Tragedie Stadi
e Tifosi
Italiani 1871-2024 |
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2.05.1920 |
Viareggio, Villa Rigutti |
"Campo del Puosi" |
(Sporting Club Viareggio - U.
S. Lucchese) |
Augusto
Morganti
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Sul terreno di gioco
di Villa Rigutti si gioca il derby tra la Lucchese
e il Viareggio. Al termine della partita scoppiano
dei tafferugli tra i tifosi locali e i carabinieri.
Il guardalinee dell'incontro di calcio, viareggino,
Augusto Morganti, viene ucciso da un colpo di
carabina sparato da un carabiniere.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
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"Fu la scintilla di una spontanea
e violenta rivolta popolare contro le istituzioni.
Per tre giorni, dal 2 al 4 maggio, estromessa
ogni forma di autorità, Viareggio fu isolata
dal resto del territorio, e mentre sul palazzo
del Municipio sventolava il nero vessillo dell’anarchia,
improvvisate "guardie rosse" si opponevano dietro
precarie barricate allo Stato che, mobilitati
esercito e marina, cingeva in assedio la città
facendo sfoggio di forza, ma anche dimostrando
incertezze decisionali ed incapacità di azione".
Fonte: Versiliatoday.it |
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28.03.1949 |
Supersano, Disordini Tifoserie |
Campionato
II Divisione Pugliese |
(Supersano-Ruffano) |
Antonio Prete
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Antonio Prete, un
giovane pugliese del Salento, fu il primo tifoso
italiano morto a causa di scontri fra tifoserie
rivali fuori dal campo di gioco nel marzo del
1949. Da pochi anni terminata la seconda guerra
mondiale, sullo sfondo politico che ancora contrappone
di fatto vincitori e vinti fra l’impeto del
rinnovamento e i nostalgici del fascismo, il
campanilismo di due paesini limitrofi nel Leccese,
Supersano e Ruffano, sfocia nella violenza sociale
con il pretesto del calcio. Una spiccata rivalità,
il folle intento di primato ad ogni costo, spinge
alcuni uomini del luogo allo scontro, non più
soltanto verbale. Fra le due cittadine esplode
per 2 giorni una vera e propria guerriglia dopo
che una partita del campionato di calcio pugliese
è terminata con una fitta sassaiola fra le tifoserie.
Durante uno di questi serrati confronti mentre
i carabinieri sparano in aria per disperdere
la folla un giovane di Supersano, il 19enne
Antonio Prete, è colpito a morte da un ruffanese
armato di pistola. Questo fatto di cronaca nera,
semi-sconosciuto, ha ispirato la storia del
libro "La grande guerra del Salento", scritto
da Bruno Contini, il quale ha collaborato, poi,
alla sceneggiatura dell’omonimo film diretto
dal regista veronese Marco Pollini. La pellicola
è stata girata tra Supersano, Ruffano e Specchia,
nel leccese, col contributo dell’Apulia Film
Found, di Apulia Film Commission e della Regione
Puglia. Marco Leonardi, uno degli attori protagonisti,
ha dichiarato saggiamente alla stampa: "Il calcio
è uno sport meraviglioso, con regole ben precise,
ma è spesso usato come occasione di sfogo da
personaggi violenti simili a quelli del film,
che accendono lo scontro su motivi futili. La
tragedia del Supersano e del Ruffano è molto
attuale, se pensiamo che anche in Sud America
questo problema è molto forte, con tifoserie
che vanno alle partite munite di armi da fuoco".
Il campo sportivo di Supersano è intitolato
ad Antonio Prete.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it (© Fotografie:
Google Maps - Supersanum.it) |
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30.11.1958 |
Milano, Stadio "San Siro" |
Campionato Italiano di Serie
A |
(Milan - Fiorentina) |
Giordano Guarisco
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Allo Stadio di San
Siro si accalcano in migliaia i tifosi accorsi
per la partita di calcio Milan-Fiorentina. Moltissime
persone, prive del biglietto, durante il primo
tempo della partita spingono e si agitano animosamente
fuori agli ingressi, costringendo la polizia
ad intervenire di forza per calmare gli esagitati
che hanno la meglio sfondando le porte. Nella
confusione due poveri ragazzi rimangono travolti
nella ressa, nonostante fossero seduti al loro
posto in gradinata: il diciassettenne Giordano
Guarisco, calpestato brutalmente dalla massa,
che riporta una frattura alla base cranica ed
il suo compagno Bruno Marsilio, di 14 anni,
che più fortunato, invece, se la cava con una
frattura alla gamba per cui verrà giudicato
guaribile in 40 giorni. Giordano Guarisco, ricoverato
d’urgenza in condizioni disperate all’ Ospedale
Maggiore di Milano, assistito dai suoi familiari,
muore nella notte del 1 dicembre 1958.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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28.04.1963 |
Salerno, Disordini Tifoseria |
Stadio "Donato Vestuti" |
(Salernitana-Potenza) |
Giuseppe Plaitano
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"Domenica
28 aprile 1963. A Salerno si respira aria di
primato. L’appuntamento per tutti è nel pomeriggio
al Vestuti per il big match tra i granata e
la capolista Potenza. Una vittoria, da raggiungere
ad ogni costo, consentirebbe alla Salernitana
di agganciare in vetta i lucani. Il Vestuti
è stracolmo. Sono oltre 15 mila gli spettatori
per un incasso record di otto milioni. Chi non
ha trovato posto, prende d’assalto balconi,
terrazzi e mura di cinta del vecchio stadio
che sembra scoppiare non solo d’entusiasmo.
L’atmosfera è elettrica. La posta in palio altissima.
Già dalle prime battute s’intuisce che l’arbitro,
l’alessandrino Gandiolo, non è in giornata;
fischia poco e tollera oltre il dovuto il gioco
pesante di entrambe le squadre. Nonostante la
tensione, le due squadre cercano di superarsi.
Al 42’, su di uno svarione della difesa granata,
la sgusciante ala sinistra rossoblù, Rosito,
in sospetto fuorigioco, infila il portiere Pezzullo.
I granata protestano vivacemente. L’arbitro
ferma il gioco e chiede lumi a uno dei guardalinee,
dirà poi negli spogliatoi. Nella ripresa, la
Salernitana cerca in tutti i modi di
recuperare.
I tentativi degli avanti granata, però, si spengono
tra le braccia dell’ottimo Masiero. Più il tempo
passa e più cresce la tensione in campo e soprattutto
sugli spalti. L’arbitro Gandiolo, incurante
dell’atmosfera che circonda il terreno di gioco,
continua ad avere un atteggiamento quasi di
sfida. Al 79’ il dramma. Visentin entra, palla
al piede, in area lucana ed è sgambettato. E’
rigore ! Gandiolo fa cenno di proseguire. Dal
lato distinti, uno spettatore scavalca la rete
di recinzione e si dirige verso l’arbitro, fermato
appena in tempo dalle forze dell’ordine. Nel
trambusto si nota che l’invasore ha il volto
coperto di sangue. Le reti di recinzione ondeggiano
paurosamente. In un attimo una ventina di scalmanati
invade il campo. L’arbitro è colpito al viso
da un pugno ma, protetto dalle forze dell’ordine,
insieme ai suoi due collaboratori di linea e
alla squadra del Potenza guadagna gli spogliatoi.
Il terreno di gioco è invaso da jeep della polizia.
Per disperdere la folla di scalmanati, sono
lanciati i gas lacrimogeni. Si sente indistintamente
un colpo d’arma da fuoco. A stento, tra feriti
e contusi, viene sgomberato il terreno di gioco.
La guerriglia continua per oltre cinque ore
fuori dallo stadio. Il bilancio è drammatico:
1 morto, 21 feriti e 36 contusi. Giuseppe Plaitano,
48 anni ex sottufficiale di marina, è il primo
tifoso morto in uno stadio italiano. Seguiva
con passione i granata in cima alla gradinata
delle tribune. Inutili i soccorsi degli amici
che gli sedevano accanto; un proiettile vagante
gli forò la tempia. Gandiolo e il Potenza lasceranno
il Vestuti oltre la mezzanotte quando del dramma
non restano che le rovine. Cinicamente sereno
dopo il 90’, l’arbitro affermò di avere la coscienza
a posto e di non sentirsi assolutamente responsabile
degli incidenti". Dopo quarant’anni, l’alessandrino
Gandiolo non cambiò idea: "Il pubblico perse
la testa per la posta in palio altissima; la
disorganizzazione delle forze dell’ordine fece
poi il resto – raccontò qualche anno fa al nostro
giornale". Memoria lucida, nonostante gli anni,
Gandiolo ricordava perfettamente quegli attimi
e l’episodio del rigore non concesso su Visentin
che scatenò la furia della folla: "Il rigore
? Non c’era proprio".
Fonte: Iotivogliodire.it
28.04.2013 ("Salernitana - Potenza. 28 aprile
1963") |
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28.10.1979 |
Roma,
Stadio "Olimpico" |
Campionato
di Serie A |
(Roma - Lazio) |
Vincenzo Paparelli
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"Vincenzo Paparelli,
tifoso laziale, era seduto in Curva Nord in
attesa di assistere al derby Roma-Lazio del
28 ottobre 1979. Stava mangiando un panino mentre
osservava il cielo plumbeo che minacciava pioggia
e due razzi di segnalazione, partiti dalla Curva
Sud, finiti fuori dagli spalti dopo una traiettoria
a zig-zag. Ad un certo punto, sempre dalla curva
Sud, parte un terzo razzo che compie una linea
retta di quasi 150 metri che lo colpirà in pieno
volto andandosi a conficcare dentro un occhio.
Racconta un testimone di una lunga scia nera
e schizzi di sangue ovunque. Paparelli si accascia
su se stesso e la moglie, che era seduta accanto
a lui, comincia ad urlare e chiedere aiuto,
ma molti tifosi scappano in preda al terrore.
Un ragazzo cerca di intervenire cercando di
togliere il petardo dall'occhio di Paparelli
ma ci riesce solo a metà e dal foro sul viso
e da dietro la testa esce del fumo. Arrivano
i medici ed una barella che lo porta nell'antistadio
della Curva Nord dove c'è un'ambulanza che di
corsa, a sirene spiegate, cerca di raggiungere
l'Ospedale Santo Spirito dove però il povero
Paparelli giungerà cadavere. Vincenzo aveva
33 anni
e
lascia la moglie e due figli. In Curva Nord,
ormai ridotta a poche migliaia di persone, scoppiano
disordini e tentativi d'invasione. Nessuno vuole
che si giochi e solo Capitan Wilson riesce ad
avvicinarsi ai ragazzi laziali inferociti. Per
non creare altri disordini, si decide di giocare
in un clima surreale con la Nord e la Tevere
"laziale" vuote ed il resto dello stadio pieno.
Le forze dell'ordine si mettono subito alla
caccia degli assassini e dopo una breve indagine,
viene indicato in Giovanni Fiorillo l'autore
materiale del gesto criminale. Fiorillo ha 18
anni ed è un pittore edile disoccupato. Già
la sera dell'omicidio si dà alla latitanza fuggendo
senza una meta ben precisa in giro per l'Italia
riuscendo anche ad espatriare in Svizzera. Dopo
quattordici mesi si costituirà. Verrà condannato
dalla Cassazione, nel 1987, a sei anni e dieci
mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale.
Morirà il 24 marzo 1993 a causa di un male incurabile.
Durante il periodo di latitanza aveva chiamato
quasi ogni giorno Angelo Paparelli, fratello
dello sfortunato Vincenzo, per scusarsi e giurare
che il 28 ottobre non voleva uccidere nessuno.
Il 29 ottobre 2001, a ventidue anni dal tragico
episodio, viene posta una targa in memoria di
Vincenzo allo stadio Olimpico, lato curva nord.
Il 13 giugno 2011 Vanda del Pinto, vedova di
Vincenzo, si spegne all'età di 61 anni".
Fonte: Laziowiki.org |
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7.06.1981 |
Tragedia Stadio "F.lli Ballarin"
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San Benedetto del Tronto, Rogo
Curva |
(Sambenedettese - Matera) |
Carla Bisirri
-
Maria Teresa Napoleoni |
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Domenica 7 giugno
1981 stava per avere inizio l’incontro di calcio
Sambenedettese-Matera, in programma nell’ultima
giornata del Campionato di Serie C1 del 1980/81
allo Stadio "Fratelli Ballarin" di San Benedetto
del Tronto, completamente esaurito in ogni ordine
di posto. Anche solo pareggiando la Sambenedettese
sarebbe stata promossa in Serie B ed il clima
sugli spalti era irrefrenabile, proprio quello
di una indimenticabile festa cittadina. All’ingresso
delle squadre sul campo di gioco le scorte dei
coriandoli ammassate ai piedi della curva della
tifoseria locale presero fuoco probabilmente
a causa dell’accensione dei bengala. Divampò
velocemente un grande incendio, alimentato dalla
brezza marina che spirava sulle gradinate, e
moltissimi tifosi prossimi alla fonte delle
fiamme restarono seriamente ustionati. Due ragazze
gravemente coinvolte nel rogo, Carla Bisirri
e Maria Teresa Napoleoni, moriranno dopo un’atroce
agonia alcuni giorni dopo in ospedale a Roma
mentre molti altri tifosi rimasero per sempre
segnati dal fuoco, quasi un centinaio di persone
di cui 13 più gravemente. Questo museo si onora
di approfondire particolarmente la memoria di
questa grave tragedia dimenticata, accaduta
in uno stadio italiano, dedicandole una ampio
capitolo di moltissime
pagine.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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21.03.1982 |
Sant’Oreste,
Rogo Vagone
Treno |
Espresso 709 "Milano-Roma" |
(Bologna-Roma) |
Andrea Vitone
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"ROMA - Un ragazzo
è morto soffocato dal fumo di un incendio scoppiato
in un vagone mentre il treno viaggiava a tutta
velocità verso la capitale. Non è escluso che
l'incendio sia stato doloso, i periti stanno
esaminando quanto è rimasto della carrozza per
accertare come e dove sono scaturite le fiamme.
Un'altra ipotesi che gli investigatori non trascurano
è quella di un mozzicone di sigaretta lasciato
cadere acceso sull'imbottitura dei sedili. Sul
convoglio c'erano molti tifosi romanisti che
avevano seguito la loro
squadra
a Bologna dove aveva perso per 2 a 0. Tra questi
anche la vittima. Andrea Vitone, non ancora
quattordicenne (li avrebbe compiuti in aprile),
che risiedeva a Roma, via Livorno. Viaggiava
assieme al fratello maggiore che però aveva
preso posto in un'altra carrozza. I giovani
erano piuttosto eccitati, la sconfitta della
loro squadra li aveva resi particolarmente chiassosi
e polemici "Alcuni, i più adulti - ricorderanno
più tardi altri viaggiatori - erano alticci".
Appena il treno si è mosso da Bologna (l'espresso
709 Milano-Roma) il controllore ha dovuto sostenere
un'animata discussione con alcuni di questi
giovani perché erano sprovvisti di biglietto.
Ma l'incidente si era chiuso lì, i ragazzi avevano
pagato. Il gruppo più numeroso era sulla quartultima
carrozza e per tutto il viaggio i giovani hanno
cantato e discusso animatamente di calcio. Le
fiamme sul vagone sono divampate mentre il treno
raggiungeva la sua massima velocità sulla "direttissima"
fra Gallese e S.Oreste. Era il tratto finale
prima di arrivare a Roma
Termini
dove l'entrata in stazione era prevista per
le 23, mezz'ora dopo. Il fumo che invadeva a
poco a poco la carrozza ha infastidito i passeggeri
e qualcuno ha aperto il finestrino per farlo
defluire. L'aria che però entrava con violenza
ha alimentato la fiamma che forse covava nell'Imbottitura
di uno scompartimento e il fuoco ha cominciato
a serpeggiare lungo le strutture in legno creando
il panico. Uno dei tifosi ha tirato il segnale
d'allarme e il treno si è fermato dopo centinaia
di metri con le ruote inchiodate dai ceppi.
I passeggeri hanno abbandonato il vagone, qualcuno
per fare più in fretta si è gettato dai finestrini.
In quel momento Andrea Vitone si trovava nella
toilette: quando è stato raggiunto dal fumo,
è uscito, ma in quel momento il treno ha Iniziato
la brusca decelerata e il giovane è caduto a
terra. Ha picchiato la testa contro lo sportello
e ha perso i sensi. Nessuno si è accorto di
lui, è arrivato il personale del treno, il vagone
in fiamme è stato sganciato dal resto del convoglio,
la lotta dei ferrovieri contro il fuoco con
gli estintori in dotazione non è servita a nulla.
Il brusco arresto del convoglio ha provocato
il blocco sulla linea e alla stazione di Civita
Castellana è scattato l'allarme. E' subito partita
una pattuglia della polizia ferroviaria per
controllare che cosa era successo: a un chilometro
dal treno fermo nella campagna c'era il bagliore
del vagone in fiamme e gli agenti hanno informato
i vigili del fuoco. Quando questi ultimi sono
arrivati sul posto, della carrozza erano rimaste
solo più le strutture in ferro. Attenuato l'intenso
calore con getti d'acqua, gli agenti sono saliti
sul vagone per controllare, almeno per quanto
possibile, la probabile origine del fuoco. Ed
è proprio davanti alla toeletta che hanno scoperto
il corpo del ragazzo, ucciso dal fumo e dal
calore. La notizia che un passeggero era morto
si è sparsa in un attimo e l'ha saputa anche
il fratello di Andrea. Il giovane però non si
è preoccupato perché sembrava che la vittima
fosse un adulto. Ha scoperto che invece era
suo fratello solo quattro ore dopo quando il
treno è arrivato a Roma".
Fonte: La
Stampa 23.03.1982 |
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12.06.1983 |
Catania, Stadio "Cibali" |
Campionato Italiano di Serie
B |
(Catania-Perugia) |
Lorenzo
Marino
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Qualche minuto prima
di Catania-Perugia del 12 giugno 1983, ultima
giornata del campionato di Serie B, si consuma
una folle tragedia sugli spalti dello Stadio
"Cibali". La partita, fondamentale per le ambizioni
della squadra etnea in corsa per la promozione
nella massima serie nazionale, richiama il pubblico
delle grandi occasioni. Esasperato dalle ripetute
e incivili provocazioni domenicali di alcuni
tifosi della Curva Sud ai danni della sua abitazione
sottostante (insulti, lanci di oggetti e urina)
Angelo Grasso, 54 anni, dipendente comunale
con l’incarico trentennale di custode dello
stadio, abbandona una partita a carte con gli
amici, imbraccia il suo fucile da caccia ed
esce di casa a sparare all’impazzata contro
i tifosi assiepati sulle gradinate. Il bilancio
sarà tragico: 1 morto e 32 feriti. Mentre lo
conducono in caserma dirà ai carabinieri: "Non
ne potevo più, da tempo mi lanciavano lattine,
gelati, bottigliette. Quando mi hanno orinato
sulla casa davanti a mia moglie e a una delle
mie figlie non ho capito più nulla". La vittima
è un metronotte di San Gregorio, Lorenzo Marino,
28 anni e padre di due bambini piccoli, fra
l’altro del tutto estraneo alle provocazioni
dei teppisti. La notizia, diffusa in diretta
dalle emittenti private, crea grande panico
fra la gente fuori e dentro l’impianto sportivo
e mentre la partita è in corso, sovraccaricata
di tensione, decine di feriti più o meno gravi
vengono trasportati in ospedale. Il 10 ottobre
1985 Angelo Grasso venne condannato dalla Corte
d'Assise di Catania a 13 anni di reclusione
per omicidio. In seguito la difesa legale chiese
per l’imputato il riconoscimento della seminfermità
mentale.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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8.02.1984 |
Carica
Reparto Celere Polizia |
Trieste,
Stadio "Giuseppe Grezar" |
(Triestina-Udinese) |
Stefano
Furlan
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"l’8 febbraio 1984
era il giorno di Triestina-Udinese e tra i tifosi
della prima squadra allo stadio dedicato alla
memoria di Giuseppe Grezar, centrocampista morto
nella sciagura di Superga avvenuta nel 1949,
ci andò anche Stefano Furlan, vent’anni compiuti
il 23 dicembre precedente. Ma lì intorno, il
giorno del derby del Friuli Venezia Giulia,
la situazione non era tranquilla tanto che a
un certo punto esplose. Dunque vennero schierati
i cordoni dei reparti mobili delle forze dell’ordine
per fronteggiare buona parte dei seimila sportivi,
tanti ne poteva contenere l’impianto di Trieste.
Alla fine dell’incontro, verso le 16.30, Stefano
Furlan stava incrociando via Macelli. Doveva
recuperare la sua auto, una Fiat 128 che aveva
lasciato da quelle parti, e fare ritorno a casa
dei genitori. Non era un esagitato, Stefano.
Fresco del diploma da geometra, aspettava di
trovare un lavoro nel settore in cui aveva studiato
e intanto un po’ aiutava un fiorista e un altro
po’ occupava metà della sua giornata prestando
assistenza a disabili seguito da una struttura
religiosa. Tutto questo, però, non lo sapevano
i tre agenti che lo avvistarono alla fine della
partita e gli furono addosso, a mani nude e
con i manganelli. Infine quasi lo sollevarono
di peso per portarlo in questura, dove rimase
qualche ora per essere alla fine rilasciato.
Renata, la madre, disse al Corriere dello Sport-Stadio,
quando il figlio rincasò: L’ho rivisto alle
nove. Quando ha aperto la porta era stralunato,
pallido. La giacca e il piumotto erano a pezzi.
Aveva le lacrime agli occhi. "Mamma, sono stato
picchiato. Un poliziotto mi ha dato una manganellata
sulla testa, poi in questura schiaffi, pugni,
calci". Conosco Stefano, non è un violento,
gli ho subito creduto. Non si sentiva bene.
Alle nove e mezza era già a letto. Avrebbe continuato
a sentirsi male il giorno dopo, Stefano. Tanto
che nel pomeriggio venne portato d’urgenza in
ospedale, dove entrò in coma e finì in sala
operatoria. Ma le fratture craniche e le relative
conseguenze uccisero quel giovane dopo venti
giorni di agonia da cui non si svegliò mai.
Era il 1 marzo 1984. E come raccontato successivamente:
Il poliziotto che lo aveva colpito, venne riconosciuto
da tre testimoni e sospeso dal corpo. Nel novembre
1985 venne condannato a un anno di reclusione
con i benefici della legge. Ma successivamente
fu riabilitato e rientrò in servizio presso
la questura di Trieste".
Fonte: Blog
Curva Sud Veneziamestre 1987 9.02.2019 (Il ricordo
di Stefano Furlan 8/2/1984 - 8/2/2019 STEFANO
FURLAN VIVE !) |
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30.09.1984 |
Milano, Stadio "San Siro" |
Campionato Italiano di Serie
A |
(Milan-Cremonese) |
Marco Fonghessi
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Al termine della partita di campionato Milan-Cremonese,
fuori allo Stadio di S. Siro un gruppo di ultras
rossoneri notano una "131" targata Cremona imbottigliata
nel traffico. La circondano e con un coltello
gli tagliano una gomma. Marco Fonghessi, giovane
tifoso rossonero di 21 anni, residente in provincia
di Cremona e proprietario dell’automobile, esce
dalla macchina insieme agli altri occupanti
per chiedere spiegazioni. Mostra un cuscino
a strisce rossonere, ma uno della banda glielo
strappa di mano fraintendendo il gesto come
una provocazione. Marco non è un violento, ma
un ragazzo tranquillo che andava di rado alle
partite. Fra insulti e qualche spintone, facendosi
largo tra gli aggressori dice di lasciarli in
pace e di restituirgli il cuscino, ma viene
trafitto da una coltellata all'addome. Mentre
il gruppetto dei teppisti si dilegua, fiero
della "lezione" impartita, Marco viene soccorso
e trasportato in gravissime condizioni all’ospedale
milanese di San Carlo. Un'equipe di chirurghi
prova a salvargli la vita con un intervento
chirurgico durato sei ore, fino a tarda notte,
ma ogni tentativo tra innumerevoli trasfusioni
di sangue, è vano, non ci sarà nulla da fare:
la lama del coltello spinta molto a fondo aveva
provocato una ferita profonda 20 cm, lesionando
gli organi interni, duodeno e pancreas. All'alba
Marco Fonghessi, giovane
meccanico
tornitore di Castelleone, muore dopo una breve
agonia. Viene identificato, intanto, in Stefano
Centrone l’assassino che ha sferrato il fendente
mortale. Conosciuto nell'ambiente come "Joe",
18 anni appena compiuti, è un "bulletto" nullafacente
di periferia con qualche precedente penale per
furto e sempre in cerca di provocazioni. Il
Milan è un pretesto per delinquere, più che
una fede. Nel suo quartiere quella sera si vanta
di avere "colpito un avversario"... Ma il giorno
dopo sapendo della morte di Fonghessi butta
via il suo coltello a serramanico in un bidone
dell’immondizia del suo caseggiato in zona "Porta
Vigentina", si taglia da solo i capelli lunghi
e biondi ossigenati e toglie l'orecchino per
non farsi identificare. Inutilmente. Lunedì,
in tarda serata, i Carabinieri della "Compagnia
Magenta", risaliti a lui dalle testimonianze
dei compagni di Marco e di altri tifosi milanisti
del quartiere, lo trovano in casa, in pigiama.
Centrone viene condotto in camera di sicurezza,
ma in un primo tempo conserva durante l’inquisitoria
un atteggiamento "tranquillo, freddo e distaccato".
Poi, dopo 24 ore, il crollo per cui tenta grossolanamente
il suicidio con una coperta, bloccato da un
carabiniere. Richiamato il magistrato Filippo
Grisolia viene nuovamente interrogato e confessa
l’accoltellamento. Verrà condannato per l’omicidio
a 22 anni di reclusione, ne sconterà effettivamente
14. Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it |
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29.05.1985 |
Strage Stadio "Heysel"
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Bruxelles, Finale Coppa dei
Campioni |
(Liverpool - Juventus) |
39 Vittime |
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Museo
Virtuale
Multimediale |
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13.04.1986 |
Ponte
Galeria, Rogo Vagone Treno |
Espresso
607 "Pisa-Roma" |
(Pisa-Roma) |
Paolo Saroli
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Il 13 aprile i tifosi
della Roma stanno tornando dalla partita di
campionato in trasferta all’Arena Garibaldi
di Pisa col morale a mille: la loro squadra
ha vinto 4-2 ed ha agganciato la vetta della
classifica di Serie A. Si trova a pari punti
con la Juventus a sole 2 giornate dalla fine
del torneo. L’ euforia si trasforma in follia
quando qualcuno di loro accende un fumogeno
dentro lo scompartimento del treno in marcia.
Prende fuoco all’istante una tendina e le fiamme
si propagano in fretta, senza controllo, mentre
viaggiano nel nodo ferroviario tra Ponte Galeria
e l’autostrada per Fiumicino, a pochi chilometri
dalla Stazione Ostiense. Paolo Saroli, un giovane
diciassettenne romano, rimane a terra intrappolato
nel corridoio, tramortito dall’ossido di carbonio
e morirà nel sonno calpestato dalla ressa della
gente nel panico che fugge dal rogo e dal fumo
cercando di mettersi in salvo in ogni modo.
La dinamica è identica a quella della morte
dell'altro tifoso giallorosso, Andrea Vitone,
morto nel 1982.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
''Mio figlio era andato a vedere
la partita a Pisa, era un ragazzino, non aveva
nemmeno 17 anni. E' morto per asfissia perché
si era assopito, ma fu calpestato dagli altri
ragazzi che fuggirono appena videro le fiamme.
Era piccolino e tra l'altro era caduto qualche
giorno prima dal motorino e aveva una contusione
alla gamba e camminava a stento. Non era molto
agile. Ricordo come un incubo quando arrivarono
i carabinieri a casa mia intorno alle due del
mattino. Ero angosciata perché Paolo ancora
non era rientrato'', ricorda Lucia Saroli, madre
di Paolo il giovane morto, il 13 aprile del
1986 nel treno che riportava a casa i tifosi
della Roma, per asfissia in seguito all'incendio
appiccato dagli ultrà. ''La mia vita era già
stata segnata dalla morte di mio marito e di
mio fratello - continua Lucia Saroli - mi era
rimasto solo Paolo e ieri è morto per la seconda
volta".
Fonte: Adnkronos.com 30.01.1995
(NDR: Si ringrazia Asromaultras.org
per il materiale di repertorio) |
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7.12.1986 |
Centobuchi, Ascoli Piceno |
Discoteca "Oxygen" |
(Serata in Discoteca) |
Giuseppe Tomasetti |
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"ASCOLI PICENO - Lo
hanno accoltellato al cuore, probabilmente dopo
una discussione iniziata per futili motivi di
campanilismo e degenerata in rissa. Peppino
Tomassetti, ventuno anni, autista in un pantalonificio
di Centobuchi, un grosso centro situato tra
Ascoli e San Benedetto, è morto in un lago di
sangue, sotto gli occhi terrorizzati della sua
ragazza. Il suo amico, Virgilio Carlini, di
ventuno anni, muratore, ha riportato una lieve
ferita al palmo della mano. I due presunti assassini
sono due giovani di Ascoli Piceno di ventiquattro
anni e di venti. Si trovano rinchiusi nel supercarcere
di Marino del Tronto con l'imputazione di omicidio
volontario e di concorso in omicidio. La tragedia
è esplosa all'improvviso nella notte tra sabato
e domenica, subito dopo la chiusura della discoteca
Oxygen di Centobuchi. A quell'ora, erano circa
le 2 di notte, la moderna discoteca era ancora
affollata di decine di ragazzi che tiravano
a far tardi. Il giovane rimasto ucciso aveva
terminato il servizio di leva da poco; insieme
ad alcuni amici, si era recato a ballare nella
discoteca dove, al bar, lavora la sua ragazza.
Appassionato di calcio, il ragazzo seguiva da
vicino le vicende della squadra del cuore, la
Sambenedettese, che milita nel campionato di
serie B. Insieme a lui nel locale c' erano,
sembra, altri giovani sambenedettesi simpatizzanti
dei gruppi ultras Onda d' urto e anche tifosi
ascolani. Le due città sono divise da tempo
da una fiera rivalità, degenerata qualche volta
in episodi di violenza e in ripetuti scontri
fisici. Secondo una prima
ricostruzione
dei fatti, tra le due opposte fazioni c'erano
già stati dei precedenti. Il clima nella discoteca
si è fatto pesante. Sono volati insulti e sfottò,
e anche qualche pugno. Qualcuno si è affrettato
ad uscire dal locale, per riaccompagnare a casa
la propria ragazza. Anche Peppino, insieme al
suo amico Virgilio Carlini, è uscito dalla discoteca.
Appena acceso il motore della propria auto una
Fiat Uno acquistata da poco due giovani ascolani
gli sbarrano il passo, minacciosi. Carlini scende
dall'auto e si avvicina ai giovani per convincerli
a spostarsi. Uno dei due è armato di coltello.
Nel tentativo di strappargli l'arma, il giovane
resta ferito alla mano. A questo punto, per
soccorrere l'amico, Tomassetti esce dall'auto
ma viene colpito da due coltellate. La prima
lo raggiunge alla coscia sinistra, la seconda
in pieno petto appena sotto il cuore. Il giovane
muore poco dopo. Al delitto assistono una decina
di giovani, tra cui la sua ragazza. Subito dopo,
i due giovani fuggono a bordo di una Range Rover
rossa. l'auto viene intercettata e fermata da
una pattuglia di carabinieri. A bordo ci sono
(Omissis), ventiquattro anni, proprietario dell'auto,
e (Omissis), di venti anni; entrambi di Ascoli
Piceno. Sottoposti ad interrogatorio e messi
a confronto con i testimoni, i due sono stati
successivamente rinchiusi nel supercarcere di
Marino del Tronto. I giovani sono sostenitori
della squadra dell'Ascoli calcio. Ma non risultano
iscritti ad alcun club. Il primo lavora come
orafo nella bottega del padre, il secondo gestisce
una sala giochi cittadina. Con ogni probabilità,
l'assassinio è stato causato da una mera questione
di rivalità, di leadership territoriale, accentuata
da antichi rancori personali. Il magistrato,
Adriano Crincoli, che sta seguendo le indagini,
non esclude però l'ipotesi che dietro la violenta
lite ci sia una questione di droga. Alquanto
confuse e contraddittorie le versioni rese dalle
persone finora interrogate dal magistrato. Qualcuno
ricorda i recenti episodi di violenza che, in
occasione dei derby tra l'Ascoli e la Sambenedettese,
hanno contrapposto i due gruppi di tifosi: l'Onda
d' urto sambenedettese e Settembre bianconero.
In uno di questi scontri, (Omissis) avrebbe
riportato la peggio, subendo anche il furto
di una collanina d' oro ad opera del Tomassetti.
Non è stata ancora trovata l'arma del delitto,
probabilmente un coltello a serramanico. L'autopsia
condotta sul cadavere di Tomassetti ha confermato
la morte per emorragia. I funerali del giovane
si svolgeranno oggi a Centobuchi. Il giovane
ferito si trova ricoverato nell'ospedale di
San Benedetto e le sue condizioni non destano
preoccupazione".
Fonte: La Repubblica 9.12.1986 ("Tifo
e vecchi rancori così la lite in discoteca è
finita in tragedia" di Sandro Premici) |
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9.10.1988 |
Ascoli,
Stadio "Cino e Lillo Del Duca" |
Campionato
di Serie A |
(Ascoli-Inter) |
Nazzareno Filippini
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"L'incontro Ascoli-Inter
è appena terminato. Le forze dell'ordine fanno
defluire dalla Curva Nord dello stadio Del Duca
i tifosi nero-azzurri, che vengono incolonnati
ed avviati verso i cinque pullman parcheggiati
in via delle Zeppelle. Ma non si è a conoscenza
del fatto che altri due mezzi sono stati lasciati
nei pressi della stazione ferroviaria: il secondo
gruppo di ultras si dirige alla meta, passando
davanti agli ingressi della tribuna coperta
ed ecco avvicinarsi il dramma sotto la Curva
Sud, feudo del tifo bianconero. All'indirizzo
degli interisti inizia un fitto lancio di pietre,
lattine ed altri oggetti. È il fuggi fuggi generale.
Nazzareno Filippini resta coinvolto nella ressa.
Ad un certo punto si accascia al suolo, con
il volto completamente coperto di sangue. Viene
soccorso qualche minuto più tardi e tra le mani
che si tendono per aiutarlo ci sono anche quelle
di Antonio, diciannovenne, impaurito di quanto
sta accadendo. Quando si avvicina non sa ancora
che il corpo martoriato è di suo fratello.
Reno,
così chiamato dagli amici, entra in coma profondo
subito dopo aver varcato la soglia dell’Ospedale
di Ascoli. Riesce a parlare con i medici del
pronto soccorso, lamentando un forte dolore
alla parte destra del capo. Durante gli accertamenti
perde però conoscenza. Quindi, la corsa disperata
verso Ancona con un'autoambulanza a sirene spiegate.
In tarda serata è sottoposto a Tac. Le sue condizioni
appaiono subito gravi tanto che i sanitari del
reparto neurochirurgico lo sottopongono ad un
intervento alla testa per rimuovere un grosso
ematoma. Filippini subisce in seguito un secondo
intervento chirurgico per l'asportazione dei
residui emorragici. Il giovane non riesce ad
uscire dal coma profondo in cui è caduto tanto
che i medici sono pessimisti sul suo recupero:
difficilmente, in caso di sopravvivenza, potrà
riprendere le piene facoltà fisiche. A fare
temere la sua fine imminente è il responso di
un’ennesima Tac. Com'è prassi dopo un esame
del genere, viene chiamato un neurochirurgo
per un parere; questi però non rileva alcuna
nuova lesione tale da giustificare un nuovo
intervento chirurgico. Qualcosa di poco convincente,
qualche leggerissimo segno d'allarme induce
però i medici a fare il controllo: forse la
modificazione della pupilla, un po' più dilatata.
Ma nei casi come quello di Nazzareno Filippini
il confine tra una situazione già gravissima
e la morte è impercettibile, labile come il
tracciato di un encefalogramma o di un elettro-cardiogramma.
D'altronde le radiografie della scatola cranica
dell'uomo mostrano un cervello ridotto in poltiglia,
con i ventricoli e le anse irriconoscibili,
sformati da colpi che indicano una ferocia inaudita.
Il cuore di Reno cessa di battere il 17 ottobre
per arresto cardiocircolatorio conseguente al
progressivo deterioramento delle condizioni
cerebrali che già erano gravissime. Nazzareno
era un sostenitore convinto dell'Ascoli Calcio
e non perdeva occasione per seguire la squadra
del cuore. In gioventù era stato anche giocatore
di calcio. Orfano di padre (viveva con la madre
Maria, insegnante elementare), due sorelle sposate
ed un fratello, Antonio, di 19 anni, aveva frequentato
solo per qualche anno l'Isef ad Urbino, scegliendo
poi di lavorare per la Casa Editrice Fabbri
come rappresentante. Ascolano purosangue, conosciutissimo
in città, molto vicino al mondo sportivo, avrebbe
coronato il suo lungo sogno d'amore con la compagna
Elisabetta De Benedittis proprio la settimana
successiva a quella maledetta domenica. Un dramma
nel dramma. Dopo difficili indagini verranno
arrestati cinque ultras interisti del gruppo
Viking con l'accusa di omicidio volontario:
sono (Omissis), 31 anni, (Omissis), 24, (Omissis)
e (Omissis), 20, tutti di Milano, e il ventiquattrenne
di Reggio Emilia (Omissis). A sorpresa, nel
giugno 1989 il giudice istruttore di Ancona
li rimetterà in libertà per mancanza di indizi.
Da nuove perizie disposte e altre testimonianze
raccolte, sembra che (Omissis) e (Omissis),
protagonisti di scontri fra le opposte tifoserie,
fossero lontani dal luogo dell'aggressione a
Filippini mentre, pur avendo partecipato alla
rissa, non furono (Omissis), (Omissis) e (Omissis)
a sferrare con un oggetto il colpo che uccise
l’ascolano. Le nuove indagini però non porteranno
ad identificare nessun colpevole lasciando di
fatto gli omicidi di Nazzareno senza volto".
Fonte: Ascolinoi.weebly.com" |
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4.06.1989 |
Milano,
Stadio "San Siro" |
Campionato
di Serie A |
(Milan - Roma) |
Antonio De Falchi
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"Un’aggressione brutale,
senza spiegazioni e senza possibilità di fuga.
Per Antonio De Falchi, romanista, diciannove
anni, la morte è arrivata davanti ad un cancello
dello stadio di San Siro alle dodici meno un
quarto di una domenica qualunque, cinque ore
prima dell’inizio della partita Milan-Roma.
Trenta criminali travestiti da tifosi gli si
sono lanciati contro dopo avere accertato che
si trattava di un "nemico". L’assassinio è cominciato
con un sorriso e una domanda innocente: "Scusa,
hai una sigaretta ?". Antonio De Falchi era
appena sceso dal tram insieme ai suoi amici,
aveva percorso a piedi i duecento metri che
separano il capolinea del 24 in piazzale Axum
dal cancello numero 16 dello stadio di San Siro,
quello da cui si imbocca la rampa che porta
alla zona dei popolari riservata ai tifosi ospiti.
A pochi metri dal cancello si sono visti venire
incontro un ragazzo di circa diciotto anni,
una faccia qualunque, una maglietta chiara,
un paio di jeans. Il ragazzo chiede da fumare,
Antonio però intuisce la trappola e cerca di
rispondere nascondendo l’accento romano. L’altro
ci riprova: "Sai che ora è ?", e Antonio: "Mancano
cinque minuti a mezzogiorno". Ma stavolta la
parlata romanesca gli esce netta, inconfondibile;
è la sua condanna a morte. Il ragazzino in jeans
ha avuto la conferma di trovarsi di fronte,
ad un "nemico", si volta all’indietro e fa un
gesto. Dalle spalle di una costruzione in cemento,
una specie di bunker circolare che fa parte
del cantiere per il terzo anello dello stadio,
spuntano almeno trenta persone: sono tutti giovani,
alcuni giovanissimi. Si lanciano verso i quattro
ragazzi che cercano di fuggire. Mancano più
di quattro ore e mezza all’inizio di Milan-Roma
e intorno al "Meazza" il servizio d’ordine è
ancora esiguo: una trentina di poliziotti guidati
da un funzionario, che hanno il compito più
che altro di bloccare i portoghesi e di evitare
che durante la mattinata mazze e coltelli vengano
fatti passare attraverso la cancellata. Così
i primi attimi dell’aggressione, quelli decisivi,
si svolgono senza che nessuno possa intervenire.
I quattro romanisti in fuga vengono quasi raggiunti;
gli inseguitori cercano di placcarli a sgambetti.
Tre riescono a restare in piedi, Antonio cade
e gli sono subito addosso in dieci. Lo prendevano
a pugni e calci, sono soprattutto due di loro
a picchiare di più. Antonio è diventato viola
ma loro non si fermano. Il pestaggio dura meno
di mezzo minuto, poi i dieci picchiatori, si
riuniscono al resto del gruppo che cerca invano
di acchiappare anche gli amici di Antonio.
Solo a questo punto interviene la polizia e,
mentre una parte degli agenti cerca di bloccare
gli aggressori, si prestano i primi soccorsi
ad Antonio. Sul momento le condizioni del ragazzo
non sembrano gravi: si alza in piedi da sé,
sembra stordito ma non ferito e riesce persino
a scambiare qualche parola con i poliziotti.
Invece, all’improvviso, perde colore; diventa
cianotico e crolla a terra; un agente cerca
di fargli la respirazione bocca a bocca, poi
un massaggio cardiaco ma non c’è nulla da fare,
Antonio De Falchi è entrato in coma. In pochi
minuti arriva un’ambulanza, l’ospedale San Carlo
è vicinissimo: ma quello che i medici del pronto
soccorso si vedono consegnare è un corpo ormai
privo di vita. Il ragazzo è morto anche se il
suo corpo non presenta ferite né lividi. L’autopsia
successivamente dirà che De Falchi, colpito
sì con pugni e calci ma senza subire nessuna
grave lesione, è morto d’infarto, favorito da
una lieve malformazione ad una delle coronarie.
Più semplicemente si può dire che Antonio è
morto di paura, sopraffatto dal terrore nel
vedersi accerchiato da quelle teste rasate e
dai giubbotti da aviatore, ragazzi come lui
ma capaci solo di insultare e di picchiare.
L’esito dell’inchiesta porterà ad un solo verdetto
e a tante polemiche. La quarta sezione della
Corte d’Assise condanna solo (Omissis), 20 anni,
magro, cui neanche i capelli rasati riescono
a dargli l’aria del duro. Era stato riconosciuto
dagli amici di De Falchi e dai poliziotti. Il
pubblico ministero Pietro Forno aveva chiesto
la condanna a otto anni di reclusione. Ne ha
avuti sette, pagherà un anticipo sui danni di
50 milioni, ma la Corte, come aveva chiesto
il Pm, concederà il beneficio della remissione
in libertà. A (Omissis), insomma, solo poche
ore di carcere, per poi tornare a casa e riprendere
il suo lavoro di fattorino. Saranno assolti
per insufficienza di prove gli altri due imputati.
Anche per loro l’accusa aveva chiesto otto anni.
Ma nessun testimone li aveva notati nel gruppo
dei responsabili dell’agguato. Uno si chiama
(Omissis), 29 anni, postino, leader del Gruppo
Brasato, una formazione che tifa nella curva
Sud, tra le Brigate rossonere e la Fossa dei
leoni. L’altro è (Omissis), 21 anni, studente
di giurisprudenza, figlio di un farmacista.
Una sentenza così favorevole che farà impallidire
la madre di Antonio De Falchi. Suo figlio, diciannove
anni, era morto domenica 4 giugno dopo l’agguato
degli ultras milanisti. "E’ questa è la giustizia
? È uno schifo", dice la signora Esperia, vestita
di nero. "A me questa sentenza non sta bene.
Loro dovevano pagare, anche se nessuno mi può
riportare il povero Antonio".
Fonte: Storiedicalcio.altervista.org
("Killer da stadio: la morte di Antonio De Falchi") |
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9.08.1991 |
Rimini, Accoltellamento |
Discoteca "Barcellona" |
(Agguato Ultras davanti al Locale) |
Luca Scio
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La calda notte della
riviera romagnola l’8 agosto 1991 è teatro di
una tragedia assurda, figlia della "stupidità,
dell'ignoranza e del razzismo" come intitolerà
l’indomani il giornale partenopeo "Il Mattino".
Sono circa le 3.00 del mattino a Rimini ed all’uscita
dalla nota discoteca "Barcelona" due gruppi
di giovani, milanesi e napoletani, si s’insultano
reciprocamente in maniera pesante, anche con
alcuni epiteti razzisti, rivendicando orgogliosamente
la propria appartenenza a due squadre geograficamente
e calcisticamente acerrime rivali, Inter e Napoli.
Il buttafuori del dancing, un ex pugile, li
ha allontanati con veemenza dal posto, ma essi
spostandosi di qualche metro in una via adiacente
vi fanno esplodere una rissa violentissima,
armata di coltelli, spranghe di ferro, cacciaviti
e bottiglie rotte. Fra le decine di giovani
coinvolti nello scontro un milanese, Luca Scio,
16 anni, in vacanza nella località balneare
e appartenente al gruppo degli ultras neroazzurri
"Skin Heads", ha la peggio mortalmente, trafitto
al cuore da "un punteruolo, come in un film
dell'orrore", scriveranno. Il fatto accade ad
un centinaio di metri dal mitico Grand Hotel
nel quartiere di Marina Centro, il "salotto
buono" Riminese. Fra gli accoltellati anche
un 19enne napoletano, (Omissis), operato d'urgenza
e fuori pericolo all'alba, ma che la Procura
interrogherà sospettandolo di essere reo dell’omicidio.
In sua discolpa il giovane, ferito seriamente
al ventre nella colluttazione, si discolperà
sostenendo la propria innocenza e di aver usato
il suo cacciavite non per offendere, ma solo
per "spaventare" gli aggressori. La notizia
della morte del figlio, appresa al telefono,
sconvolge la vita dei genitori di Luca, ignari
per molte ore del fatto di sangue. Viene anche
ascoltato dagli inquirenti il compagno di vacanza
della vittima, (Omissis), 19 anni, in pensione
assieme a lui. Dopo una prima ricostruzione
degli avvenimenti, Paolo Gengarelli, il sostituto
procuratore titolare dell’inchiesta, notifica
tre provvedimenti: la custodia cautelare per
"omicidio" al (Omissis), "rissa aggravata e
tentato omicidio" nei confronti di un minorenne
milanese, (Omissis), trasferito subito nel carcere
minorile di Bologna e la notifica di "rissa
aggravata" anche al (Omissis), ferito all’orecchio
negli scontri e soccorso nello stesso ospedale.
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it |
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10.01.1993 |
Bergamo,
Viale "Giulio Cesare" |
Campionato
Italiano di Serie A |
(Atalanta - Roma) |
Celestino Colombi
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"Il 10 gennaio 1993
è purtroppo diventata una data tristemente famosa.
Quel giorno infatti dopo la partita Atalanta-
Roma perse la vita Celestino Colombi, 41 anni.
La partita è finita, i tifosi romanisti sono
già stati riportati in stazione, dove stanno
per prendere il treno per tornare nella Capitale.
Tutto liscio. Quando improvvisamente, e senza
alcun motivo, la celere di Padova (di servizio
quel giorno a Bergamo) decide di caricare gli
ultrà bergamaschi rei di trovarsi al loro solito
baretto a bere qualche birra. Durante queste
cariche, 3 poliziotti si trovano davanti Cestino
Colombi, che passava di lì assolutamente per
caso (era appena uscito da una seduta con lo
psicologo). Minacciano con i manganelli il malcapitato,
il quale preso dal panico si accascia a terra
e muore per arresto cardiaco. Celestino, va
ricordato, non frequentava lo stadio. Aveva
un passato da tossicodipendente. La questura
si limitò ad uno scarno comunicato in cui si
sottolineava la sua condizione di tossico,
quasi
a voler dire "tanto sarebbe morto lo stesso".
I giornali sportivi, e non liquidarono la notizia
con poche righe, parlando genericamente di "scontri
fra tifosi" (con i romanisti che avevano già
abbandonato la zona dello stadio) e di "cariche
di alleggerimento" da parte della celere. Per
la prima volta un gran numero di tifoserie di
serie A (e qualcuna anche di serie minori) misero
da parte le rivalità (che nei primi anni ’90
erano ancora molto forti e quasi "invalicabili")
per portare avanti un’iniziativa comune di solidarietà.
E così all’unisono in molte curve (Bergamo in
primis, ma anche Roma, Lazio, Milan, Fiorentina,
Genoa, Sampdoria, ecc.) per una domenica sparirono
i consueti striscioni per far spazio ad un unico
telo raffigurante la frase: "10-01-1993: LA
MORTE E’ UGUALE PER TUTTI !". Fu un numero ridotto
di tifoserie a partecipare all’iniziativa, ma
quasi tutte profondamente rivali fra di loro.
Ancora adesso, e la nostra curva lo farà anche
domenica, in occasione della ricorrenza, viene
esposto uno striscione a ricordo dell’accaduto".
Fonte: Atalantini.com
(10 gennaio 1993 - La morte è uguale per tutti)
- Fonte Foto di Celestino Colombi:
Giornalino Curva Nord 10/01/2016
(NDR: Si ringrazia vivamente) |
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30.01.1994 |
Acireale,
Sciagura Ferroviaria |
Intercity
"Archimede" Siracusa-Roma |
(Ragusa-Messina) |
Salvatore Moschella
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Salvatore Moschella,
ventiduenne disoccupato di Melilli, in provincia
di Siracusa, stava andando a Bologna da un amico
che lo avrebbe aiutato a cercare un lavoro,
magari un posto da ragioniere invano cercato
in Sicilia. Domenica sera del 30 gennaio 1994
era salito sull'espresso Siracusa-Roma delle
18.50, lo stesso treno preso da una quarantina
di tifosi del Messina al ritorno da una partita
di calcio del campionato nazionale dilettanti,
il derby a Ragusa, pareggiato 1-1. Fra i tifosi
spicca un gruppetto di ultras più esagitati
che incominciano ad infastidire alcuni viaggiatori,
compreso il Moschella, cacciato a male parole
via dallo scompartimento in cui è seduto insieme
ad una giovane immigrata di colore e ad un militare
di leva. Prova ad opporsi al sopruso, ma riceve
in cambio soltanto spintoni, pugni e calci.
Liberato insieme agli altri il posto, pare essere
finita lì, se non fosse che quelli incominciano
a molestare una ragazza al telefono nel corridoio.
Salvatore generosamente prova a difenderla,
ma è nuovamente picchiato con brutalità dal
gruppetto di delinquenti, fino all'intervento
di alcuni passeggeri che lo sottraggono all’assalto.
A Catania finalmente può intervenire la Polizia
ferroviaria per ristabilire la calma e compiere
qualche accertamento di rito. Alcuni viaggiatori
angustiati dal clima di tensione cambiano treno,
invece Salvatore decide di proseguire il viaggio
sull’intercity "Archimede" Siracusa-Roma Termini,
ma anche di cambiare carrozza. Una volta ripartito
il treno i famigerati tifosi lo cercano per
un raid punitivo nel quale, dopo averlo trascinato
di forza e segregato dentro uno scompartimento
vuoto
di una carrozza semideserta, lo pestano selvaggiamente.
Un chilometro e mezzo prima della stazione di
Acireale, approfittando di un rallentamento
del treno (circa 50-60 Km orari) l’istintiva
disperata azione di fuga di Salvatore, provato
fisicamente e psicologicamente dalle sevizie
del branco: arrampicandosi sulla grata del portabagagli
salta giù dal finestrino, ma sbattendo contro
un palo della ferrovia, il suo corpo è risucchiato
sotto le rotaie del treno che ne dilaniano il
corpo. Alla stazione di Acireale alcuni testimoni
oculari segnalano alle forze dell’ordine i fatti
e, purtroppo, dopo una breve ricerca, la polizia
scopre di notte il cadavere martoriato del povero
ragazzo in una pozza di sangue sui binari della
tratta ferroviaria. A Messina, intanto, arrivano
gli scalmanati tifosi che vengono identificati
uno ad uno, qualcuno condotto in questura per
accertamenti, fra questi 5 in posti in stato
di fermo, 3 maggiorenni e due minorenni, con
l’accusa di omicidio preterintenzionale. Per
la loro imputazione fondamentali le testimonianze
e il riconoscimento di alcuni passeggeri che
si trovavano accanto allo scompartimento dove
si è consumata la tragedia. L’indomani Salvatore
verrà pietosamente riconosciuto dal padre, un
sindacalista della Cgil di Siracusa, nell’obitorio
di Acireale. Di lui i familiari raccontano di
"un ragazzo tranquillo, maturo, per niente attaccabrighe,
ma non disposto a subire aggressioni" e che
"Il calcio non lo interessava, piuttosto preferiva
la musica e le discoteche". A Messina i club
organizzati della tifoseria locale prendono
nette le distanze dagli imputati ed esprimevano
il loro rammarico per quanto accaduto. Per tutta
la durata del processo, al fine di ottenere
l’immediata scarcerazione dei colpevoli e pene
più miti in giudizio, la difesa gioca come sue
uniche carte a disposizione la derubricazione
del reato da
omicidio
preterintenzionale a omicidio colposo e una
presunta "fragilità psichica del giovane" che
in passato avrebbe sofferto di "esaurimento
nervoso". Questa tesi non è accolta favorevolmente
dalla prima sezione della Corte d'Assise di
Catania che emette il verdetto, dopo 4 ore di
camera di consiglio, condannando a "dieci anni
di reclusione e tre di sorveglianza speciale"
i tre tifosi messinesi rei delle brutali ripetute
aggressioni: (Omissis), 26 anni, (Omissis),
24 anni, e (Omissis), 20. Gli altri due imputati
assenti, essendo minorenni, verranno giudicati
a parte. In tribunale i parenti degli imputati
scatenano il caos inveendo contro la corte e
la famiglia Moschella, costituitasi parte civile
al processo. Un giornalista, fermando nel corridoio
del Palazzo di Giustizia di Catania il padre
di Salvatore, Giuseppe Moschella, gli domanda:
"Soddisfatto per questa sentenza ?"… "Che vale
? Nessuno potrà riportarmi mio figlio".
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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5.07.1994 |
Ercolano,
Festa Vittoria
Nazionale |
Campionato
del Mondo USA 1994 |
(Italia-Nigeria) |
Salvatore Oliva
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Al fischio finale
di una delle partite più drammatiche della storia
della nazionale di calcio italiana, Italia-Nigeria,
prolungata ai supplementari e risolta dalla
vena geniale di Roberto Baggio, uno degli azzurri
più grandi di sempre, esplode la festa in tutta
Italia, quasi come una liberazione dopo l’incubo
"nero" patito per 120 minuti dai possenti valorosi
africani. Anche nei vicoli di Pugliano, quartiere
povero e malfamato di Ercolano ed in tutta la
provincia di Napoli la gioia è davvero incontenibile,
rasentando la follia collettiva: infarti, tamponamenti,
risse. Salvatore Oliva che ha festeggiato da
poco tempo il suo settimo compleanno è da solo
in casa di suo cugino (Omissis), sedicenne,
e delle sue sorelline che giocano nella stessa
stanza. Sono
euforici
per la vittoria e incantati dal fragore dei
petardi e dei clacson assordanti in strada,
dei cori, delle trombette rosse ad aria compressa.
Questo clima esalta (Omissis) che sale su una
sedia a prendere la scatola posta sull'armadio
dove suo padre conserva una Beretta calibro
7.65, regolarmente denunciata. Incredibilmente,
l'arma è già carica e con il colpo in canna.
La dinamica non è ben chiara, ma il ragazzo
in qualche modo ha sparato un proiettile che
prima trafigge mortalmente il cuginetto al cuore
e poi si è incastrato contro un muro dell’appartamento.
Accorrono i genitori di entrambi che scoprono
con orrore la tragedia dopo che già hanno sentito
esplodere il colpo salendo le scale. (Omissis)
getta la pistola per terra e fugge sconvolto,
sua madre raccoglie il nipote Salvatore esanime
da terra e risulta vano lo slalom tra le automobili
dei tifosi in marcia con le bandiere nella corsa
d’urgenza all’ospedale "Loreto Mare" di Napoli.
La mamma della vittima, Anna, casalinga ed incinta
di cinque mesi e suo marito Alberto, di professione
muratore, resteranno a vegliare per tutta la
notte il corpicino del figlio nella saletta
dell’obitorio del nosocomio. Due famiglie oneste
travolte da una disgrazia impensabile in un
giorno di festa. Lo zio (Omissis) sarà denunciato
per "omessa custodia e trasporto illegale della
pistola", (Omissis) per omicidio colposo.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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29.01.1995 |
Genova, Quartiere "Marassi" |
Campionato Italiano di Serie A |
(Genoa - Milan) |
Vincenzo
Claudio Spagnolo
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"La
mattina del 14 dicembre 2006 - una mattina
fredda e grigia - i cancelli del carcere
torinese delle Vallette si aprirono e ne
uscì Simone Barbaglia, trent’anni, una vita
affogata nel fallimento ancora prima che
iniziasse. Questa è la storia sua e del
ragazzo cui aveva tolto di colpo la vita
quasi dodici anni prima, una domenica pomeriggio
che c’era Genoa-Milan. La mattina del 29
gennaio 1995 - una mattina fredda e grigia
- Simone Barbaglia, diciotto anni, esce
di casa per andare a prendere il treno delle
11:05 che lo porterà da Milano a Genova.
Abita in via (Omissis), un palazzo di otto
piani all’incrocio con via delle Forze Armate.
Vive con la mamma Manuela e il patrigno
Norberto che gli hanno dato un fratellino,
Diego, di undici mesi. Ha lasciato a metà
l’istituto tecnico e ora fa l’apprendista
giardiniere; ha un fisico minuto e alla
visita militare l’hanno riformato per un
qualche sintomo depressivo. Non fuma e non
beve. Indossa un giaccone verde scuro marca
Barbour e si porta dietro un coltello a
farfalla, di quelli con il manico che si
apre in due e si chiude su una lama di undici
centimetri. Gliel’ha prestato il suo amico
(Omissis), che nonostante abbia ancora 17
anni vanta già una discreta collezione privata
di lame. Simone avrebbe voluto comprarsene
uno tutto suo, ma tre giorni prima la puntata
al negozio di caccia e pesca in via Pisanello
è andata a vuoto: il negoziante gli ha detto
"Noi non trattiamo questo genere di articoli"
e quindi bòn, tanti saluti. La mattina del
29 gennaio 1995 Vincenzo Spagnolo, venticinque
anni, per gli amici "Claudio" o "Spagna",
si sveglia a metà mattinata e se la prende
comoda. Abita a Genova in via Digione, zona
San Teodoro, quartiere popolare vicino al
porto. Vive con il papà Cosimo, la mamma
Calogera e le sorelle Maria Grazia e Romina,
ma fino al mese prima ha lavorato in Sardegna
come agente immobiliare per conto di un
parente. Grande e grosso, gioviale, appassionato
di musica ska, frequenta il centro sociale
Zapata e con i suoi amici ama andare allo
stadio a vedere il Genoa, specialmente oggi
che arriva il Milan che a Marassi se la
vede sempre brutta, visto che non vince
da 13 anni. Poco prima dell’una esce di
casa. Lo incontra un vicino: "Dove vai ?".
"Allo stadio, speriamo di non prenderle".
Simone Barbaglia sale sull’Intercity e incontra
i suoi amici di curva, compreso (Omissis).
Si riconoscono tra di loro perché indossano
tutti lo stesso giaccone della stessa marca
e infatti sono "quelli del Barbour". Sono
un piccolo gruppetto all’interno di un gruppetto
un po’ più grande, le Brigate Rossonere
2, che a sua volta è una costola distaccata
delle Brigate Rossonere originali e in tutto
sono una quarantina di persone. Non è dato
sapere la dinamica di questo distacco: c’è
chi dice che se ne siano andati loro, c’è
chi dice che le Brigate li abbiano emarginati
per colpa di qualche capetto piuttosto rissoso
e fumantino. L’idolo di Simone, l’uomo da
cui sogna di essere notato e preso in simpatia,
non è Maldini né Franco Baresi, bensì il
capo delle Brigate 2: si chiama (Omissis),
ha trentun anni, è laureato in economia
e commercio e - per la sua abilità e precisione
di coltello - è soprannominato il Chirurgo.
Mentre tutti i gruppi principali del tifo
rossonero sono partiti con il treno speciale
delle 10, quello scortato dalla polizia,
le Brigate 2 sono partite "in borghese"
un’ora dopo. Tre giorni prima hanno deciso
a tavolino il piano del colpo grosso che
li farà diventare rispettabili agli
occhi
della curva Sud: arriveranno inosservati
a Brignole e percorreranno a piedi i 1500
metri che separano la stazione da Marassi,
possibilmente devastando tutto ciò che trovano
di rossoblù lungo il tragitto e - gran finale
- sfilando sotto la Gradinata Nord genoana.
Lì probabilmente scatterà la colluttazione
e arriveranno i tanto attesi "tagli", i
colpi di coltello da sferrare (e possibilmente
non ricevere) in punti non vitali (glutei,
gambe, ginocchia…) per essere promossi sul
campo come nuovo gruppo emergente della
curva. Il treno arriva puntuale alle 13:15.
Simone è uno dei tanti, senz’altre qualità
rilevanti che non siano l’entusiasmo di
poter recitare da protagonista in una scorribanda
del genere. A tirare le fila della spedizione
sono i Brasati, la fazione più attiva all’interno
delle Brigate 2: c’erano loro anche dietro
all’agguato che era costato la vita al 19enne
tifoso romanista Antonio De Falchi il 4
giugno 1989. Tutto procede come da copione
anche se la voglia di fare un po’ tracima:
un ragazzo di passaggio viene ferito alla
testa con una cinghiata, forse viene anche
danneggiata la sede di un Genoa Club. Arrivano
davanti al Ferraris che la voce si è già
sparsa e gli ultrà genoani sono molti più
del previsto. Parte la prima carica genoana,
i milanisti arretrano e finiscono in una
specie d’imbuto, quando quelli delle file
davanti decidono di sguainare i coltelli
e ordinano un’improvvisa inversione di marcia:
all’attacco. Simone è in fondo al gruppo
e si ritrova di colpo lancia in resta davanti
a tutti. Non c’è tempo per pensare. I genoani
sono a mani vuote ma Vincenzo Spagnolo è
grande e grosso e ritiene di poter mangiarsi
in un boccone il piccolo Simone; gli si
lancia addosso per disarmarlo e riceve una
fortissima coltellata allo stomaco, che
gli squarcia l’addome e lo fa crollare a
terra privo di sensi. Subito scappano tutti.
All’interno del settore ospiti, occupato
da 923 tifosi milanisti, la notizia arriva
in ritardo. Si è saputo degli scontri e
partono i cori di rito: "Solo dei tagli,
avete solo dei tagli". Poi più macabri:
"Uno di meno, voi siete uno di meno". Si
riferiscono al ricovero in ospedale, il
peggio non è ancora contemplato. Ma Vincenzo
Spagnolo muore sull’ambulanza a metà primo
tempo e pochi minuti dopo dalla Gradinata
Nord sale il coro che gela il sangue: "Assassini,
assassini". Non c’è tempo per pensare. Viene
messa in piedi una specie di unità di crisi:
quelli delle Brigate 2 mischiano i vestiti
e i biglietti del treno per depistare le
procedure di identificazione; Simone nasconde
il coltello insanguinato in una scatola
di cartone in un angolo del settore ospiti
e scambia il suo Barbour verde con quello
blu del suo amico (Omissis), 19 anni. La
curva del Genoa è imbestialita e impedisce
ai giocatori di iniziare il secondo tempo;
contemporaneamente i tifosi rossoblù coltivano
l’insano proposito di sfondare le vetrate
divisorie e invadere il settore ospite,
ma fortunatamente il plexiglas regge. Sono
immagini terribili e sconfortanti che la
tv manda in diretta su Rai3 con "Quelli
che il calcio" che decide di interrompere
la trasmissione: i secondi tempi verranno
seguiti con le sole voci dei radiocronisti
di Tutto il Calcio Minuto per Minuto a fare
da sottofondo a uno studio vuoto. Al colmo
dell’isteria, gli ultrà genoani si
impadroniscono
di un idrante impazzito e sparano acqua
a caso sugli spalti che vanno via via svuotandosi.
Non potendo sfogarsi all’interno dello stadio,
il caos dilaga fuori con la polizia che
assiste inerme, inadeguata a far fronte
a una sequenza impressionante di roghi,
cariche e controcariche. Arriva perfino
il sindaco Sansa col megafono, niente da
fare. La guerriglia termina a tarda sera,
più per stanchezza e frustrazione che per
una qualche soddisfazione personale. Insieme
a tutti gli altri tifosi del Milan barricati
a Marassi, Simone esce dallo stadio a mezzanotte
inoltrata, con tutti gli organi del corpo
scollegati dal cervello. Come tutti anche
lui è stato fotografato e identificato,
ma probabilmente non se n’è neanche accorto.
Con loro riparte a notte fonda in autobus,
debitamente scortati dalla polizia. Arriva
a Milano all’alba e sta per pigiare il tasto
"Barbaglia" sul citofono del palazzo di
via (Omissis), quando arrivano i carabinieri.
I suoi genitori naturalmente hanno saputo
cos’è successo, ma conosceranno l’identità
dell’assassino solamente dal telegiornale
dell’una e mezza. L’interrogatorio va via
veloce, dopo un’ora Simone crolla e gli
indica dove ha nascosto il coltello. Carcere
a Chiavari, processo di primo grado, prima
condanna, prima scarcerazione, seconda condanna,
condanna definitiva: il 2 ottobre 2001 la
Cassazione gli infligge 14 anni e 8 mesi.
Tanto tempo per pensare, finalmente, per
esempio a quello che c’è scritto nella sentenza:
"Barbaglia agì sulla spinta di una miscela
esplosiva di odio, rancore, rabbia e paura.
Vincenzo Spagnolo avanzava verso il milanista
a mani nude. Non si buttò sul coltello ostentato
dall’avversario: fu Barbaglia a sferrare
una decisa e violenta coltellata al tronco
della vittima". Tra indulto, benefici vari
e sconti di pena per buona condotta, esce
dal carcere a fine 2006. Adesso ha 36 anni
ed è un uomo libero, se libere si possono
definire una mente e un’anima tormentate
da un fantasma giovane, grande, grosso e
molto rumoroso. "Perché Savicevic non stava
giocando ?", gli chiese al primo interrogatorio
il pubblico ministero Massimo Terrile, casualmente
anche lui milanista. "Ehm, era infortunato
?". "Sbagliato, era squalificato". Si dice
che molti ragazzi vedano il calcio, la fede
sportiva e la curva come rifugio da una
vita triste e squallidamente vuota. Ma forse
Simone Barbaglia non era neanche milanista".
Fonte:
Comunquemilan.it (Da "Giornataccia" di Giuseppe
Pastore - 7.03.2013)
- © Fotografia: Cittadigenova.com
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4.05.1997 |
Salerno, Stadio "Arechi" |
Campionato Italiano di Serie
A |
(Salernitana-Brescia) |
Roberto
Bani
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Un pomeriggio di maggio
del 1997 sancisce un gemellaggio storico e duraturo
fra due tifoserie molto calde nel panorama calcistico
italiano. Purtroppo, però, nasce da un evento
tragico vissuto con umana solidarietà dalla
gente di Salerno. I tifosi bresciani prima della
partita sono stati accolti con rispetto dai
salernitani nei luoghi di transito verso lo
stadio, nessuno scontro e provocazione, c’è
stima reciproca. Alla fine del primo tempo,
invece, durante l’intervallo della partita,
nel settore ospiti dello stadio "Arechi" scoppia
una lite accesa fra alcuni tifosi bresciani
in trasferta. La loro squadra non sta giocando
bene, si discute animatamente, volano parole
grosse. A causa di una spinta ricevuta nel diverbio
Roberto Bani perde l’equilibrio e accidentalmente
vola giù dagli spalti per tre metri battendo
violentemente il capo su un gradone prima del
fossato che separa la tribuna dal campo. La
partita è sospesa qualche minuto per prestare
il soccorso dei medici, ma viene trasportato
d’urgenza in condizioni disperate nel reparto
di rianimazione dell’ospedale "San Giovanni
di Dio e Ruggi d’Aragona" a Salerno. Entrato
in coma profondo vi muore alcuni giorni dopo,
il 10 maggio 1997. I suoi familiari autorizzano
l'espianto di cuore, reni e fegato. I tifosi
della Salernitana generosamente si sono prodigati
nella loro assistenza durante il ricovero di
Roberto. Questo gesto meraviglioso battezza
un gemellaggio fra le due tifoserie che è ancora
oggi presente.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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1.02.1998 |
Treviso,
Stadio "Monigo" |
Campionato
Italiano di Serie B |
(Treviso - Cagliari) |
Fabio Di
Maio
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"Tragedia allo stadio
Monigo alla fine della partita tra Treviso e
Cagliari: c’è stato un contatto tra le tifoserie,
una sassaiola, una carica della polizia e alla
fine è rimasto per terra Fabio Di Maio, 32 anni,
un tifoso storico dei tempi in cui il Treviso
era ancora nell’Interregionale, amico dei giocatori,
una figura conosciuta in città. E ritorna il
ricordo di Vincenzo Spagnolo, il genoano accoltellato
nel gennaio '95 o di Nazzareno Filippini, l’ascolano
morto negli scontri con gli ultrà interisti
nell’88, le storie italiane delle domeniche
allo stadio, quando dal nulla appare la violenza
e la morte. Gli incidenti sono cominciati all’uscita,
nella zona opposta al piazzale delle biglietterie,
tra le curve e i popolari. Il Cagliari aveva
vinto, il gruppo dei tifosi sardi festeggiava,
non più di una trentina. Si sono ritrovati contro
un gruppo di ultrà del Treviso, sono partiti
gli insulti e poi qualche sasso, è intervenuta
la polizia per separarli, c' è stata qualche
carica, nella fuga Di Maio si è accodato al
gruppo dei suoi compagni di tifo, un centinaio,
che tentava di disperdersi. Secondo le testimonianze
di altri spettatori, non era in prima fila negli
incidenti, ma ha seguito il movimento di tutti.
Improvvisamente si è accasciato al suolo, in
un momento in cui la tensione tra le due tifoserie
si era anche un po' alleggerita. Il giovane
è stato attorniato da alcuni amici, che hanno
chiesto aiuto e telefonato al 118 dell’Ospedale.
Nell’attesa che l’ambulanza arrivasse è stato
soccorso da due agenti e da un medico che era
andato ad assistere la partita, che hanno tentato
un massaggio cardiaco sull’asfalto. Il referto
medico del nosocomio trevigiano parla di morte
improvvisa, quasi sicuramente un infarto. Fabio
Di Maio aveva leggere abrasioni sul palmo della
mano e a un ginocchio che facevano pensare a
una colluttazione, il sospetto era che la morte
potesse essere la conseguenza di un pestaggio,
da parte dei tifosi avversari o della polizia.
Ma il questore di Treviso, Armando Zingales,
riportando le osservazioni dei medici, le ha
descritte come ferite dovute alla caduta, al
momento del malore. "Non c' è niente che faccia
pensare a un evento traumatico", dice il referto.
Ma i tifosi e la stessa società parlano di un
ritardo nell’arrivo dell’ambulanza. Fabio Di
Maio era di Dosson di Casier, un paese a pochi
chilometri a sud di Treviso ma ora viveva con
la compagna nel quartiere di Santa Maria del
Sile. Non era conosciuto come un ultrà particolarmente
acceso ma lo scorso anno aveva subito un’interdizione
dallo stadio per sette mesi. Frequentava un
club del centro e poi qualcuno dei tanti bar
dove parlare di calcio (o di rugby) è un’occasione
per un giro di "ombre", di bicchieri di vino.
Questa era una delle prime partite cui assisteva
in questa stagione, la prima del Treviso in
serie B. Lavorava come magazziniere in una ditta
di confezioni. Il padre è molto conosciuto perché
gestisce l’edicola all’interno dell’ospedale
Ca' Foncello. Sembra che Di Maio avesse una
storia personale di cardiopatia, i medici dell’ospedale
hanno parlato addirittura di una miocardiopatia
cronica. Nonostante questo, Di Maio era molto
attivo e non solo nello sport visto ma anche
in quello praticato, essendo anche un istruttore
di nuoto allo Sporting Club Zambon. La sua morte
ricorda quella di Antonio De Falchi, un diciottenne
tifoso della Roma, morto all’esterno di San
Siro nel giugno '89, per una crisi cardiaca,
dopo un’aggressione degli ultrà milanisti. Ma
in questo caso sembra che il contatto con gli
ultrà cagliaritani neanche ci sia stato. Il
questore Zingales ha denunciato il degenerare
di una tifoseria tranquilla che negli ultimi
tempi, specialmente in occasione dei derby con
Venezia e Verona, ha dato il via a incidenti
(ha collaborato Andrea Passerini)".
Fonte: La
Repubblica 2.02.1998 ("Domenica di violenza"
di Corrado Sannucci) (NDR: Allo
stesso Fabio Di Maio sarà poi intitolata la
curva degli ultras trevigiani nello stadio "Tenni"
di Treviso che in quella stagione restò chiuso
per impraticabilità) |
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24.01.1999 |
La Spezia, Stadio "Alberto
Picco" |
Campionato Italiano di serie C2 |
(Spezia - Pisa) |
Maurizio Alberti
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"(Omissis) ...Era
il 24 gennaio 1999, la partita fu sospesa dopo
soli 8 minuti per i gravi incidenti provocati
dai tifosi spezzini, infuriati per essere stati
"sfrattati" dalla loro curva. Il giovane fu
colpito da un infarto. Era da tempo cardiopatico
e fu soccorso in ritardo: la concorde testimonianza
dei numerosi amici attestò che all'inizio i
soccorritori sottovalutarono l'entità del malore,
pensando a torto che Maurizio fosse sotto l'effetto
di alcool o altro. E così, quando fu trasportato
in ospedale, le sue condizioni erano ormai gravissime.
In realtà il povero Maurizio non si riprese
mai più e morì dopo due settimane di agonia.
Le indagini sul tragico episodio furono condotte
dalla polizia di Spezia, e a Pisa dalla Digos
su sub-delega degli inquirenti liguri. Per diverse
settimane furono chiamati a testimoniare tutti
coloro che si trovavano con Maurizio allo stadio
"Picco", e gli atti furono quindi trasmessi
a Spezia. Impossibile sapere con certezza come
stiano le cose, ma a tanti anni dall'accaduto,
la storia parla di un'archiviazione nonostante
la lunga battaglia dei genitori e degli amici
affinché fossero trovate le vere cause della
morte.
"Il problema più grave - hanno affermato
- è che fatti di questo tipo possono ripetersi
sempre: allo stadio, chi va in curva è ancora
un cittadino di serie inferiore...(Omissis)".
Fonte: Iltirreno.gelocal.it
26.04.2010 ("Nel 1999 la morte di Mau" di A.Sc.) |
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24.05.1999 |
Salerno, Galleria Santa Lucia |
Rogo Treno 1681 "Piacenza-Salerno" |
(Piacenza - Salernitana) |
Ciro, Peppe, Enzo e Simone
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Ciro Alfieri |
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Giuseppe Diodato |
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Vincenzo Lioi |
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Simone Vitale |
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"SALERNO - Tifosi
scatenati tra le fiamme: potrebbe essere stato
l'ennesimo atto vandalico degli ultras della
Salernitana a provocare l'incendio e la morte
di quattro giovani, sul treno speciale che riportava
a casa 1.500 sostenitori, dopo l'ultimo incontro
giocato ieri pomeriggio a Piacenza, che ha decretato
la retrocessione della squadra campana in serie
B. Un viaggio che si è concluso tragicamente.
Solo nel pomeriggio sono stati identificati
i corpi, carbonizzati nel rogo: due delle vittime
avevano appena quindici anni, Vincenzo Lioi
e Ciro Alfieri. Gli altri due ragazzi sono Simone
Vitale, 21 anni, giocatore della squadra di
A2 di pallanuoto Rari Nantes Salerno, ex vigile
del fuoco e Giuseppe Diodato, 23 anni, riconosciuto
anche lui attraverso l'esame dei vestiti e delle
scarpe. L'incendio, di cui ancora non si conoscono
le cause, sarebbe stato provocato dagli stessi
tifosi che viaggiavano sul treno speciale di
ritorno partito ieri sera alle otto da Piacenza,
in prossimità della stazione di Salerno, per
evitare di essere identificati dalla polizia
al loro arrivo. Il bilancio è purtroppo provvisorio:
le fiamme sono divampate all'interno di una
galleria, scatenando il panico tra i passeggeri
che, probabilmente, hanno tentato la fuga gettandosi
dai finestrini mentre il treno era in corsa.
Il treno è uscito dalla galleria in condizioni
disastrate, non solo per le fiamme. L'intero
viaggio del treno speciale Piacenza-Salerno,
con circa 1.500 tifosi a bordo, che sarebbe
dovuto arrivare a destinazione alle sette di
questa mattina, è stato infatti accompagnato
da disordini dei fan della Salernitana, agitati
per la retrocessione in serie B. Viaggiatori
scatenati che hanno provocato ritardi nel tragitto,
l'ultimo dei quali alla stazione di Nocera Inferiore,
quando hanno tirato il freno e sono scesi dal
convoglio, cercando invano ulteriori scontri
con gli storici rivali della Nocerina. Dalle
testimonianze di alcuni tifosi e del personale
delle Ferrovie in servizio a Nocera Inferiore
emerge che gli atti di vandalismo sono avvenuti
esclusivamente sul treno. Alcuni tifosi della
Salernitana hanno divelto sediolini, rotto vetri
e hanno scagliato pietre raccolte sulla massicciata
anche contro un treno fermo sul terzo binario,
in attesa di partire, e nel quale vi erano viaggiatori
che si sono riparati all'interno del convoglio
per evitare danni. Dopo essere stato fermo per
un'ora, il treno speciale è ripartito ma, mentre
percorreva la lunghissima galleria di Santa
Lucia, ha preso fuoco. L'incendio, secondo quanto
è stato accertato, si è sviluppato per cause
non ancora precisate,
all'interno
della carrozza numero cinque mentre il treno
imboccava il tunnel, lungo una decina di chilometri.
Dalla carrozza sono stati estratti i quattro
corpi completamente carbonizzati, mentre numerosi
passeggeri si sono fatti assistere dai sanitari
per intossicazioni e ferite varie riportate
mentre cercavano di raggiungere l'uscita della
galleria. Una ventina i feriti: sette tifosi
e due agenti di polizia in servizio di scorta
al convoglio sono ricoverati in ospedale, a
Salerno. La maggior parte dei feriti presenta
segni di intossicazione da ossido di carbonio,
alcuni lesioni provocate dalla caduta dal treno
dal quale si erano lanciati per sfuggire alle
fiamme ed al fumo. Per due degli intossicati
si è resa necessaria la terapia in camera iperbarica.
Le condizioni di uno di loro sarebbero molto
gravi. Le fiamme, stando a quanto hanno raccontato
alcuni testimoni, si sarebbero sviluppate proprio
quando il convoglio ha imboccato la lunga galleria
ferroviaria. Secondo alcuni testimoni, uno dei
viaggiatori, che si trovava nella seconda carrozza,
avrebbe azionato il segnale d'allarme e il macchinista,
per evitare che il treno rimanesse bloccato
tra le fiamme all'interno della galleria, avrebbe
proseguito lentamente fino all'uscita del tunnel.
Una volta fuori dalla galleria si è riusciti
a staccare la motrice con le prime carrozze
dal resto del convoglio che, però, è rimasto
all'interno. Il treno ha quasi tutti i finestrini
rotti: non si sa se per atti vandalici o se
distrutti dai passeggeri in preda al panico
che hanno tentato di raggiungere correndo, nel
fumo intenso, l'uscita del tunnel. Alle scene
di panico tra i viaggiatori si sono aggiunte,
poi, quelle drammatiche della disperazione dei
parenti dei tifosi giunti nella stazione di
Salerno appena si è diffusa la notizia dell'incendio.
Sul posto, oltre ai vigili del fuoco, si sono
recati il Prefetto e il Questore".
Fonte: Repubblica.it
25.05.1999 ("Rogo sul treno per tifo scatenato,
quattro morti") |
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17.06.2001 |
Messina, Stadio "Giovanni Celeste" |
Play-Off del Campionato di Serie
C1 |
(Messina - Catania) |
Antonio
Currò
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Il 17 giugno 2001
nel campionato di Serie C1 a Messina si gioca
un derby drammaticamente decisivo fra la squadra
di casa ed il Catania, valido per i play-off
di promozione in serie B. Tra i sostenitori
delle due squadre prima dell’inizio della gara
c’è moltissima tensione ed incomincia un fitto
lancio di oggetti fra le tifoserie. I catanesi
scagliano una bomba-carta in Curva Nord, nel
settore occupato dai tifosi giallorossi, la
quale esplode fragorosamente proprio davanti
ad Antonino Currò, un giovane tifoso messinese
di 24 anni. Ferito gravemente alla testa dallo
scoppio dell’ordigno finisce in rianimazione
e nonostante un intervento e le cure dei medici
muore al Policlinico di Messina dopo 15 giorni
di coma. Effettuate le indagini la polizia arresta
un minorenne tifoso del Catania, accusato del
lancio mortale del petardo, ma la tesi dell’accusa
verrà smontata dai filmati visionati dalla magistratura
nei quali si appurò che il gesto compiuto dall'ultrà
diciasettenne sugli spalti non corrispondeva
nei suoi tempi all’azione omicida e che l'indagato
non era in possesso di alcun oggetto esplodente.
Di fatto nessuno sarà mai punito per la tragica
morte di "Nino", nonostante la dignitosa presa
di posizione della sua famiglia che rivendicava
una meritoria azione di giustizia per il proprio
caro. Nel 2019 la famiglia sarà risarcita, al
termine di una lunga causa di 14 anni. A pagare:
Lega Calcio, responsabile dell’organizzazione
della partita contro il Catania, F.C. Peloro,
gestore dell’impianto e il Comune di Messina,
titolare dello Stadio "Celeste". Si appurerà,
quindi, che la morte del giovane era evitabile
se i sistemi di sicurezza dello stadio fossero
stati a regola. La barriera di sei metri realizzata
dalla società all’epoca non bastava a proteggere
adeguatamente l’incolumità dei tifosi così come
previsto dalla Commissione prefettizia di sicurezza
e vigilanza.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it - Fotografia
Antonio Currò: Pianetamessina.com |
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20.09.2003 |
Avellino,
Stadio "Partenio" |
Campionato Italiano di Serie B |
(Avellino - Napoli) |
Sergio Ercolano
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Il 20 settembre 2003
la squadra partenopea gioca in trasferta ad
Avellino un derby, come di tradizione e nonostante
la serie cadetta, molto sentito dalle due tifoserie
campane. L’atmosfera è elettrica per gli avellinesi
che attendono da moltissimi anni questa partita
con un orgoglioso spirito di rivalsa sportiva
e non solo (Non si giocava da sedici anni, dal
campionato in serie A del 1987/88). Dalla Sud
lanciano alcuni fumogeni in campo e cori contro
la città di Napoli. La situazione è molto tesa
ed in sala stampa si teme che la situazione
sfugga di mano agli organi preposti alla sicurezza.
Nel settore ospiti i tifosi napoletani sono
giunti in numero maggiore rispetto ai biglietti
venduti (pare un migliaio in più) e spingono
per entrare dentro lo stadio creando moltissima
ressa e scontrandosi con la polizia in assetto
da combattimento. Nella confusa guerriglia in
atto il ventenne tifoso azzurro di San Giorgio
a Cremano, Sergio Ercolano, alla sua seconda
trasferta, cerca di sfuggire alle cariche indiscriminate
della celere. Preso dal panico si arrampica
su una tribuna e salta (o è spinto ?) giù su
una tettoia di plexiglass che non ne regge il
peso lasciandolo precipitare in un fossato dove
perde conoscenza e resta in fin di vita per
le gravissime ferite riportate nel volo da dieci
metri di altezza (un forte trauma cranico e
lesioni agli organi interni). I tardivi e difficoltosi
soccorsi al giovane tifoso (quasi mezz’ora per
trovare le chiavi del cancelletto d’ingresso
al fossato dove era caduto), purtroppo inutili,
suscitarono rabbia e un feroce desiderio di
vendetta negli Ultras partenopei che invasero
il campo, picchiando e bastonando le forze dell’ordine
e distruggendo qualunque oggetto a vista. La
partita per scontati motivi di ordine pubblico
non fu più disputata (sarà assegnata la vittoria
a tavolino per 3-0 all’Avellino). Sergio morirà
due giorni dopo nel reparto di rianimazione
all’Ospedale "San Giuseppe Moscati" di Avellino
per arresto cardiocircolatorio. "Non si può
morire così, non si può morire per una partita
di calcio" continuava a ripetere sua madre Carmela
all’obitorio. "Sergio era un ragazzo per bene,
un ragazzo che lavorava e che non ha mai aderito
a gruppi di ultrà": diceva alla stampa il legale
della famiglia Maurizio Capozzo. "Era venuto
allo stadio Partenio con due amici a bordo di
un'auto privata e ha cercato solo scampo dalla
ressa, solo una via di fuga". (Proprio gli amici
dissero che aveva acquistato un biglietto per
la Tribuna "Terminio" dai bagarini al Partenio).
Non verrà mai fatta giustizia per la sua tragica
fine: nessuna inchiesta più approfondita per
appurare le responsabilità della sicurezza allo
stadio e sulla prevendita dei tagliandi agli
ospiti, cause primarie della sua morte, ma soltanto
numerosi
fermi
e interrogatori per i tafferugli con le forze
dell’ordine fuori e dentro il campo nel pre-partita.
Dopo 17 mesi le indagini del gip Daniela Cortucci
scagionarono Comune e Unione Sportiva Avellino
dall’accusa di omicidio colposo. L’altro procedimento
civile non risarcì economicamente la famiglia
Ercolano, poiché riconobbe l’Avellino soltanto
responsabile della struttura, ma non della morte
del ragazzo. Infatti la XII sezione civile del
tribunale di Napoli sentenziò: "In tale situazione
di estremo disordine e violenza si pone il comportamento
abnorme dell’Ercolano che - o per entrare nello
stadio eludendo i controlli o per trovare una
via di fuga per sottrarsi alla guerriglia tra
tifosi - scelse autonomamente e consapevolmente
di percorrere una strada che, per tutte le caratteristiche
innanzi illustrate, era prevedibilmente molto
insicura e visibilmente insidiosa".
Incalcolabile la sensazione d’ingiustizia e
frustrazione provata dai familiari del giovane
tifoso di San Giorgio a Cremano, paese natio
di Massimo Troisi.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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7.03.2003 |
Anzio, Stadio "Massimo Bruschini" |
Campionato Italiano di Eccellenza |
(Anziolavinio - Alatri) |
Fabio Pistilli
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"Stadio
Massimo Bruschini di Anzio, provincia di Roma.
Domenica 7 marzo 2004, campionato d’Eccellenza
2003-04, girone B. In campo l'Associazione Sportiva
Dilettantistica Anziolavinio Calcio 1924 e la
Pro Calcio Alatri, un derby molto sentito sul
litorale laziale, al punto che le forze dell'ordine
hanno fatto entrare in ritardo i tifosi ospiti,
scongiurando così il contatto con i locali.
Fabio Pistilli, 29 anni, detto "Billy", se ne
sta seduto a cavalcioni sulla balaustra a intonare
cori, mentre suo cugino (Marco Mangili) è in
campo. "La partita era tranquillissima, senza
problemi", racconta il presidente Francesco
Rizzaro, "poi abbiamo sentito strillare perché
stavano arrivando i tifosi dell’Alatri con il
loro autobus. Ma erano grida da tifosi, niente
di grave, non ci sono stati tafferugli, perché
quelli dell’altra squadra non c'erano. Poi le
grida sono diventate più forti e ci hanno detto
che Fabio era caduto. Non abbiamo potuto far
nulla, tranne che facilitare i soccorsi, sospendendo
la gara". Pistilli cade rovinosamente da un’altezza
di otto metri, nonostante un amico che gli sta
a fianco tenti disperatamente di afferrarlo
per un braccio. Un gravissimo trauma cranico-cervicale
ne decreta la morte agli Ospedali Riuniti di
Anzio e Nettuno. Il derby viene sospeso e ancora
oggi, all'esterno della tribuna Numerata, c’è
una targa con l'immagine del suo volto sorridente:
Fabio (Billy) sei sempre con noi ! La vecchia
guardia (ultras), i dirigenti dell’ AS Anziolavinio,
i giocatori, il Roma club Anzio…".
Fonte: "Cuori
Tifosi" di Maurizio Martucci (Sperling
& Kupfer
2010:
Recensione Libro
e
Acquisto) |
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3.06.2006 |
Sant’Angelo di Piove di Sacco
(PD) |
Circolo ARCI, Lite fra Tifosi |
(Scandalo di "Calciopoli") |
Renzo Trabuio
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E’ la sera del 3 giugno
2006, da poche settimane è emerso lo scandalo
di "Calciopoli", il quale ha investito in pieno
il mondo dello sport e l’opinione pubblica,
in particolare la Juventus Football Club giudicata
responsabile dell’operato dei suoi dirigenti
Moggi e Giraudo che le costerà secondo la sentenza
definitiva della giustizia sportiva una drammatica
retrocessione in serie B e la revoca di due
scudetti vinti meritatamente sul campo con Fabio
Capello in panchina. In un bar del circolo ARCI
di Sant'Angelo di Piove di Sacco, un paesino
distante 20 Km da Padova, scoppia una lite furiosa
sull’argomento fra due avventori del locale.
(Omissis) 32enne passionale tifoso dell’Inter,
stava inveendo pubblicamente contro la Juventus
e gli arbitri "venduti", sostenendo che la sua
squadra era stata derubata di due scudetti.
Ciò ha provocato la reazione piccata di Renzo
Trabuio, 46enne tifoso bianconero che ha risposto
a distanza con una battuta sarcastica sulla
squadra nerazzurra. L’acceso
diverbio
prima si placa all’interno del locale, ma dopo
riesplode al di fuori, dove, dalle parole pesanti,
purtroppo, si passa alle mani. (Omissis) aggredisce
violentemente a calci e pugni in faccia Renzo
che ne subisce gravi le conseguenze con la perdita
di tre denti ed un arresto cardiocircolatorio
per cui morirà nonostante il trasporto in ospedale.
Si appurerà nella perizia medico-legale che
il cuore della vittima era già in sofferenza
da qualche ora prima della violenta aggressione
patita. Per questa ragione nel processo penale
in tribunale l’imputazione del (Omissis) si
alleggerirà dell’accusa di "omicidio volontario",
pur riconoscendogli le concause nel decesso.
Il giudizio finale per il reato commesso sarà
di "omicidio preterintenzionale" per il quale
verrà condannato a 4 anni, 5 mesi e 10 giorni
di carcere.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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27.01.2007 |
Luzzi (CS), Comunale "S. Francesco" |
Campionato Italiano di III Categoria |
(Cancellese - La Sammartinese) |
Ermanno Licursi
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Sul campo neutro di
Luzzi, in provincia di Cosenza, si è giocato
l'incontro calcistico fra Cancellese e La Sammartinese,
due squadre dilettanti del campionato di III
Categoria. Alle 16.33 il fischio di chiusura
sul risultato di 2-1 per la Sammartinese con
l’arbitro che esce per primo dal campo (violando
il regolamento) mentre i giocatori delle due
squadre stanno ancora discutendo animatamente
gli episodi della partita fra bisticci e qualche
spinta. Alcuni spettatori trovando i cancelli
aperti (!) entrano furiosi sul terreno di gioco
ad aggredire fisicamente i calciatori della
Sammartinese. Vola pure qualche pietra dagli
spalti. La rissa coinvolge più persone, anche
i tesserati si lasciano andare, non Ermanno
Licursi, 40 anni, dirigente accompagnatore della
Sammartinese (quella sera sostituiva il presidente
Umberto Iantorno, influenzato) che prova con
grande senso di responsabilità a ristabilire
la calma fra i litiganti, ma viene pestato selvaggiamente
da alcuni calciatori e tifosi della Cancellese.
Si rialza sanguinante dal naso, è ferito, ha
gli occhiali rotti, ma rientra negli spogliatoi
dove le sue ultime parole sono rivolte ad un
collega: "Non posso credere di aver preso tutte
queste botte per aver cercato di mettere pace".
Poi colto da un malore si accascia crollando
su una panca esanime. Si prova a rianimarlo
sul posto, ma è inutile così come le ennesime
manovre del medico del 118, è già morto, a causa
di un arresto cardiocircolatorio. Secondo quanto
appurato dall’esame medico-legale dell’autopsia
il decesso avvenne a causa di una malformazione
cardiaca congenita. Dopo un mese di indagini
4 calciatori e il presidente della Cancellese
sono accusati di omicidio preterintenzionale
e rissa. Uno di loro davanti al giudice dell’udienza
preliminare patteggia tre anni e tre mesi di
reclusione. La famiglia di Licursi venne risarcita
dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, ma
l’’iter processuale in conclusione non condannerà
alcuno degli imputati quale colpevole di omicidio,
ma li giudicherà per il reato di rissa. (Omissis),
presidente della Cancellese, fa ricorso alle
vie legali per "ingiusta detenzione" (ai domiciliari
per 147 giorni) e viene liquidato con ventimila
euro per i danni psicologici e all’immagine
determinati dal suo arresto.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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2.02.2007 |
Catania, Stadio "Angelo Massimino" |
Campionato Italiano di Serie A |
(Catania - Palermo) |
Filippo Raciti
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"Il derby di Sicilia è uno degli incontri
sportivi più ad alto rischio in Italia…
I tifosi ospiti arrivano dieci minuti dopo
l'inizio del secondo tempo per problemi
organizzativi. Fuori dallo stadio iniziano
gli scontri e alcuni tifosi locali tentano
di entrare in contatto con la tifoseria
ospite. A questo punto inizia uno scambio
di lanci di petardi e fumogeni. La polizia
tenta di disperdere i tifosi e vengono lanciati,
in due riprese, all'interno della curva
nord dei lacrimogeni, che mettono il panico
tra gli spalti dove migliaia di tifosi assistevano
all'incontro ignari degli scontri che avvenivano
all'esterno. Migliaia di persone tentano
quindi la fuga ma trovano gli ingressi sbarrati.
Si crea una calca pericolosissima che provoca
diffuse scene di panico. La partita viene
quindi sospesa per quaranta minuti dall'arbitro
Stefano Farina per l'aria irrespirabile.
Durante la fuga, la parte più esaltata dei
teppisti
cerca
di entrare in contatto con gli avversari:
iniziano gli scontri veri e propri. Intanto
la partita termina (vince il Palermo per
2-1) e all'esterno dello stadio decine di
persone dal volto coperto attaccano le forze
dell'ordine. Le immagini vengono trasmesse
in diretta da Sky. Si parla di 1.200 agenti.
Alla fine, si contano 71 feriti tra le forze
dell'ordine, più altrettanti civili. Vengono
fermati la sera stessa una ventina di ultras:
di questi nove vengono arrestati e quattro
sono minorenni. Contemporaneamente, si viene
a sapere che l'ispettore capo del X Reparto
Mobile di Catania Filippo Raciti è stato
ucciso. In un primo momento la voce che
circola è considerata falsa ma successivamente
arriva la conferma intorno alle 22. Successivamente,
si sarebbe scoperto che la causa della morte
fu la rottura del fegato causato da un corpo
contundente. Vani furono i soccorsi ed il
ricovero immediato all'Ospedale "Garibaldi":
l'uomo morì dopo tre quarti d'ora di agonia,
per arresto cardiaco. Insieme a lui venne
ricoverato un altro poliziotto, in gravi
condizioni ma non in pericolo di vita. Filippo
Raciti, nato a Catania il 17 gennaio 1967,
era entrato nella Polizia di stato nel giugno
del 1986 come allievo agente ausiliario.
Svolse la maggior parte della sua carriera
in servizi esterni di ordine pubblico. Dopo
aver prestato servizio presso la Questura
di Catania, in forza all'Ufficio Prevenzione
Generale e Soccorso Pubblico, dal dicembre
2006 era stato trasferito al X Reparto Mobile.
Aveva servito per quasi vent'anni nella
Polizia di Stato e viveva ad Acireale con
la moglie Marisa Grasso e con i figli Fabiana
di 15 anni e Alessio di 8. Era molto impegnato
nel sociale essendo donatore di sangue,
avendo deciso di donare i suoi organi ed
operando, assieme alla moglie, come volontario
della Croce Rossa Italiana. Una settimana
prima della sua morte, Raciti testimoniò
circa i fatti riguardanti un tifoso fermato
per intemperanze, ma lo stesso venne poi
rilasciato dal magistrato inquirente. Secondo
quanto raccontato da uno dei suoi colleghi,
il tifoso, appena rilasciato, andò a ridere
in faccia all'ispettore in segno di scherno.
Sulla morte dell'ispettore capo Filippo
Raciti, durante gli scontri verificatisi
a margine dell'incontro di calcio Catania-Palermo,
la Procura della Repubblica presso il Tribunale
di Catania ha aperto un'inchiesta per omicidio…
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I catanesi hanno reagito alla gravissima
situazione creatasi in città attraverso
varie manifestazioni. Subito dopo la partita,
sono stati posati dei mazzi di fiori davanti
alla Tribuna A dello stadio, in cui campeggiava
un telone su cui era stato scritto: "Catania
svegliati Catania sdegnati". Il 3 febbraio,
sabato sera, un corteo di un centinaio di
giovani percorre la città da piazza Roma
a piazza Spedini. Da quel corteo nasce una
manifestazione molto più grande, che venerdì
9 febbraio riunisce circa tremila persone
al PalaSpedini. Lì vengono dimostrati atti
di solidarietà verso la polizia, i cittadini,
i tifosi. Sono presenti anche Rita Borsellino,
Claudio Fava e Riccardo Orioles… Il 14 febbraio
il giudice sportivo squalifica lo stadio
"Angelo Massimino" fino alla fine della
stagione 2006-07 e obbliga il Catania Calcio
a giocare in campo neutro ed a porte chiuse…
Nel frattempo, le forze dell'ordine hanno
fermato quindici persone, quattro non ancora
maggiorenni. Secondo indiscrezioni giornalistiche,
si tratta di ultras del Catania. La loro
posizione è al vaglio dell'Autorità giudiziaria.
Già pochi giorni dopo l'accaduto le forze
dell'ordine individuano un sospetto principale,
Antonino Speziale, che all'epoca dei fatti
aveva solo 17 anni, iscritto nel registro
degli indagati per omicidio volontario in
concorso l'8 febbraio. Il giovane, giocatore
di rugby, proveniente da una famiglia di
operai (padre operaio, madre
casalinga),
incensurato, secondo indiscrezioni nel primo
interrogatorio avrebbe confessato di avere
partecipato allo scontro con la polizia
e di avere "colpito un agente con una sbarra
di ferro spingendolo a mo' di ariete". L'avvocato
del giovane, Giuseppe Lipera, ha tuttavia
smentito categoricamente tali affermazioni,
ammettendo soltanto che il giovane avrebbe
confessato di avere partecipato agli scontri
con la polizia. Speziale venne arrestato
il 27 febbraio e scarcerato a fine luglio,
per essere mandato in una comunità di recupero…
In seguito alle indagini sulla morte, avvalendosi
delle immagini filmate dai circuiti di sicurezza
dello stadio e da successive intercettazioni
ambientali, si giunse dopo un anno all'arresto
anche di un secondo indiziato maggiorenne
(NDR:
Natale Daniele Micale)…
Il 14 novembre 2012 la Corte di Cassazione
ha confermato le sentenze di appello disposte
nei confronti di Speziale e di Micale
(NDR:
11 e 8 anni di reclusione)…
Il 7 febbraio 2014 il procuratore generale
Luigi Riello ha accolto il ricorso di Antonino
Speziale per la revisione del processo;
lo stesso ricorso è stato poi rigettato
dalla Corte di Cassazione, in quanto dichiarato
inammissibile… I mass-media rivelarono la
possibilità che Raciti fosse stato investito
dallo sportello del fuoristrada (un Land
Rover Discovery) dei colleghi che si muoveva
in retromarcia, e da cui era disceso a causa
del denso fumo che aveva invaso il veicolo.
Le immagini della emittente televisiva SKY
che ritraevano tale momento hanno attestato
la infondatezza di questa ipotesi, visto
che il Land Rover ha indietreggiato a velocità
insignificante… La morte di Raciti suscitò
forte emozione in tutto il paese e causò
l'interruzione di tutti i campionati di
calcio in Italia per una settimana e l'annullamento
di un'amichevole della Nazionale. Un intenso
dibattito sulla messa a norma degli stadi
è scaturito dopo l'incidente e ha causato
la disputa degli incontri di calcio a porte
chiuse fino al completamento dei lavori
necessari alla messa in sicurezza degli
impianti non a norma. Raciti è stato insignito
della medaglia d'oro al valor civile alla
memoria, consegnata alla moglie l'11 maggio
2007, in occasione del 155° anniversario
della Polizia di Stato. Il 17 febbraio 2007
gli è stato intitolato lo stadio di Quarrata,
in provincia di Pistoia. Il 14 aprile 2007
è stato intitolato lo stadio comunale di
Siderno in provincia di Reggio Calabria
alla sua memoria. Tra il 28 febbraio e il
1 marzo 2009 è stata fatta una maratona
in suo onore, che partiva dallo stadio Angelo
Massimino di Catania e arrivava allo stadio
Renzo Barbera di Palermo. L'iniziativa ha
visto protagonista l'ex atleta Salvatore
Antibo. La figura di Filippo Raciti è spesso
oggetto di un vasto repertorio di cori da
stadio, slogan e graffiti, espressi da ultras
del calcio che intendono offenderne la memoria
o colpire le forze dell'ordine in quanto
istituzioni".
Fonte:
Wikipedia.org
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11.11.2007 |
Arezzo, Autostrada A1 (MI-NA) |
Area di Servizio "Badia al Pino" |
(Juventus - Lazio) |
Gabriele Sandri
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11 novembre 2007,
ore 9.20 del mattino: si profila un’altra tragica
giornata di cronaca nera nella storia del calcio
nazionale con una dinamica assurda al limite
della follia umana. Nell’area di servizio di
Badia al Pino, sull’autostrada A1, nei pressi
di Arezzo, tifosi della Lazio, in viaggio verso
Milano per assistere alla partita di campionato
in trasferta contro l’Inter, aggrediscono a
bastonate alcuni tifosi della Juventus sul piazzale
di sosta antistante all’autogrill. Lo scontro
è notato dagli agenti della Polizia Stradale
in pattuglia, ma sono dalla parte opposta della
carreggiata a più di una cinquantina di metri
di distanza. I tifosi bianconeri ripiegando
nella propria Mercedes fuggono in macchina di
corsa dal parcheggio. Anche i tifosi della Lazio
risalgono velocemente nelle loro due automobili,
una Megane ed una Clio, forse per inseguirli,
ma è proprio in questi attimi fatali che si
consuma la famigerata tragedia. La Polstrada
aveva acceso subito le sirene per dissuadere,
avendo buon esito, gli attori della rissa in
corso, ma uno degli agenti, Luigi Spaccarotella,
non contento scende dall’autovettura e corre
per 200 metri sul bordo
strada
prima di individuare una posizione ottimale
per sparare alle gomme della prima macchina
dei laziali in movimento. Secondo una fondamentale
testimonianza è salito su un avvallamento del
terreno e allargando le gambe ha sparato un
colpo "con le braccia tese ad altezza d'uomo".
Il proiettile esploso dalla sua Beretta in dotazione
attraversa prima l’autostrada da una carreggiata
all’altra e poi il lunotto posteriore della
Megane in ripartenza, colpendo al collo un passeggero
accomodato sul sedile posteriore. Si tratta
di Gabriele Sandri, noto dj romano e accanito
tifoso biancazzurro, che si era addormentato
per la stanchezza dopo la notte di lavoro trascorsa
in un locale della capitale. I compagni fermando
subito l’auto lo soccorrono mentre rantola e
sanguina, chiedono aiuto e chiamano un’autombulanza,
ma nonostante i tentativi di rianimazione il
giovane muore sul posto. Straziante la scena
dei familiari accorsi qualche ora dopo sul luogo
del delitto. Si disperano e non si capacitano
dell’accaduto mentre già emergono le prime evidenti
e ingiustificabili responsabilità dell’agente
di polizia e dall’incongruenza della sua ricostruzione
dei fatti. L’indomani, il questore di Arezzo,
Vincenzo Giacobbe, nella sua conferenza stampa
non escluderà a priori la possibilità di un
"omicidio preterintenzionale o volontario".
Nel frattempo la tragica notizia rimbalza negli
stadi italiani e gli ultras di tutte squadre
chiedono, come già successo in occasione della
morte dell’ispettore Raciti, la sospensione
del campionato di Serie A. Le autorità del calcio
tergiversano poiché non risulta loro del tutto
chiara la dinamica del fatto che, fra l’altro,
non è avvenuto in prossimità di uno stadio di
calcio. Alle ore 14.00 l’incontro Inter-Lazio
viene ufficialmente rinviato e da San Siro parte
un corteo di tifosi, creando anche qualche momento
di panico davanti alla sede Rai di corso Sempione,
diretto in piazza Duomo per manifestare il lutto
e la protesta. Gli ultras inferociti urlano
uno slogan in cui rivendicano che "la morte
di un tifoso non vale quanto quella di un poliziotto".
A Bergamo viene sospesa dopo 7' e 40" la gara
Atalanta-Milan per le intemperanze del pubblico
dopo che era cominciata già con i 10' di ritardo
canonici decisi in tutti gli stadi. In curva
neroazzurra c’è moltissimo nervosismo fra i
tifosi che stanno distruggendo una vetrata in
plexiglass, infatti a nulla serve la mediazione
del capitano della loro squadra, Christian Doni,
minacciato severamente dagli ultrà che "se si
riprende succede qualcosa di grave". Cinque
le partite portate al termine, ma il Viminale
decide per il rinvio del posticipo serale Roma-Cagliari
per motivi di ordine pubblico, poiché si teme
il peggio e così sarà… Nel pomeriggio, dopo
le 18.00, centinaia di ultras romanisti e laziali
si coalizzano in strada davanti all’Olimpico
cercando di ingaggiare uno scontro violento
con le Forze dell’Ordine, barricate dentro lo
stadio su disposizione del Questore di non rispondere
alle provocazioni. Parte una sassaiola e il
lancio di petardi per stanarli, il clima degenera
sempre di più e un centinaio di persone si spostano
a devastare gli uffici della sede del Coni,
adiacente, presidiato da poche guardie giurate
non armate che
fuggono
nei piani superiori. Il fine è quello di attirare
celerini e carabinieri per affrontarli in campo
aperto. Così accade e già nei primi scontri
alcuni di questi restano feriti, prima di arretrare
tatticamente. I rivoltosi hanno bloccato il
ponte sul Tevere "Duca d'Aosta" con alcune transenne,
isolando l'area intorno allo stadio. Un fotografo
dell'Ansa viene picchiato e derubato, un cameraman
aggredito. Parte un blitz contro una caserma
dei carabinieri a Ponte Milvio dove è incendiata
una loro auto parcheggiata. Altri attaccano
la sezione delle volanti della polizia in via
Guido Reni e il commissariato in via Fuga a
Porta del Popolo. A volto coperto gli ultras
rovesciano fioriere, ciclomotori e cassonetti
in mezzo alla strada, usano spranghe, tondini
di ferro e sanpietrini per spaccare i vetri
dei portoni o dei negozi, danno anche fuoco
ad un autobus. Intorno alle 22.00 una decina
di camionette di Polizia e Carabinieri in tenuta
antisommossa li disperde e si ritirano. La lunga
notte di un intero quartiere della capitale,
ostaggio del caos, della distruzione e della
violenza, produce "danni ingentissimi", decine
di feriti fra le forze dell’ordine e alcuni
arresti. Per questi soggetti le istituzioni
chiedono l’imputazione di "terrorismo", ma l’aggravante
andrà a decadere in fase processuale. La mattina
seguente viene proclamato a Roma il lutto cittadino
in occasione dei funerali previsti per il giorno
13 ai quali partecipa una grande folla di tifosi,
giunti da ogni parte d’Italia, a stringersi
attorno alla sua famiglia, ai parenti ed agli
amici di Gabriele. L’accusa per l’agente Spaccarotella
è ormai ufficialmente di "omicidio volontario"
secondo le perizie degli inquirenti. Francesco
Molino, suo avvocato difensore, nel febbraio
2008 sostiene la tesi del "colpo di pistola
deviato nella traiettoria". Il 25 settembre
2008 ha inizio il processo, ma il gup rinvia
l'udienza accogliendo l'eccezione della difesa
per un cavillo legale (non gli è stato trasmesso
l'atto di chiusura dell'indagine preliminare).
I familiari di Gabriele Sandri insorgono contrariati,
temendo una lunga melina giudiziaria della controparte.
Qualche giorno dopo Spaccarotella chiede loro
perdono, intervistato dall'Ansa, dicendo: "Non
volevo ucciderlo". L’ 11 novembre 2008, il capo
della polizia Antonio Manganelli si assume la
responsabilità della morte di Gabriele Sandri
definendola "una tragedia causata dall'avventatezza".
Il 13 gennaio 2009 in un filmato della procura
si ricostruisce l'omicidio del tifoso laziale
effettuando una simulazione grafica in base
alle testimonianze.
Nell’animazione
delle immagini l’agente spara stringendo l'arma
con due mani. Tre giorni dopo Luciana Cicerchia,
gup di Arezzo, lo rinvia a giudizio per "omicidio
volontario". Il giorno 22 dello stesso mese
il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano
annuncia pubblicamente la sospensione di Spaccarotella
dal servizio.
Il
processo, intanto, riprende il suo iter e il
9 luglio 2009 il Pm Giuseppe Ledda porta in
aula una Beretta e mima l’atto del reato nella
requisitoria in cui chiederà 14 anni di reclusione
per il poliziotto. Al contrario il 14 luglio
2009 la sentenza di primo grado lo condanna
a soli 6 anni di carcere per "omicidio colposo"
fra vibranti proteste sia in sede processuale
che a Roma. Indignata la reazione di tifosi
e opinione pubblica, ma soprattutto della famiglia
Sandri che ricorre in secondo grado. Il 1 dicembre
2010 la Corte di Appello di Firenze corregge
la condanna per Spaccarotella a 9 anni e 4 mesi,
poiché, secondo il nuovo giudizio, il suo reato
è di "omicidio volontario". L’ 11 novembre 2011,
a quattro anni di distanza dalla tragedia, viene
posta una stele in ricordo di Gabriele nella
stazione di servizio di Badia al Pino. Intorno
ai familiari si stringono i tifosi di numerose
società calcistiche. La sua memoria unisce ancora
oggi i tifosi di tutte le "curve" italiane al
di là delle rivalità. Il papà Giorgio e il fratello
Cristiano, presenti assieme alla madre di Gabriele,
ringraziano commossi i giovani intervenuti che
hanno deposto le loro sciarpe colorate ai piedi
del piccolo monumento. Il 13 febbraio 2012 la
Cassazione conferma la sentenza di appello,
riconoscendo la colpevolezza dell'agente della
Polstrada per "omicidio volontario" e lo condanna
alla stessa pena di 9 anni e 4 mesi di carcere.
Luigi Spaccarotella si costituisce al comando
provinciale dei carabinieri di Arezzo e dopo
un breve periodo di detenzione nell’ istituto
di massima pena di Sollicciano a Firenze entrerà
nel penitenziario militare di Santa Maria Capua
Vetere dove sconterà la sua pena. Il padre della
vittima dichiara alla stampa che "giustizia
è fatta".
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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30.03.2008 |
Asti,
Autostrada A21
(TO-PC) |
Area
di Servizio "Crocetta Nord" |
(Juventus-Parma) |
Matteo Bagnaresi
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E’ domenica, sono
le 12.30 del 30 marzo 2008 quando un pullman
con 25 tifosi della Juventus, proveniente da
Crema, si ferma in sosta all'autogrill dell’Area
di Servizio "Crocetta Nord", sull’autostrada
A21 Torino-Piacenza, a metà strada fra Asti
e Alessandria. Sono diretti a Torino per assistere
alla partita di campionato contro il Parma in
programma nel pomeriggio allo Stadio "Olimpico"
alle ore 15.00. Dopo un paio di minuti sopraggiungono
nel parcheggio altri due pullman che trasportano
a bordo alcuni tifosi del Parma, in marcia verso
la medesima destinazione. Appena scesi si fiondano
ad aggredire come forsennati quei sostenitori
bianconeri, ancora davanti al loro torpedone,
usando le cinghie e lanciandogli bottiglie contro.
Presi alla sprovvista e in netta minoranza,
gli juventini colti dal panico ripiegano precipitosamente
sul veicolo che riparte a razzo per evitare
il peggio. Avviato verso l’uscita dell’area
di servizio, il pullman costeggia un distributore
di benzina dal quale spunta fuori all’improvviso
un uomo che viene incontro con le mani alzate.
Si tratta di Matteo Bagnaresi, figura carismatica
nel direttivo dei "Boys" del Parma, di rientro
da un daspo risalente al 2005. Non si è mai
compreso quali fossero le reali intenzioni del
tifoso gialloblù, né la precisa dinamica
dell’incidente,
ma purtroppo il mezzo lo investe in pieno, schiacciandolo
sotto le ruote e proseguendo, come nulla fosse,
la marcia in autostrada per quasi un chilometro.
L’autista del pullman, come sosterrà sempre
in ogni sede agli inquirenti, non si è accorto
di nulla, al contrario di un tifoso seduto in
ultima fila che si allarma, avvisandolo dell’accaduto.
Dopo aver percorso 700 metri di fuga, l’uomo
arresta la corsa sulla corsia di emergenza e
avvisa telefonicamente la Polizia Stradale.
Matteo Bagnaresi, intanto, morto sul colpo,
giace disteso al suolo davanti agli occhi dei
suoi compagni e dei clienti dell’autogrill,
attoniti. Sembra l’incredibile replica della
tragica morte di Gabriele Sandri con lo stesso
scenario in circostanze simili, ma alla pena
dei familiari giunti sul posto non si fa mai
l’abitudine. 28 anni a settembre, laureato in
"Tecniche della prevenzione sui luoghi di lavoro"
e figlio unico, Matteo Bagnaresi è impegnato
politicamente quale "militante della sinistra
antagonista" e animatore dei centri sociali
di Parma. Lavorava presso una cooperativa di
consulenza alle aziende per la legge 626. Suo
padre, Bruno, è un ingegnere impiegato alla
Barilla e sua madre, Cristina, una professoressa
di scuola media. Abitava con i genitori e la
nonna in una villetta in periferia a Parma.
"Bagna" era fiero del suo "essere ultrà", ma
non amava sentirsi per questo considerato un
"vandalo, un teppista senza ideali o anche peggio".
La sfida tra la Juve e gli emiliani, in programma
per la 12esima giornata di ritorno, "viene rinviata
in segno di lutto". A Torino ne danno insieme
l’annuncio alla stampa i due presidenti delle
squadre, Giovanni Cobolli Gigli e Tommaso Ghirardi.
Quest’ultimo
dopo si recherà sul luogo della tragedia, restandone
molto scosso. Dopo i funerali, il conducente,
(Omissis), 46enne titolare di una ditta di autotrasporti
con sede nel bergamasco, viene rinviato a giudizio
per "omicidio colposo". I genitori di Matteo
si costituiscono parte civile nel processo all’autista
che ha sempre una sola tesi da ripetere in sua
discolpa: quella di non aver visto il ragazzo
quando è ripartito velocemente per evitare danni
alle persone e al pullman e che l’ha investito
senza volerlo. Nel 2013 il Pm Valeria Ardoino
chiede per lui una condanna a 9 mesi di reclusione.
La sentenza del tribunale di Asti letta pubblicamente
dal giudice Franco Muscato è, invece, di piena
assoluzione "perché il fatto non costituisce
reato". I genitori di Matteo nel novembre 2011
erano già usciti da questo processo, accettando
il risarcimento offerto dall'assicurazione dell'autista,
la cui somma, mai divulgata, è stata interamente
devoluta alla Fondazione dedicata alla memoria
del figlio.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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23.05.2009 |
Parma,
Stadio "Ennio Tardini" |
Campionato Italiano di Serie
B |
(Parma - Vicenza) |
Eugenio Bortolon
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Allo Stadio "Ennio
Tardini" di Parma è un meraviglioso pomeriggio
di primavera che fa da cornice ad un incontro
di calcio fra due gloriose compagini nazionali,
Parma e Vicenza, al momento retrocesse in seconda
serie. Nel settore ospiti il 23 maggio 2009
c’è un discreto numero di sostenitori biancorossi
all’ingresso delle due squadre sul terreno di
gioco per il secondo tempo della partita. Fra
questi c’è anche un giovanissimo tifoso di Isola
Vicentina, Eugenio Bortolon, 19 anni, alla sua
seconda trasferta al seguito della squadra del
cuore. Ad un certo momento il ragazzo si sporge
eccessivamente dalla balaustra sugli spalti,
forse per rispondere allo sfottò di un tifoso
avversario sulle gradinate adiacenti. In mezzo
ai loro settori c’è il vuoto a dividerli, Eugenio,
perso l’equilibrio, precipita di sotto. Questa
scena è vista in panchina da Giovanni Ragazzi,
il medico sociale del Vicenza, che si precipita
a soccorrerlo mentre i compagni disperati urlano
sbracciandosi per attirare l’attenzione di tutti
verso il loro spicchio di curva. Il dottore
si accorge subito della gravità delle condizioni,
il ragazzo ha perduto conoscenza per un "evidente
trauma
cranico
commotivo", ma non può sapere che, purtroppo,
ha lesioni in tutto il corpo. È intubato in
fretta e caricato su un'ambulanza a sirene spiegate
verso il reparto di rianimazione dell’Ospedale
Maggiore di Parma. Intanto allo stadio tutti
i tifosi stanno chiedendo di fermare la partita.
L'arbitro bolognese, Valerio Scoditti, lo fa
solo per quattro minuti, ma al 65' più insistentemente
tifosi, giocatori e dirigenti premono per la
sospensione. Giunge sul posto anche il questore
di Parma, Gennaro Gallo, che rassicura l’arbitro
sulla situazione, invitandolo a riprendere quanto
prima il gioco. Venti minuti dopo lo speaker
del Tardini comunica che il tifoso "è in rianimazione
ma stabilizzato" e la partita riprende nonostante
le vibranti proteste del pubblico di casa mentre
i vicentini hanno già abbandonato lo stadio.
Al termine della gara nessuno festeggia la larga
vittoria della squadra crociata per 4-0. Sono
avvisati i familiari di Eugenio, in un primo
tempo il fratello, poi i genitori, in vacanza.
La prima diagnosi ospedaliera è drammatica:
"gravissimo politrauma da precipitazione con
lesioni emorragiche multi-distrettuali". Dopo
le prime manovre rianimatorie si prova ad effettuare
un disperato intervento chirurgico all'addome,
ma le condizioni del paziente peggiorano "a
causa di una gravissima emorragia e per il concomitante
gravissimo trauma cranio-facciale". Il cuore
si è affaticato troppo, ogni terapia risulta
inutile e si arresta alle 22.35 dello stesso
giorno quando Eugenio muore. Le due società
esprimono il proprio cordoglio alla famiglia
per la scomparsa del giovane e partecipano ai
funerali nel suo paese. Il settore "Ospiti"
dello stadio emiliano è posto sotto sequestro
dalle autorità giudiziarie. Vengono svolti alcuni
sopralluoghi tecnici dalla procura di Parma
per verificare il rispetto delle normative di
sicurezza e se ci fossero responsabilità strutturali
nelle cause dell’incidente. In particolare viene
misurata l’altezza della balaustra da cui è
caduto il giovane, non risultata a norma per
3 centimetri. Si avvia, quindi, una lunga fase
processuale, con duelli di perizie tecnico-legali
di parte e super partes, nella quale verranno
coinvolti alcuni amministratori locali con l'ipotesi
di reato per "omicidio colposo". Anche il presidente
del Parma Calcio è citato in giudizio. Saranno
tutti assolti nel 2012 "perché il fatto non
sussiste" e la famiglia Bortolon risarcita con
300.000 euro per la perdita di Eugenio.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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22.05.2010 |
TORINO, Lite fra Tifosi |
Corso Lecce, "Blu Sky"
Bar |
(Inter - Bayern Monaco) |
Edmondo Bellan
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Ancora un caso folle
di violenza, legato al filone di "Calciopoli"
ed alla rivalità sportiva fra Inter e Juventus,
si consuma la sera del 22 maggio 2010 a Torino
dopo la trionfale vittoria a Madrid della Champions
League da parte dei nerazzurri di José Mourinho.
Durante la premiazione della squadra il calciatore
Marco Materazzi sfoggia una maglietta irridente
la società bianconera davanti a milioni di telespettatori
in mondovisione. Nel "Blu Sky" bar in
corso Lecce a Torino, proprio a causa di quest’immagine
goliardicamente provocatoria si beccano alcuni
clienti delle due fedi sportive rivali. Fra
questi l’interista 60enne Rocco Acri e lo juventino
62enne Edmondo Bellan, entrambi disoccupati
e incensurati. La discussione degenera dagli
insulti alle spinte, parte un pugno che colpisce
Acri, qualche ceffone, coinvolgendo altre persone
intorno ai tavoli ed anche il titolare dell’esercizio
che intima con forza ai due litiganti di uscire
immediatamente fuori dal locale e poi richiude
la porta. Appena in strada riprende la discussione,
Bellan inveisce contro Acri, il quale estrae
un coltello a serramanico con una lama da 10
cm e lo trapassa tre volte, due al torace e
una ad un braccio. Acri si allontana come se
nulla fosse accaduto. Bellan è soccorso dai
clienti del bar e da alcuni passanti, quindi
trasportato di urgenza all'ospedale "Maria Vittoria",
ma muore poco dopo l’arrivo al Pronto Soccorso
per le gravissime emorragie. L’indomani, identificato
in base alle testimonianze, l’omicida di origini
calabresi è condotto in Questura. Dopo un lungo
interrogatorio in cui nega all’inizio il suo
coinvolgimento nel caso, ammette in parte le
sue responsabilità, giustificandosi. Dichiara
alla polizia che non credeva fosse morto perché
pensava di averlo ferito "soltanto di striscio"
e che non lo conosceva, che si era sentito provocare
dalle parole rivolte contro
Materazzi
e soprattutto che Bellan aveva malmenato Emanuele
Romeo, il suo amico barista di 77 anni, in cattive
condizioni di salute. All’indagine presto risolta
dagli inquirenti segue l’iter giudiziario. Nel
2011 il PM Marco Sanini richiede in aula l’ergastolo
per Rocco Acri, ridotti a 30 anni di reclusione
per lo svolgimento del processo in forma di
rito abbreviato. Il giudice così sentenzia in
primo grado rigettando le attenuanti generiche
per via dei "futili motivi", aggravanti dell’omicidio.
In appello le cose vanno diversamente ed ha
successo la tesi difensiva degli avvocati Marco
Moda e Antonio Rossomando. In questa sede i
legali dimostrano alla corte come l’imputato
non abbia agito delittuosamente a causa delle
offese ricevute personalmente, ma in difesa
dell’anziano gestore del bar, suo amico, ancora
debole e convalescente per una serie di interventi
chirurgici. La pena è dimezzata a 15 anni di
carcere.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it |
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5.07.2010 |
Hannover, Muenzstrasse |
Bar "Columbus", Litigio fra
Tifosi |
Giuseppe Longhitano
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Franco Siccu
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Sono quasi le 7.20
di lunedì 5 luglio 2010 e nel bar "Columbus"
sulla Muenzstrasse, nel quartiere a luci rosse
di Hannover in Germania, sta per avvenire una
tragedia in qualche maniera imparentata con
il calcio. Nel locale ci sono sei persone, fra
cui due italiani, il sardo Franco Siccu e il
siciliano Giuseppe Longhitano che sono seduti
ad un tavolo ed hanno bevuto qualche bicchiere
di troppo. Anche Holger, un manovale tedesco
di 42 anni, ha bevuto molto e lo iniziano a
prendere in giro per il numero di coppe del
mondo vinte dall’Italia, una in più della Germania
(4-3). Lo sfottò, per nulla gradito dall’uomo,
trascina tutti e tre in un’accesa discussione,
poi il tedesco esce dal bar. Sembra finita lì,
invece accade qualcosa di follemente drammatico.
Holger prima va a casa a prendere la sua pistola
e poi fa ritorno al bar dove spara subito a
bruciapelo in testa al Longhitano. Dopo rivolge
l’arma contro Siccu, il quale gettandosi in
ginocchio ai suoi piedi lo implora di
non
sparare, ma a metà della frase lo fredda alla
nuca, spietato. Abbattuti gli italiani, si disfa
della pistola frettolosamente e fugge via. "E’
stata una vera e propria esecuzione", racconterà
una testimone oculare al giornale tedesco "Bild"
intervistata sulla sparatoria. Franco Siccu,
47 anni, emigrato negli anni '90 in cerca di
lavoro da San Vero Milis, in provincia di Oristano,
fa il cuoco nel ristorante "Little Italy" di
Hannover ed è sposato con una donna tedesca
dalla quale ha avuto una bambina. Sarà definito
da amici e parenti un "ragazzo per bene" ed
un "gran lavoratore" con un buon carattere e
"per nulla un tifoso di calcio" e ancor meno
un "attaccabrighe". Giuseppe Longhitano, 49
anni, pizzaiolo di origini siciliane, era partito
da Bronte 24 anni prima in cerca di una occupazione
in Germania dove si è sposato ed ha due figli,
uno di 19 e l’altro di 20 anni. Si conoscono
perché è parente di un collega del ristorante
di Franco. Entrambi sono ancora vivi, ma in
gravissime condizioni quando vengono soccorsi
e trasportati d’urgenza in ospedale. Siccu vi
muore poco tempo dopo il ricovero, Longhitano
la notte seguente. L’omicida, residente ad Hannover,
viene identificato dalla polizia nelle immagini
registrate della telecamera interna di un bancomat
vicino al luogo del delitto mentre preleva denaro
contante. Il filmato viene trasmesso via internet
e in televisione per accelerare la cattura dell’uomo,
latitante da subito. Infatti, Holger B. è volato
in Spagna, a Palma di Maiorca, a casa del patrigno,
il quale lo convincerà a costituirsi in loco
ed a farsi estradare in Germania. Nel 2011 il
dolore dei familiari delle vittime si acuirà
per la mite sentenza con la quale questo assassino
viene condannato dalla legge tedesca a 14 anni
e 6 mesi di reclusione, di cui almeno due anni
in un centro di disintossicazione. Il loro avvocato
la critica molto aspramente definendola "inaccettabile".
In realtà durante il processo il giudice ha
ascoltato attentamente una perizia secondo la
quale l’imputato, in quel momento sotto effetto
di alcool e medicinali, aveva scarse capacità
di autocontrollo. La difesa rincara, inoltre,
questa tesi dimostrando che Holger per di più
era anche disturbato mentalmente da qualche
anno. Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it |
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25.06.2014 |
Roma,
"Tor di Quinto" |
Finale
di Coppa Italia |
(Napoli - Fiorentina) |
Ciro Esposito
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Il 3 maggio 2014 è
il giorno della finale di Coppa Italia fra Fiorentina
e Napoli, in programma alle 21.00 allo Stadio
"Olimpico" di Roma. Da qualche anno la partita
si gioca in notturna nella capitale, alla presenza
del Presidente della Repubblica e delle massime
autorità della politica e dello sport nazionale.
Le tifoserie organizzate, aggregandosi in due
punti opposti rispetto all’impianto sportivo,
stanno affluendo da nord e da sud per dirigersi
verso lo stadio, con qualche apprensione della
Questura: in particolare si temono possibili
scontri fra loro o contro le forze dell’ordine,
se pur ingenti e preparate, di Polizia e Carabinieri.
Purtroppo passerà alla storia per una tragedia
diversa e imprevedibile, imparentata con una
più becera vicenda di cronaca nera. Un giovanissimo
tifoso partenopeo, Ciro Esposito, è ferito gravemente
ad un polmone da un colpo di arma da fuoco sparatogli
alle spalle da un ultrà della Roma, Daniele
De Santis, dopo una rissa scoppiata nel parcheggio
situato in zona "Tor di Quinto". La dinamica
suscita ancora oggi molti lati oscuri, pertanto,
riportiamo appresso due ricostruzioni giornalistiche
seguite alle sentenze di 1° grado e Appello.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
"PRIMO GRADO:
"Due bombe carta lanciate contro un pullman
di tifosi con sopra bambini e disabili, l'invito
provocatorio ai partenopei a bordo a scendere
giù. Poi l'inseguimento di Ciro Esposito e 7
secondi dopo, la pistola puntata ad altezza
uomo da 30/50 centimetri di distanza. Quindi
gli spari (che sono 4), il ferimento di Ciro,
che morirà dopo 55 giorni di agonia. E l'assassino
che smette di sparare solo quando ha esaurito
il caricatore. Nelle 40 pagine delle motivazioni
della sentenza con cui due mesi fa Daniele De
Santis, ultrà giallorosso, è stato condannato
a 26 anni di carcere, la Corte ricostruisce,
passo dopo passo le scene di una guerriglia
urbana "che sono un unicum" nella capitale,
scrive il giudice Evelina Canale. "Tra testimoni
palesemente reticenti e periti imparziali i
giudici hanno ritenuto più credibili - ha dichiarato
l'avvocato Tommaso Politi difensore di De Santis.
Resto
convinto che il condizionamento mediatico sia
stato determinante". Eppure nelle carte che
hanno portato alla decisione della Corte si
parla di "bambini che hanno visto De Santis
impugnare la pistola e non hanno dormito la
notte", di "filmati testimoniali e della Digos
che mostrano l'intera sequenza", di "testimoni
che hanno visto premere il grilletto", e della
dichiarazione di Esposito, in ospedale di fronte
alla foto del suo assassino "è questo il chiattone
che mi ha sparato". Nulla è stato casuale quel
3 maggio 2014, poco prima della finale di Coppa
Italia tra Fiorentina e Napoli, tanto che, scrivono
i magistrati della terza corte d'Assise, De
Santis "aveva elaborato un piano preordinato
che prevedeva la provocazione contro un pullman
di tifosi inermi". Per i giudici non era solo
al momento dell'aggressione al pullman, ma spalleggiato
da almeno altre sei persone, non identificate.
"È certo - si legge nelle motivazioni che detti
"supporters" romanisti erano stati convocati
da lui per organizzare un vero e proprio agguato
contro l'invisa tifoseria partenopea". La corte
sottolinea come i fatti costituiscano un "unicum".
"In altri episodi - si legge - mai si è fatto
uso di armi da fuoco, giungendo al massimo all'uso
del coltello, ma mai usato per uccidere, bensì
sempre e solo con l'intenzione di procurare
ferite superficiali, come quelle subite dall'imputato,
appunto le "puncicate". Ed è indubitabile che
l'intensità del dolo dimostrato da De Santis,
fino a lambire le forme della premeditazione,
sia massima". Tanto che la pistola che porta
con sé è carica e con il colpo in canna. L'uso
della cocaina assunta nel corso di un festino
della notte precedente con due prostitute ha,
secondo i giudici, dato quella sensazione di
"onnipotenza" a De Santis tale da non farlo
rendere conto del numero "soverchiante" di persone
pronte ad aggredirlo dopo le sue provocazioni".
Fonte: La
Repubblica 26.07.2016 ("De Santis studiò l'agguato
ai tifosi e colpì Esposito da 30 centimetri"
di Federica Angeli e Francesco Salvatore)
"APPELLO:
"Insofferente della presenza dei tifosi napoletani
in quello che considera il proprio territorio
di ultrà, De Santis attua una "bravata" lanciando
oggetti contro un pullman" di sostenitori azzurri.
Comincia così, nella ricostruzione della Corte
di Appello di Roma, il pomeriggio di follia
che il 3 maggio del 2014, nella zona di Tor
di Quinto, alla vigilia della finale di Coppa
Italia tra Napoli e Fiorentina sfociò nell'omicidio
di Ciro Esposito. Il giovane tifoso del Napoli
fu assassinato dai colpi di pistola esplosi
da Daniele De Santis detto Gastone, ultrà romanista.
In primo grado, l'imputato era stato condannato
a 26 anni. In appello, la pena è stata ridotta
a 16 anni, con l'assoluzione per il reato di
rissa e l'esclusione dell'aggravante dei futili
motivi oltre che della recidiva. Nelle motivazioni
della sentenza, il collegio (presidente Andrea
Calabria, estensore Giancarlo De Cataldo, il
giudice - scrittore autore di "Romanzo Criminale")
usa più volte, sia pure fra virgolette, il termine
"bravata" per definire il gesto compiuto da
De Santis nei confronti degli autobus che stavano
trasportando i tifosi del Napoli allo stadio.
Ma questa espressione, al di là delle argomentazioni
giuridiche, amareggia la mamma di Ciro, Antonella
Leardi. "La signora Leardi - afferma l'avvocato
Angelo Pisani, legale di parte civile con l'avvocato
Sergio Pisani - mi ha detto che, con questa
sentenza, le hanno ucciso il figlio per la seconda
volta. Le ho spiegato che non c'è alcuna azione
che si possa fare né rimedio giuridico. Questa
è la giustizia italiana. L'unica cosa che possiamo
fare è scrivere in un libro quanta amarezza
ha subìto una vittima innocente. Come non hanno
rispettato la sua memoria". Nella ricostruzione
della Corte, non ci fu alcuna "imboscata" ai
danni dei tifosi azzurri, come sostenuto invece
da alcuni testimoni. Non furono lanciate bombe
carta e De Santis non fu "esca" di alcun agguato.
"Questa tesi appare frutto di una suggestione
successiva ai fatti, prodotto di un'elaborazione
collettiva", scrivono i giudici. Al tempo stesso,
chiarisce la Corte, non vi fu neppure un agguato
dei napoletani ai danni di Gastone. Argomentazione,
quest'ultima, ritenuta semplicemente "insostenibile"
e "inverosimile". Tutto sarebbe iniziato invece
con la "bravata" di De Santis, in un passaggio
definita "tragica", in altri etichettata come
"scomposta azione dimostrativa" oppure come
"evidente e sgradevole provocazione". L'ultrà
romanista, che aveva trascorso la notte con
due prostitute ed era armato di pistola, lancia
oggetti contro il bus, prima di scappare verso
il vicino circolo tentando, senza riuscirci,
di chiudersi alle spalle il cancello. A questo
punto, secondo la Corte d'Assise di Appello,
De Santis sarebbe stato raggiunto "da uno sparuto
drappello di giovani a mani nude". Ciro sarebbe
stato il primo a colpire Gastone, probabilmente
con un pugno. "Il testimoniale è univoco", sottolineano
i giudici. De Santis cade, si rompe una gamba.
Ma in quel momento "è già armato". E nel giro
di pochissimi secondi, spara. La Corte d'Appello
ha assolto Alfonso Esposito e Gennaro Fioretti,
i due tifosi del Napoli, a loro volta rimasti
feriti, che in primo grado erano stati condannati
a otto mesi per rissa e per una sola delle lesioni
riportate da De Santis. "Se non ci fu agguato,
non si può parlare di rissa", si legge nella
sentenza. Per i giudici, De Santis ha mentito
quando ha raccontato di essere stato aggredito
alle spalle da una trentina di napoletani e
di essere stato accoltellato prima di sparare.
Non si può parlare di legittima difesa perché
Gastone "provocò deliberatamente una situazione
di obiettivo pericolo". L'uomo "si avvicinò
armato al pullman perché ben consapevole del
potenziale rischio che correva". Inoltre, "non
si limitò a esibire la pistola o a sparare in
aria a scopo intimidatorio, nemmeno mirò a parti
non vitali del corpo, non cercò di causare la
fuga dei giovani che erano a mani nude, ma esplose
ben 5 colpi, 4 dei quali andarono a segno".
La Corte esclude i futili motivi, perché l'omicidio
fu una conseguenza "del precipitare degli eventi".
Una "bravata", secondo i giudici. Costata la
vita a un ragazzo di diciannove anni".
Fonte: La
Repubblica 10.09.2017 ("La Corte d'appello Ciro
fu ucciso per una bravata" di Dario Del Porto)
|
Ciro Esposito, ferito gravemente al torace,
fu prima soccorso dai suoi compagni per strada,
poi trasportato al Policlinico Gemelli dove
muore, dopo 53 giorni fra la vita e la morte,
il 27 giugno 2014. La lunga agonia del giovane
ha commosso e fatto sperare tutta Italia. Raccontati
tanti particolari sulla sua vita serena e normale
nonostante un quartiere difficile come "Scampia",
noto alle cronache per il malaffare e la guerra
fra clan, sulla sua passione per il Napoli e
per la sua bellissima ragazza, inconsolabile.
Immediatamente il killer viene identificato
nella persona di Daniele De Santis, detto "Gastone",
dalle indagini della procura, grazie a testimonianze
e ricostruzioni della digos. In particolare
è riconosciuto in ospedale anche dalla vittima
nella foto segnaletica mostratagli durante un
colloquio registrato con la criminologa. Il
9 settembre dello stesso anno la perizia del
racis trova polvere da sparo proprio sui guanti
dell’uomo, deducendo che a sparare è stata proprio
la sua pistola. Le indagini
proseguono
fitte, fra contraddizioni e verità inconfutabili
fino a quando il 14 aprile 2015 i Pm Eugenio
Albamonte e Antonino Di Maio chiedono il rinvio
a giudizio per De Santis per omicidio volontario
e altri due tifosi del Napoli per rissa aggravata.
A luglio, il giorno 8, ha inizio il processo
nell'aula bunker di Rebibbia davanti alla III
corte d'Assise, durato 10 mesi. Il clima in
aula è sempre teso per la presenza del circo
mediatico, degli amici e dei familiari del ragazzo
napoletano e per la presenza dell’imputato,
disteso su una barella, ma tutt’altro che contrito.
I pubblici ministeri Albamonte e Di Maio chiedono
per lui l'ergastolo. La corte, dopo 4 ore di
camera di consiglio e a quasi due anni dalla
morte di Ciro, lo condanna, invece, a ventisei
anni di carcere e a 140mila euro di risarcimento
per la famiglia Esposito. Otto i mesi di reclusione
anche per i due tifosi del Napoli, Gennaro Fioretti
e Alfonso Esposito, per la rissa con il romano.
20 agenti in tenuta antisommossa presenziano
in aula. Dalla folla si alza greve l’urlo di
una donna: "Deve marcire in carcere, marcire
!". L'avvocato difensore, Tommaso Politi, annuncia
il ricorso in appello, sostenendo la tesi della
"legittima difesa". E così nel 2017 la prima
Corte d’assise d’appello di Roma definisce nelle
motivazioni della sentenza l’omicidio di Ciro
Esposito conseguenza di "una bravata" da parte
del De Santis, al quale riduce la pena da 26
a 16 anni, assolvendo gli altri due imputati
napoletani per rissa e lesioni "perché il fatto
non sussiste". Le motivazioni azzerano l’accusa
dell’agguato, dichiarato "presunto", poiché
"dei botti, delle bombe carta, dei fumogeni,
dei sassi dai quali i napoletani sarebbero stati
bersagliati, non si è rinvenuta alcuna traccia".
Secondo i magistrati, quindi, Ciro Esposito
avrebbe partecipato ad un regolamento di conti
dopo una provocazione non premeditata dell’imputato,
"insofferente della presenza dei tifosi napoletani
in quello che considera il proprio territorio
di ultrà", il quale "attua una bravata lanciando
oggetti contro un pullman" di sostenitori azzurri".
Antonella Leardi, madre del ragazzo napoletano,
commenta amaramente: "Con questa sentenza hanno
ucciso mio figlio un’altra volta" e il 27 settembre
2017 scrive una lunga lettera diretta al Presidente
della Repubblica, Sergio Mattarella, anche in
qualità di presidente del Consiglio superiore
della Magistratura, dichiarandosi "disgustata,
indignata, furiosa per come non la Giustizia,
ma l'interpretazione della legge abbia offeso
la memoria" di suo figlio e "irriso il dolore
e l'attesa di giustizia" loro e degli Italiani.
La parola ultima spetta alla cassazione che
ratifica la sentenza della corte di appello.
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it |
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15.06.2017 |
Torino,
3.06.2017, Panico Folla
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Piazza
San Carlo, Maxi Schermo |
Finale Champions League
(Juventus - Real Madrid) |
Erika Pioletti
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La maledizione del sangue che lega la
Coppa dei Campioni alla Juventus segna
una nuova scia nella storia del club
torinese durante la sera del 3 giugno
2017. Questa volta lo scenario tragico
non è lo stadio, come avvenuto 32 anni
prima nel fatiscente catino dell’Heyzel
di Bruxelles, ma Piazza San Carlo, cuore
planimetrico nella mappa di Torino,
dove per tradizione storica si aggregano
le persone nella celebrazione festosa
di eventi culturali e sportivi. Proprio
qui è stato montato il maxi schermo
per la telecronaca della finale di Champions
League che impegnerà a Cardiff la Juventus
nella difficile impresa contro il Real
Madrid di Cristiano Ronaldo. Circa 30
mila persone confluiranno in questa
sede, alcune migliaia provenienti da
tutta Italia. Già in prima mattinata
centinaia di tifosi si posizionano strategicamente
davanti allo schermo, affrontando il
caldo e l’arsura. Occasione più che
ghiotta di spaccio per venditori di
bibite, abusivi e non, sufficientemente
tollerati dai vigili urbani. È calata
la sera e già prima della trasmissione
della partita la gente calpesta un mare
magnum di bottiglie di plastica, rifiuti
e cocci di vetro. L’alcool e la tensione
per una partita ormai avviata mestamente
verso la china della settima sconfitta
in finale di Champions per la Juventus
ottenebra i riflessi e la lucidità emotiva
della folla, delusa e malinconica. All’improvviso,
però, avviene in piazza qualcosa che
ad oggi ancora non trova una identificazione
certa nelle testimonianze dei presenti.
Si è raccontato di un botto violento,
probabilmente a causa della caduta di
una grata della metropolitana, di sostante
urticanti diffuse dall'impianto di aerazione
del parcheggio sotterraneo, oppure della
presunta esplosione di un petardo, di
un urlo di terrore o frutto di una burla
idiota. O, magari, la malefica combinazione
di due fra questi fattori ? Al di là
dell’incipit tremens, qualunque ne sia
la causa e la provenienza, il deus panico
è stato il solo padrone in campo e ha
spostato in poche manciate di migliaia
di persone come un’onda ribelle a travolgere
ogni cosa, a proiettare sagome fuori
di testa schizzate via dal terrore.
Psicosi collettiva di un attentato dell’Isis…
Superfluo dire che sarebbe il primo
in Italia e che di fatto sia frutto
soltanto della loro immaginazione. Accade.
È come se lo fosse…
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Scene apocalittiche di una follia comune
che produce masse di corpi allo sbando
e lascia al suolo il drammatico scenario
come di un combattimento: 1527 feriti
nel tentativo maldestro, ostruito e
andato a male di fuga. Una guerra, della
psiche. Alcuni fra loro sono molto gravi,
una giovane donna è in fin di vita.
Viene da Domodossola, si chiama Erika
Pioletti, non una tifosa di calcio,
ma schierata in piazza soltanto per
amore del suo fidanzato, tifoso juventino,
per fargli un regalo nel giorno del
suo compleanno, nonostante il timore
e qualche presentimento confidato ai
suoi cari il giorno prima. È entrata
subito in coma e nonostante un intervento
chirurgico dei medici vi resta per molti
giorni. Morirà 12 giorni dopo in ospedale,
al "Giovanni Bosco" di Torino, il 15
giugno 2017. Il giorno dopo il caos
esplodono le polemiche e si avviano
puntualmente le indagini della magistratura
che non risparmiano Sindaco e Autorità
del capoluogo piemontese. Viene aperto
subito un fascicolo per "lesioni personali"
che in seguito alla morte di Erika vedrà
aggiunto un secondo per "omicidio colposo".
Nel guado di speculazioni di ogni sorta
e di sciacallaggio politico avanzano
le indagini della procura verso la verità.
In esame la causa originaria della psicosi
collettiva ed eventuali omissioni o
imperfezioni nel piano dell’ordine pubblico
e della sicurezza nella manifestazione.
Il giorno dopo il caos esplodono le
polemiche e si avviano puntualmente
le indagini della magistratura che non
risparmiano Sindaco e Autorità del capoluogo
piemontese. Viene aperto subito un fascicolo
per "lesioni personali" che in seguito
alla morte di Erika vedrà aggiunto un
secondo per "omicidio colposo". Nel
guado di speculazioni di ogni sorta
e di sciacallaggio politico avanzano
le indagini della procura verso la verità.
In esame la causa originaria della psicosi
collettiva ed eventuali omissioni o
imperfezioni nel piano dell’ordine pubblico
e della sicurezza nella manifestazione.
In realtà l’inchiesta si sdoppierà in
due binari della giustizia: uno incentrato
sui fatti avvenuti all’interno della
piazza, l’altro sulle responsabilità
a monte delle istituzioni e degli enti
organizzatori, ma a corollario delle
indagini della magistratura fioccheranno
le richieste di risarcimento di centinaia
di persone. Il resto della storia è
oramai noto, trascritta in queste pagine…
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
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26.12.2018 |
Milano, Investimento Suv |
Via Sant’Elena, Scontri Tifoserie |
(Internazionale - Napoli) |
Daniele Belardinelli
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Mercoledì 26 dicembre 2018 al "Meazza" è
di scena Inter-Napoli. Le tifoserie delle
due squadre sono nemiche da sempre. A due
chilometri dallo stadio avvengono degli
scontri un’ora prima dell’inizio della gara.
Si tratta di una autentica imboscata di
un centinaio di ultras nerazzurri ai danni
dei tifosi napoletani in trasferta che transitano
in carovana verso San Siro con una decina
di minivan. L’attacco è armato ed estremamente
violento, ma i tifosi partenopei (una settantina)
dopo un iniziale momento di sbandamento
scendono dalle autovetture e si avventano
sugli aggressori affrontandoli in uno scontro
selvaggio fra pugni, calci, bastonate, petardi
e fumogeni. Quattro di loro sono accoltellati
prima che l’arrivo delle forze dell’ordine
divida il fronte. Nel parapiglia ha avuto
la peggio un tifoso dell’Inter, investito
da un suv guidato da un sostenitore azzurro.
Nelle immagini lo si vede cadere per terra
urtato da una utilitaria e poi travolto
da un suv che gli schiaccia il bacino con
la conseguente rottura degli organi interni
e rompe le gambe. Sono proprio gli stessi
tifosi del Napoli a soccorrerlo, segnalandolo
alla Polizia e riconsegnandolo con ampi
cenni di tregua ai compagni. Trasportato
d’urgenza all’Ospedale San Carlo in condizioni
gravissime, non ha perso ancora conoscenza
e afferma di essere stato investito da un’auto,
di un "incidente stradale". Qui vi spira
alle 4.30 della mattina seguente. Era ancora
sotto i ferri, in sala operatoria, a causa
dei letali traumi conseguenti all’investimento.
È il quarantenne Daniele Belardinelli, detto
"Dede", classe 1979, di Buguggiate, un paesello
in provincia di Varese. Sposato e con due
figli, lavorava in una azienda di piastrelle.
Un capo della tifoseria varesina, appassionato
anche di scherma corta e arti marziali,
molto temuto e stimato dalle altre curve
italiane e che aveva già collezionato 2
daspo per reati consumati in manifestazioni
sportive. Subito le indagini, avvalendosi
delle immagini di quattro telecamere di
sorveglianza dislocate sul palazzo all’angolo
tra via Fratelli Zoia e via Novara, porteranno
davanti ai giudici molti esponenti della
tifoseria organizzata interista per la premeditazione
dell’assalto, ma il processo cardine per
la morte del Belardinelli riguarderà soltanto
un imprenditore napoletano incensurato,
alla guida di una Renault, accusato di "omicidio"
dai magistrati. Data la poca nitidezza delle
immagini al buio, disturbate dai bengala
e non essendoci un filmato dello schiacciamento
i molti rilevamenti e l’incidente probatorio
saranno focali per tutti i legali in causa
il ruolo della prova scientifica affinché
si stabilisca la natura colposa o volontaria
del reato stradale, determinante per la
stima della condanna dell’investitore alla
guida del mezzo.
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
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25.01.2019 |
Torino,
3.06.2017, Panico Folla
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Piazza
San Carlo, Maxi Schermo |
Finale Champions League
(Juventus - Real Madrid) |
Marisa Amato
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Ferita molto gravemente nel nefasto 3 giugno
2017 di Piazza San Carlo a Torino, la signora
Marisa Amato resta tetraplegica all’età
di 60 anni a causa di una lesione cervicale
e poi muore il 25.01.2019 per complicanze
polmonari. Beffardo pensare che non si trovava
in piazza durante la partita, non essendo
amante del calcio, ma stava passeggiando
tranquillamente assieme a suo marito, Vincenzo
D’Ingeo, sotto gli eleganti portici della
piazza torinese. La fiumana di folla nel
panico totale li travolge dirompendo all’improvviso.
Anche il marito ne riporta ferite invasive,
sottoposto ad alcuni interventi ai polmoni
e ad una tracheotomia. Fortunatamente si
riprenderà. I figli, Viviana e Danilo, lanciano
un accorato appello pubblico di non lasciarli
isolati che il Sindaco Appendino e il ministro
degli Interni Minniti accolgono. Saranno
successivamente anche i fondatori della
Onlus "I sogni di Nonna Marisa" creata in
memoria della madre nel 2019 per progetti
di solidarietà sociale.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
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19.01.2020 |
Basentana, Investimento Auto |
Vaglio, Scontri
Tifoserie |
(Brienza-Vultur
Rionero) |
Fabio Berardino Tucciariello
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23.01.2020 |
Torino
(3.06.2017), Panico Folla
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Piazza
San Carlo, Maxi Schermo |
Finale Champions League
(Juventus - Real Madrid) |
Anthony
Bucci
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L’ architetto sammarinese
Anthony Bucci è da considerarsi a tutti gli
effetti, soprattutto morali e probabilmente
anche legali, la terza vittima della tragedia
di Piazza San Carlo a Torino il 3 giugno 2017.
Nella ressa scaturita dal panico della folla,
prima rischia la vita, schiacciato dalle persone
in fuga, poi tratto in salvo dal peso di 5 persone
ammassate sopra di dirà ai giornalisti: "Ho
visto la morte in faccia". Per molti mesi, dolorante
e invalido sulla sedia a rotelle, è impossibilitato
al suo lavoro. Anthony, purtroppo, soffriva
già di diabete e la costretta inattività gli
procura la calcificazione e l’ostruzione dei
vasi sanguigni. Nel 2018 subisce l’amputazione
di un piede e avvia una battaglia legale di
risarcimento aderendo come parte civile al processo
in Corte di Assise contro l’amministrazione
pubblica e gli organizzatori dell’evento in
piazza. Per un peggioramento delle sue condizioni
di salute, muore all’età di 49 anni nell’ospedale
di Monza il 23 gennaio 2020. Il suo legale,
Caterina Biafora, ha chiesto all’ospedale "San
Luigi" di Orbassano le cartelle cliniche del
ricovero per comprendere, attraverso altra consulenza
periziale, l’eventuale nesso causale del danno
subito dall’assistito con l’amputazione del
piede e con il decesso.
Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
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