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Tragedie Stadi e Tifosi Italiani 1871-2024
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Tragedie Stadi e Tifosi Italiani 1871-2024
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TRAGEDIE STADI e TIFOSI ITALIANI
Tragedie Stadi e Tifosi Italiani 1871-2024
2.05.1920
Viareggio, Villa Rigutti
"Campo del Puosi"
(Sporting Club Viareggio - U. S. Lucchese)
Augusto Morganti
Sul terreno di gioco di Villa Rigutti si gioca il derby tra la Lucchese e il Viareggio. Al termine della partita scoppiano dei tafferugli tra i tifosi locali e i carabinieri. Il guardalinee dell'incontro di calcio, viareggino, Augusto Morganti, viene ucciso da un colpo di carabina sparato da un carabiniere. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it - "Fu la scintilla di una spontanea e violenta rivolta popolare contro le istituzioni. Per tre giorni, dal 2 al 4 maggio, estromessa ogni forma di autorità, Viareggio fu isolata dal resto del territorio, e mentre sul palazzo del Municipio sventolava il nero vessillo dell’anarchia, improvvisate "guardie rosse" si opponevano dietro precarie barricate allo Stato che, mobilitati esercito e marina, cingeva in assedio la città facendo sfoggio di forza, ma anche dimostrando incertezze decisionali ed incapacità di azione". Fonte: Versiliatoday.it
28.03.1949
Supersano, Disordini Tifoserie
Campionato II Divisione Pugliese
(Supersano-Ruffano)
Antonio Prete
Antonio Prete, un giovane pugliese del Salento, fu il primo tifoso italiano morto a causa di scontri fra tifoserie rivali fuori dal campo di gioco nel marzo del 1949. Da pochi anni terminata la seconda guerra mondiale, sullo sfondo politico che ancora contrappone di fatto vincitori e vinti fra l’impeto del rinnovamento e i nostalgici del fascismo, il campanilismo di due paesini limitrofi nel Leccese, Supersano e Ruffano, sfocia nella violenza sociale con il pretesto del calcio. Una spiccata rivalità, il folle intento di primato ad ogni costo, spinge alcuni uomini del luogo allo scontro, non più soltanto verbale. Fra le due cittadine esplode per 2 giorni una vera e propria guerriglia dopo che una partita del campionato di calcio pugliese è terminata con una fitta sassaiola fra le tifoserie. Durante uno di questi serrati confronti mentre i carabinieri sparano in aria per disperdere la folla un giovane di Supersano, il 19enne Antonio Prete, è colpito a morte da un ruffanese armato di pistola. Questo fatto di cronaca nera, semi-sconosciuto, ha ispirato la storia del libro "La grande guerra del Salento", scritto da Bruno Contini, il quale ha collaborato, poi, alla sceneggiatura dell’omonimo film diretto dal regista veronese Marco Pollini. La pellicola è stata girata tra Supersano, Ruffano e Specchia, nel leccese, col contributo dell’Apulia Film Found, di Apulia Film Commission e della Regione Puglia. Marco Leonardi, uno degli attori protagonisti, ha dichiarato saggiamente alla stampa: "Il calcio è uno sport meraviglioso, con regole ben precise, ma è spesso usato come occasione di sfogo da personaggi violenti simili a quelli del film, che accendono lo scontro su motivi futili. La tragedia del Supersano e del Ruffano è molto attuale, se pensiamo che anche in Sud America questo problema è molto forte, con tifoserie che vanno alle partite munite di armi da fuoco". Il campo sportivo di Supersano è intitolato ad Antonio Prete. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it (© Fotografie: Google Maps - Supersanum.it)
30.11.1958
Milano, Stadio "San Siro"
Campionato Italiano di Serie A
(Milan - Fiorentina)
Giordano Guarisco
Allo Stadio di San Siro si accalcano in migliaia i tifosi accorsi per la partita di calcio Milan-Fiorentina. Moltissime persone, prive del biglietto, durante il primo tempo della partita spingono e si agitano animosamente fuori agli ingressi, costringendo la polizia ad intervenire di forza per calmare gli esagitati che hanno la meglio sfondando le porte. Nella confusione due poveri ragazzi rimangono travolti nella ressa, nonostante fossero seduti al loro posto in gradinata: il diciassettenne Giordano Guarisco, calpestato brutalmente dalla massa, che riporta una frattura alla base cranica ed il suo compagno Bruno Marsilio, di 14 anni, che più fortunato, invece, se la cava con una frattura alla gamba per cui verrà giudicato guaribile in 40 giorni. Giordano Guarisco, ricoverato d’urgenza in condizioni disperate all’ Ospedale Maggiore di Milano, assistito dai suoi familiari, muore nella notte del 1 dicembre 1958. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
28.04.1963
Salerno, Disordini Tifoseria
Stadio "Donato Vestuti"
(Salernitana-Potenza)
Giuseppe Plaitano
"Domenica 28 aprile 1963. A Salerno si respira aria di primato. L’appuntamento per tutti è nel pomeriggio al Vestuti per il big match tra i granata e la capolista Potenza. Una vittoria, da raggiungere ad ogni costo, consentirebbe alla Salernitana di agganciare in vetta i lucani. Il Vestuti è stracolmo. Sono oltre 15 mila gli spettatori per un incasso record di otto milioni. Chi non ha trovato posto, prende d’assalto balconi, terrazzi e mura di cinta del vecchio stadio che sembra scoppiare non solo d’entusiasmo. L’atmosfera è elettrica. La posta in palio altissima. Già dalle prime battute s’intuisce che l’arbitro, l’alessandrino Gandiolo, non è in giornata; fischia poco e tollera oltre il dovuto il gioco pesante di entrambe le squadre. Nonostante la tensione, le due squadre cercano di superarsi. Al 42’, su di uno svarione della difesa granata, la sgusciante ala sinistra rossoblù, Rosito, in sospetto fuorigioco, infila il portiere Pezzullo. I granata protestano vivacemente. L’arbitro ferma il gioco e chiede lumi a uno dei guardalinee, dirà poi negli spogliatoi. Nella ripresa, la Salernitana cerca in tutti i modi di recuperare. I tentativi degli avanti granata, però, si spengono tra le braccia dell’ottimo Masiero. Più il tempo passa e più cresce la tensione in campo e soprattutto sugli spalti. L’arbitro Gandiolo, incurante dell’atmosfera che circonda il terreno di gioco, continua ad avere un atteggiamento quasi di sfida. Al 79’ il dramma. Visentin entra, palla al piede, in area lucana ed è sgambettato. E’ rigore ! Gandiolo fa cenno di proseguire. Dal lato distinti, uno spettatore scavalca la rete di recinzione e si dirige verso l’arbitro, fermato appena in tempo dalle forze dell’ordine. Nel trambusto si nota che l’invasore ha il volto coperto di sangue. Le reti di recinzione ondeggiano paurosamente. In un attimo una ventina di scalmanati invade il campo. L’arbitro è colpito al viso da un pugno ma, protetto dalle forze dell’ordine, insieme ai suoi due collaboratori di linea e alla squadra del Potenza guadagna gli spogliatoi. Il terreno di gioco è invaso da jeep della polizia. Per disperdere la folla di scalmanati, sono lanciati i gas lacrimogeni. Si sente indistintamente un colpo d’arma da fuoco. A stento, tra feriti e contusi, viene sgomberato il terreno di gioco. La guerriglia continua per oltre cinque ore fuori dallo stadio. Il bilancio è drammatico: 1 morto, 21 feriti e 36 contusi. Giuseppe Plaitano, 48 anni ex sottufficiale di marina, è il primo tifoso morto in uno stadio italiano. Seguiva con passione i granata in cima alla gradinata delle tribune. Inutili i soccorsi degli amici che gli sedevano accanto; un proiettile vagante gli forò la tempia. Gandiolo e il Potenza lasceranno il Vestuti oltre la mezzanotte quando del dramma non restano che le rovine. Cinicamente sereno dopo il 90’, l’arbitro affermò di avere la coscienza a posto e di non sentirsi assolutamente responsabile degli incidenti". Dopo quarant’anni, l’alessandrino Gandiolo non cambiò idea: "Il pubblico perse la testa per la posta in palio altissima; la disorganizzazione delle forze dell’ordine fece poi il resto – raccontò qualche anno fa al nostro giornale". Memoria lucida, nonostante gli anni, Gandiolo ricordava perfettamente quegli attimi e l’episodio del rigore non concesso su Visentin che scatenò la furia della folla: "Il rigore ? Non c’era proprio". Fonte: Iotivogliodire.it 28.04.2013 ("Salernitana - Potenza. 28 aprile 1963")
28.10.1979
Roma, Stadio "Olimpico"
Campionato di Serie A
(Roma - Lazio)
Vincenzo Paparelli
"Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, era seduto in Curva Nord in attesa di assistere al derby Roma-Lazio del 28 ottobre 1979. Stava mangiando un panino mentre osservava il cielo plumbeo che minacciava pioggia e due razzi di segnalazione, partiti dalla Curva Sud, finiti fuori dagli spalti dopo una traiettoria a zig-zag. Ad un certo punto, sempre dalla curva Sud, parte un terzo razzo che compie una linea retta di quasi 150 metri che lo colpirà in pieno volto andandosi a conficcare dentro un occhio. Racconta un testimone di una lunga scia nera e schizzi di sangue ovunque. Paparelli si accascia su se stesso e la moglie, che era seduta accanto a lui, comincia ad urlare e chiedere aiuto, ma molti tifosi scappano in preda al terrore. Un ragazzo cerca di intervenire cercando di togliere il petardo dall'occhio di Paparelli ma ci riesce solo a metà e dal foro sul viso e da dietro la testa esce del fumo. Arrivano i medici ed una barella che lo porta nell'antistadio della Curva Nord dove c'è un'ambulanza che di corsa, a sirene spiegate, cerca di raggiungere l'Ospedale Santo Spirito dove però il povero Paparelli giungerà cadavere. Vincenzo aveva 33 anni e lascia la moglie e due figli. In Curva Nord, ormai ridotta a poche migliaia di persone, scoppiano disordini e tentativi d'invasione. Nessuno vuole che si giochi e solo Capitan Wilson riesce ad avvicinarsi ai ragazzi laziali inferociti. Per non creare altri disordini, si decide di giocare in un clima surreale con la Nord e la Tevere "laziale" vuote ed il resto dello stadio pieno. Le forze dell'ordine si mettono subito alla caccia degli assassini e dopo una breve indagine, viene indicato in Giovanni Fiorillo l'autore materiale del gesto criminale. Fiorillo ha 18 anni ed è un pittore edile disoccupato. Già la sera dell'omicidio si dà alla latitanza fuggendo senza una meta ben precisa in giro per l'Italia riuscendo anche ad espatriare in Svizzera. Dopo quattordici mesi si costituirà. Verrà condannato dalla Cassazione, nel 1987, a sei anni e dieci mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale. Morirà il 24 marzo 1993 a causa di un male incurabile. Durante il periodo di latitanza aveva chiamato quasi ogni giorno Angelo Paparelli, fratello dello sfortunato Vincenzo, per scusarsi e giurare che il 28 ottobre non voleva uccidere nessuno. Il 29 ottobre 2001, a ventidue anni dal tragico episodio, viene posta una targa in memoria di Vincenzo allo stadio Olimpico, lato curva nord. Il 13 giugno 2011 Vanda del Pinto, vedova di Vincenzo, si spegne all'età di 61 anni". Fonte: Laziowiki.org
7.06.1981
Tragedia Stadio "F.lli Ballarin"
San Benedetto del Tronto, Rogo Curva
(Sambenedettese - Matera)
Carla Bisirri - Maria Teresa Napoleoni
Domenica 7 giugno 1981 stava per avere inizio l’incontro di calcio Sambenedettese-Matera, in programma nell’ultima giornata del Campionato di Serie C1 del 1980/81 allo Stadio "Fratelli Ballarin" di San Benedetto del Tronto, completamente esaurito in ogni ordine di posto. Anche solo pareggiando la Sambenedettese sarebbe stata promossa in Serie B ed il clima sugli spalti era irrefrenabile, proprio quello di una indimenticabile festa cittadina. All’ingresso delle squadre sul campo di gioco le scorte dei coriandoli ammassate ai piedi della curva della tifoseria locale presero fuoco probabilmente a causa dell’accensione dei bengala. Divampò velocemente un grande incendio, alimentato dalla brezza marina che spirava sulle gradinate, e moltissimi tifosi prossimi alla fonte delle fiamme restarono seriamente ustionati. Due ragazze gravemente coinvolte nel rogo, Carla Bisirri e Maria Teresa Napoleoni, moriranno dopo un’atroce agonia alcuni giorni dopo in ospedale a Roma mentre molti altri tifosi rimasero per sempre segnati dal fuoco, quasi un centinaio di persone di cui 13 più gravemente. Questo museo si onora di approfondire particolarmente la memoria di questa grave tragedia dimenticata, accaduta in uno stadio italiano, dedicandole una ampio capitolo di moltissime pagine. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
21.03.1982
Sant’Oreste, Rogo Vagone Treno
Espresso 709 "Milano-Roma"
(Bologna-Roma)
Andrea Vitone
"ROMA - Un ragazzo è morto soffocato dal fumo di un incendio scoppiato in un vagone mentre il treno viaggiava a tutta velocità verso la capitale. Non è escluso che l'incendio sia stato doloso, i periti stanno esaminando quanto è rimasto della carrozza per accertare come e dove sono scaturite le fiamme. Un'altra ipotesi che gli investigatori non trascurano è quella di un mozzicone di sigaretta lasciato cadere acceso sull'imbottitura dei sedili. Sul convoglio c'erano molti tifosi romanisti che avevano seguito la loro squadra a Bologna dove aveva perso per 2 a 0. Tra questi anche la vittima. Andrea Vitone, non ancora quattordicenne (li avrebbe compiuti in aprile), che risiedeva a Roma, via Livorno. Viaggiava assieme al fratello maggiore che però aveva preso posto in un'altra carrozza. I giovani erano piuttosto eccitati, la sconfitta della loro squadra li aveva resi particolarmente chiassosi e polemici "Alcuni, i più adulti - ricorderanno più tardi altri viaggiatori - erano alticci". Appena il treno si è mosso da Bologna (l'espresso 709 Milano-Roma) il controllore ha dovuto sostenere un'animata discussione con alcuni di questi giovani perché erano sprovvisti di biglietto. Ma l'incidente si era chiuso lì, i ragazzi avevano pagato. Il gruppo più numeroso era sulla quartultima carrozza e per tutto il viaggio i giovani hanno cantato e discusso animatamente di calcio. Le fiamme sul vagone sono divampate mentre il treno raggiungeva la sua massima velocità sulla "direttissima" fra Gallese e S.Oreste. Era il tratto finale prima di arrivare a Roma Termini dove l'entrata in stazione era prevista per le 23, mezz'ora dopo. Il fumo che invadeva a poco a poco la carrozza ha infastidito i passeggeri e qualcuno ha aperto il finestrino per farlo defluire. L'aria che però entrava con violenza ha alimentato la fiamma che forse covava nell'Imbottitura di uno scompartimento e il fuoco ha cominciato a serpeggiare lungo le strutture in legno creando il panico. Uno dei tifosi ha tirato il segnale d'allarme e il treno si è fermato dopo centinaia di metri con le ruote inchiodate dai ceppi. I passeggeri hanno abbandonato il vagone, qualcuno per fare più in fretta si è gettato dai finestrini. In quel momento Andrea Vitone si trovava nella toilette: quando è stato raggiunto dal fumo, è uscito, ma in quel momento il treno ha Iniziato la brusca decelerata e il giovane è caduto a terra. Ha picchiato la testa contro lo sportello e ha perso i sensi. Nessuno si è accorto di lui, è arrivato il personale del treno, il vagone in fiamme è stato sganciato dal resto del convoglio, la lotta dei ferrovieri contro il fuoco con gli estintori in dotazione non è servita a nulla. Il brusco arresto del convoglio ha provocato il blocco sulla linea e alla stazione di Civita Castellana è scattato l'allarme. E' subito partita una pattuglia della polizia ferroviaria per controllare che cosa era successo: a un chilometro dal treno fermo nella campagna c'era il bagliore del vagone in fiamme e gli agenti hanno informato i vigili del fuoco. Quando questi ultimi sono arrivati sul posto, della carrozza erano rimaste solo più le strutture in ferro. Attenuato l'intenso calore con getti d'acqua, gli agenti sono saliti sul vagone per controllare, almeno per quanto possibile, la probabile origine del fuoco. Ed è proprio davanti alla toeletta che hanno scoperto il corpo del ragazzo, ucciso dal fumo e dal calore. La notizia che un passeggero era morto si è sparsa in un attimo e l'ha saputa anche il fratello di Andrea. Il giovane però non si è preoccupato perché sembrava che la vittima fosse un adulto. Ha scoperto che invece era suo fratello solo quattro ore dopo quando il treno è arrivato a Roma". Fonte: La Stampa 23.03.1982
12.06.1983
Catania, Stadio "Cibali"
Campionato Italiano di Serie B
(Catania-Perugia)
Lorenzo Marino
Qualche minuto prima di Catania-Perugia del 12 giugno 1983, ultima giornata del campionato di Serie B, si consuma una folle tragedia sugli spalti dello Stadio "Cibali". La partita, fondamentale per le ambizioni della squadra etnea in corsa per la promozione nella massima serie nazionale, richiama il pubblico delle grandi occasioni. Esasperato dalle ripetute e incivili provocazioni domenicali di alcuni tifosi della Curva Sud ai danni della sua abitazione sottostante (insulti, lanci di oggetti e urina) Angelo Grasso, 54 anni, dipendente comunale con l’incarico trentennale di custode dello stadio, abbandona una partita a carte con gli amici, imbraccia il suo fucile da caccia ed esce di casa a sparare all’impazzata contro i tifosi assiepati sulle gradinate. Il bilancio sarà tragico: 1 morto e 32 feriti. Mentre lo conducono in caserma dirà ai carabinieri: "Non ne potevo più, da tempo mi lanciavano lattine, gelati, bottigliette. Quando mi hanno orinato sulla casa davanti a mia moglie e a una delle mie figlie non ho capito più nulla". La vittima è un metronotte di San Gregorio, Lorenzo Marino, 28 anni e padre di due bambini piccoli, fra l’altro del tutto estraneo alle provocazioni dei teppisti. La notizia, diffusa in diretta dalle emittenti private, crea grande panico fra la gente fuori e dentro l’impianto sportivo e mentre la partita è in corso, sovraccaricata di tensione, decine di feriti più o meno gravi vengono trasportati in ospedale. Il 10 ottobre 1985 Angelo Grasso venne condannato dalla Corte d'Assise di Catania a 13 anni di reclusione per omicidio. In seguito la difesa legale chiese per l’imputato il riconoscimento della seminfermità mentale. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
8.02.1984
Carica Reparto Celere Polizia
Trieste, Stadio "Giuseppe Grezar"
(Triestina-Udinese)
Stefano Furlan
"l’8 febbraio 1984 era il giorno di Triestina-Udinese e tra i tifosi della prima squadra allo stadio dedicato alla memoria di Giuseppe Grezar, centrocampista morto nella sciagura di Superga avvenuta nel 1949, ci andò anche Stefano Furlan, vent’anni compiuti il 23 dicembre precedente. Ma lì intorno, il giorno del derby del Friuli Venezia Giulia, la situazione non era tranquilla tanto che a un certo punto esplose. Dunque vennero schierati i cordoni dei reparti mobili delle forze dell’ordine per fronteggiare buona parte dei seimila sportivi, tanti ne poteva contenere l’impianto di Trieste. Alla fine dell’incontro, verso le 16.30, Stefano Furlan stava incrociando via Macelli. Doveva recuperare la sua auto, una Fiat 128 che aveva lasciato da quelle parti, e fare ritorno a casa dei genitori. Non era un esagitato, Stefano. Fresco del diploma da geometra, aspettava di trovare un lavoro nel settore in cui aveva studiato e intanto un po’ aiutava un fiorista e un altro po’ occupava metà della sua giornata prestando assistenza a disabili seguito da una struttura religiosa. Tutto questo, però, non lo sapevano i tre agenti che lo avvistarono alla fine della partita e gli furono addosso, a mani nude e con i manganelli. Infine quasi lo sollevarono di peso per portarlo in questura, dove rimase qualche ora per essere alla fine rilasciato. Renata, la madre, disse al Corriere dello Sport-Stadio, quando il figlio rincasò: L’ho rivisto alle nove. Quando ha aperto la porta era stralunato, pallido. La giacca e il piumotto erano a pezzi. Aveva le lacrime agli occhi. "Mamma, sono stato picchiato. Un poliziotto mi ha dato una manganellata sulla testa, poi in questura schiaffi, pugni, calci". Conosco Stefano, non è un violento, gli ho subito creduto. Non si sentiva bene. Alle nove e mezza era già a letto. Avrebbe continuato a sentirsi male il giorno dopo, Stefano. Tanto che nel pomeriggio venne portato d’urgenza in ospedale, dove entrò in coma e finì in sala operatoria. Ma le fratture craniche e le relative conseguenze uccisero quel giovane dopo venti giorni di agonia da cui non si svegliò mai. Era il 1 marzo 1984. E come raccontato successivamente: Il poliziotto che lo aveva colpito, venne riconosciuto da tre testimoni e sospeso dal corpo. Nel novembre 1985 venne condannato a un anno di reclusione con i benefici della legge. Ma successivamente fu riabilitato e rientrò in servizio presso la questura di Trieste". Fonte: Blog Curva Sud Veneziamestre 1987 9.02.2019 (Il ricordo di Stefano Furlan 8/2/1984 - 8/2/2019 STEFANO FURLAN VIVE !)
30.09.1984
Milano, Stadio "San Siro"
Campionato Italiano di Serie A
(Milan-Cremonese)
Marco Fonghessi
Al termine della partita di campionato Milan-Cremonese, fuori allo Stadio di S. Siro un gruppo di ultras rossoneri notano una "131" targata Cremona imbottigliata nel traffico. La circondano e con un coltello gli tagliano una gomma. Marco Fonghessi, giovane tifoso rossonero di 21 anni, residente in provincia di Cremona e proprietario dell’automobile, esce dalla macchina insieme agli altri occupanti per chiedere spiegazioni. Mostra un cuscino a strisce rossonere, ma uno della banda glielo strappa di mano fraintendendo il gesto come una provocazione. Marco non è un violento, ma un ragazzo tranquillo che andava di rado alle partite. Fra insulti e qualche spintone, facendosi largo tra gli aggressori dice di lasciarli in pace e di restituirgli il cuscino, ma viene trafitto da una coltellata all'addome. Mentre il gruppetto dei teppisti si dilegua, fiero della "lezione" impartita, Marco viene soccorso e trasportato in gravissime condizioni all’ospedale milanese di San Carlo. Un'equipe di chirurghi prova a salvargli la vita con un intervento chirurgico durato sei ore, fino a tarda notte, ma ogni tentativo tra innumerevoli trasfusioni di sangue, è vano, non ci sarà nulla da fare: la lama del coltello spinta molto a fondo aveva provocato una ferita profonda 20 cm, lesionando gli organi interni, duodeno e pancreas. All'alba Marco Fonghessi, giovane meccanico tornitore di Castelleone, muore dopo una breve agonia. Viene identificato, intanto, in Stefano Centrone l’assassino che ha sferrato il fendente mortale. Conosciuto nell'ambiente come "Joe", 18 anni appena compiuti, è un "bulletto" nullafacente di periferia con qualche precedente penale per furto e sempre in cerca di provocazioni. Il Milan è un pretesto per delinquere, più che una fede. Nel suo quartiere quella sera si vanta di avere "colpito un avversario"... Ma il giorno dopo sapendo della morte di Fonghessi butta via il suo coltello a serramanico in un bidone dell’immondizia del suo caseggiato in zona "Porta Vigentina", si taglia da solo i capelli lunghi e biondi ossigenati e toglie l'orecchino per non farsi identificare. Inutilmente. Lunedì, in tarda serata, i Carabinieri della "Compagnia Magenta", risaliti a lui dalle testimonianze dei compagni di Marco e di altri tifosi milanisti del quartiere, lo trovano in casa, in pigiama. Centrone viene condotto in camera di sicurezza, ma in un primo tempo conserva durante l’inquisitoria un atteggiamento "tranquillo, freddo e distaccato". Poi, dopo 24 ore, il crollo per cui tenta grossolanamente il suicidio con una coperta, bloccato da un carabiniere. Richiamato il magistrato Filippo Grisolia viene nuovamente interrogato e confessa l’accoltellamento. Verrà condannato per l’omicidio a 22 anni di reclusione, ne sconterà effettivamente 14. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
29.05.1985
Strage Stadio "Heysel"
Bruxelles, Finale Coppa dei Campioni
(Liverpool - Juventus)
39 Vittime
Museo Virtuale Multimediale
13.04.1986
Ponte Galeria, Rogo Vagone Treno
Espresso 607 "Pisa-Roma"
(Pisa-Roma)
Paolo Saroli
Il 13 aprile i tifosi della Roma stanno tornando dalla partita di campionato in trasferta all’Arena Garibaldi di Pisa col morale a mille: la loro squadra ha vinto 4-2 ed ha agganciato la vetta della classifica di Serie A. Si trova a pari punti con la Juventus a sole 2 giornate dalla fine del torneo. L’ euforia si trasforma in follia quando qualcuno di loro accende un fumogeno dentro lo scompartimento del treno in marcia. Prende fuoco all’istante una tendina e le fiamme si propagano in fretta, senza controllo, mentre viaggiano nel nodo ferroviario tra Ponte Galeria e l’autostrada per Fiumicino, a pochi chilometri dalla Stazione Ostiense. Paolo Saroli, un giovane diciassettenne romano, rimane a terra intrappolato nel corridoio, tramortito dall’ossido di carbonio e morirà nel sonno calpestato dalla ressa della gente nel panico che fugge dal rogo e dal fumo cercando di mettersi in salvo in ogni modo. La dinamica è identica a quella della morte dell'altro tifoso giallorosso, Andrea Vitone, morto nel 1982. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it ''Mio figlio era andato a vedere la partita a Pisa, era un ragazzino, non aveva nemmeno 17 anni. E' morto per asfissia perché si era assopito, ma fu calpestato dagli altri ragazzi che fuggirono appena videro le fiamme. Era piccolino e tra l'altro era caduto qualche giorno prima dal motorino e aveva una contusione alla gamba e camminava a stento. Non era molto agile. Ricordo come un incubo quando arrivarono i carabinieri a casa mia intorno alle due del mattino. Ero angosciata perché Paolo ancora non era rientrato'', ricorda Lucia Saroli, madre di Paolo il giovane morto, il 13 aprile del 1986 nel treno che riportava a casa i tifosi della Roma, per asfissia in seguito all'incendio appiccato dagli ultrà. ''La mia vita era già stata segnata dalla morte di mio marito e di mio fratello - continua Lucia Saroli - mi era rimasto solo Paolo e ieri è morto per la seconda volta". Fonte: Adnkronos.com 30.01.1995 (NDR: Si ringrazia Asromaultras.org per il materiale di repertorio)
7.12.1986
Centobuchi, Ascoli Piceno
Discoteca "Oxygen"
(Serata in Discoteca)
Giuseppe Tomasetti
"ASCOLI PICENO - Lo hanno accoltellato al cuore, probabilmente dopo una discussione iniziata per futili motivi di campanilismo e degenerata in rissa. Peppino Tomassetti, ventuno anni, autista in un pantalonificio di Centobuchi, un grosso centro situato tra Ascoli e San Benedetto, è morto in un lago di sangue, sotto gli occhi terrorizzati della sua ragazza. Il suo amico, Virgilio Carlini, di ventuno anni, muratore, ha riportato una lieve ferita al palmo della mano. I due presunti assassini sono due giovani di Ascoli Piceno di ventiquattro anni e di venti. Si trovano rinchiusi nel supercarcere di Marino del Tronto con l'imputazione di omicidio volontario e di concorso in omicidio. La tragedia è esplosa all'improvviso nella notte tra sabato e domenica, subito dopo la chiusura della discoteca Oxygen di Centobuchi. A quell'ora, erano circa le 2 di notte, la moderna discoteca era ancora affollata di decine di ragazzi che tiravano a far tardi. Il giovane rimasto ucciso aveva terminato il servizio di leva da poco; insieme ad alcuni amici, si era recato a ballare nella discoteca dove, al bar, lavora la sua ragazza. Appassionato di calcio, il ragazzo seguiva da vicino le vicende della squadra del cuore, la Sambenedettese, che milita nel campionato di serie B. Insieme a lui nel locale c' erano, sembra, altri giovani sambenedettesi simpatizzanti dei gruppi ultras Onda d' urto e anche tifosi ascolani. Le due città sono divise da tempo da una fiera rivalità, degenerata qualche volta in episodi di violenza e in ripetuti scontri fisici. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, tra le due opposte fazioni c'erano già stati dei precedenti. Il clima nella discoteca si è fatto pesante. Sono volati insulti e sfottò, e anche qualche pugno. Qualcuno si è affrettato ad uscire dal locale, per riaccompagnare a casa la propria ragazza. Anche Peppino, insieme al suo amico Virgilio Carlini, è uscito dalla discoteca. Appena acceso il motore della propria auto una Fiat Uno acquistata da poco due giovani ascolani gli sbarrano il passo, minacciosi. Carlini scende dall'auto e si avvicina ai giovani per convincerli a spostarsi. Uno dei due è armato di coltello. Nel tentativo di strappargli l'arma, il giovane resta ferito alla mano. A questo punto, per soccorrere l'amico, Tomassetti esce dall'auto ma viene colpito da due coltellate. La prima lo raggiunge alla coscia sinistra, la seconda in pieno petto appena sotto il cuore. Il giovane muore poco dopo. Al delitto assistono una decina di giovani, tra cui la sua ragazza. Subito dopo, i due giovani fuggono a bordo di una Range Rover rossa. l'auto viene intercettata e fermata da una pattuglia di carabinieri. A bordo ci sono (Omissis), ventiquattro anni, proprietario dell'auto, e (Omissis), di venti anni; entrambi di Ascoli Piceno. Sottoposti ad interrogatorio e messi a confronto con i testimoni, i due sono stati successivamente rinchiusi nel supercarcere di Marino del Tronto. I giovani sono sostenitori della squadra dell'Ascoli calcio. Ma non risultano iscritti ad alcun club. Il primo lavora come orafo nella bottega del padre, il secondo gestisce una sala giochi cittadina. Con ogni probabilità, l'assassinio è stato causato da una mera questione di rivalità, di leadership territoriale, accentuata da antichi rancori personali. Il magistrato, Adriano Crincoli, che sta seguendo le indagini, non esclude però l'ipotesi che dietro la violenta lite ci sia una questione di droga. Alquanto confuse e contraddittorie le versioni rese dalle persone finora interrogate dal magistrato. Qualcuno ricorda i recenti episodi di violenza che, in occasione dei derby tra l'Ascoli e la Sambenedettese, hanno contrapposto i due gruppi di tifosi: l'Onda d' urto sambenedettese e Settembre bianconero. In uno di questi scontri, (Omissis) avrebbe riportato la peggio, subendo anche il furto di una collanina d' oro ad opera del Tomassetti. Non è stata ancora trovata l'arma del delitto, probabilmente un coltello a serramanico. L'autopsia condotta sul cadavere di Tomassetti ha confermato la morte per emorragia. I funerali del giovane si svolgeranno oggi a Centobuchi. Il giovane ferito si trova ricoverato nell'ospedale di San Benedetto e le sue condizioni non destano preoccupazione". Fonte: La Repubblica 9.12.1986 ("Tifo e vecchi rancori così la lite in discoteca è finita in tragedia" di Sandro Premici)
9.10.1988
Ascoli, Stadio "Cino e Lillo Del Duca"
Campionato di Serie A
(Ascoli-Inter)
Nazzareno Filippini
"L'incontro Ascoli-Inter è appena terminato. Le forze dell'ordine fanno defluire dalla Curva Nord dello stadio Del Duca i tifosi nero-azzurri, che vengono incolonnati ed avviati verso i cinque pullman parcheggiati in via delle Zeppelle. Ma non si è a conoscenza del fatto che altri due mezzi sono stati lasciati nei pressi della stazione ferroviaria: il secondo gruppo di ultras si dirige alla meta, passando davanti agli ingressi della tribuna coperta ed ecco avvicinarsi il dramma sotto la Curva Sud, feudo del tifo bianconero. All'indirizzo degli interisti inizia un fitto lancio di pietre, lattine ed altri oggetti. È il fuggi fuggi generale. Nazzareno Filippini resta coinvolto nella ressa. Ad un certo punto si accascia al suolo, con il volto completamente coperto di sangue. Viene soccorso qualche minuto più tardi e tra le mani che si tendono per aiutarlo ci sono anche quelle di Antonio, diciannovenne, impaurito di quanto sta accadendo. Quando si avvicina non sa ancora che il corpo martoriato è di suo fratello. Reno, così chiamato dagli amici, entra in coma profondo subito dopo aver varcato la soglia dell’Ospedale di Ascoli. Riesce a parlare con i medici del pronto soccorso, lamentando un forte dolore alla parte destra del capo. Durante gli accertamenti perde però conoscenza. Quindi, la corsa disperata verso Ancona con un'autoambulanza a sirene spiegate. In tarda serata è sottoposto a Tac. Le sue condizioni appaiono subito gravi tanto che i sanitari del reparto neurochirurgico lo sottopongono ad un intervento alla testa per rimuovere un grosso ematoma. Filippini subisce in seguito un secondo intervento chirurgico per l'asportazione dei residui emorragici. Il giovane non riesce ad uscire dal coma profondo in cui è caduto tanto che i medici sono pessimisti sul suo recupero: difficilmente, in caso di sopravvivenza, potrà riprendere le piene facoltà fisiche. A fare temere la sua fine imminente è il responso di un’ennesima Tac. Com'è prassi dopo un esame del genere, viene chiamato un neurochirurgo per un parere; questi però non rileva alcuna nuova lesione tale da giustificare un nuovo intervento chirurgico. Qualcosa di poco convincente, qualche leggerissimo segno d'allarme induce però i medici a fare il controllo: forse la modificazione della pupilla, un po' più dilatata. Ma nei casi come quello di Nazzareno Filippini il confine tra una situazione già gravissima e la morte è impercettibile, labile come il tracciato di un encefalogramma o di un elettro-cardiogramma. D'altronde le radiografie della scatola cranica dell'uomo mostrano un cervello ridotto in poltiglia, con i ventricoli e le anse irriconoscibili, sformati da colpi che indicano una ferocia inaudita. Il cuore di Reno cessa di battere il 17 ottobre per arresto cardiocircolatorio conseguente al progressivo deterioramento delle condizioni cerebrali che già erano gravissime. Nazzareno era un sostenitore convinto dell'Ascoli Calcio e non perdeva occasione per seguire la squadra del cuore. In gioventù era stato anche giocatore di calcio. Orfano di padre (viveva con la madre Maria, insegnante elementare), due sorelle sposate ed un fratello, Antonio, di 19 anni, aveva frequentato solo per qualche anno l'Isef ad Urbino, scegliendo poi di lavorare per la Casa Editrice Fabbri come rappresentante. Ascolano purosangue, conosciutissimo in città, molto vicino al mondo sportivo, avrebbe coronato il suo lungo sogno d'amore con la compagna Elisabetta De Benedittis proprio la settimana successiva a quella maledetta domenica. Un dramma nel dramma. Dopo difficili indagini verranno arrestati cinque ultras interisti del gruppo Viking con l'accusa di omicidio volontario: sono (Omissis), 31 anni, (Omissis), 24, (Omissis) e (Omissis), 20, tutti di Milano, e il ventiquattrenne di Reggio Emilia (Omissis). A sorpresa, nel giugno 1989 il giudice istruttore di Ancona li rimetterà in libertà per mancanza di indizi. Da nuove perizie disposte e altre testimonianze raccolte, sembra che (Omissis) e (Omissis), protagonisti di scontri fra le opposte tifoserie, fossero lontani dal luogo dell'aggressione a Filippini mentre, pur avendo partecipato alla rissa, non furono (Omissis), (Omissis) e (Omissis) a sferrare con un oggetto il colpo che uccise l’ascolano. Le nuove indagini però non porteranno ad identificare nessun colpevole lasciando di fatto gli omicidi di Nazzareno senza volto". Fonte: Ascolinoi.weebly.com"
4.06.1989
Milano, Stadio "San Siro"
Campionato di Serie A
(Milan - Roma)
Antonio De Falchi
"Un’aggressione brutale, senza spiegazioni e senza possibilità di fuga. Per Antonio De Falchi, romanista, diciannove anni, la morte è arrivata davanti ad un cancello dello stadio di San Siro alle dodici meno un quarto di una domenica qualunque, cinque ore prima dell’inizio della partita Milan-Roma. Trenta criminali travestiti da tifosi gli si sono lanciati contro dopo avere accertato che si trattava di un "nemico". L’assassinio è cominciato con un sorriso e una domanda innocente: "Scusa, hai una sigaretta ?". Antonio De Falchi era appena sceso dal tram insieme ai suoi amici, aveva percorso a piedi i duecento metri che separano il capolinea del 24 in piazzale Axum dal cancello numero 16 dello stadio di San Siro, quello da cui si imbocca la rampa che porta alla zona dei popolari riservata ai tifosi ospiti. A pochi metri dal cancello si sono visti venire incontro un ragazzo di circa diciotto anni, una faccia qualunque, una maglietta chiara, un paio di jeans. Il ragazzo chiede da fumare, Antonio però intuisce la trappola e cerca di rispondere nascondendo l’accento romano. L’altro ci riprova: "Sai che ora è ?", e Antonio: "Mancano cinque minuti a mezzogiorno". Ma stavolta la parlata romanesca gli esce netta, inconfondibile; è la sua condanna a morte. Il ragazzino in jeans ha avuto la conferma di trovarsi di fronte, ad un "nemico", si volta all’indietro e fa un gesto. Dalle spalle di una costruzione in cemento, una specie di bunker circolare che fa parte del cantiere per il terzo anello dello stadio, spuntano almeno trenta persone: sono tutti giovani, alcuni giovanissimi. Si lanciano verso i quattro ragazzi che cercano di fuggire. Mancano più di quattro ore e mezza all’inizio di Milan-Roma e intorno al "Meazza" il servizio d’ordine è ancora esiguo: una trentina di poliziotti guidati da un funzionario, che hanno il compito più che altro di bloccare i portoghesi e di evitare che durante la mattinata mazze e coltelli vengano fatti passare attraverso la cancellata. Così i primi attimi dell’aggressione, quelli decisivi, si svolgono senza che nessuno possa intervenire. I quattro romanisti in fuga vengono quasi raggiunti; gli inseguitori cercano di placcarli a sgambetti. Tre riescono a restare in piedi, Antonio cade e gli sono subito addosso in dieci. Lo prendevano a pugni e calci, sono soprattutto due di loro a picchiare di più. Antonio è diventato viola ma loro non si fermano. Il pestaggio dura meno di mezzo minuto, poi i dieci picchiatori, si riuniscono al resto del gruppo che cerca invano di acchiappare anche gli amici di Antonio.
Solo a questo punto interviene la polizia e, mentre una parte degli agenti cerca di bloccare gli aggressori, si prestano i primi soccorsi ad Antonio. Sul momento le condizioni del ragazzo non sembrano gravi: si alza in piedi da sé, sembra stordito ma non ferito e riesce persino a scambiare qualche parola con i poliziotti. Invece, all’improvviso, perde colore; diventa cianotico e crolla a terra; un agente cerca di fargli la respirazione bocca a bocca, poi un massaggio cardiaco ma non c’è nulla da fare, Antonio De Falchi è entrato in coma. In pochi minuti arriva un’ambulanza, l’ospedale San Carlo è vicinissimo: ma quello che i medici del pronto soccorso si vedono consegnare è un corpo ormai privo di vita. Il ragazzo è morto anche se il suo corpo non presenta ferite né lividi. L’autopsia successivamente dirà che De Falchi, colpito sì con pugni e calci ma senza subire nessuna grave lesione, è morto d’infarto, favorito da una lieve malformazione ad una delle coronarie. Più semplicemente si può dire che Antonio è morto di paura, sopraffatto dal terrore nel vedersi accerchiato da quelle teste rasate e dai giubbotti da aviatore, ragazzi come lui ma capaci solo di insultare e di picchiare. L’esito dell’inchiesta porterà ad un solo verdetto e a tante polemiche. La quarta sezione della Corte d’Assise condanna solo (Omissis), 20 anni, magro, cui neanche i capelli rasati riescono a dargli l’aria del duro. Era stato riconosciuto dagli amici di De Falchi e dai poliziotti. Il pubblico ministero Pietro Forno aveva chiesto la condanna a otto anni di reclusione. Ne ha avuti sette, pagherà un anticipo sui danni di 50 milioni, ma la Corte, come aveva chiesto il Pm, concederà il beneficio della remissione in libertà. A (Omissis), insomma, solo poche ore di carcere, per poi tornare a casa e riprendere il suo lavoro di fattorino. Saranno assolti per insufficienza di prove gli altri due imputati. Anche per loro l’accusa aveva chiesto otto anni. Ma nessun testimone li aveva notati nel gruppo dei responsabili dell’agguato. Uno si chiama (Omissis), 29 anni, postino, leader del Gruppo Brasato, una formazione che tifa nella curva Sud, tra le Brigate rossonere e la Fossa dei leoni. L’altro è (Omissis), 21 anni, studente di giurisprudenza, figlio di un farmacista. Una sentenza così favorevole che farà impallidire la madre di Antonio De Falchi. Suo figlio, diciannove anni, era morto domenica 4 giugno dopo l’agguato degli ultras milanisti. "E’ questa è la giustizia ? È uno schifo", dice la signora Esperia, vestita di nero. "A me questa sentenza non sta bene. Loro dovevano pagare, anche se nessuno mi può riportare il povero Antonio". Fonte: Storiedicalcio.altervista.org ("Killer da stadio: la morte di Antonio De Falchi")
9.08.1991
Rimini, Accoltellamento
Discoteca "Barcellona"
(Agguato Ultras davanti al Locale)
Luca Scio
La calda notte della riviera romagnola l’8 agosto 1991 è teatro di una tragedia assurda, figlia della "stupidità, dell'ignoranza e del razzismo" come intitolerà l’indomani il giornale partenopeo "Il Mattino". Sono circa le 3.00 del mattino a Rimini ed all’uscita dalla nota discoteca "Barcelona" due gruppi di giovani, milanesi e napoletani, si s’insultano reciprocamente in maniera pesante, anche con alcuni epiteti razzisti, rivendicando orgogliosamente la propria appartenenza a due squadre geograficamente e calcisticamente acerrime rivali, Inter e Napoli. Il buttafuori del dancing, un ex pugile, li ha allontanati con veemenza dal posto, ma essi spostandosi di qualche metro in una via adiacente vi fanno esplodere una rissa violentissima, armata di coltelli, spranghe di ferro, cacciaviti e bottiglie rotte. Fra le decine di giovani coinvolti nello scontro un milanese, Luca Scio, 16 anni, in vacanza nella località balneare e appartenente al gruppo degli ultras neroazzurri "Skin Heads", ha la peggio mortalmente, trafitto al cuore da "un punteruolo, come in un film dell'orrore", scriveranno. Il fatto accade ad un centinaio di metri dal mitico Grand Hotel nel quartiere di Marina Centro, il "salotto buono" Riminese. Fra gli accoltellati anche un 19enne napoletano, (Omissis), operato d'urgenza e fuori pericolo all'alba, ma che la Procura interrogherà sospettandolo di essere reo dell’omicidio. In sua discolpa il giovane, ferito seriamente al ventre nella colluttazione, si discolperà sostenendo la propria innocenza e di aver usato il suo cacciavite non per offendere, ma solo per "spaventare" gli aggressori. La notizia della morte del figlio, appresa al telefono, sconvolge la vita dei genitori di Luca, ignari per molte ore del fatto di sangue. Viene anche ascoltato dagli inquirenti il compagno di vacanza della vittima, (Omissis), 19 anni, in pensione assieme a lui. Dopo una prima ricostruzione degli avvenimenti, Paolo Gengarelli, il sostituto procuratore titolare dell’inchiesta, notifica tre provvedimenti: la custodia cautelare per "omicidio" al (Omissis), "rissa aggravata e tentato omicidio" nei confronti di un minorenne milanese, (Omissis), trasferito subito nel carcere minorile di Bologna e la notifica di "rissa aggravata" anche al (Omissis), ferito all’orecchio negli scontri e soccorso nello stesso ospedale. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
10.01.1993
Bergamo, Viale "Giulio Cesare"
Campionato Italiano di Serie A
(Atalanta - Roma)
Celestino Colombi
"Il 10 gennaio 1993 è purtroppo diventata una data tristemente famosa. Quel giorno infatti dopo la partita Atalanta- Roma perse la vita Celestino Colombi, 41 anni. La partita è finita, i tifosi romanisti sono già stati riportati in stazione, dove stanno per prendere il treno per tornare nella Capitale. Tutto liscio. Quando improvvisamente, e senza alcun motivo, la celere di Padova (di servizio quel giorno a Bergamo) decide di caricare gli ultrà bergamaschi rei di trovarsi al loro solito baretto a bere qualche birra. Durante queste cariche, 3 poliziotti si trovano davanti Cestino Colombi, che passava di lì assolutamente per caso (era appena uscito da una seduta con lo psicologo). Minacciano con i manganelli il malcapitato, il quale preso dal panico si accascia a terra e muore per arresto cardiaco. Celestino, va ricordato, non frequentava lo stadio. Aveva un passato da tossicodipendente. La questura si limitò ad uno scarno comunicato in cui si sottolineava la sua condizione di tossico, quasi a voler dire "tanto sarebbe morto lo stesso". I giornali sportivi, e non liquidarono la notizia con poche righe, parlando genericamente di "scontri fra tifosi" (con i romanisti che avevano già abbandonato la zona dello stadio) e di "cariche di alleggerimento" da parte della celere. Per la prima volta un gran numero di tifoserie di serie A (e qualcuna anche di serie minori) misero da parte le rivalità (che nei primi anni ’90 erano ancora molto forti e quasi "invalicabili") per portare avanti un’iniziativa comune di solidarietà. E così all’unisono in molte curve (Bergamo in primis, ma anche Roma, Lazio, Milan, Fiorentina, Genoa, Sampdoria, ecc.) per una domenica sparirono i consueti striscioni per far spazio ad un unico telo raffigurante la frase: "10-01-1993: LA MORTE E’ UGUALE PER TUTTI !". Fu un numero ridotto di tifoserie a partecipare all’iniziativa, ma quasi tutte profondamente rivali fra di loro. Ancora adesso, e la nostra curva lo farà anche domenica, in occasione della ricorrenza, viene esposto uno striscione a ricordo dell’accaduto". Fonte: Atalantini.com (10 gennaio 1993 - La morte è uguale per tutti) - Fonte Foto di Celestino Colombi: Giornalino Curva Nord 10/01/2016 (NDR: Si ringrazia vivamente)
30.01.1994
Acireale, Sciagura Ferroviaria
Intercity "Archimede" Siracusa-Roma
(Ragusa-Messina)
Salvatore Moschella
Salvatore Moschella, ventiduenne disoccupato di Melilli, in provincia di Siracusa, stava andando a Bologna da un amico che lo avrebbe aiutato a cercare un lavoro, magari un posto da ragioniere invano cercato in Sicilia. Domenica sera del 30 gennaio 1994 era salito sull'espresso Siracusa-Roma delle 18.50, lo stesso treno preso da una quarantina di tifosi del Messina al ritorno da una partita di calcio del campionato nazionale dilettanti, il derby a Ragusa, pareggiato 1-1. Fra i tifosi spicca un gruppetto di ultras più esagitati che incominciano ad infastidire alcuni viaggiatori, compreso il Moschella, cacciato a male parole via dallo scompartimento in cui è seduto insieme ad una giovane immigrata di colore e ad un militare di leva. Prova ad opporsi al sopruso, ma riceve in cambio soltanto spintoni, pugni e calci. Liberato insieme agli altri il posto, pare essere finita lì, se non fosse che quelli incominciano a molestare una ragazza al telefono nel corridoio. Salvatore generosamente prova a difenderla, ma è nuovamente picchiato con brutalità dal gruppetto di delinquenti, fino all'intervento di alcuni passeggeri che lo sottraggono all’assalto. A Catania finalmente può intervenire la Polizia ferroviaria per ristabilire la calma e compiere qualche accertamento di rito. Alcuni viaggiatori angustiati dal clima di tensione cambiano treno, invece Salvatore decide di proseguire il viaggio sull’intercity "Archimede" Siracusa-Roma Termini, ma anche di cambiare carrozza. Una volta ripartito il treno i famigerati tifosi lo cercano per un raid punitivo nel quale, dopo averlo trascinato di forza e segregato dentro uno scompartimento vuoto di una carrozza semideserta, lo pestano selvaggiamente. Un chilometro e mezzo prima della stazione di Acireale, approfittando di un rallentamento del treno (circa 50-60 Km orari) l’istintiva disperata azione di fuga di Salvatore, provato fisicamente e psicologicamente dalle sevizie del branco: arrampicandosi sulla grata del portabagagli salta giù dal finestrino, ma sbattendo contro un palo della ferrovia, il suo corpo è risucchiato sotto le rotaie del treno che ne dilaniano il corpo. Alla stazione di Acireale alcuni testimoni oculari segnalano alle forze dell’ordine i fatti e, purtroppo, dopo una breve ricerca, la polizia scopre di notte il cadavere martoriato del povero ragazzo in una pozza di sangue sui binari della tratta ferroviaria. A Messina, intanto, arrivano gli scalmanati tifosi che vengono identificati uno ad uno, qualcuno condotto in questura per accertamenti, fra questi 5 in posti in stato di fermo, 3 maggiorenni e due minorenni, con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Per la loro imputazione fondamentali le testimonianze e il riconoscimento di alcuni passeggeri che si trovavano accanto allo scompartimento dove si è consumata la tragedia. L’indomani Salvatore verrà pietosamente riconosciuto dal padre, un sindacalista della Cgil di Siracusa, nell’obitorio di Acireale. Di lui i familiari raccontano di "un ragazzo tranquillo, maturo, per niente attaccabrighe, ma non disposto a subire aggressioni" e che "Il calcio non lo interessava, piuttosto preferiva la musica e le discoteche". A Messina i club organizzati della tifoseria locale prendono nette le distanze dagli imputati ed esprimevano il loro rammarico per quanto accaduto. Per tutta la durata del processo, al fine di ottenere l’immediata scarcerazione dei colpevoli e pene più miti in giudizio, la difesa gioca come sue uniche carte a disposizione la derubricazione del reato da omicidio preterintenzionale a omicidio colposo e una presunta "fragilità psichica del giovane" che in passato avrebbe sofferto di "esaurimento nervoso". Questa tesi non è accolta favorevolmente dalla prima sezione della Corte d'Assise di Catania che emette il verdetto, dopo 4 ore di camera di consiglio, condannando a "dieci anni di reclusione e tre di sorveglianza speciale" i tre tifosi messinesi rei delle brutali ripetute aggressioni: (Omissis), 26 anni, (Omissis), 24 anni, e (Omissis), 20. Gli altri due imputati assenti, essendo minorenni, verranno giudicati a parte. In tribunale i parenti degli imputati scatenano il caos inveendo contro la corte e la famiglia Moschella, costituitasi parte civile al processo. Un giornalista, fermando nel corridoio del Palazzo di Giustizia di Catania il padre di Salvatore, Giuseppe Moschella, gli domanda: "Soddisfatto per questa sentenza ?"… "Che vale ? Nessuno potrà riportarmi mio figlio". Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
5.07.1994
Ercolano, Festa Vittoria Nazionale
Campionato del Mondo USA 1994
(Italia-Nigeria)
Salvatore Oliva
Al fischio finale di una delle partite più drammatiche della storia della nazionale di calcio italiana, Italia-Nigeria, prolungata ai supplementari e risolta dalla vena geniale di Roberto Baggio, uno degli azzurri più grandi di sempre, esplode la festa in tutta Italia, quasi come una liberazione dopo l’incubo "nero" patito per 120 minuti dai possenti valorosi africani. Anche nei vicoli di Pugliano, quartiere povero e malfamato di Ercolano ed in tutta la provincia di Napoli la gioia è davvero incontenibile, rasentando la follia collettiva: infarti, tamponamenti, risse. Salvatore Oliva che ha festeggiato da poco tempo il suo settimo compleanno è da solo in casa di suo cugino (Omissis), sedicenne, e delle sue sorelline che giocano nella stessa stanza. Sono euforici per la vittoria e incantati dal fragore dei petardi e dei clacson assordanti in strada, dei cori, delle trombette rosse ad aria compressa. Questo clima esalta (Omissis) che sale su una sedia a prendere la scatola posta sull'armadio dove suo padre conserva una Beretta calibro 7.65, regolarmente denunciata. Incredibilmente, l'arma è già carica e con il colpo in canna. La dinamica non è ben chiara, ma il ragazzo in qualche modo ha sparato un proiettile che prima trafigge mortalmente il cuginetto al cuore e poi si è incastrato contro un muro dell’appartamento. Accorrono i genitori di entrambi che scoprono con orrore la tragedia dopo che già hanno sentito esplodere il colpo salendo le scale. (Omissis) getta la pistola per terra e fugge sconvolto, sua madre raccoglie il nipote Salvatore esanime da terra e risulta vano lo slalom tra le automobili dei tifosi in marcia con le bandiere nella corsa d’urgenza all’ospedale "Loreto Mare" di Napoli. La mamma della vittima, Anna, casalinga ed incinta di cinque mesi e suo marito Alberto, di professione muratore, resteranno a vegliare per tutta la notte il corpicino del figlio nella saletta dell’obitorio del nosocomio. Due famiglie oneste travolte da una disgrazia impensabile in un giorno di festa. Lo zio (Omissis) sarà denunciato per "omessa custodia e trasporto illegale della pistola", (Omissis) per omicidio colposo. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
29.01.1995
Genova, Quartiere "Marassi"
Campionato Italiano di Serie A
(Genoa - Milan)
Vincenzo Claudio Spagnolo
"La mattina del 14 dicembre 2006 - una mattina fredda e grigia - i cancelli del carcere torinese delle Vallette si aprirono e ne uscì Simone Barbaglia, trent’anni, una vita affogata nel fallimento ancora prima che iniziasse. Questa è la storia sua e del ragazzo cui aveva tolto di colpo la vita quasi dodici anni prima, una domenica pomeriggio che c’era Genoa-Milan. La mattina del 29 gennaio 1995 - una mattina fredda e grigia - Simone Barbaglia, diciotto anni, esce di casa per andare a prendere il treno delle 11:05 che lo porterà da Milano a Genova. Abita in via (Omissis), un palazzo di otto piani all’incrocio con via delle Forze Armate. Vive con la mamma Manuela e il patrigno Norberto che gli hanno dato un fratellino, Diego, di undici mesi. Ha lasciato a metà l’istituto tecnico e ora fa l’apprendista giardiniere; ha un fisico minuto e alla visita militare l’hanno riformato per un qualche sintomo depressivo. Non fuma e non beve. Indossa un giaccone verde scuro marca Barbour e si porta dietro un coltello a farfalla, di quelli con il manico che si apre in due e si chiude su una lama di undici centimetri. Gliel’ha prestato il suo amico (Omissis), che nonostante abbia ancora 17 anni vanta già una discreta collezione privata di lame. Simone avrebbe voluto comprarsene uno tutto suo, ma tre giorni prima la puntata al negozio di caccia e pesca in via Pisanello è andata a vuoto: il negoziante gli ha detto "Noi non trattiamo questo genere di articoli" e quindi bòn, tanti saluti. La mattina del 29 gennaio 1995 Vincenzo Spagnolo, venticinque anni, per gli amici "Claudio" o "Spagna", si sveglia a metà mattinata e se la prende comoda. Abita a Genova in via Digione, zona San Teodoro, quartiere popolare vicino al porto. Vive con il papà Cosimo, la mamma Calogera e le sorelle Maria Grazia e Romina, ma fino al mese prima ha lavorato in Sardegna come agente immobiliare per conto di un parente. Grande e grosso, gioviale, appassionato di musica ska, frequenta il centro sociale Zapata e con i suoi amici ama andare allo stadio a vedere il Genoa, specialmente oggi che arriva il Milan che a Marassi se la vede sempre brutta, visto che non vince da 13 anni. Poco prima dell’una esce di casa. Lo incontra un vicino: "Dove vai ?". "Allo stadio, speriamo di non prenderle". Simone Barbaglia sale sull’Intercity e incontra i suoi amici di curva, compreso (Omissis). Si riconoscono tra di loro perché indossano tutti lo stesso giaccone della stessa marca e infatti sono "quelli del Barbour". Sono un piccolo gruppetto all’interno di un gruppetto un po’ più grande, le Brigate Rossonere 2, che a sua volta è una costola distaccata delle Brigate Rossonere originali e in tutto sono una quarantina di persone. Non è dato sapere la dinamica di questo distacco: c’è chi dice che se ne siano andati loro, c’è chi dice che le Brigate li abbiano emarginati per colpa di qualche capetto piuttosto rissoso e fumantino. L’idolo di Simone, l’uomo da cui sogna di essere notato e preso in simpatia, non è Maldini né Franco Baresi, bensì il capo delle Brigate 2: si chiama (Omissis), ha trentun anni, è laureato in economia e commercio e - per la sua abilità e precisione di coltello - è soprannominato il Chirurgo. Mentre tutti i gruppi principali del tifo rossonero sono partiti con il treno speciale delle 10, quello scortato dalla polizia, le Brigate 2 sono partite "in borghese" un’ora dopo. Tre giorni prima hanno deciso a tavolino il piano del colpo grosso che li farà diventare rispettabili agli occhi della curva Sud: arriveranno inosservati a Brignole e percorreranno a piedi i 1500 metri che separano la stazione da Marassi, possibilmente devastando tutto ciò che trovano di rossoblù lungo il tragitto e - gran finale - sfilando sotto la Gradinata Nord genoana. Lì probabilmente scatterà la colluttazione e arriveranno i tanto attesi "tagli", i colpi di coltello da sferrare (e possibilmente non ricevere) in punti non vitali (glutei, gambe, ginocchia…) per essere promossi sul campo come nuovo gruppo emergente della curva. Il treno arriva puntuale alle 13:15. Simone è uno dei tanti, senz’altre qualità rilevanti che non siano l’entusiasmo di poter recitare da protagonista in una scorribanda del genere. A tirare le fila della spedizione sono i Brasati, la fazione più attiva all’interno delle Brigate 2: c’erano loro anche dietro all’agguato che era costato la vita al 19enne tifoso romanista Antonio De Falchi il 4 giugno 1989. Tutto procede come da copione anche se la voglia di fare un po’ tracima: un ragazzo di passaggio viene ferito alla testa con una cinghiata, forse viene anche danneggiata la sede di un Genoa Club. Arrivano davanti al Ferraris che la voce si è già sparsa e gli ultrà genoani sono molti più del previsto. Parte la prima carica genoana, i milanisti arretrano e finiscono in una specie d’imbuto, quando quelli delle file davanti decidono di sguainare i coltelli e ordinano un’improvvisa inversione di marcia: all’attacco. Simone è in fondo al gruppo e si ritrova di colpo lancia in resta davanti a tutti. Non c’è tempo per pensare. I genoani sono a mani vuote ma Vincenzo Spagnolo è grande e grosso e ritiene di poter mangiarsi in un boccone il piccolo Simone; gli si lancia addosso per disarmarlo e riceve una fortissima coltellata allo stomaco, che gli squarcia l’addome e lo fa crollare a terra privo di sensi. Subito scappano tutti. All’interno del settore ospiti, occupato da 923 tifosi milanisti, la notizia arriva in ritardo. Si è saputo degli scontri e partono i cori di rito: "Solo dei tagli, avete solo dei tagli". Poi più macabri: "Uno di meno, voi siete uno di meno". Si riferiscono al ricovero in ospedale, il peggio non è ancora contemplato. Ma Vincenzo Spagnolo muore sull’ambulanza a metà primo tempo e pochi minuti dopo dalla Gradinata Nord sale il coro che gela il sangue: "Assassini, assassini". Non c’è tempo per pensare. Viene messa in piedi una specie di unità di crisi: quelli delle Brigate 2 mischiano i vestiti e i biglietti del treno per depistare le procedure di identificazione; Simone nasconde il coltello insanguinato in una scatola di cartone in un angolo del settore ospiti e scambia il suo Barbour verde con quello blu del suo amico (Omissis), 19 anni. La curva del Genoa è imbestialita e impedisce ai giocatori di iniziare il secondo tempo; contemporaneamente i tifosi rossoblù coltivano l’insano proposito di sfondare le vetrate divisorie e invadere il settore ospite, ma fortunatamente il plexiglas regge. Sono immagini terribili e sconfortanti che la tv manda in diretta su Rai3 con "Quelli che il calcio" che decide di interrompere la trasmissione: i secondi tempi verranno seguiti con le sole voci dei radiocronisti di Tutto il Calcio Minuto per Minuto a fare da sottofondo a uno studio vuoto. Al colmo dell’isteria, gli ultrà genoani si impadroniscono di un idrante impazzito e sparano acqua a caso sugli spalti che vanno via via svuotandosi. Non potendo sfogarsi all’interno dello stadio, il caos dilaga fuori con la polizia che assiste inerme, inadeguata a far fronte a una sequenza impressionante di roghi, cariche e controcariche. Arriva perfino il sindaco Sansa col megafono, niente da fare. La guerriglia termina a tarda sera, più per stanchezza e frustrazione che per una qualche soddisfazione personale. Insieme a tutti gli altri tifosi del Milan barricati a Marassi, Simone esce dallo stadio a mezzanotte inoltrata, con tutti gli organi del corpo scollegati dal cervello. Come tutti anche lui è stato fotografato e identificato, ma probabilmente non se n’è neanche accorto. Con loro riparte a notte fonda in autobus, debitamente scortati dalla polizia. Arriva a Milano all’alba e sta per pigiare il tasto "Barbaglia" sul citofono del palazzo di via (Omissis), quando arrivano i carabinieri. I suoi genitori naturalmente hanno saputo cos’è successo, ma conosceranno l’identità dell’assassino solamente dal telegiornale dell’una e mezza. L’interrogatorio va via veloce, dopo un’ora Simone crolla e gli indica dove ha nascosto il coltello. Carcere a Chiavari, processo di primo grado, prima condanna, prima scarcerazione, seconda condanna, condanna definitiva: il 2 ottobre 2001 la Cassazione gli infligge 14 anni e 8 mesi. Tanto tempo per pensare, finalmente, per esempio a quello che c’è scritto nella sentenza: "Barbaglia agì sulla spinta di una miscela esplosiva di odio, rancore, rabbia e paura. Vincenzo Spagnolo avanzava verso il milanista a mani nude. Non si buttò sul coltello ostentato dall’avversario: fu Barbaglia a sferrare una decisa e violenta coltellata al tronco della vittima". Tra indulto, benefici vari e sconti di pena per buona condotta, esce dal carcere a fine 2006. Adesso ha 36 anni ed è un uomo libero, se libere si possono definire una mente e un’anima tormentate da un fantasma giovane, grande, grosso e molto rumoroso. "Perché Savicevic non stava giocando ?", gli chiese al primo interrogatorio il pubblico ministero Massimo Terrile, casualmente anche lui milanista. "Ehm, era infortunato ?". "Sbagliato, era squalificato". Si dice che molti ragazzi vedano il calcio, la fede sportiva e la curva come rifugio da una vita triste e squallidamente vuota. Ma forse Simone Barbaglia non era neanche milanista". Fonte: Comunquemilan.it (Da "Giornataccia" di Giuseppe Pastore - 7.03.2013) - © Fotografia: Cittadigenova.com
4.05.1997
Salerno, Stadio "Arechi"
Campionato Italiano di Serie A
(Salernitana-Brescia)
Roberto Bani
Un pomeriggio di maggio del 1997 sancisce un gemellaggio storico e duraturo fra due tifoserie molto calde nel panorama calcistico italiano. Purtroppo, però, nasce da un evento tragico vissuto con umana solidarietà dalla gente di Salerno. I tifosi bresciani prima della partita sono stati accolti con rispetto dai salernitani nei luoghi di transito verso lo stadio, nessuno scontro e provocazione, c’è stima reciproca. Alla fine del primo tempo, invece, durante l’intervallo della partita, nel settore ospiti dello stadio "Arechi" scoppia una lite accesa fra alcuni tifosi bresciani in trasferta. La loro squadra non sta giocando bene, si discute animatamente, volano parole grosse. A causa di una spinta ricevuta nel diverbio Roberto Bani perde l’equilibrio e accidentalmente vola giù dagli spalti per tre metri battendo violentemente il capo su un gradone prima del fossato che separa la tribuna dal campo. La partita è sospesa qualche minuto per prestare il soccorso dei medici, ma viene trasportato d’urgenza in condizioni disperate nel reparto di rianimazione dell’ospedale "San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona" a Salerno. Entrato in coma profondo vi muore alcuni giorni dopo, il 10 maggio 1997. I suoi familiari autorizzano l'espianto di cuore, reni e fegato. I tifosi della Salernitana generosamente si sono prodigati nella loro assistenza durante il ricovero di Roberto. Questo gesto meraviglioso battezza un gemellaggio fra le due tifoserie che è ancora oggi presente. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
1.02.1998
Treviso, Stadio "Monigo"
Campionato Italiano di Serie B
(Treviso - Cagliari)
Fabio Di Maio
"Tragedia allo stadio Monigo alla fine della partita tra Treviso e Cagliari: c’è stato un contatto tra le tifoserie, una sassaiola, una carica della polizia e alla fine è rimasto per terra Fabio Di Maio, 32 anni, un tifoso storico dei tempi in cui il Treviso era ancora nell’Interregionale, amico dei giocatori, una figura conosciuta in città. E ritorna il ricordo di Vincenzo Spagnolo, il genoano accoltellato nel gennaio '95 o di Nazzareno Filippini, l’ascolano morto negli scontri con gli ultrà interisti nell’88, le storie italiane delle domeniche allo stadio, quando dal nulla appare la violenza e la morte. Gli incidenti sono cominciati all’uscita, nella zona opposta al piazzale delle biglietterie, tra le curve e i popolari. Il Cagliari aveva vinto, il gruppo dei tifosi sardi festeggiava, non più di una trentina. Si sono ritrovati contro un gruppo di ultrà del Treviso, sono partiti gli insulti e poi qualche sasso, è intervenuta la polizia per separarli, c' è stata qualche carica, nella fuga Di Maio si è accodato al gruppo dei suoi compagni di tifo, un centinaio, che tentava di disperdersi. Secondo le testimonianze di altri spettatori, non era in prima fila negli incidenti, ma ha seguito il movimento di tutti. Improvvisamente si è accasciato al suolo, in un momento in cui la tensione tra le due tifoserie si era anche un po' alleggerita. Il giovane è stato attorniato da alcuni amici, che hanno chiesto aiuto e telefonato al 118 dell’Ospedale. Nell’attesa che l’ambulanza arrivasse è stato soccorso da due agenti e da un medico che era andato ad assistere la partita, che hanno tentato un massaggio cardiaco sull’asfalto. Il referto medico del nosocomio trevigiano parla di morte improvvisa, quasi sicuramente un infarto. Fabio Di Maio aveva leggere abrasioni sul palmo della mano e a un ginocchio che facevano pensare a una colluttazione, il sospetto era che la morte potesse essere la conseguenza di un pestaggio, da parte dei tifosi avversari o della polizia. Ma il questore di Treviso, Armando Zingales, riportando le osservazioni dei medici, le ha descritte come ferite dovute alla caduta, al momento del malore. "Non c' è niente che faccia pensare a un evento traumatico", dice il referto. Ma i tifosi e la stessa società parlano di un ritardo nell’arrivo dell’ambulanza. Fabio Di Maio era di Dosson di Casier, un paese a pochi chilometri a sud di Treviso ma ora viveva con la compagna nel quartiere di Santa Maria del Sile. Non era conosciuto come un ultrà particolarmente acceso ma lo scorso anno aveva subito un’interdizione dallo stadio per sette mesi. Frequentava un club del centro e poi qualcuno dei tanti bar dove parlare di calcio (o di rugby) è un’occasione per un giro di "ombre", di bicchieri di vino. Questa era una delle prime partite cui assisteva in questa stagione, la prima del Treviso in serie B. Lavorava come magazziniere in una ditta di confezioni. Il padre è molto conosciuto perché gestisce l’edicola all’interno dell’ospedale Ca' Foncello. Sembra che Di Maio avesse una storia personale di cardiopatia, i medici dell’ospedale hanno parlato addirittura di una miocardiopatia cronica. Nonostante questo, Di Maio era molto attivo e non solo nello sport visto ma anche in quello praticato, essendo anche un istruttore di nuoto allo Sporting Club Zambon. La sua morte ricorda quella di Antonio De Falchi, un diciottenne tifoso della Roma, morto all’esterno di San Siro nel giugno '89, per una crisi cardiaca, dopo un’aggressione degli ultrà milanisti. Ma in questo caso sembra che il contatto con gli ultrà cagliaritani neanche ci sia stato. Il questore Zingales ha denunciato il degenerare di una tifoseria tranquilla che negli ultimi tempi, specialmente in occasione dei derby con Venezia e Verona, ha dato il via a incidenti (ha collaborato Andrea Passerini)". Fonte: La Repubblica 2.02.1998 ("Domenica di violenza" di Corrado Sannucci) (NDR: Allo stesso Fabio Di Maio sarà poi intitolata la curva degli ultras trevigiani nello stadio "Tenni" di Treviso che in quella stagione restò chiuso per impraticabilità)
24.01.1999
La Spezia, Stadio "Alberto Picco"
Campionato Italiano di serie C2
(Spezia - Pisa)
Maurizio Alberti
"(Omissis) ...Era il 24 gennaio 1999, la partita fu sospesa dopo soli 8 minuti per i gravi incidenti provocati dai tifosi spezzini, infuriati per essere stati "sfrattati" dalla loro curva. Il giovane fu colpito da un infarto. Era da tempo cardiopatico e fu soccorso in ritardo: la concorde testimonianza dei numerosi amici attestò che all'inizio i soccorritori sottovalutarono l'entità del malore, pensando a torto che Maurizio fosse sotto l'effetto di alcool o altro. E così, quando fu trasportato in ospedale, le sue condizioni erano ormai gravissime. In realtà il povero Maurizio non si riprese mai più e morì dopo due settimane di agonia. Le indagini sul tragico episodio furono condotte dalla polizia di Spezia, e a Pisa dalla Digos su sub-delega degli inquirenti liguri. Per diverse settimane furono chiamati a testimoniare tutti coloro che si trovavano con Maurizio allo stadio "Picco", e gli atti furono quindi trasmessi a Spezia. Impossibile sapere con certezza come stiano le cose, ma a tanti anni dall'accaduto, la storia parla di un'archiviazione nonostante la lunga battaglia dei genitori e degli amici affinché fossero trovate le vere cause della morte.  "Il problema più grave - hanno affermato - è che fatti di questo tipo possono ripetersi sempre: allo stadio, chi va in curva è ancora un cittadino di serie inferiore...(Omissis)". Fonte: Iltirreno.gelocal.it  26.04.2010 ("Nel 1999 la morte di Mau" di A.Sc.)
24.05.1999
Salerno, Galleria Santa Lucia
Rogo Treno 1681 "Piacenza-Salerno"
(Piacenza - Salernitana)
Ciro, Peppe, Enzo e Simone
     
Ciro Alfieri   Giuseppe Diodato   Vincenzo Lioi   Simone Vitale
"SALERNO - Tifosi scatenati tra le fiamme: potrebbe essere stato l'ennesimo atto vandalico degli ultras della Salernitana a provocare l'incendio e la morte di quattro giovani, sul treno speciale che riportava a casa 1.500 sostenitori, dopo l'ultimo incontro giocato ieri pomeriggio a Piacenza, che ha decretato la retrocessione della squadra campana in serie B. Un viaggio che si è concluso tragicamente. Solo nel pomeriggio sono stati identificati i corpi, carbonizzati nel rogo: due delle vittime avevano appena quindici anni, Vincenzo Lioi e Ciro Alfieri. Gli altri due ragazzi sono Simone Vitale, 21 anni, giocatore della squadra di A2 di pallanuoto Rari Nantes Salerno, ex vigile del fuoco e Giuseppe Diodato, 23 anni, riconosciuto anche lui attraverso l'esame dei vestiti e delle scarpe. L'incendio, di cui ancora non si conoscono le cause, sarebbe stato provocato dagli stessi tifosi che viaggiavano sul treno speciale di ritorno partito ieri sera alle otto da Piacenza, in prossimità della stazione di Salerno, per evitare di essere identificati dalla polizia al loro arrivo. Il bilancio è purtroppo provvisorio: le fiamme sono divampate all'interno di una galleria, scatenando il panico tra i passeggeri che, probabilmente, hanno tentato la fuga gettandosi dai finestrini mentre il treno era in corsa. Il treno è uscito dalla galleria in condizioni disastrate, non solo per le fiamme. L'intero viaggio del treno speciale Piacenza-Salerno, con circa 1.500 tifosi a bordo, che sarebbe dovuto arrivare a destinazione alle sette di questa mattina, è stato infatti accompagnato da disordini dei fan della Salernitana, agitati per la retrocessione in serie B. Viaggiatori scatenati che hanno provocato ritardi nel tragitto, l'ultimo dei quali alla stazione di Nocera Inferiore, quando hanno tirato il freno e sono scesi dal convoglio, cercando invano ulteriori scontri con gli storici rivali della Nocerina. Dalle testimonianze di alcuni tifosi e del personale delle Ferrovie in servizio a Nocera Inferiore emerge che gli atti di vandalismo sono avvenuti esclusivamente sul treno. Alcuni tifosi della Salernitana hanno divelto sediolini, rotto vetri e hanno scagliato pietre raccolte sulla massicciata anche contro un treno fermo sul terzo binario, in attesa di partire, e nel quale vi erano viaggiatori che si sono riparati all'interno del convoglio per evitare danni. Dopo essere stato fermo per un'ora, il treno speciale è ripartito ma, mentre percorreva la lunghissima galleria di Santa Lucia, ha preso fuoco. L'incendio, secondo quanto è stato accertato, si è sviluppato per cause non ancora precisate, all'interno della carrozza numero cinque mentre il treno imboccava il tunnel, lungo una decina di chilometri. Dalla carrozza sono stati estratti i quattro corpi completamente carbonizzati, mentre numerosi passeggeri si sono fatti assistere dai sanitari per intossicazioni e ferite varie riportate mentre cercavano di raggiungere l'uscita della galleria. Una ventina i feriti: sette tifosi e due agenti di polizia in servizio di scorta al convoglio sono ricoverati in ospedale, a Salerno. La maggior parte dei feriti presenta segni di intossicazione da ossido di carbonio, alcuni lesioni provocate dalla caduta dal treno dal quale si erano lanciati per sfuggire alle fiamme ed al fumo. Per due degli intossicati si è resa necessaria la terapia in camera iperbarica. Le condizioni di uno di loro sarebbero molto gravi. Le fiamme, stando a quanto hanno raccontato alcuni testimoni, si sarebbero sviluppate proprio quando il convoglio ha imboccato la lunga galleria ferroviaria. Secondo alcuni testimoni, uno dei viaggiatori, che si trovava nella seconda carrozza, avrebbe azionato il segnale d'allarme e il macchinista, per evitare che il treno rimanesse bloccato tra le fiamme all'interno della galleria, avrebbe proseguito lentamente fino all'uscita del tunnel. Una volta fuori dalla galleria si è riusciti a staccare la motrice con le prime carrozze dal resto del convoglio che, però, è rimasto all'interno. Il treno ha quasi tutti i finestrini rotti: non si sa se per atti vandalici o se distrutti dai passeggeri in preda al panico che hanno tentato di raggiungere correndo, nel fumo intenso, l'uscita del tunnel. Alle scene di panico tra i viaggiatori si sono aggiunte, poi, quelle drammatiche della disperazione dei parenti dei tifosi giunti nella stazione di Salerno appena si è diffusa la notizia dell'incendio. Sul posto, oltre ai vigili del fuoco, si sono recati il Prefetto e il Questore". Fonte: Repubblica.it 25.05.1999 ("Rogo sul treno per tifo scatenato, quattro morti")
17.06.2001
Messina, Stadio "Giovanni Celeste"
Play-Off del Campionato di Serie C1
(Messina - Catania)
Antonio Currò
Il 17 giugno 2001 nel campionato di Serie C1 a Messina si gioca un derby drammaticamente decisivo fra la squadra di casa ed il Catania, valido per i play-off di promozione in serie B. Tra i sostenitori delle due squadre prima dell’inizio della gara c’è moltissima tensione ed incomincia un fitto lancio di oggetti fra le tifoserie. I catanesi scagliano una bomba-carta in Curva Nord, nel settore occupato dai tifosi giallorossi, la quale esplode fragorosamente proprio davanti ad Antonino Currò, un giovane tifoso messinese di 24 anni. Ferito gravemente alla testa dallo scoppio dell’ordigno finisce in rianimazione e nonostante un intervento e le cure dei medici muore al Policlinico di Messina dopo 15 giorni di coma. Effettuate le indagini la polizia arresta un minorenne tifoso del Catania, accusato del lancio mortale del petardo, ma la tesi dell’accusa verrà smontata dai filmati visionati dalla magistratura nei quali si appurò che il gesto compiuto dall'ultrà diciasettenne sugli spalti non corrispondeva nei suoi tempi all’azione omicida e che l'indagato non era in possesso di alcun oggetto esplodente. Di fatto nessuno sarà mai punito per la tragica morte di "Nino", nonostante la dignitosa presa di posizione della sua famiglia che rivendicava una meritoria azione di giustizia per il proprio caro. Nel 2019 la famiglia sarà risarcita, al termine di una lunga causa di 14 anni. A pagare: Lega Calcio, responsabile dell’organizzazione della partita contro il Catania, F.C. Peloro, gestore dell’impianto e il Comune di Messina, titolare dello Stadio "Celeste". Si appurerà, quindi, che la morte del giovane era evitabile se i sistemi di sicurezza dello stadio fossero stati a regola. La barriera di sei metri realizzata dalla società all’epoca non bastava a proteggere adeguatamente l’incolumità dei tifosi così come previsto dalla Commissione prefettizia di sicurezza e vigilanza. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it - Fotografia Antonio Currò: Pianetamessina.com
20.09.2003
Avellino, Stadio "Partenio"
Campionato Italiano di Serie B
(Avellino - Napoli)
Sergio Ercolano
Il 20 settembre 2003 la squadra partenopea gioca in trasferta ad Avellino un derby, come di tradizione e nonostante la serie cadetta, molto sentito dalle due tifoserie campane. L’atmosfera è elettrica per gli avellinesi che attendono da moltissimi anni questa partita con un orgoglioso spirito di rivalsa sportiva e non solo (Non si giocava da sedici anni, dal campionato in serie A del 1987/88). Dalla Sud lanciano alcuni fumogeni in campo e cori contro la città di Napoli. La situazione è molto tesa ed in sala stampa si teme che la situazione sfugga di mano agli organi preposti alla sicurezza. Nel settore ospiti i tifosi napoletani sono giunti in numero maggiore rispetto ai biglietti venduti (pare un migliaio in più) e spingono per entrare dentro lo stadio creando moltissima ressa e scontrandosi con la polizia in assetto da combattimento. Nella confusa guerriglia in atto il ventenne tifoso azzurro di San Giorgio a Cremano, Sergio Ercolano, alla sua seconda trasferta, cerca di sfuggire alle cariche indiscriminate della celere. Preso dal panico si arrampica su una tribuna e salta (o è spinto ?) giù su una tettoia di plexiglass che non ne regge il peso lasciandolo precipitare in un fossato dove perde conoscenza e resta in fin di vita per le gravissime ferite riportate nel volo da dieci metri di altezza (un forte trauma cranico e lesioni agli organi interni). I tardivi e difficoltosi soccorsi al giovane tifoso (quasi mezz’ora per trovare le chiavi del cancelletto d’ingresso al fossato dove era caduto), purtroppo inutili, suscitarono rabbia e un feroce desiderio di vendetta negli Ultras partenopei che invasero il campo, picchiando e bastonando le forze dell’ordine e distruggendo qualunque oggetto a vista. La partita per scontati motivi di ordine pubblico non fu più disputata (sarà assegnata la vittoria a tavolino per 3-0 all’Avellino). Sergio morirà due giorni dopo nel reparto di rianimazione all’Ospedale "San Giuseppe Moscati" di Avellino per arresto cardiocircolatorio. "Non si può morire così, non si può morire per una partita di calcio" continuava a ripetere sua madre Carmela all’obitorio. "Sergio era un ragazzo per bene, un ragazzo che lavorava e che non ha mai aderito a gruppi di ultrà": diceva alla stampa il legale della famiglia Maurizio Capozzo. "Era venuto allo stadio Partenio con due amici a bordo di un'auto privata e ha cercato solo scampo dalla ressa, solo una via di fuga". (Proprio gli amici dissero che aveva acquistato un biglietto per la Tribuna "Terminio" dai bagarini al Partenio). Non verrà mai fatta giustizia per la sua tragica fine: nessuna inchiesta più approfondita per appurare le responsabilità della sicurezza allo stadio e sulla prevendita dei tagliandi agli ospiti, cause primarie della sua morte, ma soltanto numerosi fermi e interrogatori per i tafferugli con le forze dell’ordine fuori e dentro il campo nel pre-partita. Dopo 17 mesi le indagini del gip Daniela Cortucci scagionarono Comune e Unione Sportiva Avellino dall’accusa di omicidio colposo. L’altro procedimento civile non risarcì economicamente la famiglia Ercolano, poiché riconobbe l’Avellino soltanto responsabile della struttura, ma non della morte del ragazzo. Infatti la XII sezione civile del tribunale di Napoli sentenziò: "In tale situazione di estremo disordine e violenza si pone il comportamento abnorme dell’Ercolano che - o per entrare nello stadio eludendo i controlli o per trovare una via di fuga per sottrarsi alla guerriglia tra tifosi - scelse autonomamente e consapevolmente di percorrere una strada che, per tutte le caratteristiche innanzi illustrate, era prevedibilmente molto insicura e visibilmente insidiosa". Incalcolabile la sensazione d’ingiustizia e frustrazione provata dai familiari del giovane tifoso di San Giorgio a Cremano, paese natio di Massimo Troisi. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
7.03.2003
Anzio, Stadio "Massimo Bruschini"
Campionato Italiano di Eccellenza
(Anziolavinio - Alatri)
Fabio Pistilli
"Stadio Massimo Bruschini di Anzio, provincia di Roma. Domenica 7 marzo 2004, campionato d’Eccellenza 2003-04, girone B. In campo l'Associazione Sportiva Dilettantistica Anziolavinio Calcio 1924 e la Pro Calcio Alatri, un derby molto sentito sul litorale laziale, al punto che le forze dell'ordine hanno fatto entrare in ritardo i tifosi ospiti, scongiurando così il contatto con i locali. Fabio Pistilli, 29 anni, detto "Billy", se ne sta seduto a cavalcioni sulla balaustra a intonare cori, mentre suo cugino (Marco Mangili) è in campo. "La partita era tranquillissima, senza problemi", racconta il presidente Francesco Rizzaro, "poi abbiamo sentito strillare perché stavano arrivando i tifosi dell’Alatri con il loro autobus. Ma erano grida da tifosi, niente di grave, non ci sono stati tafferugli, perché quelli dell’altra squadra non c'erano. Poi le grida sono diventate più forti e ci hanno detto che Fabio era caduto. Non abbiamo potuto far nulla, tranne che facilitare i soccorsi, sospendendo la gara". Pistilli cade rovinosamente da un’altezza di otto metri, nonostante un amico che gli sta a fianco tenti disperatamente di afferrarlo per un braccio. Un gravissimo trauma cranico-cervicale ne decreta la morte agli Ospedali Riuniti di Anzio e Nettuno. Il derby viene sospeso e ancora oggi, all'esterno della tribuna Numerata, c’è una targa con l'immagine del suo volto sorridente: Fabio (Billy) sei sempre con noi ! La vecchia guardia (ultras), i dirigenti dell’ AS Anziolavinio, i giocatori, il Roma club Anzio…". Fonte: "Cuori Tifosi" di Maurizio Martucci (Sperling & Kupfer 2010: Recensione Libro e Acquisto)
3.06.2006
Sant’Angelo di Piove di Sacco (PD)
Circolo ARCI, Lite fra Tifosi
(Scandalo di "Calciopoli")
Renzo Trabuio
E’ la sera del 3 giugno 2006, da poche settimane è emerso lo scandalo di "Calciopoli", il quale ha investito in pieno il mondo dello sport e l’opinione pubblica, in particolare la Juventus Football Club giudicata responsabile dell’operato dei suoi dirigenti Moggi e Giraudo che le costerà secondo la sentenza definitiva della giustizia sportiva una drammatica retrocessione in serie B e la revoca di due scudetti vinti meritatamente sul campo con Fabio Capello in panchina. In un bar del circolo ARCI di Sant'Angelo di Piove di Sacco, un paesino distante 20 Km da Padova, scoppia una lite furiosa sull’argomento fra due avventori del locale. (Omissis) 32enne passionale tifoso dell’Inter, stava inveendo pubblicamente contro la Juventus e gli arbitri "venduti", sostenendo che la sua squadra era stata derubata di due scudetti. Ciò ha provocato la reazione piccata di Renzo Trabuio, 46enne tifoso bianconero che ha risposto a distanza con una battuta sarcastica sulla squadra nerazzurra. L’acceso diverbio prima si placa all’interno del locale, ma dopo riesplode al di fuori, dove, dalle parole pesanti, purtroppo, si passa alle mani. (Omissis) aggredisce violentemente a calci e pugni in faccia Renzo che ne subisce gravi le conseguenze con la perdita di tre denti ed un arresto cardiocircolatorio per cui morirà nonostante il trasporto in ospedale. Si appurerà nella perizia medico-legale che il cuore della vittima era già in sofferenza da qualche ora prima della violenta aggressione patita. Per questa ragione nel processo penale in tribunale l’imputazione del (Omissis) si alleggerirà dell’accusa di "omicidio volontario", pur riconoscendogli le concause nel decesso. Il giudizio finale per il reato commesso sarà di "omicidio preterintenzionale" per il quale verrà condannato a 4 anni, 5 mesi e 10 giorni di carcere. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
27.01.2007
Luzzi (CS), Comunale "S. Francesco"
Campionato Italiano di III Categoria
(Cancellese - La Sammartinese)
Ermanno Licursi
Sul campo neutro di Luzzi, in provincia di Cosenza, si è giocato l'incontro calcistico fra Cancellese e La Sammartinese, due squadre dilettanti del campionato di III Categoria. Alle 16.33 il fischio di chiusura sul risultato di 2-1 per la Sammartinese con l’arbitro che esce per primo dal campo (violando il regolamento) mentre i giocatori delle due squadre stanno ancora discutendo animatamente gli episodi della partita fra bisticci e qualche spinta. Alcuni spettatori trovando i cancelli aperti (!) entrano furiosi sul terreno di gioco ad aggredire fisicamente i calciatori della Sammartinese. Vola pure qualche pietra dagli spalti. La rissa coinvolge più persone, anche i tesserati si lasciano andare, non Ermanno Licursi, 40 anni, dirigente accompagnatore della Sammartinese (quella sera sostituiva il presidente Umberto Iantorno, influenzato) che prova con grande senso di responsabilità a ristabilire la calma fra i litiganti, ma viene pestato selvaggiamente da alcuni calciatori e tifosi della Cancellese. Si rialza sanguinante dal naso, è ferito, ha gli occhiali rotti, ma rientra negli spogliatoi dove le sue ultime parole sono rivolte ad un collega: "Non posso credere di aver preso tutte queste botte per aver cercato di mettere pace". Poi colto da un malore si accascia crollando su una panca esanime. Si prova a rianimarlo sul posto, ma è inutile così come le ennesime manovre del medico del 118, è già morto, a causa di un arresto cardiocircolatorio. Secondo quanto appurato dall’esame medico-legale dell’autopsia il decesso avvenne a causa di una malformazione cardiaca congenita. Dopo un mese di indagini 4 calciatori e il presidente della Cancellese sono accusati di omicidio preterintenzionale e rissa. Uno di loro davanti al giudice dell’udienza preliminare patteggia tre anni e tre mesi di reclusione. La famiglia di Licursi venne risarcita dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, ma l’’iter processuale in conclusione non condannerà alcuno degli imputati quale colpevole di omicidio, ma li giudicherà per il reato di rissa. (Omissis), presidente della Cancellese, fa ricorso alle vie legali per "ingiusta detenzione" (ai domiciliari per 147 giorni) e viene liquidato con ventimila euro per i danni psicologici e all’immagine determinati dal suo arresto. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it 
2.02.2007
Catania, Stadio "Angelo Massimino"
Campionato Italiano di Serie A
(Catania - Palermo)
Filippo Raciti
"Il derby di Sicilia è uno degli incontri sportivi più ad alto rischio in Italia… I tifosi ospiti arrivano dieci minuti dopo l'inizio del secondo tempo per problemi organizzativi. Fuori dallo stadio iniziano gli scontri e alcuni tifosi locali tentano di entrare in contatto con la tifoseria ospite. A questo punto inizia uno scambio di lanci di petardi e fumogeni. La polizia tenta di disperdere i tifosi e vengono lanciati, in due riprese, all'interno della curva nord dei lacrimogeni, che mettono il panico tra gli spalti dove migliaia di tifosi assistevano all'incontro ignari degli scontri che avvenivano all'esterno. Migliaia di persone tentano quindi la fuga ma trovano gli ingressi sbarrati. Si crea una calca pericolosissima che provoca diffuse scene di panico. La partita viene quindi sospesa per quaranta minuti dall'arbitro Stefano Farina per l'aria irrespirabile. Durante la fuga, la parte più esaltata dei teppisti cerca di entrare in contatto con gli avversari: iniziano gli scontri veri e propri. Intanto la partita termina (vince il Palermo per 2-1) e all'esterno dello stadio decine di persone dal volto coperto attaccano le forze dell'ordine. Le immagini vengono trasmesse in diretta da Sky. Si parla di 1.200 agenti. Alla fine, si contano 71 feriti tra le forze dell'ordine, più altrettanti civili. Vengono fermati la sera stessa una ventina di ultras: di questi nove vengono arrestati e quattro sono minorenni. Contemporaneamente, si viene a sapere che l'ispettore capo del X Reparto Mobile di Catania Filippo Raciti è stato ucciso. In un primo momento la voce che circola è considerata falsa ma successivamente arriva la conferma intorno alle 22. Successivamente, si sarebbe scoperto che la causa della morte fu la rottura del fegato causato da un corpo contundente. Vani furono i soccorsi ed il ricovero immediato all'Ospedale "Garibaldi": l'uomo morì dopo tre quarti d'ora di agonia, per arresto cardiaco. Insieme a lui venne ricoverato un altro poliziotto, in gravi condizioni ma non in pericolo di vita. Filippo Raciti, nato a Catania il 17 gennaio 1967, era entrato nella Polizia di stato nel giugno del 1986 come allievo agente ausiliario. Svolse la maggior parte della sua carriera in servizi esterni di ordine pubblico. Dopo aver prestato servizio presso la Questura di Catania, in forza all'Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico, dal dicembre 2006 era stato trasferito al X Reparto Mobile. Aveva servito per quasi vent'anni nella Polizia di Stato e viveva ad Acireale con la moglie Marisa Grasso e con i figli Fabiana di 15 anni e Alessio di 8. Era molto impegnato nel sociale essendo donatore di sangue, avendo deciso di donare i suoi organi ed operando, assieme alla moglie, come volontario della Croce Rossa Italiana. Una settimana prima della sua morte, Raciti testimoniò circa i fatti riguardanti un tifoso fermato per intemperanze, ma lo stesso venne poi rilasciato dal magistrato inquirente. Secondo quanto raccontato da uno dei suoi colleghi, il tifoso, appena rilasciato, andò a ridere in faccia all'ispettore in segno di scherno. Sulla morte dell'ispettore capo Filippo Raciti, durante gli scontri verificatisi a margine dell'incontro di calcio Catania-Palermo, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania ha aperto un'inchiesta per omicidio…
I catanesi hanno reagito alla gravissima situazione creatasi in città attraverso varie manifestazioni. Subito dopo la partita, sono stati posati dei mazzi di fiori davanti alla Tribuna A dello stadio, in cui campeggiava un telone su cui era stato scritto: "Catania svegliati Catania sdegnati". Il 3 febbraio, sabato sera, un corteo di un centinaio di giovani percorre la città da piazza Roma a piazza Spedini. Da quel corteo nasce una manifestazione molto più grande, che venerdì 9 febbraio riunisce circa tremila persone al PalaSpedini. Lì vengono dimostrati atti di solidarietà verso la polizia, i cittadini, i tifosi. Sono presenti anche Rita Borsellino, Claudio Fava e Riccardo Orioles… Il 14 febbraio il giudice sportivo squalifica lo stadio "Angelo Massimino" fino alla fine della stagione 2006-07 e obbliga il Catania Calcio a giocare in campo neutro ed a porte chiuse… Nel frattempo, le forze dell'ordine hanno fermato quindici persone, quattro non ancora maggiorenni. Secondo indiscrezioni giornalistiche, si tratta di ultras del Catania. La loro posizione è al vaglio dell'Autorità giudiziaria. Già pochi giorni dopo l'accaduto le forze dell'ordine individuano un sospetto principale, Antonino Speziale, che all'epoca dei fatti aveva solo 17 anni, iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario in concorso l'8 febbraio. Il giovane, giocatore di rugby, proveniente da una famiglia di operai (padre operaio, madre casalinga), incensurato, secondo indiscrezioni nel primo interrogatorio avrebbe confessato di avere partecipato allo scontro con la polizia e di avere "colpito un agente con una sbarra di ferro spingendolo a mo' di ariete". L'avvocato del giovane, Giuseppe Lipera, ha tuttavia smentito categoricamente tali affermazioni, ammettendo soltanto che il giovane avrebbe confessato di avere partecipato agli scontri con la polizia. Speziale venne arrestato il 27 febbraio e scarcerato a fine luglio, per essere mandato in una comunità di recupero… In seguito alle indagini sulla morte, avvalendosi delle immagini filmate dai circuiti di sicurezza dello stadio e da successive intercettazioni ambientali, si giunse dopo un anno all'arresto anche di un secondo indiziato maggiorenne (NDR: Natale Daniele Micale)… Il 14 novembre 2012 la Corte di Cassazione ha confermato le sentenze di appello disposte nei confronti di Speziale e di Micale (NDR: 11 e 8 anni di reclusione)… Il 7 febbraio 2014 il procuratore generale Luigi Riello ha accolto il ricorso di Antonino Speziale per la revisione del processo; lo stesso ricorso è stato poi rigettato dalla Corte di Cassazione, in quanto dichiarato inammissibile… I mass-media rivelarono la possibilità che Raciti fosse stato investito dallo sportello del fuoristrada (un Land Rover Discovery) dei colleghi che si muoveva in retromarcia, e da cui era disceso a causa del denso fumo che aveva invaso il veicolo. Le immagini della emittente televisiva SKY che ritraevano tale momento hanno attestato la infondatezza di questa ipotesi, visto che il Land Rover ha indietreggiato a velocità insignificante… La morte di Raciti suscitò forte emozione in tutto il paese e causò l'interruzione di tutti i campionati di calcio in Italia per una settimana e l'annullamento di un'amichevole della Nazionale. Un intenso dibattito sulla messa a norma degli stadi è scaturito dopo l'incidente e ha causato la disputa degli incontri di calcio a porte chiuse fino al completamento dei lavori necessari alla messa in sicurezza degli impianti non a norma. Raciti è stato insignito della medaglia d'oro al valor civile alla memoria, consegnata alla moglie l'11 maggio 2007, in occasione del 155° anniversario della Polizia di Stato. Il 17 febbraio 2007 gli è stato intitolato lo stadio di Quarrata, in provincia di Pistoia. Il 14 aprile 2007 è stato intitolato lo stadio comunale di Siderno in provincia di Reggio Calabria alla sua memoria. Tra il 28 febbraio e il 1 marzo 2009 è stata fatta una maratona in suo onore, che partiva dallo stadio Angelo Massimino di Catania e arrivava allo stadio Renzo Barbera di Palermo. L'iniziativa ha visto protagonista l'ex atleta Salvatore Antibo. La figura di Filippo Raciti è spesso oggetto di un vasto repertorio di cori da stadio, slogan e graffiti, espressi da ultras del calcio che intendono offenderne la memoria o colpire le forze dell'ordine in quanto istituzioni". Fonte: Wikipedia.org
11.11.2007
Arezzo, Autostrada A1 (MI-NA)
Area di Servizio "Badia al Pino"
(Juventus - Lazio)
Gabriele Sandri
11 novembre 2007, ore 9.20 del mattino: si profila un’altra tragica giornata di cronaca nera nella storia del calcio nazionale con una dinamica assurda al limite della follia umana. Nell’area di servizio di Badia al Pino, sull’autostrada A1, nei pressi di Arezzo, tifosi della Lazio, in viaggio verso Milano per assistere alla partita di campionato in trasferta contro l’Inter, aggrediscono a bastonate alcuni tifosi della Juventus sul piazzale di sosta antistante all’autogrill. Lo scontro è notato dagli agenti della Polizia Stradale in pattuglia, ma sono dalla parte opposta della carreggiata a più di una cinquantina di metri di distanza. I tifosi bianconeri ripiegando nella propria Mercedes fuggono in macchina di corsa dal parcheggio. Anche i tifosi della Lazio risalgono velocemente nelle loro due automobili, una Megane ed una Clio, forse per inseguirli, ma è proprio in questi attimi fatali che si consuma la famigerata tragedia. La Polstrada aveva acceso subito le sirene per dissuadere, avendo buon esito, gli attori della rissa in corso, ma uno degli agenti, Luigi Spaccarotella, non contento scende dall’autovettura e corre per 200 metri sul bordo strada prima di individuare una posizione ottimale per sparare alle gomme della prima macchina dei laziali in movimento. Secondo una fondamentale testimonianza è salito su un avvallamento del terreno e allargando le gambe ha sparato un colpo "con le braccia tese ad altezza d'uomo". Il proiettile esploso dalla sua Beretta in dotazione attraversa prima l’autostrada da una carreggiata all’altra e poi il lunotto posteriore della Megane in ripartenza, colpendo al collo un passeggero accomodato sul sedile posteriore. Si tratta di Gabriele Sandri, noto dj romano e accanito tifoso biancazzurro, che si era addormentato per la stanchezza dopo la notte di lavoro trascorsa in un locale della capitale. I compagni fermando subito l’auto lo soccorrono mentre rantola e sanguina, chiedono aiuto e chiamano un’autombulanza, ma nonostante i tentativi di rianimazione il giovane muore sul posto. Straziante la scena dei familiari accorsi qualche ora dopo sul luogo del delitto. Si disperano e non si capacitano dell’accaduto mentre già emergono le prime evidenti e ingiustificabili responsabilità dell’agente di polizia e dall’incongruenza della sua ricostruzione dei fatti. L’indomani, il questore di Arezzo, Vincenzo Giacobbe, nella sua conferenza stampa non escluderà a priori la possibilità di un "omicidio preterintenzionale o volontario". Nel frattempo la tragica notizia rimbalza negli stadi italiani e gli ultras di tutte squadre chiedono, come già successo in occasione della morte dell’ispettore Raciti, la sospensione del campionato di Serie A. Le autorità del calcio tergiversano poiché non risulta loro del tutto chiara la dinamica del fatto che, fra l’altro, non è avvenuto in prossimità di uno stadio di calcio. Alle ore 14.00 l’incontro Inter-Lazio viene ufficialmente rinviato e da San Siro parte un corteo di tifosi, creando anche qualche momento di panico davanti alla sede Rai di corso Sempione, diretto in piazza Duomo per manifestare il lutto e la protesta. Gli ultras inferociti urlano uno slogan in cui rivendicano che "la morte di un tifoso non vale quanto quella di un poliziotto". A Bergamo viene sospesa dopo 7' e 40" la gara Atalanta-Milan per le intemperanze del pubblico dopo che era cominciata già con i 10' di ritardo canonici decisi in tutti gli stadi. In curva neroazzurra c’è moltissimo nervosismo fra i tifosi che stanno distruggendo una vetrata in plexiglass, infatti a nulla serve la mediazione del capitano della loro squadra, Christian Doni, minacciato severamente dagli ultrà che "se si riprende succede qualcosa di grave". Cinque le partite portate al termine, ma il Viminale decide per il rinvio del posticipo serale Roma-Cagliari per motivi di ordine pubblico, poiché si teme il peggio e così sarà… Nel pomeriggio, dopo le 18.00, centinaia di ultras romanisti e laziali si coalizzano in strada davanti all’Olimpico cercando di ingaggiare uno scontro violento con le Forze dell’Ordine, barricate dentro lo stadio su disposizione del Questore di non rispondere alle provocazioni. Parte una sassaiola e il lancio di petardi per stanarli, il clima degenera sempre di più e un centinaio di persone si spostano a devastare gli uffici della sede del Coni, adiacente, presidiato da poche guardie giurate non armate che fuggono nei piani superiori. Il fine è quello di attirare celerini e carabinieri per affrontarli in campo aperto. Così accade e già nei primi scontri alcuni di questi restano feriti, prima di arretrare tatticamente. I rivoltosi hanno bloccato il ponte sul Tevere "Duca d'Aosta" con alcune transenne, isolando l'area intorno allo stadio. Un fotografo dell'Ansa viene picchiato e derubato, un cameraman aggredito. Parte un blitz contro una caserma dei carabinieri a Ponte Milvio dove è incendiata una loro auto parcheggiata. Altri attaccano la sezione delle volanti della polizia in via Guido Reni e il commissariato in via Fuga a Porta del Popolo. A volto coperto gli ultras rovesciano fioriere, ciclomotori e cassonetti in mezzo alla strada, usano spranghe, tondini di ferro e sanpietrini per spaccare i vetri dei portoni o dei negozi, danno anche fuoco ad un autobus. Intorno alle 22.00 una decina di camionette di Polizia e Carabinieri in tenuta antisommossa li disperde e si ritirano. La lunga notte di un intero quartiere della capitale, ostaggio del caos, della distruzione e della violenza, produce "danni ingentissimi", decine di feriti fra le forze dell’ordine e alcuni arresti. Per questi soggetti le istituzioni chiedono l’imputazione di "terrorismo", ma l’aggravante andrà a decadere in fase processuale. La mattina seguente viene proclamato a Roma il lutto cittadino in occasione dei funerali previsti per il giorno 13 ai quali partecipa una grande folla di tifosi, giunti da ogni parte d’Italia, a stringersi attorno alla sua famiglia, ai parenti ed agli amici di Gabriele. L’accusa per l’agente Spaccarotella è ormai ufficialmente di "omicidio volontario" secondo le perizie degli inquirenti. Francesco Molino, suo avvocato difensore, nel febbraio 2008 sostiene la tesi del "colpo di pistola deviato nella traiettoria". Il 25 settembre 2008 ha inizio il processo, ma il gup rinvia l'udienza accogliendo l'eccezione della difesa per un cavillo legale (non gli è stato trasmesso l'atto di chiusura dell'indagine preliminare). I familiari di Gabriele Sandri insorgono contrariati, temendo una lunga melina giudiziaria della controparte. Qualche giorno dopo Spaccarotella chiede loro perdono, intervistato dall'Ansa, dicendo: "Non volevo ucciderlo". L’ 11 novembre 2008, il capo della polizia Antonio Manganelli si assume la responsabilità della morte di Gabriele Sandri definendola "una tragedia causata dall'avventatezza". Il 13 gennaio 2009 in un filmato della procura si ricostruisce l'omicidio del tifoso laziale effettuando una simulazione grafica in base alle testimonianze. Nell’animazione delle immagini l’agente spara stringendo l'arma con due mani. Tre giorni dopo Luciana Cicerchia, gup di Arezzo, lo rinvia a giudizio per "omicidio volontario". Il giorno 22 dello stesso mese il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano annuncia pubblicamente la sospensione di Spaccarotella dal servizio.  Il processo, intanto, riprende il suo iter e il 9 luglio 2009 il Pm Giuseppe Ledda porta in aula una Beretta e mima l’atto del reato nella requisitoria in cui chiederà 14 anni di reclusione per il poliziotto. Al contrario il 14 luglio 2009 la sentenza di primo grado lo condanna a soli 6 anni di carcere per "omicidio colposo" fra vibranti proteste sia in sede processuale che a Roma. Indignata la reazione di tifosi e opinione pubblica, ma soprattutto della famiglia Sandri che ricorre in secondo grado. Il 1 dicembre 2010 la Corte di Appello di Firenze corregge la condanna per Spaccarotella a 9 anni e 4 mesi, poiché, secondo il nuovo giudizio, il suo reato è di "omicidio volontario". L’ 11 novembre 2011, a quattro anni di distanza dalla tragedia, viene posta una stele in ricordo di Gabriele nella stazione di servizio di Badia al Pino. Intorno ai familiari si stringono i tifosi di numerose società calcistiche. La sua memoria unisce ancora oggi i tifosi di tutte le "curve" italiane al di là delle rivalità. Il papà Giorgio e il fratello Cristiano, presenti assieme alla madre di Gabriele, ringraziano commossi i giovani intervenuti che hanno deposto le loro sciarpe colorate ai piedi del piccolo monumento. Il 13 febbraio 2012 la Cassazione conferma la sentenza di appello, riconoscendo la colpevolezza dell'agente della Polstrada per "omicidio volontario" e lo condanna alla stessa pena di 9 anni e 4 mesi di carcere. Luigi Spaccarotella si costituisce al comando provinciale dei carabinieri di Arezzo e dopo un breve periodo di detenzione nell’ istituto di massima pena di Sollicciano a Firenze entrerà nel penitenziario militare di Santa Maria Capua Vetere dove sconterà la sua pena. Il padre della vittima dichiara alla stampa che "giustizia è fatta". Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
30.03.2008
Asti, Autostrada A21 (TO-PC)
Area di Servizio "Crocetta Nord"
(Juventus-Parma)
Matteo Bagnaresi
E’ domenica, sono le 12.30 del 30 marzo 2008 quando un pullman con 25 tifosi della Juventus, proveniente da Crema, si ferma in sosta all'autogrill dell’Area di Servizio "Crocetta Nord", sull’autostrada A21 Torino-Piacenza, a metà strada fra Asti e Alessandria. Sono diretti a Torino per assistere alla partita di campionato contro il Parma in programma nel pomeriggio allo Stadio "Olimpico" alle ore 15.00. Dopo un paio di minuti sopraggiungono nel parcheggio altri due pullman che trasportano a bordo alcuni tifosi del Parma, in marcia verso la medesima destinazione. Appena scesi si fiondano ad aggredire come forsennati quei sostenitori bianconeri, ancora davanti al loro torpedone, usando le cinghie e lanciandogli bottiglie contro. Presi alla sprovvista e in netta minoranza, gli juventini colti dal panico ripiegano precipitosamente sul veicolo che riparte a razzo per evitare il peggio. Avviato verso l’uscita dell’area di servizio, il pullman costeggia un distributore di benzina dal quale spunta fuori all’improvviso un uomo che viene incontro con le mani alzate. Si tratta di Matteo Bagnaresi, figura carismatica nel direttivo dei "Boys" del Parma, di rientro da un daspo risalente al 2005. Non si è mai compreso quali fossero le reali intenzioni del tifoso gialloblù, né la precisa dinamica dell’incidente, ma purtroppo il mezzo lo investe in pieno, schiacciandolo sotto le ruote e proseguendo, come nulla fosse, la marcia in autostrada per quasi un chilometro. L’autista del pullman, come sosterrà sempre in ogni sede agli inquirenti, non si è accorto di nulla, al contrario di un tifoso seduto in ultima fila che si allarma, avvisandolo dell’accaduto. Dopo aver percorso 700 metri di fuga, l’uomo arresta la corsa sulla corsia di emergenza e avvisa telefonicamente la Polizia Stradale. Matteo Bagnaresi, intanto, morto sul colpo, giace disteso al suolo davanti agli occhi dei suoi compagni e dei clienti dell’autogrill, attoniti. Sembra l’incredibile replica della tragica morte di Gabriele Sandri con lo stesso scenario in circostanze simili, ma alla pena dei familiari giunti sul posto non si fa mai l’abitudine. 28 anni a settembre, laureato in "Tecniche della prevenzione sui luoghi di lavoro" e figlio unico, Matteo Bagnaresi è impegnato politicamente quale "militante della sinistra antagonista" e animatore dei centri sociali di Parma. Lavorava presso una cooperativa di consulenza alle aziende per la legge 626. Suo padre, Bruno, è un ingegnere impiegato alla Barilla e sua madre, Cristina, una professoressa di scuola media. Abitava con i genitori e la nonna in una villetta in periferia a Parma. "Bagna" era fiero del suo "essere ultrà", ma non amava sentirsi per questo considerato un "vandalo, un teppista senza ideali o anche peggio". La sfida tra la Juve e gli emiliani, in programma per la 12esima giornata di ritorno, "viene rinviata in segno di lutto". A Torino ne danno insieme l’annuncio alla stampa i due presidenti delle squadre, Giovanni Cobolli Gigli e Tommaso Ghirardi. Quest’ultimo dopo si recherà sul luogo della tragedia, restandone molto scosso. Dopo i funerali, il conducente, (Omissis), 46enne titolare di una ditta di autotrasporti con sede nel bergamasco, viene rinviato a giudizio per "omicidio colposo". I genitori di Matteo si costituiscono parte civile nel processo all’autista che ha sempre una sola tesi da ripetere in sua discolpa: quella di non aver visto il ragazzo quando è ripartito velocemente per evitare danni alle persone e al pullman e che l’ha investito senza volerlo. Nel 2013 il Pm Valeria Ardoino chiede per lui una condanna a 9 mesi di reclusione. La sentenza del tribunale di Asti letta pubblicamente dal giudice Franco Muscato è, invece, di piena assoluzione "perché il fatto non costituisce reato". I genitori di Matteo nel novembre 2011 erano già usciti da questo processo, accettando il risarcimento offerto dall'assicurazione dell'autista, la cui somma, mai divulgata, è stata interamente devoluta alla Fondazione dedicata alla memoria del figlio. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
23.05.2009
Parma, Stadio "Ennio Tardini"
Campionato Italiano di Serie B
(Parma - Vicenza)
Eugenio Bortolon
Allo Stadio "Ennio Tardini" di Parma è un meraviglioso pomeriggio di primavera che fa da cornice ad un incontro di calcio fra due gloriose compagini nazionali, Parma e Vicenza, al momento retrocesse in seconda serie. Nel settore ospiti il 23 maggio 2009 c’è un discreto numero di sostenitori biancorossi all’ingresso delle due squadre sul terreno di gioco per il secondo tempo della partita. Fra questi c’è anche un giovanissimo tifoso di Isola Vicentina, Eugenio Bortolon, 19 anni, alla sua seconda trasferta al seguito della squadra del cuore. Ad un certo momento il ragazzo si sporge eccessivamente dalla balaustra sugli spalti, forse per rispondere allo sfottò di un tifoso avversario sulle gradinate adiacenti. In mezzo ai loro settori c’è il vuoto a dividerli, Eugenio, perso l’equilibrio, precipita di sotto. Questa scena è vista in panchina da Giovanni Ragazzi, il medico sociale del Vicenza, che si precipita a soccorrerlo mentre i compagni disperati urlano sbracciandosi per attirare l’attenzione di tutti verso il loro spicchio di curva. Il dottore si accorge subito della gravità delle condizioni, il ragazzo ha perduto conoscenza per un "evidente trauma cranico commotivo", ma non può sapere che, purtroppo, ha lesioni in tutto il corpo. È intubato in fretta e caricato su un'ambulanza a sirene spiegate verso il reparto di rianimazione dell’Ospedale Maggiore di Parma. Intanto allo stadio tutti i tifosi stanno chiedendo di fermare la partita. L'arbitro bolognese, Valerio Scoditti, lo fa solo per quattro minuti, ma al 65' più insistentemente tifosi, giocatori e dirigenti premono per la sospensione. Giunge sul posto anche il questore di Parma, Gennaro Gallo, che rassicura l’arbitro sulla situazione, invitandolo a riprendere quanto prima il gioco. Venti minuti dopo lo speaker del Tardini comunica che il tifoso "è in rianimazione ma stabilizzato" e la partita riprende nonostante le vibranti proteste del pubblico di casa mentre i vicentini hanno già abbandonato lo stadio. Al termine della gara nessuno festeggia la larga vittoria della squadra crociata per 4-0. Sono avvisati i familiari di Eugenio, in un primo tempo il fratello, poi i genitori, in vacanza. La prima diagnosi ospedaliera è drammatica: "gravissimo politrauma da precipitazione con lesioni emorragiche multi-distrettuali". Dopo le prime manovre rianimatorie si prova ad effettuare un disperato intervento chirurgico all'addome, ma le condizioni del paziente peggiorano "a causa di una gravissima emorragia e per il concomitante gravissimo trauma cranio-facciale". Il cuore si è affaticato troppo, ogni terapia risulta inutile e si arresta alle 22.35 dello stesso giorno quando Eugenio muore. Le due società esprimono il proprio cordoglio alla famiglia per la scomparsa del giovane e partecipano ai funerali nel suo paese. Il settore "Ospiti" dello stadio emiliano è posto sotto sequestro dalle autorità giudiziarie. Vengono svolti alcuni sopralluoghi tecnici dalla procura di Parma per verificare il rispetto delle normative di sicurezza e se ci fossero responsabilità strutturali nelle cause dell’incidente. In particolare viene misurata l’altezza della balaustra da cui è caduto il giovane, non risultata a norma per 3 centimetri. Si avvia, quindi, una lunga fase processuale, con duelli di perizie tecnico-legali di parte e super partes, nella quale verranno coinvolti alcuni amministratori locali con l'ipotesi di reato per "omicidio colposo". Anche il presidente del Parma Calcio è citato in giudizio. Saranno tutti assolti nel 2012 "perché il fatto non sussiste" e la famiglia Bortolon risarcita con 300.000 euro per la perdita di Eugenio. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
22.05.2010
TORINO, Lite fra Tifosi
Corso Lecce, "Blu Sky" Bar
(Inter - Bayern Monaco)
Edmondo Bellan
Ancora un caso folle di violenza, legato al filone di "Calciopoli" ed alla rivalità sportiva fra Inter e Juventus, si consuma la sera del 22 maggio 2010 a Torino dopo la trionfale vittoria a Madrid della Champions League da parte dei nerazzurri di José Mourinho. Durante la premiazione della squadra il calciatore Marco Materazzi sfoggia una maglietta irridente la società bianconera davanti a milioni di telespettatori in mondovisione. Nel  "Blu Sky" bar in corso Lecce a Torino, proprio a causa di quest’immagine goliardicamente provocatoria si beccano alcuni clienti delle due fedi sportive rivali. Fra questi l’interista 60enne Rocco Acri e lo juventino 62enne Edmondo Bellan, entrambi disoccupati e incensurati. La discussione degenera dagli insulti alle spinte, parte un pugno che colpisce Acri, qualche ceffone, coinvolgendo altre persone intorno ai tavoli ed anche il titolare dell’esercizio che intima con forza ai due litiganti di uscire immediatamente fuori dal locale e poi richiude la porta. Appena in strada riprende la discussione, Bellan inveisce contro Acri, il quale estrae un coltello a serramanico con una lama da 10 cm e lo trapassa tre volte, due al torace e una ad un braccio. Acri si allontana come se nulla fosse accaduto. Bellan è soccorso dai clienti del bar e da alcuni passanti, quindi trasportato di urgenza all'ospedale "Maria Vittoria", ma muore poco dopo l’arrivo al Pronto Soccorso per le gravissime emorragie. L’indomani, identificato in base alle testimonianze, l’omicida di origini calabresi è condotto in Questura. Dopo un lungo interrogatorio in cui nega all’inizio il suo coinvolgimento nel caso, ammette in parte le sue responsabilità, giustificandosi. Dichiara alla polizia che non credeva fosse morto perché pensava di averlo ferito "soltanto di striscio" e che non lo conosceva, che si era sentito provocare dalle parole rivolte contro Materazzi e soprattutto che Bellan aveva malmenato Emanuele Romeo, il suo amico barista di 77 anni, in cattive condizioni di salute. All’indagine presto risolta dagli inquirenti segue l’iter giudiziario. Nel 2011 il PM Marco Sanini richiede in aula l’ergastolo per Rocco Acri, ridotti a 30 anni di reclusione per lo svolgimento del processo in forma di rito abbreviato. Il giudice così sentenzia in primo grado rigettando le attenuanti generiche per via dei "futili motivi", aggravanti dell’omicidio. In appello le cose vanno diversamente ed ha successo la tesi difensiva degli avvocati Marco Moda e Antonio Rossomando. In questa sede i legali dimostrano alla corte come l’imputato non abbia agito delittuosamente a causa delle offese ricevute personalmente, ma in difesa dell’anziano gestore del bar, suo amico, ancora debole e convalescente per una serie di interventi chirurgici. La pena è dimezzata a 15 anni di carcere. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
5.07.2010
Hannover, Muenzstrasse
Bar "Columbus", Litigio fra Tifosi
Giuseppe Longhitano
Franco Siccu
Sono quasi le 7.20 di lunedì 5 luglio 2010 e nel bar "Columbus" sulla Muenzstrasse, nel quartiere a luci rosse di Hannover in Germania, sta per avvenire una tragedia in qualche maniera imparentata con il calcio. Nel locale ci sono sei persone, fra cui due italiani, il sardo Franco Siccu e il siciliano Giuseppe Longhitano che sono seduti ad un tavolo ed hanno bevuto qualche bicchiere di troppo. Anche Holger, un manovale tedesco di 42 anni, ha bevuto molto e lo iniziano a prendere in giro per il numero di coppe del mondo vinte dall’Italia, una in più della Germania (4-3). Lo sfottò, per nulla gradito dall’uomo, trascina tutti e tre in un’accesa discussione, poi il tedesco esce dal bar. Sembra finita lì, invece accade qualcosa di follemente drammatico. Holger prima va a casa a prendere la sua pistola e poi fa ritorno al bar dove spara subito a bruciapelo in testa al Longhitano. Dopo rivolge l’arma contro Siccu, il quale gettandosi in ginocchio ai suoi piedi lo implora di non sparare, ma a metà della frase lo fredda alla nuca, spietato. Abbattuti gli italiani, si disfa della pistola frettolosamente e fugge via. "E’ stata una vera e propria esecuzione", racconterà una testimone oculare al giornale tedesco "Bild" intervistata sulla sparatoria. Franco Siccu, 47 anni, emigrato negli anni '90 in cerca di lavoro da San Vero Milis, in provincia di Oristano, fa il cuoco nel ristorante "Little Italy" di Hannover ed è sposato con una donna tedesca dalla quale ha avuto una bambina. Sarà definito da amici e parenti un "ragazzo per bene" ed un "gran lavoratore" con un buon carattere e "per nulla un tifoso di calcio" e ancor meno un "attaccabrighe". Giuseppe Longhitano, 49 anni, pizzaiolo di origini siciliane, era partito da Bronte 24 anni prima in cerca di una occupazione in Germania dove si è sposato ed ha due figli, uno di 19 e l’altro di 20 anni. Si conoscono perché è parente di un collega del ristorante di Franco. Entrambi sono ancora vivi, ma in gravissime condizioni quando vengono soccorsi e trasportati d’urgenza in ospedale. Siccu vi muore poco tempo dopo il ricovero, Longhitano la notte seguente. L’omicida, residente ad Hannover, viene identificato dalla polizia nelle immagini registrate della telecamera interna di un bancomat vicino al luogo del delitto mentre preleva denaro contante. Il filmato viene trasmesso via internet e in televisione per accelerare la cattura dell’uomo, latitante da subito. Infatti, Holger B. è volato in Spagna, a Palma di Maiorca, a casa del patrigno, il quale lo convincerà a costituirsi in loco ed a farsi estradare in Germania. Nel 2011 il dolore dei familiari delle vittime si acuirà per la mite sentenza con la quale questo assassino viene condannato dalla legge tedesca a 14 anni e 6 mesi di reclusione, di cui almeno due anni in un centro di disintossicazione. Il loro avvocato la critica molto aspramente definendola "inaccettabile". In realtà durante il processo il giudice ha ascoltato attentamente una perizia secondo la quale l’imputato, in quel momento sotto effetto di alcool e medicinali, aveva scarse capacità di autocontrollo. La difesa rincara, inoltre, questa tesi dimostrando che Holger per di più era anche disturbato mentalmente da qualche anno. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
25.06.2014
Roma, "Tor di Quinto"
Finale di Coppa Italia
(Napoli - Fiorentina)
Ciro Esposito
Il 3 maggio 2014 è il giorno della finale di Coppa Italia fra Fiorentina e Napoli, in programma alle 21.00 allo Stadio "Olimpico" di Roma. Da qualche anno la partita si gioca in notturna nella capitale, alla presenza del Presidente della Repubblica e delle massime autorità della politica e dello sport nazionale. Le tifoserie organizzate, aggregandosi in due punti opposti rispetto all’impianto sportivo, stanno affluendo da nord e da sud per dirigersi verso lo stadio, con qualche apprensione della Questura: in particolare si temono possibili scontri fra loro o contro le forze dell’ordine, se pur ingenti e preparate, di Polizia e Carabinieri. Purtroppo passerà alla storia per una tragedia diversa e imprevedibile, imparentata con una più becera vicenda di cronaca nera. Un giovanissimo tifoso partenopeo, Ciro Esposito, è ferito gravemente ad un polmone da un colpo di arma da fuoco sparatogli alle spalle da un ultrà della Roma, Daniele De Santis, dopo una rissa scoppiata nel parcheggio situato in zona "Tor di Quinto". La dinamica suscita ancora oggi molti lati oscuri, pertanto, riportiamo appresso due ricostruzioni giornalistiche seguite alle sentenze di 1° grado e Appello. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
"PRIMO GRADO: "Due bombe carta lanciate contro un pullman di tifosi con sopra bambini e disabili, l'invito provocatorio ai partenopei a bordo a scendere giù. Poi l'inseguimento di Ciro Esposito e 7 secondi dopo, la pistola puntata ad altezza uomo da 30/50 centimetri di distanza. Quindi gli spari (che sono 4), il ferimento di Ciro, che morirà dopo 55 giorni di agonia. E l'assassino che smette di sparare solo quando ha esaurito il caricatore. Nelle 40 pagine delle motivazioni della sentenza con cui due mesi fa Daniele De Santis, ultrà giallorosso, è stato condannato a 26 anni di carcere, la Corte ricostruisce, passo dopo passo le scene di una guerriglia urbana "che sono un unicum" nella capitale, scrive il giudice Evelina Canale. "Tra testimoni palesemente reticenti e periti imparziali i giudici hanno ritenuto più credibili - ha dichiarato l'avvocato Tommaso Politi difensore di De Santis.  Resto convinto che il condizionamento mediatico sia stato determinante". Eppure nelle carte che hanno portato alla decisione della Corte si parla di "bambini che hanno visto De Santis impugnare la pistola e non hanno dormito la notte", di "filmati testimoniali e della Digos che mostrano l'intera sequenza", di "testimoni che hanno visto premere il grilletto", e della dichiarazione di Esposito, in ospedale di fronte alla foto del suo assassino "è questo il chiattone che mi ha sparato". Nulla è stato casuale quel 3 maggio 2014, poco prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, tanto che, scrivono i magistrati della terza corte d'Assise, De Santis "aveva elaborato un piano preordinato che prevedeva la provocazione contro un pullman di tifosi inermi". Per i giudici non era solo al momento dell'aggressione al pullman, ma spalleggiato da almeno altre sei persone, non identificate. "È certo - si legge nelle motivazioni che detti "supporters" romanisti erano stati convocati da lui per organizzare un vero e proprio agguato contro l'invisa tifoseria partenopea". La corte sottolinea come i fatti costituiscano un "unicum". "In altri episodi - si legge - mai si è fatto uso di armi da fuoco, giungendo al massimo all'uso del coltello, ma mai usato per uccidere, bensì sempre e solo con l'intenzione di procurare ferite superficiali, come quelle subite dall'imputato, appunto le "puncicate". Ed è indubitabile che l'intensità del dolo dimostrato da De Santis, fino a lambire le forme della premeditazione, sia massima". Tanto che la pistola che porta con sé è carica e con il colpo in canna. L'uso della cocaina assunta nel corso di un festino della notte precedente con due prostitute ha, secondo i giudici, dato quella sensazione di "onnipotenza" a De Santis tale da non farlo rendere conto del numero "soverchiante" di persone pronte ad aggredirlo dopo le sue provocazioni". Fonte: La Repubblica 26.07.2016 ("De Santis studiò l'agguato ai tifosi e colpì Esposito da 30 centimetri" di Federica Angeli e Francesco Salvatore)
"APPELLO: "Insofferente della presenza dei tifosi napoletani in quello che considera il proprio territorio di ultrà, De Santis attua una "bravata" lanciando oggetti contro un pullman" di sostenitori azzurri. Comincia così, nella ricostruzione della Corte di Appello di Roma, il pomeriggio di follia che il 3 maggio del 2014, nella zona di Tor di Quinto, alla vigilia della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina sfociò nell'omicidio di Ciro Esposito. Il giovane tifoso del Napoli fu assassinato dai colpi di pistola esplosi da Daniele De Santis detto Gastone, ultrà romanista. In primo grado, l'imputato era stato condannato a 26 anni. In appello, la pena è stata ridotta a 16 anni, con l'assoluzione per il reato di rissa e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi oltre che della recidiva. Nelle motivazioni della sentenza, il collegio (presidente Andrea Calabria, estensore Giancarlo De Cataldo, il giudice - scrittore autore di "Romanzo Criminale") usa più volte, sia pure fra virgolette, il termine "bravata" per definire il gesto compiuto da De Santis nei confronti degli autobus che stavano trasportando i tifosi del Napoli allo stadio. Ma questa espressione, al di là delle argomentazioni giuridiche, amareggia la mamma di Ciro, Antonella Leardi. "La signora Leardi - afferma l'avvocato Angelo Pisani, legale di parte civile con l'avvocato Sergio Pisani - mi ha detto che, con questa sentenza, le hanno ucciso il figlio per la seconda volta. Le ho spiegato che non c'è alcuna azione che si possa fare né rimedio giuridico. Questa è la giustizia italiana. L'unica cosa che possiamo fare è scrivere in un libro quanta amarezza ha subìto una vittima innocente. Come non hanno rispettato la sua memoria". Nella ricostruzione della Corte, non ci fu alcuna "imboscata" ai danni dei tifosi azzurri, come sostenuto invece da alcuni testimoni. Non furono lanciate bombe carta e De Santis non fu "esca" di alcun agguato. "Questa tesi appare frutto di una suggestione successiva ai fatti, prodotto di un'elaborazione collettiva", scrivono i giudici. Al tempo stesso, chiarisce la Corte, non vi fu neppure un agguato dei napoletani ai danni di Gastone. Argomentazione, quest'ultima, ritenuta semplicemente "insostenibile" e "inverosimile". Tutto sarebbe iniziato invece con la "bravata" di De Santis, in un passaggio definita "tragica", in altri etichettata come "scomposta azione dimostrativa" oppure come "evidente e sgradevole provocazione". L'ultrà romanista, che aveva trascorso la notte con due prostitute ed era armato di pistola, lancia oggetti contro il bus, prima di scappare verso il vicino circolo tentando, senza riuscirci, di chiudersi alle spalle il cancello. A questo punto, secondo la Corte d'Assise di Appello, De Santis sarebbe stato raggiunto "da uno sparuto drappello di giovani a mani nude". Ciro sarebbe stato il primo a colpire Gastone, probabilmente con un pugno. "Il testimoniale è univoco", sottolineano i giudici. De Santis cade, si rompe una gamba. Ma in quel momento "è già armato". E nel giro di pochissimi secondi, spara. La Corte d'Appello ha assolto Alfonso Esposito e Gennaro Fioretti, i due tifosi del Napoli, a loro volta rimasti feriti, che in primo grado erano stati condannati a otto mesi per rissa e per una sola delle lesioni riportate da De Santis. "Se non ci fu agguato, non si può parlare di rissa", si legge nella sentenza. Per i giudici, De Santis ha mentito quando ha raccontato di essere stato aggredito alle spalle da una trentina di napoletani e di essere stato accoltellato prima di sparare. Non si può parlare di legittima difesa perché Gastone "provocò deliberatamente una situazione di obiettivo pericolo". L'uomo "si avvicinò armato al pullman perché ben consapevole del potenziale rischio che correva". Inoltre, "non si limitò a esibire la pistola o a sparare in aria a scopo intimidatorio, nemmeno mirò a parti non vitali del corpo, non cercò di causare la fuga dei giovani che erano a mani nude, ma esplose ben 5 colpi, 4 dei quali andarono a segno". La Corte esclude i futili motivi, perché l'omicidio fu una conseguenza "del precipitare degli eventi". Una "bravata", secondo i giudici. Costata la vita a un ragazzo di diciannove anni". Fonte: La Repubblica 10.09.2017 ("La Corte d'appello Ciro fu ucciso per una bravata" di Dario Del Porto)
Ciro Esposito, ferito gravemente al torace, fu prima soccorso dai suoi compagni per strada, poi trasportato al Policlinico Gemelli dove muore, dopo 53 giorni fra la vita e la morte, il 27 giugno 2014. La lunga agonia del giovane ha commosso e fatto sperare tutta Italia. Raccontati tanti particolari sulla sua vita serena e normale nonostante un quartiere difficile come "Scampia", noto alle cronache per il malaffare e la guerra fra clan, sulla sua passione per il Napoli e per la sua bellissima ragazza, inconsolabile. Immediatamente il killer viene identificato nella persona di Daniele De Santis, detto "Gastone", dalle indagini della procura, grazie a testimonianze e ricostruzioni della digos. In particolare è riconosciuto in ospedale anche dalla vittima nella foto segnaletica mostratagli durante un colloquio registrato con la criminologa. Il 9 settembre dello stesso anno la perizia del racis trova polvere da sparo proprio sui guanti dell’uomo, deducendo che a sparare è stata proprio la sua pistola. Le indagini proseguono fitte, fra contraddizioni e verità inconfutabili fino a quando il 14 aprile 2015 i Pm Eugenio Albamonte e Antonino Di Maio chiedono il rinvio a giudizio per De Santis per omicidio volontario e altri due tifosi del Napoli per rissa aggravata.  A luglio, il giorno 8, ha inizio il processo nell'aula bunker di Rebibbia davanti alla III corte d'Assise, durato 10 mesi. Il clima in aula è sempre teso per la presenza del circo mediatico, degli amici e dei familiari del ragazzo napoletano e per la presenza dell’imputato, disteso su una barella, ma tutt’altro che contrito. I pubblici ministeri Albamonte e Di Maio chiedono per lui l'ergastolo. La corte, dopo 4 ore di camera di consiglio e a quasi due anni dalla morte di Ciro, lo condanna, invece, a ventisei anni di carcere e a 140mila euro di risarcimento per la famiglia Esposito. Otto i mesi di reclusione anche per i due tifosi del Napoli, Gennaro Fioretti e Alfonso Esposito, per la rissa con il romano. 20 agenti in tenuta antisommossa presenziano in aula. Dalla folla si alza greve l’urlo di una donna: "Deve marcire in carcere, marcire !". L'avvocato difensore, Tommaso Politi, annuncia il ricorso in appello, sostenendo la tesi della "legittima difesa". E così nel 2017 la prima Corte d’assise d’appello di Roma definisce nelle motivazioni della sentenza l’omicidio di Ciro Esposito conseguenza di "una bravata" da parte del De Santis, al quale riduce la pena da 26 a 16 anni, assolvendo gli altri due imputati napoletani per rissa e lesioni "perché il fatto non sussiste". Le motivazioni azzerano l’accusa dell’agguato, dichiarato "presunto", poiché "dei botti, delle bombe carta, dei fumogeni, dei sassi dai quali i napoletani sarebbero stati bersagliati, non si è rinvenuta alcuna traccia". Secondo i magistrati, quindi, Ciro Esposito avrebbe partecipato ad un regolamento di conti dopo una provocazione non premeditata dell’imputato, "insofferente della presenza dei tifosi napoletani in quello che considera il proprio territorio di ultrà", il quale "attua una bravata lanciando oggetti contro un pullman" di sostenitori azzurri". Antonella Leardi, madre del ragazzo napoletano, commenta amaramente: "Con questa sentenza hanno ucciso mio figlio un’altra volta" e il 27 settembre 2017 scrive una lunga lettera diretta al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, anche in qualità di presidente del Consiglio superiore della Magistratura, dichiarandosi "disgustata, indignata, furiosa per come non la Giustizia, ma l'interpretazione della legge abbia offeso la memoria" di suo figlio e "irriso il dolore e l'attesa di giustizia" loro e degli Italiani. La parola ultima spetta alla cassazione che ratifica la sentenza della corte di appello. Fonte: Saladellamemoriaheysel.i
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15.06.2017
Torino, 3.06.2017, Panico Folla
Piazza San Carlo, Maxi Schermo
Finale Champions League (Juventus - Real Madrid)
Erika Pioletti
La maledizione del sangue che lega la Coppa dei Campioni alla Juventus segna una nuova scia nella storia del club torinese durante la sera del 3 giugno 2017. Questa volta lo scenario tragico non è lo stadio, come avvenuto 32 anni prima nel fatiscente catino dell’Heyzel di Bruxelles, ma Piazza San Carlo, cuore planimetrico nella mappa di Torino, dove per tradizione storica si aggregano le persone nella celebrazione festosa di eventi culturali e sportivi. Proprio qui è stato montato il maxi schermo per la telecronaca della finale di Champions League che impegnerà a Cardiff la Juventus nella difficile impresa contro il Real Madrid di Cristiano Ronaldo. Circa 30 mila persone confluiranno in questa sede, alcune migliaia provenienti da tutta Italia. Già in prima mattinata centinaia di tifosi si posizionano strategicamente davanti allo schermo, affrontando il caldo e l’arsura. Occasione più che ghiotta di spaccio per venditori di bibite, abusivi e non, sufficientemente tollerati dai vigili urbani. È calata la sera e già prima della trasmissione della partita la gente calpesta un mare magnum di bottiglie di plastica, rifiuti e cocci di vetro. L’alcool e la tensione per una partita ormai avviata mestamente verso la china della settima sconfitta in finale di Champions per la Juventus ottenebra i riflessi e la lucidità emotiva della folla, delusa e malinconica. All’improvviso, però, avviene in piazza qualcosa che ad oggi ancora non trova una identificazione certa nelle testimonianze dei presenti. Si è raccontato di un botto violento, probabilmente a causa della caduta di una grata della metropolitana, di sostante urticanti diffuse dall'impianto di aerazione del parcheggio sotterraneo, oppure della presunta esplosione di un petardo, di un urlo di terrore o frutto di una burla idiota. O, magari, la malefica combinazione di due fra questi fattori ? Al di là dell’incipit tremens, qualunque ne sia la causa e la provenienza, il deus panico è stato il solo padrone in campo e ha spostato in poche manciate di migliaia di persone come un’onda ribelle a travolgere ogni cosa, a proiettare sagome fuori di testa schizzate via dal terrore. Psicosi collettiva di un attentato dell’Isis… Superfluo dire che sarebbe il primo in Italia e che di fatto sia frutto soltanto della loro immaginazione. Accade. È come se lo fosse…
Scene apocalittiche di una follia comune che produce masse di corpi allo sbando e lascia al suolo il drammatico scenario come di un combattimento: 1527 feriti nel tentativo maldestro, ostruito e andato a male di fuga. Una guerra, della psiche. Alcuni fra loro sono molto gravi, una giovane donna è in fin di vita. Viene da Domodossola, si chiama Erika Pioletti, non una tifosa di calcio, ma schierata in piazza soltanto per amore del suo fidanzato, tifoso juventino, per fargli un regalo nel giorno del suo compleanno, nonostante il timore e qualche presentimento confidato ai suoi cari il giorno prima. È entrata subito in coma e nonostante un intervento chirurgico dei medici vi resta per molti giorni. Morirà 12 giorni dopo in ospedale, al "Giovanni Bosco" di Torino, il 15 giugno 2017. Il giorno dopo il caos esplodono le polemiche e si avviano puntualmente le indagini della magistratura che non risparmiano Sindaco e Autorità del capoluogo piemontese. Viene aperto subito un fascicolo per "lesioni personali" che in seguito alla morte di Erika vedrà aggiunto un secondo per "omicidio colposo". Nel guado di speculazioni di ogni sorta e di sciacallaggio politico avanzano le indagini della procura verso la verità. In esame la causa originaria della psicosi collettiva ed eventuali omissioni o imperfezioni nel piano dell’ordine pubblico e della sicurezza nella manifestazione. Il giorno dopo il caos esplodono le polemiche e si avviano puntualmente le indagini della magistratura che non risparmiano Sindaco e Autorità del capoluogo piemontese. Viene aperto subito un fascicolo per "lesioni personali" che in seguito alla morte di Erika vedrà aggiunto un secondo per "omicidio colposo". Nel guado di speculazioni di ogni sorta e di sciacallaggio politico avanzano le indagini della procura verso la verità. In esame la causa originaria della psicosi collettiva ed eventuali omissioni o imperfezioni nel piano dell’ordine pubblico e della sicurezza nella manifestazione. In realtà l’inchiesta si sdoppierà in due binari della giustizia: uno incentrato sui fatti avvenuti all’interno della piazza, l’altro sulle responsabilità a monte delle istituzioni e degli enti organizzatori, ma a corollario delle indagini della magistratura fioccheranno le richieste di risarcimento di centinaia di persone. Il resto della storia è oramai noto, trascritta in queste pagine… Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
26.12.2018 
Milano, Investimento Suv
Via Sant’Elena, Scontri Tifoserie
(Internazionale - Napoli)
Daniele Belardinelli
Mercoledì 26 dicembre 2018 al "Meazza" è di scena Inter-Napoli. Le tifoserie delle due squadre sono nemiche da sempre. A due chilometri dallo stadio avvengono degli scontri un’ora prima dell’inizio della gara. Si tratta di una autentica imboscata di un centinaio di ultras nerazzurri ai danni dei tifosi napoletani in trasferta che transitano in carovana verso San Siro con una decina di minivan. L’attacco è armato ed estremamente violento, ma i tifosi partenopei (una settantina) dopo un iniziale momento di sbandamento scendono dalle autovetture e si avventano sugli aggressori affrontandoli in uno scontro selvaggio fra pugni, calci, bastonate, petardi e fumogeni. Quattro di loro sono accoltellati prima che l’arrivo delle forze dell’ordine divida il fronte. Nel parapiglia ha avuto la peggio un tifoso dell’Inter, investito da un suv guidato da un sostenitore azzurro. Nelle immagini lo si vede cadere per terra urtato da una utilitaria e poi travolto da un suv che gli schiaccia il bacino con la conseguente rottura degli organi interni e rompe le gambe. Sono proprio gli stessi tifosi del Napoli a soccorrerlo, segnalandolo alla Polizia e riconsegnandolo con ampi cenni di tregua ai compagni. Trasportato d’urgenza all’Ospedale San Carlo in condizioni gravissime, non ha perso ancora conoscenza e afferma di essere stato investito da un’auto, di un "incidente stradale". Qui vi spira alle 4.30 della mattina seguente. Era ancora sotto i ferri, in sala operatoria, a causa dei letali traumi conseguenti all’investimento. È il quarantenne Daniele Belardinelli, detto "Dede", classe 1979, di Buguggiate, un paesello in provincia di Varese. Sposato e con due figli, lavorava in una azienda di piastrelle. Un capo della tifoseria varesina, appassionato anche di scherma corta e arti marziali, molto temuto e stimato dalle altre curve italiane e che aveva già collezionato 2 daspo per reati consumati in manifestazioni sportive. Subito le indagini, avvalendosi delle immagini di quattro telecamere di sorveglianza dislocate sul palazzo all’angolo tra via Fratelli Zoia e via Novara, porteranno davanti ai giudici molti esponenti della tifoseria organizzata interista per la premeditazione dell’assalto, ma il processo cardine per la morte del Belardinelli riguarderà soltanto un imprenditore napoletano incensurato, alla guida di una Renault, accusato di "omicidio" dai magistrati. Data la poca nitidezza delle immagini al buio, disturbate dai bengala e non essendoci un filmato dello schiacciamento i molti rilevamenti e l’incidente probatorio saranno focali per tutti i legali in causa il ruolo della prova scientifica affinché si stabilisca la natura colposa o volontaria del reato stradale, determinante per la stima della condanna dell’investitore alla guida del mezzo. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
25.01.2019
Torino, 3.06.2017, Panico Folla
Piazza San Carlo, Maxi Schermo
Finale Champions League (Juventus - Real Madrid)
Marisa Amato
Ferita molto gravemente nel nefasto 3 giugno 2017 di Piazza San Carlo a Torino, la signora Marisa Amato resta tetraplegica all’età di 60 anni a causa di una lesione cervicale e poi muore il 25.01.2019 per complicanze polmonari. Beffardo pensare che non si trovava in piazza durante la partita, non essendo amante del calcio, ma stava passeggiando tranquillamente assieme a suo marito, Vincenzo D’Ingeo, sotto gli eleganti portici della piazza torinese. La fiumana di folla nel panico totale li travolge dirompendo all’improvviso. Anche il marito ne riporta ferite invasive, sottoposto ad alcuni interventi ai polmoni e ad una tracheotomia. Fortunatamente si riprenderà. I figli, Viviana e Danilo, lanciano un accorato appello pubblico di non lasciarli isolati che il Sindaco Appendino e il ministro degli Interni Minniti accolgono. Saranno successivamente anche i fondatori della Onlus "I sogni di Nonna Marisa" creata in memoria della madre nel 2019 per progetti di solidarietà sociale. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it
19.01.2020
Basentana, Investimento Auto
Vaglio, Scontri Tifoserie
(Brienza-Vultur Rionero)
Fabio Berardino Tucciariello
23.01.2020
Torino (3.06.2017), Panico Folla
Piazza San Carlo, Maxi Schermo
Finale Champions League (Juventus - Real Madrid)
 Anthony Bucci
L’ architetto sammarinese Anthony Bucci è da considerarsi a tutti gli effetti, soprattutto morali e probabilmente anche legali, la terza vittima della tragedia di Piazza San Carlo a Torino il 3 giugno 2017. Nella ressa scaturita dal panico della folla, prima rischia la vita, schiacciato dalle persone in fuga, poi tratto in salvo dal peso di 5 persone ammassate sopra di dirà ai giornalisti: "Ho visto la morte in faccia". Per molti mesi, dolorante e invalido sulla sedia a rotelle, è impossibilitato al suo lavoro. Anthony, purtroppo, soffriva già di diabete e la costretta inattività gli procura la calcificazione e l’ostruzione dei vasi sanguigni. Nel 2018 subisce l’amputazione di un piede e avvia una battaglia legale di risarcimento aderendo come parte civile al processo in Corte di Assise contro l’amministrazione pubblica e gli organizzatori dell’evento in piazza. Per un peggioramento delle sue condizioni di salute, muore all’età di 49 anni nell’ospedale di Monza il 23 gennaio 2020. Il suo legale, Caterina Biafora, ha chiesto all’ospedale "San Luigi" di Orbassano le cartelle cliniche del ricovero per comprendere, attraverso altra consulenza periziale, l’eventuale nesso causale del danno subito dall’assistito con l’amputazione del piede e con il decesso. Fonte: Saladellamemoriaheysel.it

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