Oggi ricorrono i 25 anni dalla strage
di Bruxelles. In ricordo di Roberto e Giusy
Andrea Agnelli scrive a Lorentini
AREZZO - Venticinque anni e un dolore
che non si cancella. Il 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di
Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni
Juventus-Liverpool, muoiono 39 tifosi bianconeri. Muoiono nel
settore Z, schiacciati e soffocati dalla calca, sotto i colpi
degli hooligans inglesi instupiditi dall'alcool, con la
connivenza decisiva delle autorità belghe, della polizia locale
e dell'Uefa, incapaci di prevedere e d'intervenire. La città di
Arezzo ha pagato un altissimo tributo a quella maledetta serata.
All’Heysel persero la vita la studentessa Giuseppina Conti e il
dottor Roberto Lorentini. Quest'ultimo è stato insignito della
medaglia d'argento al valor civile perché fu travolto mentre, in
qualità di medico, stava prestando soccorso ai feriti sugli
spalti. Da Arezzo è partita la battaglia per ottenere giustizia
e tenere viva la memoria su quella strage. Otello Lorentini,
padre di Roberto, ha, prima fondato l'associazione dei familiari
delle vittime, e poi dato vita al Comitato permanente contro la
violenza nello sport "R. Lorentini - G. Conti". La battaglia
giudiziaria, durata 6 anni e mezzo, si è conclusa con la
condanna dell'Uefa riconosciuta responsabile, insieme alle
autorità belghe. Nel 2005, nella ricorrenza del ventennale,
Arezzo ha ospitato la partita amichevole tra le formazioni
primavera di Juventus e Liverpool. Un evento dal profondo
significato simbolico rivolto alle nuove generazioni per non
dimenticare e non ripetere mai più. Nel 2007 è stato intitolato
a Roberto Lorentini il piazzale antistante lo stadio e a
Giuseppina Conti quello antistante il palasport a Le Caselle. In
occasione del 25° anniversario il neo presidente della Juventus
Andrea Agnelli ha scritto ad Otello Lorentini. "L'impegno del
Suo comitato - si legge nella lettera - è una testimonianza
importante per coloro che intendono alimentare una memoria che è
parte costitutiva della nostra identità, di uomini e di
juventini. Oggi quella memoria - prosegue il numero uno
bianconero - ci unisce in un dolore che è anche speranza; perché
dal sacrificio di quelle 39 vittime dobbiamo trovare la forza
per far crescere un'idea di calcio lontana da ogni forma di
violenza. La Juventus - conclude la missiva - continuerà ad
essere vicina al Suo comitato e La ringrazia per la dedizione
che, siamo certi, non verrà mai meno".
29 maggio 2010
Fonte: Corriere di Arezzo
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Oggi l’anniversario. La Juve invita i
familiari, non tutti risponderanno
Heysel la notte del calcio perseguita i
sopravvissuti
di Francesco Caremani
Venticinque anni, tanto è lungo il filo
della memoria che si riavvolge ogni 29 maggio, il giorno in cui
allo stadio Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei
Campioni Juventus-Liverpool del 1985, muoiono 39 persone, di cui
32 italiani. Muoiono nel settore Z, schiacciate e soffocate
dalla calca, sotto i colpi degli hooligans inglesi instupiditi
dall'alcool, con la connivenza decisiva delle autorità belghe,
della polizia locale e dell'Uefa, incapaci di prevedere e
d'intervenire. Ieri a Liverpool, sui muri di Anfield, è stata
scoperta una targa alla presenza di Phil Neal e Sergio Brio, i
capitani di quella maledetta finale, oltre che di Gianluca
Pessotto in rappresentanza del club bianconero. E simbolicamente
sono stati piantati 39 alberi, uno per ogni vittima. Ma il clou
delle iniziative è sabato. A Bruxelles una delegazione di tifosi
juventini del Belgio andranno in pellegrinaggio nello stadio
della morte, ribattezzato Re Baldovino. A Torino, davanti alla
lapide nel cortile della sede della Juve, pregheranno Platini e
molti giocatori dell’epoca, nonché una delegazione del
Liverpool. A seguire la messa alla Gran Madre. La società ha
invitato alle cerimonie i familiari delle vittime: molti hanno
sussurrato la parola "finalmente", non tutti risponderanno.
Mario Ronchi, l'interista. La moglie:
"Ogni sera, conto chi c’è e chi non c’è più". "Mio marito non
era tifoso della Juventus - racconta Maria Teresa Dissegna, di
Bassano del Grappa, - lui teneva per l'Inter, ma è andato con
gli amici". Parla con diffidenza Maria, perché non l'aveva mai
fatto prima e non vuole pubblicità. "Il dolore è ancora molto
forte, come venticinque anni fa, ho bisogno di stare tranquilla.
E' difficile spiegare il quotidiano, vivere alla giornata e
andarsene a letto facendo la conta di chi è rimasto e chi non
c'è più". Sono parole ruvide che raccontano la dignità di chi è
rimasto senza sogni nel cassetto, dovendo fare i conti con una
vita che non ha scelto: "Mio figlio oggi ha 27 anni ma non
abbiamo mai affrontato l'argomento. Gli parlo e gli ho parlato
di suo padre, di come era, ma non di quella sera". Mario aveva
un'impresa e chi l'ha portato via ha cancellato il futuro di una
famiglia: "Ho ricevuto l'invito della Juventus, ma non andrò,
ognuno ha la sua coscienza".
Giancarlo Gonnelli, padre e figlia.
Rosalina: "Lei in coma e su mio marito dicevano: te l’hanno
pagato morto". "Non ho accettato la sua morte perché non l'ho
vissuta, ricorda Rosalina Vannini di Ponsacco. Ogni tanto vado
al cimitero, ma per me è sempre qui, l'ho sognato anche la notte
scorsa". Giancarlo all'Heysel c'era andato con la figlia Carla,
lui è morto, lei è tornata da quella strage e da un coma,
salvata da mani inglesi, ma una parte di sé è rimasta per sempre
nella curva Z insieme all'adorato babbo. "Finché ci sarà
memoria, i 39 angeli di Bruxelles vivranno con noi. E allora
grazie a tutti coloro che fanno e hanno fatto qualcosa perché in
tutti questi anni non si spegnesse". Come gli altri familiari,
Rosalina parla con forza e dignità, come se tutta la cattiveria
ingoiata per anni fosse stata digerita: "Mi hanno detto che
m'avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo
anche prima) me l'ero comprata con quei soldi. Nessuno sa cosa
ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i
problemi che ha avuto Carla". La quale, dell'Heysel, non vuole
ancora parlare.
Giuseppina Conti, il premio. Antonio:
"Era lì per la pagella. Non cambio idea: ho perso mia figlia per
l’avidità di qualcuno". "È dura, sono contento che se ne parli
ancora, ma il dolore non se ne va. Non se ne andrà mai". La voce
di Antonio Conti, di Rigutino, frazione del comune di Arezzo,
perde forza ricordando il 29 maggio dell'85. Lui all'Heysel
c'era con la figlia, premio di una bella stagione scolastica, ed
è impossibile spiegare cosa significhi tornare a casa senza la
propria bambina, da quella che doveva essere una festa: "È
contro natura". Le foto e la racchetta da tennis sono un
memoriale. Raccontano tutto, il dolore ma anche la rabbia. "Non
si possono mettere migliaia di persone dentro una curva di terra
con i gradoni di graniglia, dopo una fila di quattro ore
passando da una porta di novanta centimetri. Mia figlia è morta
perché qualcuno potesse incassare più soldi". Alla fine, per
Antonio, la famiglia è rimasta l'unico rifugio, l’unica ragione
per andare avanti ma questo è un vuoto che niente e nessuno può
riempire: "Mi hanno invitato ma non vado a Torino. Sabato c'è il
torneo, i ragazzi lo fanno tutti gli anni, ho scelto di stare
con loro".
I Casula, l'uomo e il bambino.
Emanuela: "Col tempo sono diventata serena. La polemica non
aiuta". Emanuela oggi vive a Roma, ma appena può torna a
Cagliari dalla mamma: "Non ne abbiamo mai parlato tanto, però
sabato andremo insieme a Torino". L'invito della Juventus è
stato un modo per ricordare la tragedia. Emanuela ha perso il
padre Giovanni e il fratello Andrea in un colpo solo, però non
ha mai cercato colpe e vendetta, ha vissuto con l'assenza ed è
divenuta la donna di oggi, senza immaginare come poteva essere
l'altra: "Con il tempo sono diventata una persona serena, ma
credo che per la mamma sia completamente diverso". Ha letto, si
è documentata e sorpresa di tante cose: "Ho visto Tardelli in
televisione da Minoli qualche sera fa, era molto imbarazzato, mi
ha fatto piacere ascoltare le sue scuse". Per tanti anni ha
tenuto dentro la sua storia: "La dignità, la memoria, sono
importanti, polemizzare no, perché si rischia di cadere
nell'esibizionismo e di mettere in cattiva luce tutto il resto".
Roberto Lorentini, la medaglia. Il
padre: "Abbiamo battuto l’Uefa, ma troppi se la sono cavata.
"Roberto è il medico di Arezzo, medaglia d'argento al valor
civile perché morto tentando di salvare un connazionale, forse
lo stesso Andrea Casula. Ha lasciato una moglie, due figli
piccoli e un padre che ha combattuto a lungo per la sua memoria
e per la giustizia di trentanove innocenti: "Con qualche parente
ci sentiamo ancora", dice con orgoglio, lui che ha fondato
l'Associazione dei familiari e che per sei lunghi anni ha
assistito al lungo e faticoso processo contro tutto e tutti.
"Abbiamo sconfitto l'Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in
troppi se la sono cavata". Un rammarico che sposta ogni giorno
il confine della memoria: "Andiamo al cimitero due, tre volte la
settimana perché Roberto è sempre qui con noi. Andare a Torino ?
No, ho ricevuto l'invito, però sabato c’è la messa e poi il
torneo". Una medaglia, un libro, un dvd, un piazzale intitolato
a Roberto: "Abbiamo fatto un viaggio pubblico, quello è finito,
adesso continua quello privato".
29 maggio 2010
Fonte: Avvenire
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MAGGIO
2010
Heysel, 25 anni per non dimenticare
di Elisa Chiari
Doveva essere una finale di Coppa dei
campioni. Fu una notte di follia e incuria che costò la vita a
39 persone nello stadio di Bruxelles. I ricordi dell'ex campione
Zibì Boniek. Quella di Zibì Boniek non è un'intervista, è una
lapide scolpita a voce. I conti con l'idea che si possa morire
di calcio, in una sera in cui si vorrebbe vincere ed esultare,
sono ancora difficili 25 anni dopo. Doveva essere una finale di
Coppa dei campioni (si chiamava ancora così), fu una notte di
follia, incuria e imprevidenza, che costò la vita a 39 persone
schiacciate contro il muro di uno stadio belga che non esiste
più ma ha lasciato macerie dentro moltissime persone.
"Mi dispiace molto", spiega Boniek,
colonna di quella Juventus, "su quello che è successo all'Heysel
ho parlato già diverse volte, ho rilasciato diverse interviste e
ho deciso per conto mio di non parlarne più. Per me è stata una
cosa tristissima al limite della sopportazione umana. Noi siamo
stati coinvolti e in un certo senso costretti a partecipare a
una gara che secondo me non aveva senso. Ma, una volta entrati
in campo, abbiamo cercato anche di vincerla perché è normale
che, se a quel punto sei costretto a fare una cosa, la devi fare
al meglio. Alla fine non ho preso il premio partita, perché mi
sembrava giusto devolverlo a favore delle vittime. Mi dispiace
profondamente perché noi parliamo ogni tanto, facciamo belle
interviste, invece c'è ancora gente che vive senza i figli e
senza i mariti che hanno perso la vita là. Per questo preferisco
non parlarne. Mi spiace anche di non poter andare a Torino a
partecipare alla Messa di commemorazione. Sto vicino a tutti
quelli cui si è spezzata la vita là e a quelli che sono rimasti
a casa con la vita non meno spezzata. Di più non mi sento di
aggiungere".
Era il 29 maggio 1985, la Juventus
andava a giocare a Bruxelles la finale contro il Liverpool. Lo
stadio era vecchio e mal pensato, pensata peggio la
distribuzione del pubblico, con una parte dei tifosi italiani
finiti in un angolo della curva del Liverpool, la curva degli
Hooligans. Subito dietro le macerie di un cantiere, perfetto per
chi volesse rifornirsi di armi improprie casomai non bastassero
le aste delle bandiere. E così andò. Cominciarono a caricare
prima della partita, schiacciando in tanti i pochi nell'angolo,
il settore Z, che per molti è stato la fine per niente simbolica
dell'alfabeto dei giorni. In 39 non sono tornati, 32 erano
italiani. A distanza di 25 anni, il calcio ha rimosso molte
cose, non ne ha imparata quasi nessuna. La polvere della memoria
però fluttua in parte ancora nell'aria, ciascuno a seconda di
dove si trovava, ha un pezzo diverso del puzzle da apporre,
nessuno l'insieme. Anche per questo è interessante leggere
Heysel 29 maggio 1985. Prove di memoria (Reality book, 16 euro),
un libro che ha pochi giorni di vita e prova a rimettere insieme
i pezzi, chiedendo un mare di testimonianze a chi c'era.
L'autore anche c'era, ma non tira direttamente i fili conclusivi
del puzzle intero, lascia a chi legge il compito di ricomporlo,
sapendo che per quanti pezzi si riescano a collocare, ne
mancheranno sempre 39. Non è l'unico libro recente su quel tema
doloroso (se ne leggono una versione letteraria nel monologo
Quando cade l'acrobata entrano i clown, Heysel l'ultima partita
di Walter Veltroni e una giornalistica in Heysel, la verità di
una strage annunciata, di Francesco Caremani), ma il racconto di
Targia, raccolto coordinando molte penne diverse anche
prestigiose, ha di diverso la coralità. Il punto di vista
dell'autore potete sentirlo a voce in uno dei video allegati.
29 maggio 2010
Fonte: Famiglia Cristiana
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MAGGIO
2010
Platini e la squadra dell'85 a Torino
per commemorare i 25 anni della tragedia
Heysel, ricordo per sempre
di Guido Vaciago
Oggi la rievocazione, Agnelli annuncerà
la sala della memoria nel nuovo stadio. Nell’impianto che la
Juve sta costruendo la violenza dovrà essere confinata nel
passato. Boniperti: "Quella coppa non è insanguinata".
TORINO -
Venticinque anni fa la finale di Coppa dei Campioni si
trasformava in una delle più orrende tragedie dello sport.
Juventus-Liverpool, a Bruxelles, venne preceduta da un attacco
dei tifosi inglesi contro quelli italiani che provocò la morte
di 39 persone innocenti, schiacciate, asfissiate, calpestate in
modo atroce nella curva zeta dello stadio Heysel. LA SALA -
Oggi, nel giorno della memoria bianconera, Andrea Agnelli
annuncerà che quelle vittime non verranno mai dimenticate e che
il ricordo di quella tragedia servirà da monito, perché mai si
ripeta una simile follia. Nel nuovo stadio della Juventus ci
sarà, infatti, uno spazio per ricordare i fatti di quel giorno
maledetto. LA CERIMONIA - Inizierà alle 10 la commemorazione nel
cortile della sede bianconera, dove è stato posto un cippo alla
memoria delle 39 vittime. Oltre al presidente della Juventus, ci
saranno parecchi giocatori della squadra che giocò quella
partita, a partire da Michel Platini, così come molti parenti
delle vittime e il presidente della Lega Maurizio Beretta. Sarà
una cerimonia breve, alla quale seguirà una messa alla Gran
Madre, dove sarà presente la prima squadra della Juventus. LA
RIFLESSIONE - Venticinque anni dopo è il momento di commemorare,
ma anche quello di riflettere. La tragedia dell’Heysel è stata
una ferita dolorosa e profonda per il popolo bianconero, ora è
una cicatrice che si porta dentro chi ha vissuto quella notte
(in quello stadio o all’ascolto di quella drammatica telecronaca
di Bruno Pizzul) e un racconto poco conosciuto per chi era
troppo piccolo o non era neppure nato. IL SIMBOLO - E allora
l’idea di una sala che nel nuovo stadio ricordi quella barbarie,
come un fatto storico, oltre che tragico, è un’iniziativa
eccellente. Perché a distanza di 25 anni, tutto quel dolore e
quello sgomento devono servire a qualcosa. Devono servire a
ricordare come quella finale fu organizzata in modo
clamorosamente superficiale, lasciando che i tifosi inglesi e
quelli italiani si trovassero accanto in quella maledetta curva,
separati da una rete da pollaio. E che non c’erano abbastanza
forze dell’ordine per gestire un evento di quella portata. Che i
feriti non furono soccorsi in modo tempestivo e adeguato. Che
odiare, oggi, 25 anni dopo, non serve a niente, che quello che
conta è non ripetere. LA GIOIA - E il fatto che il luogo della
memoria dell’Heysel sorga proprio nel nuovo stadio è
significativo. In quello che sarà l’impianto più moderno del
calcio italiano, la violenza dovrà essere solamente un ricordo,
confinato in quella sala. Quello stadio dovrà accogliere tifosi
veri, appassionati, innamorati della Juventus e del calcio: sarà
un luogo di festa non di morte. IL PRESIDENTE - Giampiero
Boniperti, allora presidente della Juventus, si interrogava:
"Cosa ricorderò tra trent’anni di questa coppa ? Tornerò ogni
tanto a osservarla nella vetrinetta, ma credo che mi apparirà
soltanto l’immagine di uno dei tanti morti che ho visto
all’obitorio. L’immagine di un ragazzo di dieci anni, con un
fazzoletto bianconero al collo". LA COPPA - Già,
quella coppa è nella sala dei trofei della Juventus. Pochi metri
in linea d’aria con il cippo intorno al quale ci si raccoglierà
stamattina. Un trofeo scomodo e doloroso, sul quale si è a lungo
dibattuto. Lo stesso Boniperti sostiene: "Non dite che quella
coppa è insanguinata. Non è vero. La tragedia è una cosa, la
partita è un’altra. E fu una partita vera, chiedete a Rush, a
quelli del Liverpool. Andarono in campo per vincere e noi con
loro. Proprio non riesco a vergognarmi per quella coppa e il
dolore lo tengo per me". I GIUDICI - Ma forse questo punto di
vista è proprio quello da dimenticare. Quella coppa è lì, nella
sala più luccicante della sede juventina, e ognuno di quelli che
ci passa davanti può ricordare e pensare ciò che vuole. Anche
perché gli unici che potrebbero decidere veramente se quella
coppa è vera o meno sono le trentanove vittime della curva zeta.
Nessun altro.
29 maggio
2010
Fonte: Tuttosport
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MAGGIO
2010
Lorentini amaro "Negli stadi ancora
morti"
di Marina Salvetti
Il presidente dell’Associazione perse
il figlio di 31 anni. "Ho combattuto perché ci fosse giustizia.
Sei anni di udienze: molti sono finiti in galera, troppi se la
sono cavata".
OTELLO Lorentini ha 86 anni e un cuore
malconcio. "Non mi regge perché mi chiamano in tanti in questi
giorni per sapere e ricordare, ma ritornare indietro diventa
molto difficile alla mia età". Soprattutto quando il ricordo
privato diventa commemorazione pubblica e tornare indietro a
quel tragico mercoledì 29 maggio 1985 significa far affiorare
scene che si vuole accantonare nella memoria. All’Heysel ha
perso il figlio Roberto: aveva 31 anni, faceva il medico, era
sposato e papà di Andrea e Stefano, di 3 e un anno e mezzo.
"Eravamo accanto, io e Roberto, ma ci siamo persi in mezzo alla
bolgia, sono caduto a terra, una transenna ha evitato che mi
calpestassero, poi sono finito sul campo". Minuti carichi di
tensione. "Con noi c’erano anche due nipoti, li ho incrociati a
metà scalinata, mentre stavo tornando indietro. Mi hanno detto
che Roberto stava poco bene, invece era già morto". Morto mentre
stava soccorrendo un altro tifoso ed è per questo che la
presidenza della Repubblica gli ha conferito la medaglia
d’argento al valor civile. BATTAGLIA - Da quel giorno Otello
Lorentini ha portato avanti la sua personale battaglia affinché
i morti dell’Heysel non venissero dimenticati e affinché fosse
resa giustizia. "Il processo è durato sei lunghissimi anni. Ho
seguito le udienze passo dopo passo, due, tre volte al mese
andavo a Bruxelles con gli avvocati. Ho fatto tutto questo non
tanto per ottenere il risarcimento, anche se è stato giusto che
ci venissero dati quei pochi soldi visto che non volevano
neppure pagare, ma perché i colpevoli venissero inchiodati alle
loro responsabilità. E alla fine posso dire che giustizia è
stata fatta: abbiamo sconfitto l’Uefa, le autorità belghe, le
forze dell’ordine e tifosi del Liverpool, abbiamo fatto
giurisprudenza, in molti sono finiti in galera, tanti altri però
se la sono cavata". ASSOCIAZIONE - Lorentini ha anche fondato
l’Associazione familiari vittime dell’Heysel. "Ormai ne sento
pochi di parenti, di alcuni non so proprio più nulla. Beh, il
tempo passa, la vita continua, ognuno col proprio dolore.
Abbiamo fatto un percorso comune, che è finito, adesso continua
quello privato". Venticinque anni dopo però Lorentini è
rassegnato: neppure la tragedia dell’Heysel ha cambiato la testa
della gente. "Nonostante 39 morti gli stadi continuano a essere
pieni di menefreghisti. E si continua a morire". COMMEMORAZIONE
- Oggi però Otello non sarà a Torino per la commemorazione. "Ho
ricevuto l’invito di Andrea Agnelli, ma qui ad Arezzo c’è la
messa e poi il memorial". Starà con la nuora Arianna, che aveva
27 anni all’epoca, i nipoti Andrea e Stefano, ormai cresciuti e
diventati uomini senza un papà. "Gli abbiamo raccontato i fatti
e, soltanto quando ce l’hanno chiesto loro, li abbiamo portati
al cimitero: volevano vedere il loro babbo". Morto in un giorno
che avrebbe dovuto essere di festa, a rincorrere i sogni di un
trionfo bianconero.
29 maggio
2010
Fonte: Tuttosport
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MAGGIO
2010
Gli occhi di quel ragazzo che morì tra
le mie braccia
di Marco Bernardini
25 anni fa la tragedia all'Heysel: 39
tifosi morti prima della finale di Coppa dei Campioni tra la
Juventus e il Liverpool. I parenti delle vittime venete in
viaggio verso il Belgio.
Partiranno
anche da Bassano. Discreti. In punta di piedi per timore di
disturbare chi riposa. Mario, Gianfranco e Giuseppe meritano il
rispetto delle cose serie. La morte non fa baccano, almeno non
quando per incanto ti afferra la mano e ti accompagna nella zona
del non luogo. Il momento del balzo, quello sì, può essere
segnalato dal rombo del tuono e persino segnato dal sangue. Dopo
no. Il silenzio e la quiete si fanno padroni. Ronchi, Sarto,
Spolaore sono i cognomi scritti sulle lapidi dei cimiteri. I
primi due in quello di Bassano, appunto. L’altro, a Rovigo.
Accanto la rivelazione anagrafica di una fuga precipitosa e
incontrollabile imposta da un destino travestito da hooligan
gonfio di birra. Rispettivamente 43 anni, 47 e 55 anni. Tutti e
tre viaggiatori senza ritorno, partendo dal medesimo punto ad
un’unica ora dello stesso giorno, quasi si fossero messi
d’accordo prima. Le diciannove e otto minuti del 29 maggio 1985.
Luogo fatale uno stadio che si chiamava Heysel, in compagnia di
altri trentatré (NdR: ventinove) fratelli di bandiera sportiva
arrivati in Belgio da tutta Italia per la celebrazione di una
festa cominciata con il sorriso e poi annegata in un oceano di
lacrime. Anche la luna, quella notte, decise di nascondersi
dietro le nuvole per non vedere la tragedia. Massimo Tadolini
oggi ha 47 anni e sarà lui, capogruppo di un corteo dolente, a
guidare quelli che partiranno da Bassano per il doloroso ma
necessario viaggio della memoria. Una lettera già firmata, per
il sindaco Chiamparino. Che la città della Juventus abbia almeno
una strada intitolata ai martiri di un assurdo universo dove
finì il pallone, quella sera, calciato da un orco indecente
spuntato dal nulla per trasformare una favola in tragedia. E’
dall’età della ragione che Massimo si sta battendo perché la
Spoon River bianconera smetta mai di essere attuale. Per
rispetto della memoria ma soprattutto per ragioni pedagogiche.
Morire è una schifezza. Morire dentro uno stadio è la
mortificazione dell’essere umano. Il buio della ragione. Eppure
accadde, venticinque anni fa. In Belgio, da tempo, hanno
provveduto a resettare completamente ogni scheggia del passato.
L’Heysel si chiama "Stadio Re Baldovino", la "Curva Z" è una
linea architettonica che si piega dolcemente, il cemento dei
parcheggi tutti intorno è stato ricoperto di erba verde e di
fiori. Un gesto volutamente ipnotico per inibire il ricordo, mai
dovesse per qualcuno rigalleggiare in superficie. Ma, osservato
da lontano, il gioco di prestigio serve a nulla. Anzi, monta la
rabbia come la marea bretone. Nell’anima e nella testa di coloro
che c’erano, sventuratamente. Alle diciannove e otto minuti in
punto, allorché uomini e donne e ragazzini sotto la pressione di
una furia alcolica squisitamente british vennero catapultati
oltre il muro di cinta più alto nel vuoto. Marionette in volo a
planare, prima di schiantarsi sull’asfalto e mostrare che invece
erano di carne e di ossa, non di legno. I pupazzi non
sanguinano. I cuori neppure, a meno che
non vengano violentati e
maciullati nel petto. Difficile che accada durante o per una
partita di pallone. Almeno, era mai avvenuto prima di allora.
Cinico e un poco annoiato il popolo dei media, arroccato nella
tribuna stampa, chiedeva che cosa si aspettasse per cominciare.
Eppure anche l’Avvocato, insieme con il suo amico Kissinger,
s’era già accomodato nella zona vip. Le urla e la polizia a
cavallo. Che accade, mio dio ? Sguardi più stupiti che
preoccupati. I soliti quattro imbecilli, anche qui fare
casino... E’ il pensiero che dilaga, per primo. Poi le notizie,
portate a chi dovrebbe darle. C’è la morte a passeggio che
miete, dannata e senza scrupoli, nella Curva Z. Ultima lettera
dell’alfabeto e, dunque, segno premonitore per chi pretende di
saper leggere il futuro nei fondi del caffè. Non è possibile !
Macché, tutto vero. Il mondo capovolto, a testa in giù, assurdo
universo. Piero Dardanello, il direttore, ne ha viste e sentite
di tutti i colori in carriera. Questa mai. Un pallone annegato
nel sangue non fa parte della sua cifra di analisi comprensiva.
Sfugge ad ogni logica. La rigetta. Impossibile da raccontare, lì
per lì. E’ una statua di sale, dunque, immobile davanti alla sua
Olivetti portatile. Come ibernato in uno spazio dove il tempo
non ha senso perché inesistente. Come lui quelli della sua
generazione. Allora, forza Claudio Colombo, collega di cronaca
da strada. Siamo in campo, lui ed io, con la rapidità del
fulmine. Io lo tengo per le gambe, lui gli sorregge il capo.
Morirà tra le nostre braccia quel ragazzo del quale abbiamo mai
saputo il nome. Ma gli occhi sì, quelli li abbiamo visti
spalancati per un istante. Urlavano, per come può essere
spaventosamente decibelico uno sguardo: perché ? Già, perché ?
Continuo a chiedermelo ancora oggi, venticinque anni dopo. Una
risposta, netta, non esiste anche se, tutto sommato, la si
potrebbe trovare analizzando le scorie quotidiane lasciate nel
setaccio da un mondo (anche quello del pallone) moralmente
sempre più inquinato e comunque in progressivo degrado. Ma forse
è meglio tacere. Almeno oggi. Per rispetto di tutta quella gente
che sta partendo, anche da Bassano.
29 maggio
2010
Fonte: Corriere della Sera
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
"Quella sera all'Heysel ci hanno
ingannato nascondendo la verità"
di Marco Bucciantini
Loro videro la corsa ossuta, veloce di
Zibì Boniek, attaccante magro e temprato. Gambe resistenti,
testa alta e fiera. S'involò dritto verso la porta, fu steso ben
prima di giungere in area ma fu rigore, doveva esserlo. Un
rigore assurdo e necessario. Noi vedemmo invece un altra corsa,
disperata, semplice e impaurita. Mossa di moto sghembo,
irrazionale. Guardando a destra, poi a sinistra. Fino a
fermarsi, le braccia abbandonate, gli occhi sgranati e persi.
Otello Lorentini rintracciava qualcosa e non trovò niente,
perché cercava la vita in un camposanto. Il 29 maggio del 1985,
dentro lo stadio Heysel di Bruxelles, Cesare Prandelli e Marco
Tardelli e gli altri giocatori corsero a fianco di Boniek,
cercando un gol. A loro fu negata la verità, e quindi la scelta:
giocare o no. A noi telespettatori la verità arrivò con
l'ondeggiare di Lorentini, che cercava suo figlio Roberto, morto
per soccorrere Andrea Casula, un bambino di 11 anni che stava
crepando soffocato e calpestato dai grandi: fu la vittima più
giovane dell’Heysel. Per attardarsi in quel disperato aiuto,
Roberto fu travolto dal crollo del muro del settore Zeta. Fu
medaglia d’argento al valore civile: Roberto era un medico, e
morì cercando di fare il suo mestiere. Anche ai calciatori fu
chiesto di fare il loro mestiere. Avevano intorno l'orrore, ma
dovevano vedere solo la Coppa dei Campioni. "E io da 25 anni
voglio cancellare dalla mia mente quella Coppa, quella sera. Non
dovevamo giocare, non dovevamo avere qualcosa da festeggiare".
Marco Tardelli ride con gli altri: nelle foto in fondo a quella
partita accanto c'è Cesare Prandelli, che deve recitare la
stessa parte: "Ci dissero: andate a fare il giro di campo,
festeggiate dai tifosi che intanto la polizia provvederà a
svuotare il settore dei tifosi del Liverpool". No, non si doveva
giocare. "E io non giocherei più quella partita. Ci hanno
ingannato, nascondendo la verità. Una volta capito cosa stava
succedendo, è diventato un ordine: giocate. Se non lo fate, non
sappiamo come controllare la gente". Giocarono. Tardelli come
sempre, con il numero 8 di quella squadra di campioni, che letta
nell'ordine dei vecchi numeri finiva così: Tardelli, Rossi,
Platini, Boniek. Prima della partita andò sotto la curva, per
una supplica che poi trovò ridicola: "State calmi, dissi ai
nostri tifosi. Ma loro lo erano: solo che intorno tutti erano
impazziti. Se la polizia avesse fatto defluire la gente in
campo, non sarebbe morto nessuno". Invece ricacciarono indietro
la gente, nel settore confinante con la curva destinata agli
inglesi. Li mandarono a morire schiacciati dal muro dove si
erano riparati dall'urto dell'onda bestiale degli hooligans.
Anche Prandelli finì nel tabellino: partendo dalla panchina,
entrò 6’, quando in campo si consumava l'incontro più surreale e
tragico della storia del calcio. Racconta quella sera, il
successo sportivo più importante, e abbassa gli occhi.
"Boniperti aveva visto i morti. Noi eravamo negli spogliatoi,
sentivamo chiasso, ma non sapevamo niente. Scese da noi, prese
Trapattoni da parte e disse: io la squadra non la faccio
giocare". Cominciò il passaparola sui morti. I calciatori -
ormai già vestiti con le divise da gioco e pronti a entrare in
campo per il riscaldamento - cercavano di spiare cosa accadeva.
"Ero in panchina e potevo muovermi con più libertà, ma non
capivo niente, vedevo i tifosi sulla pista d’atletica che
scappavano senza una direzione". Scesero i capi dell’Uefa: si
gioca. O almeno s’inizia, "vediamo come va, ma adesso non
possiamo evacuare lo stadio", ci dissero. Mentre Juventus e
Liverpool si sistemavano in campo, Prandelli dalla panchina
faceva "segno agli amici e ai parenti dei miei compagni di
squadra di lasciare le tribune, andare via, andare lontano.
Riuscii così ad avvertire molti di loro". La partita iniziò. "Ci
eravamo convinti che si dovesse fare il primo tempo, mentre la
polizia faceva uscire i tifosi. E che il secondo tempo non ci
sarebbe mai stato". Infatti fu una prima frazione irreale,
giocata con poco ardore, pochissime occasioni. Alla fine del
primo tempo il delegato scese negli spogliatoi. Ripeté le stesse
tre parole: "Continuate a giocare". La partita non si sarebbe
mai più ripetuta. Quindi andava finita, e il trofeo andava
assegnato. Quando era piccolo e scalciava nella terra
dell’oratorio, come molti ragazzi Cesare sognava questa partita.
E giocava "fingendo" di essere in finale di Coppa dei Campioni.
Gli è toccato rimpiangere che sia accaduto: "Si potevano fare
due cose più giuste: non assegnare il trofeo o inscenare una
partita senza valore sportivo, ma solo di ordine pubblico, e
rigiocare la finale più avanti. Però su quanto accadde quella
sera si sono fatte ricostruzioni fantasiose, finimmo noi nel
mirino, come se noi calciatori avessimo potuto rimediare quella
tragedia". 25 anni dopo, Prandelli ne ha sentite troppe su
quella sera, sul tentativo di colpevolizzare i giocatori. Una
cosa gli ha dato fastidio: "Non abbiamo festeggiato, abbiamo
fatto ciò che ci è stato ordinato di fare. Hanno scritto che
avevamo intascato il premio partita: falso. Nessuno prese una
lira, tutto andò alle vittime e alle loro famiglie". 25 anni
dopo Tardelli lavora in Gran Bretagna, insieme all'allenatore di
allora, Giovanni Trapattoni, sulla panchina dell'Irlanda: "Qui
hanno sconfitto la violenza da stadio. Lo hanno voluto, e
l'hanno fatto. Allo stadio vanno i bambini per mano ai genitori.
Controllati da steward che sono rispettati. In Italia non si
può. Gli ultras spesso soggiogano le società e comandano sugli
spalti, dove i poliziotti sono considerati nemici". E lo dice
così, come se quella sera, quel sangue nostro, avesse insegnato
ai colpevoli e non alle vittime.
29 maggio 2010
Fonte: Unita.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Foto dall'Heysel: il calcetto, la corsa
al telefono e le banane di Edoardo Agnelli
di Franco Ordine
Sono i tre incredibili ricordi ancora
nitidi del vecchio cronista presente nel maggio di quell'anno,
con una carovana di colleghi, nella tribuna stampa di quel
maledetto stadio belga dove avvenne la tragica fine dei 39
tifosi della Juventus.
Per una circostanza unica, è consentito
un ricordo personale. La ricorrenza della tragedia dell'Heysel è
una delle esperienze che hanno marchiato la mia vita
professionale di giovane cronista, in giro per l'Europa, sulle
tracce di una qualche coppa. In quel maggio, lavoravo al
Corriere dello Sport diretto da Giorgio Tosatti ed ero stato
incaricato di seguire la Juve in Belgio per setacciare alberghi
e ristoranti e riferire della presenza di operatori di
calcio-mercato. Il capo della spedizione era Giuseppe Pistilli,
vice-direttore e prima firma del quotidiano sportivo, un
delizioso compagno di ventura, capace di guidare la squadra col
tratto di un vero allenatore di calcio. Enrico Maida (oggi al
Messaggero), Fabio Monti (oggi al Corriere della Sera), Enzo
D'Orsi (oggi a Leggo), Luca Argentieri (purtroppo scomparsi,
all'epoca inviato al seguito del Liverpool) erano gli altri
componenti del drappello. Quando cominciammo a fare i conti con
gli assalti degli hooligans alla famigerata curva Z, Pistilli
divise i compiti tra noi e lasciammo la tribuna-stampa mentre
lui teneva il collegamento con Roma, sede centrale del giornale.
Tre sono le istantanee che mi sono rimaste impresse e che non
riesco a cancellare dalla memoria personale. La prima: appena i
tifosi juventini incolumi vennero sbalzati fuori dal macabro
recinto, molti si radunarono sul prato verde dello stadio,
alcuni di loro, inconsapevoli forse della tragedia, tirarono
fuori una palletta di gomma e cominciarono a improvvisare una
sfida di calcetto. Vennero ricacciati indietro da poliziotti a
cavallo. La seconda: in compagnia di un collega del Corsera
dell'epoca, Nicola Forcignanò, riuscimmo a introdurci nello
spogliatoio della Juventus. Erano saltati tutti i controlli, i
gendarmi erano tutti dentro l'ovale dell'Heysel, e non c'erano
notizie certe sulle decisioni dell'Uefa. Ci venne incontro
Edoardo Agnelli, il figlio dell'Avvocato in arrivo da Milano su
un volo privato in compagnia del direttore del Corriere dello
Sera, Piero Ostellino. Era vestito con un completo gessato di
flanella: sudava oltre che per il peso invernale del vestito
anche per il clima dentro lo spogliatoio. Ci anticipò la
decisione dell'Uefa ("vogliono far disputare la partita, tra un
po' manderemo Scirea a parlare con il pubblico") e ci spiegò
quale fosse in quel momento l'emergenza nello stanzone della
Juve. "La squadra ha fame, non mangia da molte ore e non abbiamo
neanche un panino a disposizione. Abbiamo mandato in città il
magazziniere ad acquistare delle banane". La terza: con i
cadaveri impilati dinanzi all'ingresso esterno della tribuna
stampa, molti spettatori italiani si riversarono sulle nostre
postazioni chiedendoci di poter utilizzare il telefono (non
c'erano i cellulari) per chiamare casa e tranquillizzare le
rispettive famiglie. Le uniche notizie erano all'epoca dettate
dal telecronista Rai, Bruno Pizzul, costretto a fornire
l'aggiornamento del numero delle vittime senza poter fornire
l'identità. Pistilli passò la cornetta senza fiatare. Come Dio
volle, riuscimmo a dettare a braccio i servizi. A notte fonda,
tornammo in albergo senza scambiarci una sola parola di
commento. Pistilli ci diede il compito del giorno dopo: "Monti
resta a Bruxelles, Ordine va a Torino, Maida rientra a Roma con
me, Argentieri segue il Liverpool". Sono passati 25 anni, spesso
ci siamo rivisti tutti insieme a cena, la sera, dopo una
proficua e spensierata giornata di lavoro: forse è venuto il
momento di ripensare a quelle ore e a quel ragazzo pieno di
talento, Luca Argentieri, che non c'è più.
29 maggio 2010
Fonte:
Ilgiornale.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Heysel '85, la strage degli innocenti
rese il calcio più sicuro
di Roberto Perrone
La storia. Oggi a Torino e a Bruxelles
si ricordano le 39 vittime della tragedia della finale tra
Juventus e Liverpool che sconvolse il mondo del pallone. Uefa
responsabile. Sui biglietti gli organizzatori "declinavano ogni
responsabilità" ma la corte stabilì che invece lo erano.
MILANO - Il 26 giugno del 1990, in
un'aula accaldata del tribunale di Bruxelles, c'era un italiano
solo in campo, Otello Lorentini. Al suo fianco l'avvocato Daniel
Vedovatto. Quel giorno il piccolo grande uomo di Arezzo,
presidente dell'associazione vittime, padre di Roberto, morto a
31 anni nella curva Z dello stadio Heysel, schiacciato non
mentre cercava di scappare, ma perché si era fermato a
soccorrere qualcuno che era a terra e per questo ebbe la
medaglia d'argento al valor civile, conquistò la sua più grande
vittoria. Quel giorno cambiò il calcio, veramente. Non il 29
maggio del 1985, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e
Liverpool, anche se l'Equipe, il giorno dopo la strage, titolò:
"Le football assassiné". Sui biglietti della finale, soprattutto
su quelli della famigerata curva Z, c'era scritto:
"l'organizzatore declina ogni responsabilità in caso
d'incidenti, di qualsiasi tipo". Uno è riprodotto sul sito più
completo che ricorda quelle 39 vite (32 italiani, 4 Belgi, 2
Francesi e 1 Irlandese) spezzate, "Saladellamemoriaheysel.it"
creato da Domenico Laudadio. Lì c'è tutto, comprese le ridicole
sentenze penali: dieci mesi di carcere al massimo, e non per
tutti i colpevoli, 2 miliardi il risarcimento per le vittime (la
percentuale maggiore arrivata da donazioni private, in testa la
Fondazione Agnelli). Ma il 26 giugno 1990 i giudici
sentenziarono che l'Uefa non poteva declinare ogni
responsabilità e passare semplicemente alla cassa. E' grazie a
Otello Lorentini che le finali di Champions League non sono più
a rischio-corrida ed a Madrid metà dei poliziotti della città
pattugliavano le strade, le piazze, lo stadio. A Bruxelles, in
quella calda notte di fine maggio, dovevano essere 1.300 (così
era scritto sulla domanda di organizzazione) ma erano solo 400 e
quasi tutti fuori dallo stadio. Quando, alle 19.08, cominciò la
prima carica degli hooligans ubriachi di Liverpool (sorretti dai
patibolari headhunters del Chelsea), a guardia delle retina che
separava il settore Z (quello che in teoria doveva essere
neutrale, ma era stracolmo di tifosi bianconeri) dall'Y, ce n'
erano solo 5 e si dileguarono in fretta. La fine è nota. Tante
storie, tante sofferenze. Uomini, donne e bambini: Andrea
Casula, 11 anni e mezzo, la vittima più giovane. E i loro
parenti costretti a convivere non solo con il dolore e la
nequizia degli uomini, ma anche con la loro stupidità. Come i
genitori di Giuseppina Conti, 17 anni, di Arezzo, che si videro
recapitare il conto dell'ambulanza. Se siamo ancora qui a
ricordare, è perché tutti, istituzioni, club coinvolti, perfino
parenti (solo 21 famiglie si costituirono parte civile al
processo), hanno fatto a gara a "metterci una pietra sopra" come
disse, qualche mese dopo la strage, con un'espressione infelice,
Giampiero Boniperti. E chi non vuole dimenticare, non ricorda,
come quell'inviato della Bbc che, quando Juve e Liverpool
tornarono a incrociarsi, nel 2005, sparò nell'etere: "(...) dove
39 tifosi bianconeri persero la vita per il crollo di un
muretto". C'è sempre stato un po' di fastidio nelle cerimonie,
speriamo che non ci sia oggi a Torino, prima nella sede della
Juve, poi alla Gran Madre, per la Messa. Speriamo che non sia
così a Bruxelles, allo stadio Re Baldovino, dove la curva Z non
c'è più, quando osserveranno un minuto di silenzio. Ma più che
il 29 maggio 1985 dovremmo segnare quel 26 giugno 1990 in cui
Otello Lorentini vinse per tutti noi. In solitudine: "Non c'era
neanche un giornalista italiano. Eravamo in pieno Mondiale".
Notti magiche inseguendo un gol. Inutilmente.
29 maggio
2010
Fonte: Il Corriere della Sera
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Heysel 25 anni dopo "Gli inglesi hanno
imparato, noi no"
di Enrica Speroni
Boniperti "Quando entro in uno stadio
penso che quel massacro potrebbe succedere di nuovo".
TORINO - Abbronzato, camicia bianca,
niente cravatta. "Fra un mese ne compio 82, ma non mi lamento.
Sto bene grazie a Dio". Sì, Giampiero Boniperti sta bene. Gli
anni non ne hanno fiaccato la grinta. Neanche la rabbia, che
torna prepotente a riaffacciarsi nel tono di voce appena nomini
l'Heysel. Ha tra le mani "Quando cade l'acrobata, entrano i
clown", monologo di Walter Veltroni sulla tragedia di Bruxelles.
Sembra che il libro scotti: lo tocca, lo sfoglia, lo sbatte
sulla scrivania. 29 maggio 1985, 25 anni fa: finale di Coppa
Campioni Juve-Liverpool, 39 morti vittime della furia hooligans.
"Chi ha vissuto quella giornata non la può dimenticare. Ci ha
distrutto. E se qualche volta cerco di rimuoverla, torna. Perché
quando entro in uno stadio penso "potrebbe succedere quello che
io ho già visto". Ho letto il racconto di Veltroni in una notte
e poi non ho chiuso occhio. Li rivedo i morti, in ospedale:
neri, allineati, tutti tifosi nostri. Sembrava impossibile. E
non è stato un caso". Trentanove morti prima della partita.
"Quello stadio non era da scegliere. Vecchio, malmesso, sembrava
un cantiere. Quando sono andato a vederlo il giorno prima c'era,
all'esterno, una catasta di legna. Pezzi che potevano essere
usati come clave". Non si doveva, si giocò. "Sia noi sia il
Liverpool non avremmo voluto. Lo imposero il ministro
dell'Interno, l'Uefa e il capo della Gendarmeria per una
questione di ordine pubblico. Era anche un modo perché chi
volesse lasciare lo stadio potesse uscire. La polizia è arrivata
dopo il disastro; prima, a presidiare il settore Z, c'era un
poliziotto solo. E quando gli hooligans hanno buttato giù la
recinzione è scappato. Pazzesco. Eppure lo sapevano tutti che
quelli andavano a fare una battaglia, non a vedere calcio. Era
una caccia alle persone. C'erano gradini alti, la gente cadeva e
gli altri finivano sopra. Lo stadio andava diviso in due, non si
doveva lasciare gli inglesi a contatto con i nostri tifosi. Ci
sono state colpe gravi". I giocatori sapevano ? "Non dei morti,
solo che c'erano stati disordini. Io sono andato negli
spogliatoi per assicurarmi che non entrasse la notizia. Se
avessero saputo molti non avrebbero voluto scendere in campo,
invece eravamo obbligati. C'era un caos incredibile, ero
spaventato anche per la mia famiglia in tribuna. Mia moglie,
seppi poi, non trovava più mio figlio Alessandro che era andato
verso la curva maledetta. Nell'85 non c'erano i telefonini: i
tifosi dall'altra parte dello stadio non conoscevano l'entità
del disastro, ma se non avessimo giocato la finale avrebbero
capito. L'Avvocato arrivò, lo informarono, ripartì. Suo figlio
Edoardo era a bordo campo inorridito, dovetti farlo trascinare
via a forza. A fine partita entrò nello spogliatoio l'avvocato
Chiusano: disse che non avremmo dovuto giocare. A me lo diceva ?
Se non me lo toglievano, gli avrei dato un pugno". Trapattoni,
ripensandoci, ammise che la coppa avrebbe dovuto essere
riconsegnata. "No, la partita fu vera. Falso fu solo il rigore.
Zibì è scattato ed è stato fermato fuori dall'area, ma l'arbitro
era nella nostra metà campo e venne ingannato dalla distanza.
Alla fine Platini mostrò la coppa ai nostri tifosi, ma rientrò
subito". Boniek raccontò di non aver mai ritirato il premio
partita. "Boniek fece come gli altri. Non so più come dirlo: noi
non avremmo voluto giocare, ci obbligarono, e fu gara vera". Era
il caso di sollevare la coppa al cielo il giorno dopo a Caselle
? La Gazzetta scrisse "Juve nascondi quella coppa". Lei litigò
con Cannavò... "Ripensandoci ora dico che non aveva tutti i
torti, il gesto di mostrarla è scappato... Ma è facile parlare.
Noi eravamo travolti da un dramma, da emozioni fortissime e
incontrollabili. Comunque con Cannavò ho fatto pace". Il calcio
ha imparato da quella tragedia ? "Il calcio inglese sì, ha
imparato la lezione. Dopo l'Heysel ci fu Sheffield (96 morti
nell'89, semifinale di coppa d'Inghilterra tra Liverpool e
Nottingham Forest), ma ha saputo reagire: guerra agli hooligans,
pene certe, stadi rifondati. Gli inglesi hanno tolto la
divisione tra il pubblico e il campo, là nessuno entra più. Sono
stati più bravi di noi che facciamo giocare Genoa-Milan a porte
chiuse per un episodio di violenza del 1995. Ci rendiamo conto
che parliamo di 15 anni fa ?".
29 maggio
2010
Fonte: La Gazzetta dello Sport
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Oggi il corteo bianconero
Dall'Heysel a Calciopoli
di Jacopo D'Orsi
Sono passati venticinque anni, un
quarto di secolo. La Juve ricorda la notte più buia della sua
storia: 29 maggio 1985, stadio Heysel di Bruxelles, trentanove
tifosi morti prima della finale di Coppa dei Campioni contro il
Liverpool. Alle 10, per la commemorazione nella sede del club in
corso Ferraris, è atteso il presidente dell'Uefa Michel Platini.
Saranno presenti anche diversi compagni dell'epoca, i famigliari
delle vittime e una rappresentanza del Liverpool. Alle 11 messa
alla Gran Madre. Parallelamente andranno in scena le iniziative
dei tifosi: dopo la messa a Santa Rita, ritrovo in piazzale Caio
Mario e marcia pacifica verso la sede. Il popolo bianconero
chiederà al Comune, attraverso una petizione, di intitolare alla
memoria delle vittime un giardino o una piazza nei pressi del
nuovo stadio, in costruzione sulle ceneri del Delle Alpi.
Infine, alla Juve sarà chiesto di muoversi per ottenere la
revisione del processo sportivo di Calciopoli.
29 maggio
2010
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
A Torino Messa e corteo per ricordare
le vittime
di Jacopo D'Orsi
Venticinque anni e 39 morti da non
dimenticare: la Juve ricorda la tragedia dell'Heysel, il dramma
vissuto dai suoi tifosi e dalle loro famiglie il 29 maggio 1985
a Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni contro il
Liverpool. Dalle 10 sono in programma una commemorazione nella
sede del club e una messa nella chiesa della Gran Madre: tra i
presenti Michel Platini, diversi suoi compagni dell'epoca, il
presidente della Lega Maurizio Beretta, la dirigenza (con il neo
presidente Andrea Agnelli, foto) e la squadra di oggi, i
familiari delle vittime e una rappresentanza del Liverpool.
Mobilitati anche i tifosi (messa e una marcia in memoria dalle
15): petizione al Comune per intitolare alle vittime un giardino
o una piazza nei pressi del nuovo stadio bianconero. Alla
società chiederanno la revisione del processo di Calciopoli.
29 maggio
2010
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Due abruzzesi tra i 39 morti e i 600
feriti di una delle più gravi tragedie della storia del calcio
mondiale
Heysel, la Coppa della tragedia
Oggi il 25esimo anniversario della
strage di tifosi nello stadio belga.
di Walter Nerone
E' nella
bacheca della Juventus la coppa insanguinata, il trofeo che
nessuno avrebbe voluto vincere, alzato al cielo da Platini nella
surreale cornice di uno stadio trasformato in immenso obitorio.
Chi quel giorno, 25 anni fa, riuscì a sorridere ancora oggi se
ne vergogna.
Una coppa intrisa del sangue
di 39 vittime (32 italiane, 4 belghe, 2 francesi e una
irlandese) e ben 370 feriti, senza contare quelli che, perché
colpevoli o solo terrorizzati, sono fuggiti a farsi medicare a
molti chilometri di distanza (circa 600). Vittime in larghissima
parte giovanissime, arrivate nell'angusto, pericolante stadio
belga per sostenere il sogno juventino della prima coppa dei
Campioni. Vite spezzate dalla furia cieca di qualche migliaio di
fan del Liverpool, la cui pericolosità era stata sperimentata
l'anno prima a Roma e nella circostanza rinforzati da frange di
supporter del Chelsea dal nome emblematico: "Headhunter"
(cacciatori di teste).
Tutto avvenne a pochi minuti
dall'inizio della gara. Mentre Platini, Boniek e compagni si
preparavano a scendere in campo, la fragile e marcia rete che
separava il settore Z, inopinatamente assegnato a tifosi
juventini arrivati a Bruxelles con agenzie di viaggio autonome
rispetto al grosso dei fan bianconeri, dal resto della curva
assegnata agli inglesi cedeva sotto la spinta delle ripetute
cariche dei tifosi reds. I tifosi italiani vengono spinti contro
la parete esterna della curva che all'improvviso cede facendo
precipitare decine e decine di persone. Lo stadio è nel caos
totale, per minuti nessuno si rende conto della portata della
tragedia che si sta consumando. La polizia è in confusione, i
dirigenti UEFA impongono la disputa della gara. Bruno Pizzul la
racconta agli italiani senza rivelare la tragedia, ignorando che
il Tg1 mostra le immagini che la diretta sportiva nasconde,
gettando nella disperazione centinaia di famiglie in ogni angolo
d'Italia.
Anche per questo quella
dell'Heysel, non la più grave purtroppo nella storia del calcio
mondiale, è senza dubbio quella che ancora oggi suscita più
imbarazzi, rimpianti e polemiche. Assurda nella dinamica prima
che nella dimensione, nella sua prevedibilità e per le evidenti,
incancellabili responsabilità giuridiche e morali; assurda per
come è stata gestita dalle forze dell'ordine e dai dirigenti
UEFA e dalle due squadre, Juventus e Liverpool, incapaci perfino
di concordare un pro forma rispettoso del sangue di tanti
innocenti.
29 maggio 2010
Fonte:
Ilcentro.gelocal.it
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
A Reggio Emilia un ricordo perenne
Invitata alla cerimonia che si è svolta
nella sede della Juventus, una rappresentanza dei parenti delle
vittime ha voluto sottolineare l’impegno di Reggio Emilia, città
natale di un Claudio Zavaroni, uno dei morti di quella tragica
notte, al quale è stata intitolata la palestra della scuola
superiore che aveva frequentato. A Reggio Emilia, in
contemporanea con Torino, si è svolta una commemorazione davanti
al monumento "Per non dimenticare l’Heysel" dello scultore
fiammingo Gido Vanlessen che con le sue trentanove steli ricorda
il tragico evento. "Quest'anno ricorre un quarto di secolo - ha
ricordato Andrea Mattioli del "Comitato Per Non Dimenticare Heysel" - ma la memoria non può affievolirsi. Dopo una grande
tragedia, più il ricordo è condiviso e più è forte il monito che
ne deriva affinché sia di insegnamento per i giovani il senso di
responsabilità e nonviolenza, che devono guidare le persone
negli eventi dello sport, ma anche nella vita. Attraverso il
ricordo dell'Heysel questi valori possono restare nel tempo".
29 maggio 2010
Fonte: Juventus.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Del Piero: "Heysel, una partita mai
iniziata"
Prima nella
sede della Juventus, dove il presidente Andrea Agnelli ha
condotto la commemorazione davanti ai famigliari delle vittime e
a tanta Juve di allora (vedi articolo), poi nella chiesa della
Gran Madre assieme a buona parte dei compagni di oggi.
Alessandro Del Piero è stato sempre presente alla commemorazione
per i venticinque anni della tragedia dell’Heysel. E attraverso
il suo sito personale www.alessandrodelpiero.com la ricorda
così: "La mia squadra deve vincere la Coppa dei Campioni. Questa
volta non può sfuggirci, siamo i più forti. Il giorno dopo c’è
la scuola, ma so che i miei mi faranno fare tardi, tanto non
sarei riuscito a dormire. A casa siamo tutti juventini: papà,
mamma, mio fratello. La partita l’ho già giocata nel pomeriggio
con il mio pallone, e la sera prima di andare a dormire con la
mia immaginazione, come sempre interpretando la parte di tutti i
giocatori. La fantasia ti fa volare, qualche anno più tardi
avrei scoperto che la realtà la può anche superare". "É una di
quelle partite di cui parlano tutti, in Veneto poi è
pieno di juventini come noi. Eppure Juventus-Liverpool, finale
di Coppa dei Campioni 1984/85 dallo stadio Heysel di Bruxelles,
la vediamo con un tifoso dell’Inter: è un collega, caro amico di
mio papà, che ci aveva invitato a cena. Una bella occasione per
stare insieme e per fare festa, a casa di un amico e non certo
di un avversario". "Tutto il bello del calcio e della passione
per una squadra, per me, sta tutto in quell’attesa. Tutto il
brutto, quanto di più drammatico si possa immaginare, sta tutto
in quello che è accaduto dopo. Ricordo una cena consumata in
pochi minuti per correre a giocare con il figlio degli amici dei
miei, prima del calcio d’inizio. Ricordo una partita che non
comincia mai, mentre i grandi sono a tavola, con gli occhi fissi
alla televisione, la voce per me lontana di Bruno Pizzul che
rivela a milioni di spettatori quello che sta accadendo. Io sono
di là a giocare. Solo più tardi mi spiegheranno, comincerò a
capire dove può arrivare la follia, la bestialità, ma anche
l’irresponsabilità degli uomini. Torniamo a casa tra il primo e
il secondo tempo. La partita era iniziata, poco contava ormai".
"Ma quale partita. Vinciamo la Coppa, sì. Ma all’Heysel sono
morte 39 persone, di cui 32 italiani, juventini che volevano
festeggiare, come me e la mia famiglia. Come loro, potevamo
esserci noi. Adesso sono il capitano della Juventus. Sono
passati venticinque anni, da diciassette sono dall’altra parte,
non più tifoso, ma protagonista. Oggi ricorderemo le vittime di
quella tragedia. Lo farò non soltanto da giocatore della
Juventus, ma da tifoso, da bambino di undici anni che sognava di
giocarla, quella finale. Non la dobbiamo mai dimenticare. E in
particolar modo noi che abbiamo la fortuna di indossare questa
maglia - per un minuto come per una carriera - dobbiamo
rivolgere un pensiero a quella partita mai iniziata e a chi per
quella partita, per quella passione, per la Juventus, ha perso
la vita".
29 maggio 2010
Fonte:
Juventus.com
ARTICOLI STAMPA e WEB 29
MAGGIO
2010
Cerimonie a Torino e a Bruxelles
Agnelli: "Fatico a sentire mia quella
Coppa"
Commozione a Torino per la messa in
ricordo delle 39 vittime dell'Heysel il 29 maggio 1985. Presenti
molti giocatori della squadra di allora, la Juve di oggi con la
dirigenza e una rappresentanza del Liverpool. Il presidente del
club bianconero, Andrea Agnelli, ha ricordato quel tragico
giorno: "Ho sempre fatto fatica a sentire mia quella Coppa".
Toccante il racconto che Del Piero ha affidato al proprio sito:
"Ricordo una partita che non comincia mai, mentre i grandi sono
a tavola, con gli occhi fissi alla tv e ora ricordo le vittime
non solo da giocatore della Juve, ma da tifoso, da bambino di 11
anni che sognava di giocarla, quella finale". Dopo la messa, il
corteo dei tifosi bianconeri: partito in memoria delle vittime è
vergognosamente finito con insulti e lancio di bombe carta
contro la sede della Juventus.
30 maggio
2010
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA e WEB
30 MAGGIO
2010
La memoria offesa dei 39 morti
dell'Heysel
di Xavier Jacobelli
Fumogeni, bombe carta e insulti sotto
la sede della Juventus nel giorno del ricordo. Il post l'ha
scritto un tifoso su un forum juventino, nickname Big Boss.
"Sono appena tornato a casa. Ero con mio padre e mia madre. Mia
madre alla sesta bomba carta ha giustamente deciso di andarsene
e mio padre, che ha una certa età, era abbastanza scosso.
Peccato per gli ultras, i quali non vogliono evidentemente
capire che dietro una manifestazione del genere c’è molto di più
di un "english animal" o "odio Liverpool". Eravamo lì per
ricordare chi non c’era più e per difendere la nostra bandiera:
il che non significa lanciare bombe carta o interrompere i
discorsi altrui con cori per i diffidati e insulti vari. Il vero
male del calcio è chi va tutte le domeniche allo stadio, ma
evidentemente non lo ama". Se nemmeno 25 anni dopo la strage, i
39 morti dell'Heysel possono riposare in pace. Se nemmeno
durante la giornata della memoria, a Torino, ci è stato
risparmiato il solito copione di insulti, bombe carta, fumogeni,
petardi. Se nemmeno la sede della Juve viene esclusa da questa
incapacità di rispettare il dolore e il ricordo, significa che
l'abisso d'inciviltà in cui è piombato il nostro calcio è più
profondo di quanto temessimo. Venticinque anni dopo quella
sconvolgente tragedia siamo ancora qui a chiederci come sia
possibile tanta insofferenza; tanto, inaudito e feroce chiasso.
E a domandarci che cosa c'entrino Calciopoli, lo scudetto
assegnato a tavolino all'Inter, i cori sguaiati e tutto il resto
nel giorno in cui i pensieri e le parole dovevano essere solo
per i martiri di Bruxelles. La cui memoria ha diritto a un
calcio migliore di questo, così barbaro da non sembrare vero.
30 maggio 2010
Fonte:
Datasport.it
ARTICOLI STAMPA e WEB
30 MAGGIO
2010
La marcia del popolo bianconero per le
vie della città
Lacrime e sassate: tifosi tra Heysel e
Calciopoli
di Jacopo Orsi
Il giorno più lungo dei tifosi della
Juve finisce con una decina di teppisti identificati dalla
Digos, perché la manifestazione organizzata per ricordare le
vittime dell'Heysel a 25 anni dalla notte più buia del football
degenera nel solito triste spettacolo a cui il nostro calcio ci
ha ormai abituato. L'impressione è che abbiano ragione l'ex
presidente Boniperti e l'ex terzino Cabrini, quando spiegano che
"gli inglesi hanno imparato la lezione e sono stati più bravi di
noi". Le stesse persone capaci di commuoversi (abbiamo visto le
lacrime rigarne il volto) per una poesia che ricordava Andrea
Casula, bambino di 11 anni morto con suo padre prima della
maledetta finale di Coppa dei Campioni del 1985, alle sei della
sera, dopo aver urlato per le vie della città infamie e insulti
di ogni tipo all'Inter, al Toro, a Balotelli e Materazzi, alla
polizia, alla vecchia dirigenza, alla squadra (Cannavaro e
Zebina) e pure al Liverpool, cioè a tutti coloro che anche in
una giornata così sono stati definiti "nemici" , hanno finito il
loro lavoro lanciando una decina di bombe carta all'interno del
recinto che protegge la sede del club in corso Ferraris. Nobile,
almeno, lo striscione affisso al cancello: "Impossibile
dimenticare, doveroso ricordare". Altri si sono azzuffati nelle
vicinanze, in mezzo all'odore acre della birra, delle canne e
dei fumogeni. Delusi dal fatto che a riceverli non ci fosse
nessun rappresentante della società, cui avrebbero voluto
consegnare una petizione da inoltrare al Comune per intitolare
una piazza o un giardino nei pressi del nuovo stadio "ai 39
angeli caduti", nonché chiedere (come ha promesso il presidente
Andrea Agnelli) che all'interno della nuova casa bianconera sia
realizzata una sala della memoria. Ma la manifestazione aveva
anche lo scopo, presto diventato preponderante, di invitare la
Juve a chiedere la revisione del processo sportivo di
Calciopoli: "Rivogliamo indietro i due scudetti". Ecco il perché
di tanto odio nei confronti dell'Inter: lungo la marcia sono
stati presi a sassate un paio di balconi con bandiere
nerazzurre. Sarà la Scientifica, dopo aver visionato i filmati,
a stabilire se per qualcuno ci saranno conseguenze. Il corteo
(1500 persone) era partito da piazza Caio Mario, dopo la messa
celebrata in mattinata a Santa Rita parallelamente al protocollo
ufficiale della Juve (commemorazione in sede e messa alla Gran
Madre: ospiti il presidente dell'Uefa Platini, la squadra di
oggi e quella di allora, i famigliari delle vittime). C'erano
tutti: i gruppi ultrà della Nord e della Sud, i tifosi delle
community sul web, quelli dei club. In mezzo a loro anche tanta
gente normale. Mamme, bambini. Come Stefania, a spasso con il
marito e il figlio Alessandro: "Vogliamo giustizia - ha spiegato
- la società deve farsi sentire: Calciopoli è stata una
Farsopoli". Marisa Fiorenzo, invece, è arrivata in pullman da
Bologna "per difendere l'onore e la storia della Juve: ce ne
stanno facendo di tutti i colori". "Marciamo per il nostro
orgoglio - ha chiuso Igor Provasi, arrivato da Milano con gli
amici Luca Itria e Guido Secreto - a sbagliare sono soltanto i
13 milioni di bianconeri che oggi non ci sono".
30 maggio
2010
Fonte: La Stampa
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30 MAGGIO
2010
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