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ARTICOLI 29-31 MAGGIO 2010
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29-31 MAGGIO 2010
ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010

Andrea Agnelli scrive a Lorentini

Heysel, la notte del calcio perseguita i sopravvissuti

Heysel, 25 anni per non dimenticare

Heysel, ricordo per sempre

Lorentini amaro "Negli stadi ancora morti"

Gli occhi di quel ragazzo che morì tra le mie braccia

"Quella sera all'Heysel ci hanno ingannato..."

Foto dall'Heysel: il calcetto, la corsa al telefono...

Heysel '85, la strage degli innocenti rese il calcio più sicuro

Heysel 25 anni dopo "Gli inglesi hanno imparato, noi no"

Dall'Heysel a Calciopoli

A Torino Messa e corteo per ricordare le vittime

Heysel, la Coppa della tragedia

A Reggio Emilia un ricordo perenne

Del Piero: "Heysel, una partita mai iniziata"

ARTICOLI STAMPA e WEB 30 MAGGIO 2010

Agnelli: "Fatico a sentire mia quella Coppa"

La memoria offesa dei 39 morti dell'Heysel

Lacrime e sassate: tifosi tra Heysel e Calciopoli

ARTICOLI STAMPA e WEB 31 MAGGIO 2010

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Oggi ricorrono i 25 anni dalla strage di Bruxelles. In ricordo di Roberto e Giusy

Andrea Agnelli scrive a Lorentini

AREZZO - Venticinque anni e un dolore che non si cancella. Il 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool, muoiono 39 tifosi bianconeri. Muoiono nel settore Z, schiacciati e soffocati dalla calca, sotto i colpi degli hooligans inglesi instupiditi dall'alcool, con la connivenza decisiva delle autorità belghe, della polizia locale e dell'Uefa, incapaci di prevedere e d'intervenire. La città di Arezzo ha pagato un altissimo tributo a quella maledetta serata. All’Heysel persero la vita la studentessa Giuseppina Conti e il dottor Roberto Lorentini. Quest'ultimo è stato insignito della medaglia d'argento al valor civile perché fu travolto mentre, in qualità di medico, stava prestando soccorso ai feriti sugli spalti. Da Arezzo è partita la battaglia per ottenere giustizia e tenere viva la memoria su quella strage. Otello Lorentini, padre di Roberto, ha, prima fondato l'associazione dei familiari delle vittime, e poi dato vita al Comitato permanente contro la violenza nello sport "R. Lorentini - G. Conti". La battaglia giudiziaria, durata 6 anni e mezzo, si è conclusa con la condanna dell'Uefa riconosciuta responsabile, insieme alle autorità belghe. Nel 2005, nella ricorrenza del ventennale, Arezzo ha ospitato la partita amichevole tra le formazioni primavera di Juventus e Liverpool. Un evento dal profondo significato simbolico rivolto alle nuove generazioni per non dimenticare e non ripetere mai più. Nel 2007 è stato intitolato a Roberto Lorentini il piazzale antistante lo stadio e a Giuseppina Conti quello antistante il palasport a Le Caselle. In occasione del 25° anniversario il neo presidente della Juventus Andrea Agnelli ha scritto ad Otello Lorentini. "L'impegno del Suo comitato - si legge nella lettera - è una testimonianza importante per coloro che intendono alimentare una memoria che è parte costitutiva della nostra identità, di uomini e di juventini. Oggi quella memoria - prosegue il numero uno bianconero - ci unisce in un dolore che è anche speranza; perché dal sacrificio di quelle 39 vittime dobbiamo trovare la forza per far crescere un'idea di calcio lontana da ogni forma di violenza. La Juventus - conclude la missiva - continuerà ad essere vicina al Suo comitato e La ringrazia per la dedizione che, siamo certi, non verrà mai meno".

29 maggio 2010

Fonte: Corriere di Arezzo

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Oggi l’anniversario. La Juve invita i familiari, non tutti risponderanno

Heysel la notte del calcio perseguita i sopravvissuti

di Francesco Caremani

Venticinque anni, tanto è lungo il filo della memoria che si riavvolge ogni 29 maggio, il giorno in cui allo stadio Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool del 1985, muoiono 39 persone, di cui 32 italiani. Muoiono nel settore Z, schiacciate e soffocate dalla calca, sotto i colpi degli hooligans inglesi instupiditi dall'alcool, con la connivenza decisiva delle autorità belghe, della polizia locale e dell'Uefa, incapaci di prevedere e d'intervenire. Ieri a Liverpool, sui muri di Anfield, è stata scoperta una targa alla presenza di Phil Neal e Sergio Brio, i capitani di quella maledetta finale, oltre che di Gianluca Pessotto in rappresentanza del club bianconero. E simbolicamente sono stati piantati 39 alberi, uno per ogni vittima. Ma il clou delle iniziative è sabato. A Bruxelles una delegazione di tifosi juventini del Belgio andranno in pellegrinaggio nello stadio della morte, ribattezzato Re Baldovino. A Torino, davanti alla lapide nel cortile della sede della Juve, pregheranno Platini e molti giocatori dell’epoca, nonché una delegazione del Liverpool. A seguire la messa alla Gran Madre. La società ha invitato alle cerimonie i familiari delle vittime: molti hanno sussurrato la parola "finalmente", non tutti risponderanno.

Mario Ronchi, l'interista. La moglie: "Ogni sera, conto chi c’è e chi non c’è più". "Mio marito non era tifoso della Juventus - racconta Maria Teresa Dissegna, di Bassano del Grappa, - lui teneva per l'Inter, ma è andato con gli amici". Parla con diffidenza Maria, perché non l'aveva mai fatto prima e non vuole pubblicità. "Il dolore è ancora molto forte, come venticinque anni fa, ho bisogno di stare tranquilla. E' difficile spiegare il quotidiano, vivere alla giornata e andarsene a letto facendo la conta di chi è rimasto e chi non c'è più". Sono parole ruvide che raccontano la dignità di chi è rimasto senza sogni nel cassetto, dovendo fare i conti con una vita che non ha scelto: "Mio figlio oggi ha 27 anni ma non abbiamo mai affrontato l'argomento. Gli parlo e gli ho parlato di suo padre, di come era, ma non di quella sera". Mario aveva un'impresa e chi l'ha portato via ha cancellato il futuro di una famiglia: "Ho ricevuto l'invito della Juventus, ma non andrò, ognuno ha la sua coscienza".

Giancarlo Gonnelli, padre e figlia. Rosalina: "Lei in coma e su mio marito dicevano: te l’hanno pagato morto". "Non ho accettato la sua morte perché non l'ho vissuta, ricorda Rosalina Vannini di Ponsacco. Ogni tanto vado al cimitero, ma per me è sempre qui, l'ho sognato anche la notte scorsa". Giancarlo all'Heysel c'era andato con la figlia Carla, lui è morto, lei è tornata da quella strage e da un coma, salvata da mani inglesi, ma una parte di sé è rimasta per sempre nella curva Z insieme all'adorato babbo. "Finché ci sarà memoria, i 39 angeli di Bruxelles vivranno con noi. E allora grazie a tutti coloro che fanno e hanno fatto qualcosa perché in tutti questi anni non si spegnesse". Come gli altri familiari, Rosalina parla con forza e dignità, come se tutta la cattiveria ingoiata per anni fosse stata digerita: "Mi hanno detto che m'avevano pagato il marito morto, che la macchina (che avevo anche prima) me l'ero comprata con quei soldi. Nessuno sa cosa ha significato andare avanti senza Giancarlo e con tutti i problemi che ha avuto Carla". La quale, dell'Heysel, non vuole ancora parlare.

Giuseppina Conti, il premio. Antonio: "Era lì per la pagella. Non cambio idea: ho perso mia figlia per l’avidità di qualcuno". "È dura, sono contento che se ne parli ancora, ma il dolore non se ne va. Non se ne andrà mai". La voce di Antonio Conti, di Rigutino, frazione del comune di Arezzo, perde forza ricordando il 29 maggio dell'85. Lui all'Heysel c'era con la figlia, premio di una bella stagione scolastica, ed è impossibile spiegare cosa significhi tornare a casa senza la propria bambina, da quella che doveva essere una festa: "È contro natura". Le foto e la racchetta da tennis sono un memoriale. Raccontano tutto, il dolore ma anche la rabbia. "Non si possono mettere migliaia di persone dentro una curva di terra con i gradoni di graniglia, dopo una fila di quattro ore passando da una porta di novanta centimetri. Mia figlia è morta perché qualcuno potesse incassare più soldi". Alla fine, per Antonio, la famiglia è rimasta l'unico rifugio, l’unica ragione per andare avanti ma questo è un vuoto che niente e nessuno può riempire: "Mi hanno invitato ma non vado a Torino. Sabato c'è il torneo, i ragazzi lo fanno tutti gli anni, ho scelto di stare con loro".

I Casula, l'uomo e il bambino. Emanuela: "Col tempo sono diventata serena. La polemica non aiuta". Emanuela oggi vive a Roma, ma appena può torna a Cagliari dalla mamma: "Non ne abbiamo mai parlato tanto, però sabato andremo insieme a Torino". L'invito della Juventus è stato un modo per ricordare la tragedia. Emanuela ha perso il padre Giovanni e il fratello Andrea in un colpo solo, però non ha mai cercato colpe e vendetta, ha vissuto con l'assenza ed è divenuta la donna di oggi, senza immaginare come poteva essere l'altra: "Con il tempo sono diventata una persona serena, ma credo che per la mamma sia completamente diverso". Ha letto, si è documentata e sorpresa di tante cose: "Ho visto Tardelli in televisione da Minoli qualche sera fa, era molto imbarazzato, mi ha fatto piacere ascoltare le sue scuse". Per tanti anni ha tenuto dentro la sua storia: "La dignità, la memoria, sono importanti, polemizzare no, perché si rischia di cadere nell'esibizionismo e di mettere in cattiva luce tutto il resto".

Roberto Lorentini, la medaglia. Il padre: "Abbiamo battuto l’Uefa, ma troppi se la sono cavata. "Roberto è il medico di Arezzo, medaglia d'argento al valor civile perché morto tentando di salvare un connazionale, forse lo stesso Andrea Casula. Ha lasciato una moglie, due figli piccoli e un padre che ha combattuto a lungo per la sua memoria e per la giustizia di trentanove innocenti: "Con qualche parente ci sentiamo ancora", dice con orgoglio, lui che ha fondato l'Associazione dei familiari e che per sei lunghi anni ha assistito al lungo e faticoso processo contro tutto e tutti. "Abbiamo sconfitto l'Uefa, abbiamo fatto giurisprudenza, ma in troppi se la sono cavata". Un rammarico che sposta ogni giorno il confine della memoria: "Andiamo al cimitero due, tre volte la settimana perché Roberto è sempre qui con noi. Andare a Torino ? No, ho ricevuto l'invito, però sabato c’è la messa e poi il torneo". Una medaglia, un libro, un dvd, un piazzale intitolato a Roberto: "Abbiamo fatto un viaggio pubblico, quello è finito, adesso continua quello privato".

29 maggio 2010

Fonte: Avvenire

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Heysel, 25 anni per non dimenticare

di Elisa Chiari

Doveva essere una finale di Coppa dei campioni. Fu una notte di follia e incuria che costò la vita a 39 persone nello stadio di Bruxelles. I ricordi dell'ex campione Zibì Boniek. Quella di Zibì Boniek non è un'intervista, è una lapide scolpita a voce. I conti con l'idea che si possa morire di calcio, in una sera in cui si vorrebbe vincere ed esultare, sono ancora difficili 25 anni dopo. Doveva essere una finale di Coppa dei campioni (si chiamava ancora così), fu una notte di follia, incuria e imprevidenza, che costò la vita a 39 persone schiacciate contro il muro di uno stadio belga che non esiste più ma ha lasciato macerie dentro moltissime persone.

"Mi dispiace molto", spiega Boniek, colonna di quella Juventus, "su quello che è successo all'Heysel ho parlato già diverse volte, ho rilasciato diverse interviste e ho deciso per conto mio di non parlarne più. Per me è stata una cosa tristissima al limite della sopportazione umana. Noi siamo stati coinvolti e in un certo senso costretti a partecipare a una gara che secondo me non aveva senso. Ma, una volta entrati in campo, abbiamo cercato anche di vincerla perché è normale che, se a quel punto sei costretto a fare una cosa, la devi fare al meglio. Alla fine non ho preso il premio partita, perché mi sembrava giusto devolverlo a favore delle vittime. Mi dispiace profondamente perché noi parliamo ogni tanto, facciamo belle interviste, invece c'è ancora gente che vive senza i figli e senza i mariti che hanno perso la vita là. Per questo preferisco non parlarne. Mi spiace anche di non poter andare a Torino a partecipare alla Messa di commemorazione. Sto vicino a tutti quelli cui si è spezzata la vita là e a quelli che sono rimasti a casa con la vita non meno spezzata. Di più non mi sento di aggiungere".

Era il 29 maggio 1985, la Juventus andava a giocare a Bruxelles la finale contro il Liverpool. Lo stadio era vecchio e mal pensato, pensata peggio la distribuzione del pubblico, con una parte dei tifosi italiani finiti in un angolo della curva del Liverpool, la curva degli Hooligans. Subito dietro le macerie di un cantiere, perfetto per chi volesse rifornirsi di armi improprie casomai non bastassero le aste delle bandiere. E così andò. Cominciarono a caricare prima della partita, schiacciando in tanti i pochi nell'angolo, il settore Z, che per molti è stato la fine per niente simbolica dell'alfabeto dei giorni. In 39 non sono tornati, 32 erano italiani. A distanza di 25 anni, il calcio ha rimosso molte cose, non ne ha imparata quasi nessuna. La polvere della memoria però fluttua in parte ancora nell'aria, ciascuno a seconda di dove si trovava, ha un pezzo diverso del puzzle da apporre, nessuno l'insieme. Anche per questo è interessante leggere Heysel 29 maggio 1985. Prove di memoria (Reality book, 16 euro), un libro che ha pochi giorni di vita e prova a rimettere insieme i pezzi, chiedendo un mare di testimonianze a chi c'era. L'autore anche c'era, ma non tira direttamente i fili conclusivi del puzzle intero, lascia a chi legge il compito di ricomporlo, sapendo che per quanti pezzi si riescano a collocare, ne mancheranno sempre 39. Non è l'unico libro recente su quel tema doloroso (se ne leggono una versione letteraria nel monologo Quando cade l'acrobata entrano i clown, Heysel l'ultima partita di Walter Veltroni e una giornalistica in Heysel, la verità di una strage annunciata, di Francesco Caremani), ma il racconto di Targia, raccolto coordinando molte penne diverse anche prestigiose, ha di diverso la coralità. Il punto di vista dell'autore potete sentirlo a voce in uno dei video allegati.

29 maggio 2010

Fonte: Famiglia Cristiana

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Platini e la squadra dell'85 a Torino per commemorare i 25 anni della tragedia

Heysel, ricordo per sempre

di Guido Vaciago

Oggi la rievocazione, Agnelli annuncerà la sala della memoria nel nuovo stadio. Nell’impianto che la Juve sta costruendo la violenza dovrà essere confinata nel passato. Boniperti: "Quella coppa non è insanguinata".

TORINO - Venticinque anni fa la finale di Coppa dei Campioni si trasformava in una delle più orrende tragedie dello sport. Juventus-Liverpool, a Bruxelles, venne preceduta da un attacco dei tifosi inglesi contro quelli italiani che provocò la morte di 39 persone innocenti, schiacciate, asfissiate, calpestate in modo atroce nella curva zeta dello stadio Heysel. LA SALA - Oggi, nel giorno della memoria bianconera, Andrea Agnelli annuncerà che quelle vittime non verranno mai dimenticate e che il ricordo di quella tragedia servirà da monito, perché mai si ripeta una simile follia. Nel nuovo stadio della Juventus ci sarà, infatti, uno spazio per ricordare i fatti di quel giorno maledetto. LA CERIMONIA - Inizierà alle 10 la commemorazione nel cortile della sede bianconera, dove è stato posto un cippo alla memoria delle 39 vittime. Oltre al presidente della Juventus, ci saranno parecchi giocatori della squadra che giocò quella partita, a partire da Michel Platini, così come molti parenti delle vittime e il presidente della Lega Maurizio Beretta. Sarà una cerimonia breve, alla quale seguirà una messa alla Gran Madre, dove sarà presente la prima squadra della Juventus. LA RIFLESSIONE - Venticinque anni dopo è il momento di commemorare, ma anche quello di riflettere. La tragedia dell’Heysel è stata una ferita dolorosa e profonda per il popolo bianconero, ora è una cicatrice che si porta dentro chi ha vissuto quella notte (in quello stadio o all’ascolto di quella drammatica telecronaca di Bruno Pizzul) e un racconto poco conosciuto per chi era troppo piccolo o non era neppure nato. IL SIMBOLO - E allora l’idea di una sala che nel nuovo stadio ricordi quella barbarie, come un fatto storico, oltre che tragico, è un’iniziativa eccellente. Perché a distanza di 25 anni, tutto quel dolore e quello sgomento devono servire a qualcosa. Devono servire a ricordare come quella finale fu organizzata in modo clamorosamente superficiale, lasciando che i tifosi inglesi e quelli italiani si trovassero accanto in quella maledetta curva, separati da una rete da pollaio. E che non c’erano abbastanza forze dell’ordine per gestire un evento di quella portata. Che i feriti non furono soccorsi in modo tempestivo e adeguato. Che odiare, oggi, 25 anni dopo, non serve a niente, che quello che conta è non ripetere. LA GIOIA - E il fatto che il luogo della memoria dell’Heysel sorga proprio nel nuovo stadio è significativo. In quello che sarà l’impianto più moderno del calcio italiano, la violenza dovrà essere solamente un ricordo, confinato in quella sala. Quello stadio dovrà accogliere tifosi veri, appassionati, innamorati della Juventus e del calcio: sarà un luogo di festa non di morte. IL PRESIDENTE - Giampiero Boniperti, allora presidente della Juventus, si interrogava: "Cosa ricorderò tra trent’anni di questa coppa ? Tornerò ogni tanto a osservarla nella vetrinetta, ma credo che mi apparirà soltanto l’immagine di uno dei tanti morti che ho visto all’obitorio. L’immagine di un ragazzo di dieci anni, con un fazzoletto bianconero al collo". LA COPPA -  Già, quella coppa è nella sala dei trofei della Juventus. Pochi metri in linea d’aria con il cippo intorno al quale ci si raccoglierà stamattina. Un trofeo scomodo e doloroso, sul quale si è a lungo dibattuto. Lo stesso Boniperti sostiene: "Non dite che quella coppa è insanguinata. Non è vero. La tragedia è una cosa, la partita è un’altra. E fu una partita vera, chiedete a Rush, a quelli del Liverpool. Andarono in campo per vincere e noi con loro. Proprio non riesco a vergognarmi per quella coppa e il dolore lo tengo per me". I GIUDICI - Ma forse questo punto di vista è proprio quello da dimenticare. Quella coppa è lì, nella sala più luccicante della sede juventina, e ognuno di quelli che ci passa davanti può ricordare e pensare ciò che vuole. Anche perché gli unici che potrebbero decidere veramente se quella coppa è vera o meno sono le trentanove vittime della curva zeta. Nessun altro.

29 maggio 2010 

Fonte: Tuttosport

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Lorentini amaro "Negli stadi ancora morti"

di Marina Salvetti

Il presidente dell’Associazione perse il figlio di 31 anni. "Ho combattuto perché ci fosse giustizia. Sei anni di udienze: molti sono finiti in galera, troppi se la sono cavata".

OTELLO Lorentini ha 86 anni e un cuore malconcio. "Non mi regge perché mi chiamano in tanti in questi giorni per sapere e ricordare, ma ritornare indietro diventa molto difficile alla mia età". Soprattutto quando il ricordo privato diventa commemorazione pubblica e tornare indietro a quel tragico mercoledì 29 maggio 1985 significa far affiorare scene che si vuole accantonare nella memoria. All’Heysel ha perso il figlio Roberto: aveva 31 anni, faceva il medico, era sposato e papà di Andrea e Stefano, di 3 e un anno e mezzo. "Eravamo accanto, io e Roberto, ma ci siamo persi in mezzo alla bolgia, sono caduto a terra, una transenna ha evitato che mi calpestassero, poi sono finito sul campo". Minuti carichi di tensione. "Con noi c’erano anche due nipoti, li ho incrociati a metà scalinata, mentre stavo tornando indietro. Mi hanno detto che Roberto stava poco bene, invece era già morto". Morto mentre stava soccorrendo un altro tifoso ed è per questo che la presidenza della Repubblica gli ha conferito la medaglia d’argento al valor civile. BATTAGLIA - Da quel giorno Otello Lorentini ha portato avanti la sua personale battaglia affinché i morti dell’Heysel non venissero dimenticati e affinché fosse resa giustizia. "Il processo è durato sei lunghissimi anni. Ho seguito le udienze passo dopo passo, due, tre volte al mese andavo a Bruxelles con gli avvocati. Ho fatto tutto questo non tanto per ottenere il risarcimento, anche se è stato giusto che ci venissero dati quei pochi soldi visto che non volevano neppure pagare, ma perché i colpevoli venissero inchiodati alle loro responsabilità. E alla fine posso dire che giustizia è stata fatta: abbiamo sconfitto l’Uefa, le autorità belghe, le forze dell’ordine e tifosi del Liverpool, abbiamo fatto giurisprudenza, in molti sono finiti in galera, tanti altri però se la sono cavata". ASSOCIAZIONE - Lorentini ha anche fondato l’Associazione familiari vittime dell’Heysel. "Ormai ne sento pochi di parenti, di alcuni non so proprio più nulla. Beh, il tempo passa, la vita continua, ognuno col proprio dolore. Abbiamo fatto un percorso comune, che è finito, adesso continua quello privato". Venticinque anni dopo però Lorentini è rassegnato: neppure la tragedia dell’Heysel ha cambiato la testa della gente. "Nonostante 39 morti gli stadi continuano a essere pieni di menefreghisti. E si continua a morire". COMMEMORAZIONE - Oggi però Otello non sarà a Torino per la commemorazione. "Ho ricevuto l’invito di Andrea Agnelli, ma qui ad Arezzo c’è la messa e poi il memorial". Starà con la nuora Arianna, che aveva 27 anni all’epoca, i nipoti Andrea e Stefano, ormai cresciuti e diventati uomini senza un papà. "Gli abbiamo raccontato i fatti e, soltanto quando ce l’hanno chiesto loro, li abbiamo portati al cimitero: volevano vedere il loro babbo". Morto in un giorno che avrebbe dovuto essere di festa, a rincorrere i sogni di un trionfo bianconero.

29 maggio 2010 

Fonte: Tuttosport

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Gli occhi di quel ragazzo che morì tra le mie braccia

di Marco Bernardini

25 anni fa la tragedia all'Heysel: 39 tifosi morti prima della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool. I parenti delle vittime venete in viaggio verso il Belgio.

Partiranno anche da Bassano. Discreti. In punta di piedi per timore di disturbare chi riposa. Mario, Gianfranco e Giuseppe meritano il rispetto delle cose serie. La morte non fa baccano, almeno non quando per incanto ti afferra la mano e ti accompagna nella zona del non luogo. Il momento del balzo, quello sì, può essere segnalato dal rombo del tuono e persino segnato dal sangue. Dopo no. Il silenzio e la quiete si fanno padroni. Ronchi, Sarto, Spolaore sono i cognomi scritti sulle lapidi dei cimiteri. I primi due in quello di Bassano, appunto. L’altro, a Rovigo. Accanto la rivelazione anagrafica di una fuga precipitosa e incontrollabile imposta da un destino travestito da hooligan gonfio di birra. Rispettivamente 43 anni, 47 e 55 anni. Tutti e tre viaggiatori senza ritorno, partendo dal medesimo punto ad un’unica ora dello stesso giorno, quasi si fossero messi d’accordo prima. Le diciannove e otto minuti del 29 maggio 1985. Luogo fatale uno stadio che si chiamava Heysel, in compagnia di altri trentatré (NdR: ventinove) fratelli di bandiera sportiva arrivati in Belgio da tutta Italia per la celebrazione di una festa cominciata con il sorriso e poi annegata in un oceano di lacrime. Anche la luna, quella notte, decise di nascondersi dietro le nuvole per non vedere la tragedia. Massimo Tadolini oggi ha 47 anni e sarà lui, capogruppo di un corteo dolente, a guidare quelli che partiranno da Bassano per il doloroso ma necessario viaggio della memoria. Una lettera già firmata, per il sindaco Chiamparino. Che la città della Juventus abbia almeno una strada intitolata ai martiri di un assurdo universo dove finì il pallone, quella sera, calciato da un orco indecente spuntato dal nulla per trasformare una favola in tragedia. E’ dall’età della ragione che Massimo si sta battendo perché la Spoon River bianconera smetta mai di essere attuale. Per rispetto della memoria ma soprattutto per ragioni pedagogiche. Morire è una schifezza. Morire dentro uno stadio è la mortificazione dell’essere umano. Il buio della ragione. Eppure accadde, venticinque anni fa. In Belgio, da tempo, hanno provveduto a resettare completamente ogni scheggia del passato. L’Heysel si chiama "Stadio Re Baldovino", la "Curva Z" è una linea architettonica che si piega dolcemente, il cemento dei parcheggi tutti intorno è stato ricoperto di erba verde e di fiori. Un gesto volutamente ipnotico per inibire il ricordo, mai dovesse per qualcuno rigalleggiare in superficie. Ma, osservato da lontano, il gioco di prestigio serve a nulla. Anzi, monta la rabbia come la marea bretone. Nell’anima e nella testa di coloro che c’erano, sventuratamente. Alle diciannove e otto minuti in punto, allorché uomini e donne e ragazzini sotto la pressione di una furia alcolica squisitamente british vennero catapultati oltre il muro di cinta più alto nel vuoto. Marionette in volo a planare, prima di schiantarsi sull’asfalto e mostrare che invece erano di carne e di ossa, non di legno. I pupazzi non sanguinano. I cuori neppure, a meno che  non vengano violentati e maciullati nel petto. Difficile che accada durante o per una partita di pallone. Almeno, era mai avvenuto prima di allora. Cinico e un poco annoiato il popolo dei media, arroccato nella tribuna stampa, chiedeva che cosa si aspettasse per cominciare. Eppure anche l’Avvocato, insieme con il suo amico Kissinger, s’era già accomodato nella zona vip. Le urla e la polizia a cavallo. Che accade, mio dio ? Sguardi più stupiti che preoccupati. I soliti quattro imbecilli, anche qui fare casino... E’ il pensiero che dilaga, per primo. Poi le notizie, portate a chi dovrebbe darle. C’è la morte a passeggio che miete, dannata e senza scrupoli, nella Curva Z. Ultima lettera dell’alfabeto e, dunque, segno premonitore per chi pretende di saper leggere il futuro nei fondi del caffè. Non è possibile ! Macché, tutto vero. Il mondo capovolto, a testa in giù, assurdo universo. Piero Dardanello, il direttore, ne ha viste e sentite di tutti i colori in carriera. Questa mai. Un pallone annegato nel sangue non fa parte della sua cifra di analisi comprensiva. Sfugge ad ogni logica. La rigetta. Impossibile da raccontare, lì per lì. E’ una statua di sale, dunque, immobile davanti alla sua Olivetti portatile. Come ibernato in uno spazio dove il tempo non ha senso perché inesistente. Come lui quelli della sua generazione. Allora, forza Claudio Colombo, collega di cronaca da strada. Siamo in campo, lui ed io, con la rapidità del fulmine. Io lo tengo per le gambe, lui gli sorregge il capo. Morirà tra le nostre braccia quel ragazzo del quale abbiamo mai saputo il nome. Ma gli occhi sì, quelli li abbiamo visti spalancati per un istante. Urlavano, per come può essere spaventosamente decibelico uno sguardo: perché ? Già, perché ? Continuo a chiedermelo ancora oggi, venticinque anni dopo. Una risposta, netta, non esiste anche se, tutto sommato, la si potrebbe trovare analizzando le scorie quotidiane lasciate nel setaccio da un mondo (anche quello del pallone) moralmente sempre più inquinato e comunque in progressivo degrado. Ma forse è meglio tacere. Almeno oggi. Per rispetto di tutta quella gente che sta partendo, anche da Bassano.

29 maggio 2010 

Fonte: Corriere della Sera

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

"Quella sera all'Heysel ci hanno ingannato nascondendo la verità"

di Marco Bucciantini

Loro videro la corsa ossuta, veloce di Zibì Boniek, attaccante magro e temprato. Gambe resistenti, testa alta e fiera. S'involò dritto verso la porta, fu steso ben prima di giungere in area ma fu rigore, doveva esserlo. Un rigore assurdo e necessario. Noi vedemmo invece un altra corsa, disperata, semplice e impaurita. Mossa di moto sghembo, irrazionale. Guardando a destra, poi a sinistra. Fino a fermarsi, le braccia abbandonate, gli occhi sgranati e persi. Otello Lorentini rintracciava qualcosa e non trovò niente, perché cercava la vita in un camposanto. Il 29 maggio del 1985, dentro lo stadio Heysel di Bruxelles, Cesare Prandelli e Marco Tardelli e gli altri giocatori corsero a fianco di Boniek, cercando un gol. A loro fu negata la verità, e quindi la scelta: giocare o no. A noi telespettatori la verità arrivò con l'ondeggiare di Lorentini, che cercava suo figlio Roberto, morto per soccorrere Andrea Casula, un bambino di 11 anni che stava crepando soffocato e calpestato dai grandi: fu la vittima più giovane dell’Heysel. Per attardarsi in quel disperato aiuto, Roberto fu travolto dal crollo del muro del settore Zeta. Fu medaglia d’argento al valore civile: Roberto era un medico, e morì cercando di fare il suo mestiere. Anche ai calciatori fu chiesto di fare il loro mestiere. Avevano intorno l'orrore, ma dovevano vedere solo la Coppa dei Campioni. "E io da 25 anni voglio cancellare dalla mia mente quella Coppa, quella sera. Non dovevamo giocare, non dovevamo avere qualcosa da festeggiare". Marco Tardelli ride con gli altri: nelle foto in fondo a quella partita accanto c'è Cesare Prandelli, che deve recitare la stessa parte: "Ci dissero: andate a fare il giro di campo, festeggiate dai tifosi che intanto la polizia provvederà a svuotare il settore dei tifosi del Liverpool". No, non si doveva giocare. "E io non giocherei più quella partita. Ci hanno ingannato, nascondendo la verità. Una volta capito cosa stava succedendo, è diventato un ordine: giocate. Se non lo fate, non sappiamo come controllare la gente". Giocarono. Tardelli come sempre, con il numero 8 di quella squadra di campioni, che letta nell'ordine dei vecchi numeri finiva così: Tardelli, Rossi, Platini, Boniek. Prima della partita andò sotto la curva, per una supplica che poi trovò ridicola: "State calmi, dissi ai nostri tifosi. Ma loro lo erano: solo che intorno tutti erano impazziti. Se la polizia avesse fatto defluire la gente in campo, non sarebbe morto nessuno". Invece ricacciarono indietro la gente, nel settore confinante con la curva destinata agli inglesi. Li mandarono a morire schiacciati dal muro dove si erano riparati dall'urto dell'onda bestiale degli hooligans. Anche Prandelli finì nel tabellino: partendo dalla panchina, entrò 6’, quando in campo si consumava l'incontro più surreale e tragico della storia del calcio. Racconta quella sera, il successo sportivo più importante, e abbassa gli occhi. "Boniperti aveva visto i morti. Noi eravamo negli spogliatoi, sentivamo chiasso, ma non sapevamo niente. Scese da noi, prese Trapattoni da parte e disse: io la squadra non la faccio giocare". Cominciò il passaparola sui morti. I calciatori - ormai già vestiti con le divise da gioco e pronti a entrare in campo per il riscaldamento - cercavano di spiare cosa accadeva. "Ero in panchina e potevo muovermi con più libertà, ma non capivo niente, vedevo i tifosi sulla pista d’atletica che scappavano senza una direzione". Scesero i capi dell’Uefa: si gioca. O almeno s’inizia, "vediamo come va, ma adesso non possiamo evacuare lo stadio", ci dissero. Mentre Juventus e Liverpool si sistemavano in campo, Prandelli dalla panchina faceva "segno agli amici e ai parenti dei miei compagni di squadra di lasciare le tribune, andare via, andare lontano. Riuscii così ad avvertire molti di loro". La partita iniziò. "Ci eravamo convinti che si dovesse fare il primo tempo, mentre la polizia faceva uscire i tifosi. E che il secondo tempo non ci sarebbe mai stato". Infatti fu una prima frazione irreale, giocata con poco ardore, pochissime occasioni. Alla fine del primo tempo il delegato scese negli spogliatoi. Ripeté le stesse tre parole: "Continuate a giocare". La partita non si sarebbe mai più ripetuta. Quindi andava finita, e il trofeo andava assegnato. Quando era piccolo e scalciava nella terra dell’oratorio, come molti ragazzi Cesare sognava questa partita. E giocava "fingendo" di essere in finale di Coppa dei Campioni. Gli è toccato rimpiangere che sia accaduto: "Si potevano fare due cose più giuste: non assegnare il trofeo o inscenare una partita senza valore sportivo, ma solo di ordine pubblico, e rigiocare la finale più avanti. Però su quanto accadde quella sera si sono fatte ricostruzioni fantasiose, finimmo noi nel mirino, come se noi calciatori avessimo potuto rimediare quella tragedia". 25 anni dopo, Prandelli ne ha sentite troppe su quella sera, sul tentativo di colpevolizzare i giocatori. Una cosa gli ha dato fastidio: "Non abbiamo festeggiato, abbiamo fatto ciò che ci è stato ordinato di fare. Hanno scritto che avevamo intascato il premio partita: falso. Nessuno prese una lira, tutto andò alle vittime e alle loro famiglie". 25 anni dopo Tardelli lavora in Gran Bretagna, insieme all'allenatore di allora, Giovanni Trapattoni, sulla panchina dell'Irlanda: "Qui hanno sconfitto la violenza da stadio. Lo hanno voluto, e l'hanno fatto. Allo stadio vanno i bambini per mano ai genitori. Controllati da steward che sono rispettati. In Italia non si può. Gli ultras spesso soggiogano le società e comandano sugli spalti, dove i poliziotti sono considerati nemici". E lo dice così, come se quella sera, quel sangue nostro, avesse insegnato ai colpevoli e non alle vittime.

29 maggio 2010

Fonte: Unita.it

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Foto dall'Heysel: il calcetto, la corsa al telefono e le banane di Edoardo Agnelli

di Franco Ordine

Sono i tre incredibili ricordi ancora nitidi del vecchio cronista presente nel maggio di quell'anno, con una carovana di colleghi, nella tribuna stampa di quel maledetto stadio belga dove avvenne la tragica fine dei 39 tifosi della Juventus.

Per una circostanza unica, è consentito un ricordo personale. La ricorrenza della tragedia dell'Heysel è una delle esperienze che hanno marchiato la mia vita professionale di giovane cronista, in giro per l'Europa, sulle tracce di una qualche coppa. In quel maggio, lavoravo al Corriere dello Sport diretto da Giorgio Tosatti ed ero stato incaricato di seguire la Juve in Belgio per setacciare alberghi e ristoranti e riferire della presenza di operatori di calcio-mercato. Il capo della spedizione era Giuseppe Pistilli, vice-direttore e prima firma del quotidiano sportivo, un delizioso compagno di ventura, capace di guidare la squadra col tratto di un vero allenatore di calcio. Enrico Maida (oggi al Messaggero), Fabio Monti (oggi al Corriere della Sera), Enzo D'Orsi (oggi a Leggo), Luca Argentieri (purtroppo scomparsi, all'epoca inviato al seguito del Liverpool) erano gli altri componenti del drappello. Quando cominciammo a fare i conti con gli assalti degli hooligans alla famigerata curva Z, Pistilli divise i compiti tra noi e lasciammo la tribuna-stampa mentre lui teneva il collegamento con Roma, sede centrale del giornale. Tre sono le istantanee che mi sono rimaste impresse e che non riesco a cancellare dalla memoria personale. La prima: appena i tifosi juventini incolumi vennero sbalzati fuori dal macabro recinto, molti si radunarono sul prato verde dello stadio, alcuni di loro, inconsapevoli forse della tragedia, tirarono fuori una palletta di gomma e cominciarono a improvvisare una sfida di calcetto. Vennero ricacciati indietro da poliziotti a cavallo. La seconda: in compagnia di un collega del Corsera dell'epoca, Nicola Forcignanò, riuscimmo a introdurci nello spogliatoio della Juventus. Erano saltati tutti i controlli, i gendarmi erano tutti dentro l'ovale dell'Heysel, e non c'erano notizie certe sulle decisioni dell'Uefa. Ci venne incontro Edoardo Agnelli, il figlio dell'Avvocato in arrivo da Milano su un volo privato in compagnia del direttore del Corriere dello Sera, Piero Ostellino. Era vestito con un completo gessato di flanella: sudava oltre che per il peso invernale del vestito anche per il clima dentro lo spogliatoio. Ci anticipò la decisione dell'Uefa ("vogliono far disputare la partita, tra un po' manderemo Scirea a parlare con il pubblico") e ci spiegò quale fosse in quel momento l'emergenza nello stanzone della Juve. "La squadra ha fame, non mangia da molte ore e non abbiamo neanche un panino a disposizione. Abbiamo mandato in città il magazziniere ad acquistare delle banane". La terza: con i cadaveri impilati dinanzi all'ingresso esterno della tribuna stampa, molti spettatori italiani si riversarono sulle nostre postazioni chiedendoci di poter utilizzare il telefono (non c'erano i cellulari) per chiamare casa e tranquillizzare le rispettive famiglie. Le uniche notizie erano all'epoca dettate dal telecronista Rai, Bruno Pizzul, costretto a fornire l'aggiornamento del numero delle vittime senza poter fornire l'identità. Pistilli passò la cornetta senza fiatare. Come Dio volle, riuscimmo a dettare a braccio i servizi. A notte fonda, tornammo in albergo senza scambiarci una sola parola di commento. Pistilli ci diede il compito del giorno dopo: "Monti resta a Bruxelles, Ordine va a Torino, Maida rientra a Roma con me, Argentieri segue il Liverpool". Sono passati 25 anni, spesso ci siamo rivisti tutti insieme a cena, la sera, dopo una proficua e spensierata giornata di lavoro: forse è venuto il momento di ripensare a quelle ore e a quel ragazzo pieno di talento, Luca Argentieri, che non c'è più.

29 maggio 2010

Fonte: Ilgiornale.it

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Heysel '85, la strage degli innocenti rese il calcio più sicuro

di Roberto Perrone

La storia. Oggi a Torino e a Bruxelles si ricordano le 39 vittime della tragedia della finale tra Juventus e Liverpool che sconvolse il mondo del pallone. Uefa responsabile. Sui biglietti gli organizzatori "declinavano ogni responsabilità" ma la corte stabilì che invece lo erano.

MILANO - Il 26 giugno del 1990, in un'aula accaldata del tribunale di Bruxelles, c'era un italiano solo in campo, Otello Lorentini. Al suo fianco l'avvocato Daniel Vedovatto. Quel giorno il piccolo grande uomo di Arezzo, presidente dell'associazione vittime, padre di Roberto, morto a 31 anni nella curva Z dello stadio Heysel, schiacciato non mentre cercava di scappare, ma perché si era fermato a soccorrere qualcuno che era a terra e per questo ebbe la medaglia d'argento al valor civile, conquistò la sua più grande vittoria. Quel giorno cambiò il calcio, veramente. Non il 29 maggio del 1985, finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, anche se l'Equipe, il giorno dopo la strage, titolò: "Le football assassiné". Sui biglietti della finale, soprattutto su quelli della famigerata curva Z, c'era scritto: "l'organizzatore declina ogni responsabilità in caso d'incidenti, di qualsiasi tipo". Uno è riprodotto sul sito più completo che ricorda quelle 39 vite (32 italiani, 4 Belgi, 2 Francesi e 1 Irlandese) spezzate, "Saladellamemoriaheysel.it" creato da Domenico Laudadio. Lì c'è tutto, comprese le ridicole sentenze penali: dieci mesi di carcere al massimo, e non per tutti i colpevoli, 2 miliardi il risarcimento per le vittime (la percentuale maggiore arrivata da donazioni private, in testa la Fondazione Agnelli). Ma il 26 giugno 1990 i giudici sentenziarono che l'Uefa non poteva declinare ogni responsabilità e passare semplicemente alla cassa. E' grazie a Otello Lorentini che le finali di Champions League non sono più a rischio-corrida ed a Madrid metà dei poliziotti della città pattugliavano le strade, le piazze, lo stadio. A Bruxelles, in quella calda notte di fine maggio, dovevano essere 1.300 (così era scritto sulla domanda di organizzazione) ma erano solo 400 e quasi tutti fuori dallo stadio. Quando, alle 19.08, cominciò la prima carica degli hooligans ubriachi di Liverpool (sorretti dai patibolari headhunters del Chelsea), a guardia delle retina che separava il settore Z (quello che in teoria doveva essere neutrale, ma era stracolmo di tifosi bianconeri) dall'Y, ce n' erano solo 5 e si dileguarono in fretta. La fine è nota. Tante storie, tante sofferenze. Uomini, donne e bambini: Andrea Casula, 11 anni e mezzo, la vittima più giovane. E i loro parenti costretti a convivere non solo con il dolore e la nequizia degli uomini, ma anche con la loro stupidità. Come i genitori di Giuseppina Conti, 17 anni, di Arezzo, che si videro recapitare il conto dell'ambulanza. Se siamo ancora qui a ricordare, è perché tutti, istituzioni, club coinvolti, perfino parenti (solo 21 famiglie si costituirono parte civile al processo), hanno fatto a gara a "metterci una pietra sopra" come disse, qualche mese dopo la strage, con un'espressione infelice, Giampiero Boniperti. E chi non vuole dimenticare, non ricorda, come quell'inviato della Bbc che, quando Juve e Liverpool tornarono a incrociarsi, nel 2005, sparò nell'etere: "(...) dove 39 tifosi bianconeri persero la vita per il crollo di un muretto". C'è sempre stato un po' di fastidio nelle cerimonie, speriamo che non ci sia oggi a Torino, prima nella sede della Juve, poi alla Gran Madre, per la Messa. Speriamo che non sia così a Bruxelles, allo stadio Re Baldovino, dove la curva Z non c'è più, quando osserveranno un minuto di silenzio. Ma più che il 29 maggio 1985 dovremmo segnare quel 26 giugno 1990 in cui Otello Lorentini vinse per tutti noi. In solitudine: "Non c'era neanche un giornalista italiano. Eravamo in pieno Mondiale". Notti magiche inseguendo un gol. Inutilmente.

29 maggio 2010 

Fonte: Il Corriere della Sera

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Heysel 25 anni dopo "Gli inglesi hanno imparato, noi no"

di Enrica Speroni

Boniperti "Quando entro in uno stadio penso che quel massacro potrebbe succedere di nuovo".

TORINO - Abbronzato, camicia bianca, niente cravatta. "Fra un mese ne compio 82, ma non mi lamento. Sto bene grazie a Dio". Sì, Giampiero Boniperti sta bene. Gli anni non ne hanno fiaccato la grinta. Neanche la rabbia, che torna prepotente a riaffacciarsi nel tono di voce appena nomini l'Heysel. Ha tra le mani "Quando cade l'acrobata, entrano i clown", monologo di Walter Veltroni sulla tragedia di Bruxelles. Sembra che il libro scotti: lo tocca, lo sfoglia, lo sbatte sulla scrivania. 29 maggio 1985, 25 anni fa: finale di Coppa Campioni Juve-Liverpool, 39 morti vittime della furia hooligans. "Chi ha vissuto quella giornata non la può dimenticare. Ci ha distrutto. E se qualche volta cerco di rimuoverla, torna. Perché quando entro in uno stadio penso "potrebbe succedere quello che io ho già visto". Ho letto il racconto di Veltroni in una notte e poi non ho chiuso occhio. Li rivedo i morti, in ospedale: neri, allineati, tutti tifosi nostri. Sembrava impossibile. E non è stato un caso". Trentanove morti prima della partita. "Quello stadio non era da scegliere. Vecchio, malmesso, sembrava un cantiere. Quando sono andato a vederlo il giorno prima c'era, all'esterno, una catasta di legna. Pezzi che potevano essere usati come clave". Non si doveva, si giocò. "Sia noi sia il Liverpool non avremmo voluto. Lo imposero il ministro dell'Interno, l'Uefa e il capo della Gendarmeria per una questione di ordine pubblico. Era anche un modo perché chi volesse lasciare lo stadio potesse uscire. La polizia è arrivata dopo il disastro; prima, a presidiare il settore Z, c'era un poliziotto solo. E quando gli hooligans hanno buttato giù la recinzione è scappato. Pazzesco. Eppure lo sapevano tutti che quelli andavano a fare una battaglia, non a vedere calcio. Era una caccia alle persone. C'erano gradini alti, la gente cadeva e gli altri finivano sopra. Lo stadio andava diviso in due, non si doveva lasciare gli inglesi a contatto con i nostri tifosi. Ci sono state colpe gravi". I giocatori sapevano ? "Non dei morti, solo che c'erano stati disordini. Io sono andato negli spogliatoi per assicurarmi che non entrasse la notizia. Se avessero saputo molti non avrebbero voluto scendere in campo, invece eravamo obbligati. C'era un caos incredibile, ero spaventato anche per la mia famiglia in tribuna. Mia moglie, seppi poi, non trovava più mio figlio Alessandro che era andato verso la curva maledetta. Nell'85 non c'erano i telefonini: i tifosi dall'altra parte dello stadio non conoscevano l'entità del disastro, ma se non avessimo giocato la finale avrebbero capito. L'Avvocato arrivò, lo informarono, ripartì. Suo figlio Edoardo era a bordo campo inorridito, dovetti farlo trascinare via a forza. A fine partita entrò nello spogliatoio l'avvocato Chiusano: disse che non avremmo dovuto giocare. A me lo diceva ? Se non me lo toglievano, gli avrei dato un pugno". Trapattoni, ripensandoci, ammise che la coppa avrebbe dovuto essere riconsegnata. "No, la partita fu vera. Falso fu solo il rigore. Zibì è scattato ed è stato fermato fuori dall'area, ma l'arbitro era nella nostra metà campo e venne ingannato dalla distanza. Alla fine Platini mostrò la coppa ai nostri tifosi, ma rientrò subito". Boniek raccontò di non aver mai ritirato il premio partita. "Boniek fece come gli altri. Non so più come dirlo: noi non avremmo voluto giocare, ci obbligarono, e fu gara vera". Era il caso di sollevare la coppa al cielo il giorno dopo a Caselle ? La Gazzetta scrisse "Juve nascondi quella coppa". Lei litigò con Cannavò... "Ripensandoci ora dico che non aveva tutti i torti, il gesto di mostrarla è scappato... Ma è facile parlare. Noi eravamo travolti da un dramma, da emozioni fortissime e incontrollabili. Comunque con Cannavò ho fatto pace". Il calcio ha imparato da quella tragedia ? "Il calcio inglese sì, ha imparato la lezione. Dopo l'Heysel ci fu Sheffield (96 morti nell'89, semifinale di coppa d'Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest), ma ha saputo reagire: guerra agli hooligans, pene certe, stadi rifondati. Gli inglesi hanno tolto la divisione tra il pubblico e il campo, là nessuno entra più. Sono stati più bravi di noi che facciamo giocare Genoa-Milan a porte chiuse per un episodio di violenza del 1995. Ci rendiamo conto che parliamo di 15 anni fa ?".

29 maggio 2010 

Fonte: La Gazzetta dello Sport

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Oggi il corteo bianconero

Dall'Heysel a Calciopoli

di Jacopo D'Orsi

Sono passati venticinque anni, un quarto di secolo. La Juve ricorda la notte più buia della sua storia: 29 maggio 1985, stadio Heysel di Bruxelles, trentanove tifosi morti prima della finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Alle 10, per la commemorazione nella sede del club in corso Ferraris, è atteso il presidente dell'Uefa Michel Platini. Saranno presenti anche diversi compagni dell'epoca, i famigliari delle vittime e una rappresentanza del Liverpool. Alle 11 messa alla Gran Madre. Parallelamente andranno in scena le iniziative dei tifosi: dopo la messa a Santa Rita, ritrovo in piazzale Caio Mario e marcia pacifica verso la sede. Il popolo bianconero chiederà al Comune, attraverso una petizione, di intitolare alla memoria delle vittime un giardino o una piazza nei pressi del nuovo stadio, in costruzione sulle ceneri del Delle Alpi. Infine, alla Juve sarà chiesto di muoversi per ottenere la revisione del processo sportivo di Calciopoli.

29 maggio 2010 

Fonte: La Stampa

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

A Torino Messa e corteo per ricordare le vittime

di Jacopo D'Orsi

Venticinque anni e 39 morti da non dimenticare: la Juve ricorda la tragedia dell'Heysel, il dramma vissuto dai suoi tifosi e dalle loro famiglie il 29 maggio 1985 a Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Dalle 10 sono in programma una commemorazione nella sede del club e una messa nella chiesa della Gran Madre: tra i presenti Michel Platini, diversi suoi compagni dell'epoca, il presidente della Lega Maurizio Beretta, la dirigenza (con il neo presidente Andrea Agnelli, foto) e la squadra di oggi, i familiari delle vittime e una rappresentanza del Liverpool. Mobilitati anche i tifosi (messa e una marcia in memoria dalle 15): petizione al Comune per intitolare alle vittime un giardino o una piazza nei pressi del nuovo stadio bianconero. Alla società chiederanno la revisione del processo di Calciopoli.

29 maggio 2010 

Fonte: La Stampa

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Due abruzzesi tra i 39 morti e i 600 feriti di una delle più gravi tragedie della storia del calcio mondiale

Heysel, la Coppa della tragedia

Oggi il 25esimo anniversario della strage di tifosi nello stadio belga.

di Walter Nerone

E' nella bacheca della Juventus la coppa insanguinata, il trofeo che nessuno avrebbe voluto vincere, alzato al cielo da Platini nella surreale cornice di uno stadio trasformato in immenso obitorio. Chi quel giorno, 25 anni fa, riuscì a sorridere ancora oggi se ne vergogna.  Una coppa intrisa del sangue di 39 vittime (32 italiane, 4 belghe, 2 francesi e una irlandese) e ben 370 feriti, senza contare quelli che, perché colpevoli o solo terrorizzati, sono fuggiti a farsi medicare a molti chilometri di distanza (circa 600). Vittime in larghissima parte giovanissime, arrivate nell'angusto, pericolante stadio belga per sostenere il sogno juventino della prima coppa dei Campioni. Vite spezzate dalla furia cieca di qualche migliaio di fan del Liverpool, la cui pericolosità era stata sperimentata l'anno prima a Roma e nella circostanza rinforzati da frange di supporter del Chelsea dal nome emblematico: "Headhunter" (cacciatori di teste).  Tutto avvenne a pochi minuti dall'inizio della gara. Mentre Platini, Boniek e compagni si preparavano a scendere in campo, la fragile e marcia rete che separava il settore Z, inopinatamente assegnato a tifosi juventini arrivati a Bruxelles con agenzie di viaggio autonome rispetto al grosso dei fan bianconeri, dal resto della curva assegnata agli inglesi cedeva sotto la spinta delle ripetute cariche dei tifosi reds. I tifosi italiani vengono spinti contro la parete esterna della curva che all'improvviso cede facendo precipitare decine e decine di persone. Lo stadio è nel caos totale, per minuti nessuno si rende conto della portata della tragedia che si sta consumando. La polizia è in confusione, i dirigenti UEFA impongono la disputa della gara. Bruno Pizzul la racconta agli italiani senza rivelare la tragedia, ignorando che il Tg1 mostra le immagini che la diretta sportiva nasconde, gettando nella disperazione centinaia di famiglie in ogni angolo d'Italia.  Anche per questo quella dell'Heysel, non la più grave purtroppo nella storia del calcio mondiale, è senza dubbio quella che ancora oggi suscita più imbarazzi, rimpianti e polemiche. Assurda nella dinamica prima che nella dimensione, nella sua prevedibilità e per le evidenti, incancellabili responsabilità giuridiche e morali; assurda per come è stata gestita dalle forze dell'ordine e dai dirigenti UEFA e dalle due squadre, Juventus e Liverpool, incapaci perfino di concordare un pro forma rispettoso del sangue di tanti innocenti.

29 maggio 2010

Fonte: Ilcentro.gelocal.it 

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

A Reggio Emilia un ricordo perenne

Invitata alla cerimonia che si è svolta nella sede della Juventus, una rappresentanza dei parenti delle vittime ha voluto sottolineare l’impegno di Reggio Emilia, città natale di un Claudio Zavaroni, uno dei morti di quella tragica notte, al quale è stata intitolata la palestra della scuola superiore che aveva frequentato. A Reggio Emilia, in contemporanea con Torino, si è svolta una commemorazione davanti al monumento "Per non dimenticare l’Heysel" dello scultore fiammingo Gido Vanlessen che con le sue trentanove steli ricorda il tragico evento. "Quest'anno ricorre un quarto di secolo - ha ricordato Andrea Mattioli del "Comitato Per Non Dimenticare Heysel" - ma la memoria non può affievolirsi. Dopo una grande tragedia, più il ricordo è condiviso e più è forte il monito che ne deriva affinché sia di insegnamento per i giovani il senso di responsabilità e nonviolenza, che devono guidare le persone negli eventi dello sport, ma anche nella vita. Attraverso il ricordo dell'Heysel questi valori possono restare nel tempo".

29 maggio 2010

Fonte: Juventus.com

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Del Piero: "Heysel, una partita mai iniziata"

Prima nella sede della Juventus, dove il presidente Andrea Agnelli ha condotto la commemorazione davanti ai famigliari delle vittime e a tanta Juve di allora (vedi articolo), poi nella chiesa della Gran Madre assieme a buona parte dei compagni di oggi. Alessandro Del Piero è stato sempre presente alla commemorazione per i venticinque anni della tragedia dell’Heysel. E attraverso il suo sito personale www.alessandrodelpiero.com la ricorda così: "La mia squadra deve vincere la Coppa dei Campioni. Questa volta non può sfuggirci, siamo i più forti. Il giorno dopo c’è la scuola, ma so che i miei mi faranno fare tardi, tanto non sarei riuscito a dormire. A casa siamo tutti juventini: papà, mamma, mio fratello. La partita l’ho già giocata nel pomeriggio con il mio pallone, e la sera prima di andare a dormire con la mia immaginazione, come sempre interpretando la parte di tutti i giocatori. La fantasia ti fa volare, qualche anno più tardi avrei scoperto che la realtà la può anche superare". "É una di quelle partite di cui parlano tutti, in Veneto poi è pieno di juventini come noi. Eppure Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni 1984/85 dallo stadio Heysel di Bruxelles, la vediamo con un tifoso dell’Inter: è un collega, caro amico di mio papà, che ci aveva invitato a cena. Una bella occasione per stare insieme e per fare festa, a casa di un amico e non certo di un avversario". "Tutto il bello del calcio e della passione per una squadra, per me, sta tutto in quell’attesa. Tutto il brutto, quanto di più drammatico si possa immaginare, sta tutto in quello che è accaduto dopo. Ricordo una cena consumata in pochi minuti per correre a giocare con il figlio degli amici dei miei, prima del calcio d’inizio. Ricordo una partita che non comincia mai, mentre i grandi sono a tavola, con gli occhi fissi alla televisione, la voce per me lontana di Bruno Pizzul che rivela a milioni di spettatori quello che sta accadendo. Io sono di là a giocare. Solo più tardi mi spiegheranno, comincerò a capire dove può arrivare la follia, la bestialità, ma anche l’irresponsabilità degli uomini. Torniamo a casa tra il primo e il secondo tempo. La partita era iniziata, poco contava ormai". "Ma quale partita. Vinciamo la Coppa, sì. Ma all’Heysel sono morte 39 persone, di cui 32 italiani, juventini che volevano festeggiare, come me e la mia famiglia. Come loro, potevamo esserci noi. Adesso sono il capitano della Juventus. Sono passati venticinque anni, da diciassette sono dall’altra parte, non più tifoso, ma protagonista. Oggi ricorderemo le vittime di quella tragedia. Lo farò non soltanto da giocatore della Juventus, ma da tifoso, da bambino di undici anni che sognava di giocarla, quella finale. Non la dobbiamo mai dimenticare. E in particolar modo noi che abbiamo la fortuna di indossare questa maglia - per un minuto come per una carriera - dobbiamo rivolgere un pensiero a quella partita mai iniziata e a chi per quella partita, per quella passione, per la Juventus, ha perso la vita".

29 maggio 2010

Fonte: Juventus.com 

ARTICOLI STAMPA e WEB 29 MAGGIO 2010  

Cerimonie a Torino e a Bruxelles

Agnelli: "Fatico a sentire mia quella Coppa"

Commozione a Torino per la messa in ricordo delle 39 vittime dell'Heysel il 29 maggio 1985. Presenti molti giocatori della squadra di allora, la Juve di oggi con la dirigenza e una rappresentanza del Liverpool. Il presidente del club bianconero, Andrea Agnelli, ha ricordato quel tragico giorno: "Ho sempre fatto fatica a sentire mia quella Coppa". Toccante il racconto che Del Piero ha affidato al proprio sito: "Ricordo una partita che non comincia mai, mentre i grandi sono a tavola, con gli occhi fissi alla tv e ora ricordo le vittime non solo da giocatore della Juve, ma da tifoso, da bambino di 11 anni che sognava di giocarla, quella finale". Dopo la messa, il corteo dei tifosi bianconeri: partito in memoria delle vittime è vergognosamente finito con insulti e lancio di bombe carta contro la sede della Juventus.

30 maggio 2010 

Fonte: La Stampa

ARTICOLI STAMPA e WEB 30 MAGGIO 2010 

La memoria offesa dei 39 morti dell'Heysel

di Xavier Jacobelli

Fumogeni, bombe carta e insulti sotto la sede della Juventus nel giorno del ricordo. Il post l'ha scritto un tifoso su un forum juventino, nickname Big Boss. "Sono appena tornato a casa. Ero con mio padre e mia madre. Mia madre alla sesta bomba carta ha giustamente deciso di andarsene e mio padre, che ha una certa età, era abbastanza scosso. Peccato per gli ultras, i quali non vogliono evidentemente capire che dietro una manifestazione del genere c’è molto di più di un "english animal" o "odio Liverpool". Eravamo lì per ricordare chi non c’era più e per difendere la nostra bandiera: il che non significa lanciare bombe carta o interrompere i discorsi altrui con cori per i diffidati e insulti vari. Il vero male del calcio è chi va tutte le domeniche allo stadio, ma evidentemente non lo ama". Se nemmeno 25 anni dopo la strage, i 39 morti dell'Heysel possono riposare in pace. Se nemmeno durante la giornata della memoria, a Torino, ci è stato risparmiato il solito copione di insulti, bombe carta, fumogeni, petardi. Se nemmeno la sede della Juve viene esclusa da questa incapacità di rispettare il dolore e il ricordo, significa che l'abisso d'inciviltà in cui è piombato il nostro calcio è più profondo di quanto temessimo. Venticinque anni dopo quella sconvolgente tragedia siamo ancora qui a chiederci come sia possibile tanta insofferenza; tanto, inaudito e feroce chiasso. E a domandarci che cosa c'entrino Calciopoli, lo scudetto assegnato a tavolino all'Inter, i cori sguaiati e tutto il resto nel giorno in cui i pensieri e le parole dovevano essere solo per i martiri di Bruxelles. La cui memoria ha diritto a un calcio migliore di questo, così barbaro da non sembrare vero.

30 maggio 2010

Fonte: Datasport.it 

ARTICOLI STAMPA e WEB 30 MAGGIO 2010 

La marcia del popolo bianconero per le vie della città

Lacrime e sassate: tifosi tra Heysel e Calciopoli

di Jacopo Orsi

Il giorno più lungo dei tifosi della Juve finisce con una decina di teppisti identificati dalla Digos, perché la manifestazione organizzata per ricordare le vittime dell'Heysel a 25 anni dalla notte più buia del football degenera nel solito triste spettacolo a cui il nostro calcio ci ha ormai abituato. L'impressione è che abbiano ragione l'ex presidente Boniperti e l'ex terzino Cabrini, quando spiegano che "gli inglesi hanno imparato la lezione e sono stati più bravi di noi". Le stesse persone capaci di commuoversi (abbiamo visto le lacrime rigarne il volto) per una poesia che ricordava Andrea Casula, bambino di 11 anni morto con suo padre prima della maledetta finale di Coppa dei Campioni del 1985, alle sei della sera, dopo aver urlato per le vie della città infamie e insulti di ogni tipo all'Inter, al Toro, a Balotelli e Materazzi, alla polizia, alla vecchia dirigenza, alla squadra (Cannavaro e Zebina) e pure al Liverpool, cioè a tutti coloro che anche in una giornata così sono stati definiti "nemici" , hanno finito il loro lavoro lanciando una decina di bombe carta all'interno del recinto che protegge la sede del club in corso Ferraris. Nobile, almeno, lo striscione affisso al cancello: "Impossibile dimenticare, doveroso ricordare". Altri si sono azzuffati nelle vicinanze, in mezzo all'odore acre della birra, delle canne e dei fumogeni. Delusi dal fatto che a riceverli non ci fosse nessun rappresentante della società, cui avrebbero voluto consegnare una petizione da inoltrare al Comune per intitolare una piazza o un giardino nei pressi del nuovo stadio "ai 39 angeli caduti", nonché chiedere (come ha promesso il presidente Andrea Agnelli) che all'interno della nuova casa bianconera sia realizzata una sala della memoria. Ma la manifestazione aveva anche lo scopo, presto diventato preponderante, di invitare la Juve a chiedere la revisione del processo sportivo di Calciopoli: "Rivogliamo indietro i due scudetti". Ecco il perché di tanto odio nei confronti dell'Inter: lungo la marcia sono stati presi a sassate un paio di balconi con bandiere nerazzurre. Sarà la Scientifica, dopo aver visionato i filmati, a stabilire se per qualcuno ci saranno conseguenze. Il corteo (1500 persone) era partito da piazza Caio Mario, dopo la messa celebrata in mattinata a Santa Rita parallelamente al protocollo ufficiale della Juve (commemorazione in sede e messa alla Gran Madre: ospiti il presidente dell'Uefa Platini, la squadra di oggi e quella di allora, i famigliari delle vittime). C'erano tutti: i gruppi ultrà della Nord e della Sud, i tifosi delle community sul web, quelli dei club. In mezzo a loro anche tanta gente normale. Mamme, bambini. Come Stefania, a spasso con il marito e il figlio Alessandro: "Vogliamo giustizia - ha spiegato - la società deve farsi sentire: Calciopoli è stata una Farsopoli". Marisa Fiorenzo, invece, è arrivata in pullman da Bologna "per difendere l'onore e la storia della Juve: ce ne stanno facendo di tutti i colori". "Marciamo per il nostro orgoglio - ha chiuso Igor Provasi, arrivato da Milano con gli amici Luca Itria e Guido Secreto - a sbagliare sono soltanto i 13 milioni di bianconeri che oggi non ci sono".

30 maggio 2010 

Fonte: La Stampa

ARTICOLI STAMPA e WEB 30 MAGGIO 2010 

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