello - subito dai tifosi di Liverpool. La gioiosa scorribanda
dei giocatori per il campo, però, mi è sembrata inopportuna. Di
fronte a una tragedia di quella portata, ciò è risultato disumano".
Calvino non voleva che si disputasse la finale. "Rifare la partita
? Restituire la Coppa ? No, non sono molto sensibile a questi simbolismi"
(i pareri di Soldati e Calvino li ho trovati leggendo Quella notte
all’Heysel di Emilio Targia, uscito da poco in libreria per Sperling &
Kupfer. Targia rivela un particolare non da poco: sul biglietto
di ingresso allo stadio Heysel che lui ancora conserva e che si
procurò con un amico direttamente dal Belgio c’è una scritta in
francese in cui l’Uefa avvertiva che declinava ogni responsabilità
in caso di incidenti. Da non credere: l’Uefa che allestiva l’evento
si lavava le mani per qualsiasi cosa fosse successa…).
Otello Lorentini, tifoso bianconero come
il figlio Roberto, aveva le idee chiare in proposito. Rivelò che
quando vide la Juve che faceva il giro d’onore con la Coppa "Mi
è venuto da vomitare… Sono rimasto impressionato vederli scendere
dall’aereo come se avessero vinto il mondo, quando "quella cosa
là" grondava ancora sangue. Quella visione mi ha dato veramente
fastidio, non ho mai potuto digerire quelle immagini. Dico di più,
considero vergognoso che ancora oggi nelle statistiche e negli almanacchi
la Coppa dei Campioni 1985 si consideri vinta dalla Juventus, quando
la dovrebbero restituire… Come si fa a parlare di Coppa vinta?".
Michel Platini non ha mai voluto parlare volentieri di quella notte
e dell’atteggiamento suo e della squadra. Lo ha fatto una sola volta,
aprendosi un pochino di più, in una intervista incrociata con Marguerite
Duras su Liberation, due anni dopo la tragedia: "Per prima cosa
non avevamo visto l’orrore. È come quando dicono: si è schiantato
un aereo, trentasette morti, duecento morti… Non si vede niente.
Bene, dopo si prende lo stesso l’aereo… E quando sei in campo, quando
si pensa al calcio, che è la nostra passione, la nostra giovinezza,
la nostra adolescenza, non si può pensare mentre si gioca che ci
sono stati tanti morti. Quando realizzo il rigore sono felice, in
fin dei conti il calcio mi salva dall’infelicità umana… Quel giorno
sono diventato un uomo ! Diciamo che sono passato da un mondo in
cui il calcio era un gioco a un mondo in cui il calcio è diventato
una specie di violenza. In altre parole, fino ad un certo momento
hai dei giocattoli. Be’, quel giorno non avevo più giocattoli. Ero
diventato un uomo" (da Le Heysel. Une tragédie européenne di Jean-Philippe
Leclaire, 2005, edito in Italia da Piemme). Nelle ore successive
al massacro, le Roi Michel usò altre parole, atroci: "Al circo quando
muore il trapezista entrano i clown in pista. Noi non siamo dei
clown, ma il discorso è lo stesso…". Infatti, quella dell’Heysel
fu una macabra recita.
29 maggio 2015
Fonte: Succedeoggi.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
L’Heysel: una ferita
per sempre
E’ il mio primo editoriale e per
tale motivo è per me un giorno speciale. La vita mi ha sempre riservato
incredibili fatalità e quella di oggi ne è un’altra dimostrazione.
E’ il 29 maggio 2015 e tutti i media stanno commemorando la tragedia
dell’Heysel
(Bruxelles) nel trentesimo anniversario
di quella maledetta sera del maggio del 1985 quando in uno stadio
di calcio fatiscente si disputò la finale di coppa dei campioni
tra la Juventus ed il Liverpool.
Trentanove furono i tifosi morti a causa
della follia di una parte della tifoseria inglese che a quell’ora
(19 circa) era ormai ubriaca fradicia: stiamo parlando dei famigerati
hooligans. Su quello che successe in quello stadio dalle 19 alle
24 si è detto di tutto da parte di tutti in questi trent’anni. Come
sempre succede anche in casi drammatici come quello che stiamo ricordando
ognuno ha una sua verità, una sua spiegazione, una sua soluzione
non attuata. E’ chiaro che una discussione esploda per avvenimenti
così gravi ma sono fondamentali le testimonianze, i fatti oggettivi
e l’onestà intellettuale. Come giustamente ha detto Boniek recentemente
i veri grandi responsabili furono gli organizzatori della finale
nella scelta di quel campo fatiscente dove si notavano calcinacci
e materiale di risulta di un cantiere in vari punti dello stadio
ed ancor più nella vendita scellerata dei biglietti di "curva Z"
(rimasta famosa negli annali di cronaca) sia a tranquilli italiani
con bambini al seguito che ai cosiddetti hooligans ! E qui il discorso
sarebbe già fin troppo chiaro. Ricordo invece (ne sono ancora in
possesso) tutti i titoli e le frasi quali: "restituite la coppa
di sangue", "vergogna, è una coppa insanguinata", "la Juventus non
doveva giocare", "i giocatori della Juventus ed i tifosi non dovevano
esultare per la conquista della coppa" e così via. Sono stato per
trent’anni in giro per il mondo con la Juventus e quella sera ero
in tribuna con italiani emigrati in Belgio i quali avevano procurato
nei giorni precedenti sei biglietti di curva Z per tutti noi. La
fortuna ci fu vicina perché all’ultimo momento prima della partenza
da Salerno entrai in possesso di sei biglietti di tribuna. Ci disfacemmo
all’ultimo momento di quei pericolosi biglietti e non abbiamo mai
saputo a chi fossero capitati (erano tra i trentanove ?).
Alla fine della partita nell’uscire sul piazzale della tribuna
ci trovammo davanti ad uno spettacolo tremendo che ancora oggi mi
sconvolge al pensiero: trentanove corpi esanimi nascosti da lenzuola
e coperte. Posseggo anche un mio filmato amatoriale con le scene
di quella tragedia. Ma in tribuna certamente nessuno di noi aveva
compreso la dimensione della strage. Era chiaro che fossero avvenute
cose molto gravi perché evidenti erano le scene drammatiche provenienti
da quella curva e perché subito dopo un altoparlante chiamava i
tifosi singolarmente e per nome per farli convergere verso i rispettivi
pullman per il rientro a casa dal momento che la partita sarebbe
stata annullata. Non so cosa sapessero i tifosi degli altri settori
ma ricordo perfettamente i discorsi che facevamo in tribuna (e vi
assicuro che arrivavano solo notizie nettamente contrastanti fra
di loro) e quello che avvenne negli spogliatoi dove testimoni importanti
mi hanno in seguito descritto minuto per minuto ogni sofferta decisione.
La partita poi si giocò in un clima surreale che riuscì a non trasferirci
l’immagine della tragedia in tutta la sua dimensione. Da allora
ad oggi non solo non è migliorato nulla ma addirittura la situazione
è peggiorata per la continuità ed il crescendo dei lutti. L’Inghilterra
nella figura della signora Thatcher seppe risolvere in maniera straordinaria
e determinata i problemi interni (oggi i loro stadi sono dei salotti)
mentre da noi apprendo dopo i disordini (per usare un eufemismo)
di Lazio -Roma la decisione del Viminale: "I derby in futuro
saranno giocati sempre di domenica ed alle 12.30". Roba da non credere
!! Quel che conta oggi è un mio sentimentale e commosso ricordo
delle vittime e la voglia di stringermi ai loro familiari perché
solo Dio sa cosa ho sofferto, insieme a tanti quella sera, e quali
segni porto ancora oggi dentro di me. In medicina chiamansi "cheloidi".
Spero che possiate leggere in autunno particolari inediti e storie
e nomi di quella serata che io ho descritto nel mio primo libro
"Io e la Juve, storia di un grande amore". Confido in questo
modo di poter contribuire a fare luce su una vicenda ancora oggi
infinitamente straziante.
29 maggio 2015
Fonte: Pasqualegallo.net
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, il ricordo della strage a Bruxelles, Torino e Liverpool
Bruxelles (Belgio), 29 mag. (LaPresse/Reuters)
- Si è svolta a Bruxelles una commemorazione per i 30 anni della
strage dell'Heysel, quando 39 persone morirono per il crollo di
un settore dello stadio in occasione della finale di Coppa dei Campioni
tra Juventus e Liverpool il 29 maggio 1985. Allo stadio Re Baldovino
della capitale belga, una folla numerosa di familiari delle vittime
ed ex calciatori hanno portato una corona di fiori e rilasciato
39 palloncini accanto alla lapide recante i nomi dei tifosi morti.
"È sempre doloroso. Trent'anni dopo lo è ancora di più", ha detto
Charline Francois che all'Heysel ha perso il fratello Jacques. "È
bello aver organizzato una commemorazione perché tutti dicono di
non dimenticare, ma per noi familiari è ancora più difficile", ha
aggiunto. Presente anche l'ex difensore della Juventus Sergio Brio,
in campo quella sera, che ha detto di sentirsi sempre a disagio
quando torna in quello che è stato ribattezzato stadio Re Baldovino.
"Come mi sento oggi ? Come mi sono sentito durante tutti questi
anni quando sono tornato in Belgio a giocare in questo stadio. Mi
sono sempre sentito strano, strano", ha detto Brio. Una commemorazione si è svolta anche a
Liverpool, tenuta dal cappellano del club, alla presenza del capitano
del Liverpool del 1985 Phil Neal, del dirigente della Juventus Gianluca
Pessotto e dell' ex giocatore bianconero Massimo Bonini che hanno
posato una corona di 39 gigli bianchi. A Torino, invece, la Juventus
ha organizzato una messa commemorativa nella chiesa della Gran Madre.
Un silenzio raccolto carico di commozione ha avvolto il momento
in cui, dal pulpito della chiesa torinese della Gran Madre di Dio,
sono stati scanditi uno ad uno i nomi dei 39 innocenti che persero
la vita. Alla funzione religiosa ha partecipato tutta la società,
il presidente Andrea Agnelli, la Prima Squadra, lo staff tecnico
e la dirigenza. Lungo l’elenco dei rappresentanti delle istituzioni
sportive e non presenti alla cerimonia: il presidente della Lega
Calcio Maurizio Beretta, il direttore Generale della Lega Serie
A, Marco Brunelli, il segretario generale del Coni Roberto Fabbricini,
Giorgio Marchetti, Uefa competitions director e le autorità cittadine,
rappresentate dal Sindaco Piero Fassino. Tante anche le personalità
di spicco e gli ex calciatori: non hanno voluto mancare Mariella
Scirea, moglie del compianto Gaetano, così come il tecnico allora
sulla panchina bianconera, Giovanni Trapattoni, ed alcuni dei giocatori
di quella maledetta serata come Stefano Tacconi, Beniamino Vignola
e Ian Rush, che all'epoca giocava nel Liverpool e che avrebbe poi
militato anche nella Juve. Il ricordo di Platini: "Trent'anni fa,
allo Stadio Heysel di Bruxelles, giocai una finale di Coppa dei
Campioni che ancora oggi continuo a giocare. Non ho mai dimenticato
quella partita, come non l'hanno dimenticata tutti coloro che erano
presenti quella sera, che hanno perso uno dei loro cari e per i
quali tutto è cambiato in una fatale manciata di minuti". In occasione
del trentesimo anniversario della tragedia dell'Heysel, il presidente
dell'Uefa Michel Platini, in campo con la Juventus contro il Liverpool
in quella serata fatale, rende omaggio alle 39 vittime e a tutti
coloro che erano presenti e non dimenticheranno. "Trent'anni dopo,
sono il Presidente della Uefa, l'organismo che organizzò quella
finale, e con i miei colleghi e i miei amici delle federazioni,
dei campionati e dei club, lavoriamo quotidianamente per assicurare
che l'orrore di quella serata non si ripeta mai più", scrive Le
Roi in una dichiarazione sul sito dell'Uefa. "Questo impegno si
è tradotto in un incessante lavoro nel corso di questi anni per
garantire la sicurezza degli impianti sportivi di tutta Europa",
prosegue l'ex numero 10 della Juventus autore del gol decisivo in
quella tragica serata. "In occasione del trentesimo anniversario
di quel drammatico evento, i miei pensieri sono rivolti alle trentanove
vittime e ovviamente ai loro cari, ai quali voglio esprimere la
mia vicinanza e ribadire il mio impegno instancabile nel fare tutto
ciò che è in mio potere per impedire che una tale tragedia possa
ripetersi", conclude Platini.
Il sindaco Fassino. "Il 29 maggio 1985
si consuma la tragedia di Heysel. Non dimenticare perché lo sport
non sia dolore, ma passione, divertimento e vita". Così Piero Fassino,
sindaco di Torino, ricorda su Twitter il 30° anniversario della
strage dell'Heysel a Bruxelles. Il ricordo della Figc. "Non dobbiamo
mai dimenticare quanto è accaduto all'Heysel. E' una delle pagine
più tristi della storia del calcio e a nome mio e di tutta la federazione
voglio stringermi nel ricordo di chi ora non c'è più e di tutte
quelle famiglie che hanno vissuto in prima persona questa immane
tragedia". Questo il messaggio nel trentesimo anniversario dell'Heysel
da parte del Presidente della Figc Carlo Tavecchio, che martedì
aprendo il Consiglio Federale aveva voluto dedicare un minuto di
silenzio a quanti persero la vita il 29 maggio del 1985. Nella stessa
occasione il Direttore Generale Michele Uva ha annunciato che la
Federcalcio sta lavorando all'organizzazione di una gara amichevole
con il Belgio il prossimo novembre per commemorare sul campo le
39 vittime. "Il calcio - aggiunge il presidente federale - dovrebbe
sempre essere una festa, ma il suo straordinario fascino è un richiamo
anche per quanti cercano di dare sfogo alla violenza. Per questo
le istituzioni, le società e i veri tifosi devono contrastare ogni
fenomeno di intolleranza e di distorsione dei valori dello sport".
Allegri e Buffon. "Oggi c'è solo da commemorare
le vittime e stringersi intorno ai familiari. Bisogna raggiungere
un livello tale di serenità e tranquillità per far sì che non succeda
mai più nulla del genere. E' necessario che tutti migliorino, e
che ci si metta una mano sulla coscienza: il calcio, come lo sport,
è uno spettacolo, e lo spettacolo non va vissuto attraverso violenza
e atti vandalici". Lo ha detto Massimiliano Allegri, allenatore
della Juventus, parlando in conferenza stampa alla vigilia della
partita di campionato contro il Verona, a proposito della strage
dell'Heysel. Successivamente il tecnico bianconero ha scritto anche
un tweet su quanto accaduto 30 anni fa a Bruxelles: "Avevo quasi
18 anni; quella sera di 30 anni fa, davanti alla tv, rimasi sotto
choc quando capii cosa era successo. Un pensiero ai #39 #Heysel".
"Ogni anno l'anniversario dell'Heysel ci ricorda una delle pagine
più dolorose del nostro calcio e di tutto lo sport in generale",
scrive invece su Twitter il portiere della Juventus Gianluigi Buffon,
a proposito del 30° anniversario della strage dell'Heysel. "Oggi
più che mai sono convinto che questi 39 nomi e 39 voli debbano essere
un monito per tutti nella lotta contro qualunque forma di violenza",
ha aggiunto.
29 maggio 2015
Fonte: Lapresse.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Heysel, Juve-Liverpool
Un testimone: "Vidi sciarpe insanguinate
e..."
"L'Heysel ? Un'immagine indelebile
nella memoria è il ritorno allo stadio il giorno dopo. Camminavo
tra sciarpe insanguinate e macerie". Parla un testimone sopravvissuto
al bagno di sangue prima di Juventus-Liverpool di 30 anni fa. La
testimonianza. Platini (in campo quel giorno): "Mai più". Allegri:
"Pagina nera nella storia della Juventus e dello sport".
Allegri: "Una pagina nera dello sport mondiale
e della storia della Juventus" - "Vorrei iniziare ricordando quello
che è successo 30 anni fa in una tragica serata, una pagina nera
dello sport mondiale e della storia della Juventus. Oggi credo ci
sia solo da commemorare le vittime e stringersi attorno con affetto
ai loro familiari". Queste le parole che Massimiliano Allegri, in
apertura di conferenza stampa, ha voluto dedicare alle vittime dell'Heysel,
tragedia di cui ricorre oggi il trentesimo anniversario. "Da quel
giorno si è fatto tanto ma non abbastanza per risolvere queste problematiche
- ha aggiunto Allegri - Per andare allo stadio con tranquillità,
bisogna tutti migliorare, mettersi una mano sulla coscienza e bisogna
essere tutti positivi. Alla fine il calcio è uno spettacolo e va
vissuto in un certo modo e non attraverso la violenza e gli atti
vandalici".
Platini ricorda tragedia Heysel, "non si
ripeta mai più" - Mai più. Michel Platini, presidente della Uefa,
ricorda le vittime dell'Heysel. "Trent'anni fa, allo Stadio Heysel
di Bruxelles, giocai una finale di Coppa dei Campioni che ancora
oggi continuo a giocare - scrive Le Roi in una nota pubblicata sul
sito della Uefa - Non ho mai dimenticato quella partita, come non
l'hanno dimenticata tutti coloro che erano presenti quella sera,
che hanno perso uno dei loro cari e per i quali tutto è cambiato
in una fatale manciata di minuti. Trent'anni dopo, sono il presidente
della Uefa, l'organismo che organizzò quella finale, e con i miei
colleghi e i miei amici delle federazioni, dei campionati e dei
club, lavoriamo quotidianamente per assicurare che l'orrore di quella
serata non si ripeta mai più". Questo impegno - ha detto ancora
il presidente della Uefa - si è tradotto in un incessante lavoro
nel corso di questi anni per garantire la sicurezza degli impianti
sportivi di tutta Europa". E in occasione del trentesimo anniversario
di quel drammatico evento, "i miei pensieri sono rivolti alle trentanove
vittime e ovviamente ai loro cari, ai quali voglio esprimere la
mia vicinanza e ribadire il mio impegno instancabile nel fare tutto
ciò che è in mio potere per impedire che una tale tragedia possa
ripetersi", ha concluso Platini.
Heysel: 30 anni fa il bagno di sangue che
cambiò il calcio - Un bagno di sangue, una strage rimasta impunita:
30 anni dopo la strage dell'Heysel è una ferita ancora aperta. Famiglie
intere, andate a Bruxelles con la speranza di festeggiare la prima
Coppa dei Campioni juventina, che hanno trovato la morte nel settore
Z dello stadio, travolti dalla furia degli hooligans ubriachi. Gli
inglesi, approfittando della mancanza di forze dell'ordine - in
ferie dopo la visita del Papa in Belgio, è la denuncia di chi quel
giorno era lì - caricarono i supporters bianconeri che per difendersi
si ammassarono contro il parapetto del settore ospiti. La barriera
cedette e a decine precipitarono nel vuoto. In 39 persero la vita.
Da allora molto si è detto e scritto, spesso perdendo di vista l'unica
cosa che conta: il mantenimento della memoria e della verità, nel
rispetto delle vittime e dei loro famigliari.
Emilio Targia, giornalista testimone, nel
libro "Quella notte all'Heysel" (Sperling & Kupfer, 178 pagine,
14,90 euro) ripercorre la vicenda, raccontando quello che ha visto
all'interno dello stadio, condividendo lo sgomento, l'incredulità
e la rabbia che seguirono.
D - Heysel continua a "vivere" con noi
e, spesso, contro la pigrizia della nostra memoria. Qual è la prima
immagine che viene in mente riavvolgendo il nastro ?
R - "Un padre di famiglia. Un uomo che,
preso da un attimo di follia, mi affida il figlio e tenta di raggiungere
il settore Z che avevamo di fronte. E' stato un attimo, poi probabilmente
si sarà reso conto che non avrebbe potuto essere d'aiuto in nessun
modo, ed è tornato indietro. Ma un'altra immagine che resterà indelebile
nella memoria è il mio ritorno allo stadio il giorno seguente. Ero
andato per portare un mazzo di fiori e mi ritrovai a camminare tra
sciarpe insanguinate, macerie e scarpe rimaste a terra".
D - Cosa ha scatenato il tutto ?
R - "Non fu una sola la causa. Più che
altro fu una serie di eventi. Uno stadio obsoleto e fatiscente,
un servizio d'ordine non all'altezza e migliaia di inglesi ubriachi
pronti a "caricare" i tifosi italiani. Fu tutto sbagliato anche
la vendita dei biglietti, troppi, e infine anche il mancato divieto
di vendita di alcol".
D - Entrati allo stadio avevate avuto il
sentore che potesse accadere qualcosa ? Avevate capito la gravità
della situazione ?
R - "Eravamo a conoscenza delle "turbolenze"
dei tifosi del Liverpool. Arrivando allo stadio avevamo incontrato
inglesi ubriachi, avevamo sentito parlare di risse, ma non pensavamo
che la situazione potesse degenerare in questo modo. L'anno prima
a Roma c'era stato l'incontro con il Liverpool, in uno stadio grande
il doppio, non c'erano stati problemi e tutto era stato gestito
bene. Come avremmo potuto immaginare che i belgi sarebbero potuti
essere tanto disorganizzati ? Qualche tempo dopo si venne a sapere
che il Papa, Giovanni Paolo II, quindici giorni prima del mach era
andato in visita a Bruxelles e per l'occasione erano stati impiegati
i corpi d'élite specializzati nell'ordine pubblico. Il giorno dell'incontro
erano tutti ferie".
D - E le forze dell'ordine presenti allo
stadio, come intervennero ?
R - "I poliziotti sul campo erano davvero
pochi, io ne contai 5 o 6. Mi dissero che molti erano impegnati
fuori dallo stadio, nessuno si rese conto che il rischio e la situazione
da tenere sotto controllo era all'interno. Appena iniziò lo spostamento
di massa, qualche italiano riuscì a fuggire invadendo il campo,
ma fu preso a manganellate. Il servizio di sicurezza non era stato
nemmeno addestrato sui colori delle maglie delle due squadre, non
riuscivano a riconoscere gli hooligans dai tifosi italiani".
D - Le autorità calcistiche decisero comunque
di far disputare la partita, è stata una scelta giusta ?
R - "Assolutamente sì. Sarebbe stato un
gesto folle non far disputare la gara. Sarebbero venute a contatto
le curve e si sarebbe scatenato l'inferno".
D - Qual è il modo migliore per non dimenticare
i 39 morti ?
R - "Un buon esempio lo ha dato la curva
della Juve nel corso dell'ultima partita contro il Napoli, issando
uno striscione con i nomi dei 39 tifosi morti nella tragedia. Non
bisognerebbe parlare solo di numeri, ma raccontare storie per far
capire e non dimenticare. Mi piacerebbe che il Coni, la Uefa, la
Lega insomma le autorità calcistiche organizzassero un minuto di
silenzio, anche in tutti gli stadi, domenica prossima per il trentennale".
29 maggio 2015
Fonte: Affaritaliani.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
30 anni dalla strage dell’Heysel: un’amara lezione che non va
dimenticata !
di Giandomenico Tiseo
In un sistema calcio (italiano
e internazionale) che presenta problematiche diverse e di grande
importanza (calcio scommesse e dirigenti della FIFA corrotti),
la ricorrenza dei 30 anni della strage dell’Heysel e di ciò che
quel maledetto 29 maggio 1985 ha rappresentato non deve essere
dimenticato. Al contrario, il ricordo che poco prima dell’inizio
della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool allo
stadio Heysel di Bruxelles, morirono 39 persone, di cui 32
italiane, e ne rimasero ferite oltre 600, deve essere riportato
alla mente per trarne giovamento per i mali del nostro presente.
Una tragedia che, come molti altri hanno scritto, sarebbe potuto
essere evitata da un’organizzazione migliore delle autorità
belghe le quali sottovalutarono la portata di tifosi che accorse
nella struttura, peraltro fatiscente e poco consona ad ospitare
un evento di tal portata.
Come si svolsero i fatti ? Ai
molti tifosi italiani, buona parte dei quali proveniva da club
organizzati, fu assegnata la tribuna delle curve M-N-O, che si
trovava nella curva opposta a quella riservata ai tifosi
inglesi. Molti altri tifosi organizzatisi autonomamente, anche
nell’acquisto dei biglietti, si trovavano invece nella tribuna
Z, separata da due basse reti metalliche, assolutamente
inadeguata, dalla curva dei tifosi del Liverpool, ai quali si
unirono anche tifosi del Chelsea, noti per la loro violenza
(chiamati headhunters, "cacciatori di teste"). Circa un’ora
prima della partita (ore 19.20; l’inizio della partita era
previsto alle 20.15) i tifosi inglesi più accesi, i cosiddetti
hooligans, cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate,
cercando il take an end ("prendi la curva") e sfondando le reti
divisorie: memori degli incidenti della finale di Roma di un
anno prima, si aspettavano forse una reazione altrettanto
violenta da parte dei tifosi juventini, reazione che non sarebbe
mai potuta esserci, dato che la tifoseria organizzata bianconera
era situata nella curva opposta (settori M-N-O). Gli inglesi
sostennero di aver caricato più volte a scopo intimidatorio, ma
i semplici spettatori, juventini e non, impauriti, anche per il
mancato intervento e per l’assoluta impreparazione delle forze
dell’ordine belghe, che ingenuamente ostacolavano la fuga degli
italiani verso il campo manganellandoli, furono costretti ad
arretrare, ammassandosi contro il muro opposto al settore della
curva occupato dai sostenitori del Liverpool. Nella grande ressa
che venne a crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare
di rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli
ostacoli ed entrare nel settore adiacente, altri si ferirono
contro le recinzioni. Il muro ad un certo punto crollò per il
troppo peso, moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate
dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita, per
molti rappresentata da un varco aperto verso il campo da gioco.
I sopravvissuti all’accaduto si recavano dai giornalisti
presenti per la cronaca della partita, per voler rassicurare le
proprie famiglie. Una situazione surreale nella quale anche il
grande Bruno Pizzul, cronista di tante partite della Nazionale,
si trovava non potendo da un lato accogliere le richieste dei
tifosi, temendo che se ciò fosse avvenuto altre 1000 mamme
avrebbero potuto esigere la medesima richiesta, e dall’altro un
contrasto interiore dettato dal fatto che una festa dello sport
si era tramutata in un vero e proprio fatto di cronaca nera.
Perché è importante ricordare
ciò ? E’ fondamentale perché quanto accaduto a Bruxelles quel
giorno fu il risultato di un’estremizzazione negativa della
concezione non sportiva del calcio i cui residuati,
sfortunatamente, sono presenti anche a distanza di tanto tempo.
Spesso ci capita di ascoltare cori in cui da un lato si intonano
cori: "10, 100, 1000 Heysel" e dall’altra: "10, 100, 1000
Superga" per un puro gioco becero allo sfottò quando il rispetto
per chi non è più in vita è assente. Il "pallone" dovrebbe
imparare dai suoi errori o quantomeno cercare di migliorare ma
spesso atteggiamenti facinorosi vengono accettati per via di un
bieco discorso di marketing. Di cosa stiamo parlando ? Semplice,
se si interviene pesantemente su alcune frange dei gruppi
organizzati molte società temono, soprattutto, che nella
struttura "Stadio" l’affluenza è ancor più inferiore e le
entrate scarseggiano. Peccato che questa visione capitalistica
della realtà porta le persone "normali", le loro famiglie, a
star lontano da un luogo progettato per svagarsi e che, invece
come 30 anni fa, è palcoscenico di ben altri show. Quel che si
nota, pertanto, è la mancanza del sorriso e del piacere di
guardarsi una partita sia da parte dello spettatore e sia degli
stessi attori principali, i giocatori, che fin dai "pulcini"
ricevono troppa pressione psicologica per le eccessive
aspettative dei rispettivi genitori.
Avete ragione, un discorso
troppo lungo ma del resto serve a poco descrivere, in maniera
asettica, quanto avvenuto tanto tempo addietro se poi non si
vuol cercare, come si suol dire, di aprire gli occhi e trarre
spunto per un presente e un domani migliore. Lo sport e il
calcio è prima di tutto un darsi ludico, piuttosto che un
business, ha una funzione prioritaria: l’aggregazione. Bisogna
far sì che tante piccole realtà si fondano affinché la nostra
stessa società possa migliorare e intendere "il pallone" per
quello che è: un gioco. La lezione dell’Heysel non deve essere
dimenticata.
29 maggio 2015
Fonte: Oasport.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO 2015
Tavecchio sull'Heysel: "Proporrò il ritiro della maglia n° 39 della
Nazionale"
di Giovanni Capuano
La Figc raccoglie la richiesta
dell'Associazione familiari delle vittime: "Gesto simbolico che
dà il senso di un ricordo storico".
Il presidente della Figc, Carlo Tavecchio,
proporrà al Consiglio federale il ritiro della maglia numero 39
della nazionale italiana come "gesto simbolico che dà il senso di
un ricordo storico". Lo ha annunciato lo stesso Tavecchio intervenendo
ai microfoni di Radio 24, ricordando la petizione lanciata dall'Associazione
dei familiari delle vittime: "Sono d’accordo e, una volta formalizzata,
porterò questa proposta in Consiglio Federale". La Figc sta lavorando
all'organizzazione di un'amichevole contro il Belgio per il prossimo
mese di novembre, gara da giocare nell'ex Heysel: "Stiamo trattando
per fare la partita del ricordo con la Federazione belga . Mi auguro
che avvenga per dare un segnale alle giovani generazioni". L'Heysel
continua a restare, però, una tragedia che divide: "Io sento molto
il problema della sicurezza degli stadi e l’ho sempre portato all’ordine
del giorno per gli stadi piccoli della Lega Dilettanti dove c’è
sicurezza e violenza - ha spiegato Tavecchio. La tragedia dell’Heysel
l’abbiamo ricordata con un minuto di raccoglimento in Consiglio
Federale per dare il giusto peso ad una tragedia quasi unica nella
storia del calcio, con 39 morti. Questo deve essere un monito per
le generazioni a cambiare atteggiamento, anche se non credo siamo
ancora a buon punto".
31 maggio 2015
Fonte: Panorama.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 31 MAGGIO 2015
Che pena l’Italia
senza etica dello sport
di Diego Minonzio
Il 29 maggio 1985, chi scrive questo pezzo
era comandante della guardia alla polveriera Cimabanche, sul passo
montano a metà strada tra Dobbiaco e Cortina d’Ampezzo. Quello era
il posto dove i colonnelli della caserma "Piave" spedivano i sottotenenti
rompipalle, quelli che non tenevano la bocca chiusa e che, soprattutto,
non sottostavano alle regole del nonnismo militare, molto più feroce
tra gli ufficiali che nelle camerate dei soldati di leva. E proprio
per questo, chi scrive si trovava lì una volta sì e l’altra pure,
con il vantaggio però di prendere le 12mila lire al giorno in più
per la missione e di avere il tempo per preparare gli esami universitari
anche durante la naja, alla faccia dei vessatori e dei mobbizzatori
con le stellette. Bene, quella sera, finito il turno di guardia
e il controllo del percorso di quattro chilometri in mezzo a una
maestosa natura buzzatiana, tutta la truppa si assembrò davanti
a un vecchio televisore in bianco e nero dal segnale traballante
per vedere la finale di Coppa dei Campioni tra Liverpool e Juventus.
C’era di tutto, in quella tavolata che raccoglieva ogni più bieco
luogo comune, tic, birignao e visione del mondo del tipico maschio
italiano medio: operai bresciani, taglialegna tirolesi, muratori
bergamaschi, fighetti milanesi, studenti universitari, apprendisti
del legno-arredo, buzzurri delle valli, timidoni venuti giù dal
Resegone, bambocci che piagnucolavano per la lontananza da mammà.
Chissà che fine hanno fatto ? Chissà cosa saranno diventati adesso
? Magari cardiochirurghi, insegnanti di latino, reucci del tavolo
del biliardo, spacciatori di cocaina, venditori di aspirapolveri,
poeti falliti, molestatori dei giardinetti, sindacalisti pulciosi,
catechisti dell’oratorio. Chissà. Già al solo vederli si capiva
che avrebbero avuto destini incomparabilmente diversi e opposti,
salvo quell’unico comune denominatore che venne fuori feroce e inaspettato
in quella tragica serata. Il totale disinteresse per la morte dei
tifosi allo stadio Heysel. Totale. Assoluto. Assordante. Definitivo.
L’inferno, quello vero, che portò ben oltre i limiti dello scontro
fisico, si scatenò al minuto 56, quando Boniek venne atterrato due
metri fuori dall’area e l’arbitro, succube degli eventi, fischiò
il più incredibile dei rigori. Gol. Partita. Coppa. Lì sì che, nella
polveriera, saltò tutto per aria. Da una parte gli juventini a ridere
e sghignazzare e sganasciarsi e sbellicarsi e piroettare per il
furto con destrezza - "perché così è ancora più bello !" - e un
roboante "cazzi loro !!" agli spiaccicati, tritati, massacrati della
curva Z. Dall’altra gli ululati e la bava alla bocca e i fluidi
verdognoli - "ladri, schifosi, maiali !!" - di tutti gli altri,
che sbraitavano sulla vergogna della partita falsata, dei festeggiamenti
di Platini, del trofeo grondante sangue, dell’arroganza dei padroni
delle ferriere e tutto il resto di quella retorica moralisticheggiante
con cui hanno infarcito trent’anni di rivendicazioni, ma che nascondeva
un’unica, inconfessabile verità. Neppure a loro importava una mazza
del massacro, ma solo che quelli avessero vinto la loro prima Coppa,
che doveva quindi essere privata di qualsiasi valore. Una coppa
impresentabile. A parti inverse, si sarebbero comportati allo stesso
modo. È stato un post partita pazzesco, demoniaco, violentissimo,
dove tutti quei ragazzotti hanno espresso in maniera grandguignolesca
una radice di vigliaccheria e antisportività senza eguali, che però
non rappresenta altro che la metafora mille volte ripetuta del rapporto
marcio che esiste, almeno in questa repubblica delle banane, tra
sport e vittoria, tra calcio e successo.
E’ per questo che tutta l’ondata di indignazione
sgorgata dopo gli arresti dei manager Fifa e la grottesca rielezione
di Blatter, fa sorridere. Se ne straparla al bar, generalmente al
terzo giro di bianchi, si trombona sul fatto che non si può più
andare avanti così ed è uno scandalo e ai tempi del Mago e del Rocco
era diverso e qui una volta era tutta campagna e intanto però, sotto
sotto, si cerca di capire come questo ennesimo bubbone possa colpire
la squadra nemica e aiutare la tua. Il resto, chissenefrega. Ne
abbiamo avuto la prova provata durante Calciopoli, maestosa metafora
e nemesi del truogolo di schifezze del circo pallonaro italiota.
Ora facciamo una piccola scommessa con i lettori. Trovate uno juventino
uno che dica che - a fronte di condanne in tutti i gradi della giustizia
sportiva e di condanne o mere prescrizioni in quella penale - la
Juve di quegli anni era governata da Tony Soprano e che in un paese
serio sarebbe ripartita dall’Eccellenza. Trovate un interista uno
che dica che le intercettazioni del buonanima Facchetti, se non
fossero state prescritte, e il passaporto di Recoba avrebbero dovuto
portare l’Inter dritta filata in serie B, altro che scudetto di
cartone. Trovate un milanista uno che dica che la sceneggiata di
Galliani a Marsiglia avrebbe meritato la radiazione a vita e che
tra i passaporti tarocchi non c’era solo quello del Chino (che si
ricordano tutti) ma pure quello di Dida (che non si ricorda nessuno).
Trovatene uno, uno solo su milioni e milioni di tifosi e gli regaliamo
un’auto aziendale. Ci piace vincere facile: non arriverà nessuno.
Tutti ipergarantisti quando si finisce nella melma con la propria
squadretta, tutti supermanettari quando un sospetto sfiora le altre.
E poi dicono che non c’è niente di peggio della politica. La verità
è che in Italia non esiste alcuna cultura sportiva, alcuna dimensione
etica del sano confronto agonistico, della sua sapienza tecnica
e valoriale, dove la stessa informazione è composta in larga parte
da servi o da tifosi o da collusi e che quindi tutto il sistema
galleggia su un’enorme ipocrisia di fondo. Fondi neri, scommesse
clandestine, partite truccate, mazzette per i mondiali, ricatti
dei procuratori, doping e cocaina, arbitri servili, piagnistei complottisti,
ultras taglieggiatori, retorica moralista e inanità pratica. E’
tutto funzionale al baraccone e ci va tutto bene. Tutto. Basta che
si vinca. A qualsiasi costo. Che pena. Altro che indignados… E questo
vale anche per chi ha scritto questo pezzo, che se la tira tanto
da Robespierre, ma che pur di veder vincere la squadra che ama e
perdere quella che odia sarebbe disposto a tutto - a farsi prendere
a torte in faccia, a picchiare una suora, a buttare un nano giù
da una scarpata, a tutto: perché anche lui è esattamente come tutti
gli altri.
31 maggio 2015
Fonte: Laprovinciadicomo.it
ARTICOLI STAMPA e
WEB 31 MAGGIO 2015
Heysel, i livelli di responsabilità e l’ipocrisia del tifo
di Alberto Scotta
Chissà se qualcuno di voi si ricorda dove
fosse la sera del 13 gennaio 2012, verso le 21.45. Senza andare
a cercare su google credo sia difficile, ma vi aiuto io. Quella
notte morirono 32 persone, tutte insieme in Italia, su una nave
da crociera. Ecco ora avrete tutti in mente la tragedia, le polemiche
e le mille ricostruzioni che ne seguirono. Vi faccio una domanda.
Se chiedete a 100 persone di raccontarvi quella storia e di provare
ad indicare il o i colpevoli c’è qualcuno che si aspetta che il
discorso inizi così ? "Beh, sì una grande tragedia, ma i turisti
che passavano al Giglio a fare le foto, beh quelli proprio non si
potevano vedere, una vergogna, avrebbero dovuto restituire le loro
macchine fotografiche e i loro smartphone". Questa metafora aiuta forse meglio a capire
il primo punto chiave dell’unicità dell’Heysel. La differenza, enorme,
tra la responsabilità penale e quella etica non c’è, viene annegata
nell’ottusità del campanilismo calcistico, come in nessun’altra
tragedia. Quante volte, e basta cercare sui giornali, social e su
youtube in questi giorni, le responsabilità dei tifosi inglesi,
dell’organizzazione calcistica e delle autorità belghe vengono equiparate
senza soluzione di continuità a quella dei tifosi che esultano per
una coppa insanguinata, dei giocatori che festeggiano pur essendo
a conoscenza di una o più morti e della società Juventus che gioca
comunque la partita e non restituisce la Coppa, peraltro alle stesse
autorità condannate penalmente per la tragedia ? Ci sono 39 morti
e questi morti non li hanno ammazzati né i tifosi della Juve a Bruxelles
(per quanto alcuni di loro non fossero certo degli angioletti come
dimostrano le immagini TV), né i tifosi che sono scesi in piazza
quella notte a festeggiare una Coppa tanto desiderata e che non
avevano probabilmente amici o parenti nella capitale belga, né Platini,
Tacconi, Favero o Cabrini, né tanto meno Scirea, che esultò anche
lui insieme a tutta la squadra, né la società Juventus, che fu costretta
a giocare quella partita dalle autorità e che di Coppa ne restituì
comunque implicitamente una. Già la Supercoppa 1985/86 non fu disputata
perché l’anno precedente la vincitrice della Coppa delle Coppe fu
l’Everton, a cui fu impedito di giocare in quanto inglese, lasciando
di fatto quella coppa non assegnata. Possiamo stare qui a discutere
fin che vogliamo sull’opportunità dei festeggiamenti, del giocare
o meno quella finale per ordine pubblico, e pure di restituire o
meno quella coppa, ognuno come giusto ha le sue idee, magari chi
l’ha vissuto sulla propria pelle ha più elementi per giudicare,
ma è giusto rispettare ogni punto di vista. Ma nessuno dei 39 corpi
tornerà in vita, chiunque di noi, di voi, di fronte alla possibilità
di salvarli avrebbe fatto re-wind e lasciato quella Coppa al Liverpool,
ma i morti c’erano e non c’era una singola azione che ormai li avrebbe
salvati, e la famiglia Juventus in tutta questa tragedia è stata
solamente vittima. Dopo aver provato a dirimere la questione
dei differenti livelli di responsabilità, vorrei provare a rompere
un altro muro. Quello dell’ipocrisia del tifo che pretende di codificare
le emozioni di tutti i suoi simili, annullando le sfaccettature
e le sfumature di ogni singolo essere umano. Solo qualche anno prima,
il 22 novembre 1981, succede un fatto terribile, uno dei migliori
centrocampisti italiani viene atterrato da una ginocchiata e cade
esanime a terra. Si teme per la sua vita, quando esce dal campo
in barella nessuno sa se sia ancora vivo e se ce la farà, lo stadio
è impietrito per qualche minuto, ma poi si gioca. La storia ci racconta
che quel giocatore si salvò diventando l’anno seguente campione
del mondo al Bernabeu insieme ad altri 21 azzurri, quel giocatore
era Giancarlo Antognoni e quella partita allo stadio di Firenze
continuò, la Fiorentina (che peraltro era in lotta proprio con la
Juve per lo scudetto) rimontò segnando 2 gol proprio dopo l’incidente
del suo numero 10 e vinse 3-2, nessuno uscì dallo stadio, nessuno
chiese (giustamente) di restituire quei 2 punti al Genoa o alla
FIGC, eppure un grande calciatore a pochi metri di distanza stava
lottando per la vita.
In un’altra notte, un altro epico numero
10 del nostro calcio, realizza un rigore, corre a prendere la palla
per tornare velocemente a centrocampo, esulta di rabbia e carica
(giustamente) tifosi festanti e compagni di squadra per andare a
prendersi il pareggio. Quel campione è Francesco Totti e la notte
è quella tragica dell’11 settembre 2001, i morti a NY forse non
avevano la sciarpa giallorossa al collo, ma erano morti di tutti,
della nostra civiltà, ma anche in quel caso qualcuno obbligò le
squadre a scender in campo e i calciatori eseguirono, facendo il
loro mestiere, ma nessuno mai si sognò di criticare per questo le
società o i calciatori. Il mondo è fatto di episodi, che ognuno
seleziona per raccontare la propria verità o giustificare le proprie
idee, sarebbe bello che arrivassimo almeno sulle tragedie ad affogare
i colori del tifo nell’unico colore della memoria, spogliandoci
dai personalismi, restando pur sempre avversari, anche acerrimi,
ma solo sul campo di gioco.
31 maggio 2015
Fonte: Canalejuve.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 31 MAGGIO 2015
|