Racconto di un viaggio
all'Heysel, tra speranza e disillusione
di Donato Porcarelli
"Tuttavia il corpo non riesce a liberarsi del
ricordo. È una rete, una ventosa, il ricordo, prende i
muscoli le ossa il respiro. Tu lo mantieni presente e
lui ti mantiene vivo. A volte, tu e il tuo ricordo siete
il futuro".
Il giorno perduto -
Racconto di un viaggio all’Heysel
Anthony Cartwright e
Gian Luca Favetto @66thand2nd
di Maria Silvia Riccio
"Il viaggio, a
volte, è già una storia. Racchiude in sé l’avventura, le
gesta memorabili di una vita, la trama di un racconto
che resiste agli anni, la promessa di un’esistenza
diversa, piena e felice".
Il
29 maggio 1985 è una brutta data. Se non mi ricordo male
era finita pure tra i temi dell’esame di maturità di
quell’anno, l’anno in cui mi sono diplomata anche io.
Una finale di Coppa dei Campioni tra Juve e Liverpool
giocata allo stadio Heysel di Bruxelles e finita in
tragedia, tragedia ancor più nera se si pensa che, per
placare gli animi - così si disse - per evitare che
l’incidente diventasse guerra o solo perché qualcuno,
davanti ai teleschermi, si aspettava lo spettacolo e
spettacolo doveva essere, la partita si giocò in
presenza dei trentanove cadaveri allineati ai lati del
campo di calcio. Il giorno perduto è la storia bifronte
di un tifoso liverpudlian, giovane disoccupato dell’era
thatcheriana, e di quattro tifosi juventini che partono,
l’uno dall’Inghilterra, gli altri dalla Valchiusella,
alla volta di Bruxelles, convinti di assistere ad una
partita, ad una finale di coppa, pronti a festeggiare, a
celebrare la vittoria della propria squadra e certo non
preparati alla morte in diretta. Chi si aspetta un
resoconto di quella partita rimarrà deluso: è il giorno
perduto. C’è un vuoto, ci sono i nomi di quei trentanove
tifosi, in gran parte juventini, schiacciati dagli
spalti che cedettero sotto il peso della carica degli
hooligans; c’è lo sconcerto, l’incredulità, il rifiuto
di accettare quell’epilogo di un momento che doveva
essere di festa. Invece, il racconto indugia sul prima,
sui tre giorni che precedono la partita, e sconfina con
una breve incursione nell’oggi di trent’anni più tardi.
Quello scorcio degli anni ottanta è narrato con un tono
malinconico che restituisce il senso di vacuo che ci
viene se guardiamo indietro e ripensiamo agli anni
dell’edonismo reaganiano. Il giorno perduto è scritto a
quattro mani, la parte concepita in inglese tradotta da
Daniele Petruccioli, e alterna la narrazione dei due
viaggi, due esperienze speculari, pur se totalmente
diverse, che hanno in comune l’idea che il destino si
incontra durante questo viaggio. "E poi considera gli
occhi che lo stanno guardando, per una frazione di
secondo capisce che vedono le stesse cose che vede lui,
le persone perdute che ci hanno lasciato e quelle che
rimangono. Quegli occhi guardano un uomo che c’è, giorno
dopo giorno. Un barlume tra i due, si riconoscono
attraverso i tavoli, attraverso una piazza inondata dal
sole e una lattina accartocciata per giocare a calcio.
Non si sa mai cosa ci si può aspettare. Christy pensa
che forse è la vita, quella che stanno guardando".
Il giorno perduto: racconto di un viaggio all'Heysel
di Oscar Buonamano
Il
giorno perduto è il racconto di un viaggio e di una
lunga attesa. Attesa che prende il sopravvento e aiuta a
non pensare sempre e in modo ossessivo all’argomento
centrale del libro: la tragedia dell’Heysel. Ovvero
tutto è costruito affinché l’evento clou, la ragion
d’essere stessa del libro, sia il punto di arrivo della
narrazione. Alla fine della lettura ci si accorge però
che l’attesa e il viaggio sono narrazione nella
narrazione, per certi versi quasi svincolati dal
contesto in cui sono inseriti. Nel breve spazio
temporale che separa la partenza dall’arrivo, i
protagonisti compiono un viaggio nel viaggio e disvelano
la propria vita come in un romanzo di formazione,
scoprendo la condizione nuova dell’età adulta. "Se
qualcuno vi racconta che gli anni Ottanta sono stati
felici, non credetegli. Sono stati terribili. Per un
paio di generazioni contemporaneamente in tutta Europa
hanno rappresentato la fine dell’adolescenza e
l’ingresso nell’illusione. Ma i film degli anni Ottanta
sono formidabili. Il cinema degli anni Ottanta è
l’adolescenza che resiste". Riflessioni e ricordi che
fanno riemergere il mondo di una gioventù che, come la
gioventù di ogni generazione, è pura perché non ancora
contaminata dalla realtà del mondo degli adulti che,
sempre, sacrifica molto sull’altare del dio denaro. Una
fauna umana vergine che si reca allo stadio per
assistere a una partita di calcio e si trova invece, suo
malgrado, ad essere protagonista di una delle pagine più
brutte della storia del calcio mondiale. "Gli viene in
mente Dalglish. In coppa non ha ancora segnato, non ce
n’è stato bisogno, ma lo farà. A Lisbona è stato
espulso. Christy lo vede che riceve palla quasi di
fronte alla porta. La stoppa di coscia, si gira, tira,
la palla sale e poi si abbassa e si infila nelle sette".
Una gioventù che sogna e riesce a vedere i propri idoli
ovunque, anche nei sogni ad occhi aperti che, sempre,
accompagnano la crescita di ognuno di noi. I due viaggi
che costruiscono la narrazione sono compiuti da un
gruppo di italiani, tifosi della Juventus che partono
dal Piemonte con una R4 per raggiungere Bruxelles, e da
un ragazzo inglese che, solitario, raggiunge la città
che ospiterà la finale di Coppa dei Campioni. Christy,
il protagonista inglese della vicenda, "Adora il
silenzio attorno allo stadio quando non è giorno di
partita", a testimoniare una tensione, quasi, religiosa
nei confronti del calcio e dei suoi protagonisti. Per
questa ragione durante il suo viaggio verso la conquista
della Coppa "vedrà" spesso, fantasticando con la sua
mente, l’azione del possibile gol vittoria dei rossi di
Liverpool. "I viaggi, li fai per raccontarli quando
torni, pensa Angelo.
Immagina
una giornata di primavera nel cuore dell’Europa unita…
29 maggio 1985: due macchie di colore si aggirano nelle
strade di Bruxelles e inseguono un orizzonte di stelle,
solcato dalla Coppa con le Grandi Orecchie. Juventus e
Liverpool: il dominio tricolore e diacronico dei
bianconeri contro la forza rossa dei campioni in carica;
il mosaico nazionale della "Vecchia Signora" e lo
spirito "scouser" del Merseyside; le speranze della
"prima volta europea" contro le brame di un impero
calcistico. La passione di due popoli cresce nel
pomeriggio dell’attesa: la partita del secolo appende le
culle del football al filo dell’ansia: l’attesa sospende
i pensieri in un vuoto del tempo e spalanca le porte
alle ricerche dell’Io. Le domande acquistano senso e i
dubbi si riempiono d’urgenza: i viaggi verso l’Heysel
rivelano le coscienze dei tifosi e le radici di
esistenze smarrite nei fremiti della palla. Anthony
Cartwright e Gian Luca Favetto riportano le lancette del
tempo alla vigilia della rottura: la notte dell’orrore
non nasce nel vuoto di un destino segnato, ma germoglia
tra le sinapsi di un’epoca convulsa e si alimenta nelle
dita intrecciate di due sistemi opposti e complementari.
Quanti soffi d’amore per una bandiera baciano le strade
del Belgio senza la certezza di un biglietto ! Quanti
occhi si posano sul palco del trionfo e immaginano
Dalglish o Platini ! Quante mani invocano il cielo per
non subire l’ira del "bello di notte" Boniek o per non
vedere mai più le danze del grottesco Grobbelaar ?
Quante vite esplorano la città dell’Europa con la gioia
di un erasmus non programmato ? Quante schiene fremono
per la paura di un coltello ? La partita avvinghia
sensazioni contrapposte agli spalti del vecchio Heysel e
l’anima nera dello sport britannico conquista le pietre.
I cancelli non filtrano, le misure non bastano, le
pietre non reggono: la morte irrompe nel campo della
gloria e lo insozza con la vergogna dell’ipocrisia. La
violenza non si cura dei confini: l’Inghilterra
proibisce i riots ? La frontiera europea promette
obiettivi e telecamere, lacrime e silenzi, appelli alla
resa e spiriti d’impresa: "the show must go on", ma le
vite dei salvati portano incise negli sguardi le tracce
dei sommersi.
La strage all’ Heysel:
se la finale di coppa diventa un inferno
di Massimiliano Panarari
ANALISI - Nell'anniversario del massacro Gian
Luca Favetto e Anthony Cartwright raccontano la tragedia
da due punti di vista: quelli di una coppia di tifosi
avversari, per scoprire cosa cambiò per sempre da quel
giorno.
Il giorno perduto -
Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto
di Luca Sanguinetti
Sono
passati trent’anni dalla strage dell’Heysel dove, prima
della finale di coppa dei Campioni fra Juventus e
Liverpool, morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne
rimasero ferite oltre 600. Una pagina dello sport
europeo che lascia dietro di sé molti dubbi ,
interrogativi e tante dolorose cicatrici. In questo
libro due autori diversi, per lingua e per generazione,
rievocano quella drammatica giornata narrando la storia
di due gruppi di tifosi che partono dai loro rispettivi
paesi diretti entrambi verso Bruxelles. Il titolo del
libro ci fa subito capire la prospettiva degli autori.
Il racconto non è basato semplicemente sul giorno della
tragedia, ma piuttosto sui giorni che la precedono
descrivendo le aspettative di chi si apprestava a
raggiungere la capitale belga per vedere la partita.
L’idea degli scrittori è stata di descrivere quegli
eventi dalla prospettiva di un gruppo di quattro ragazzi
italiani, provenienti da un piccolo borgo della
Valchiusella, e di un solitario inglese nato e cresciuto
a Newport piccolo sobborgo industriale vicino a
Liverpool. Tutti i personaggi vengono identificati
spesso da un soprannome, ma se per quanto riguarda gli
italiani il nomignolo è riferito ad una caratteristica
fisica o ad un’abilità calcistica, per quanto riguarda
l’inglese Charlie il chiamarlo Monk, ovvero monaco,
serve subito a far capire al lettore il carattere
schivo, solitario e taciturno. Quattro amici, molto
legati fra loro, si preparano e partono con una vecchia
Renault 4 da Breglio per raggiungere Bruxelles dove si
augurano che la Juventus, la loro squadra del loro
cuore, vinca la Coppa dei Campioni. In Inghilterra vive
a Newport Christy un ragazzo della loro stessa età. Il
ragazzo inglese, a differenza degli italiani, vive una
situazione di disagio famigliare per la fuga della madre
e per la lenta malattia del padre. Monk, il soprannome
dato dagli autori al personaggio inglese, si sente
sempre solo e gli unici momenti in cui si sente vivo
sono quando è nel Kop ovvero, insieme ad altri tifosi,
in curva. Il suo desiderio di partire verso Bruxelles è
dominato dal senso di fuga verso una città ed un paese
(l’Inghilterra dell’era Thatcher) che non gli permette
di trovare un’occupazione e quindi di sentirsi
realizzato socialmente.
Una lunga linea retta che, nelle vite di molti
giovani diventati adulti nei primi anni Ottanta,
registra una frattura, un impazzimento del diagramma,
quasi uno spartiacque: è la tragedia dell'Heysel.
A tu per tu con… Gian Luca Favetto
e Antony Cartwright
di Luca Sanguinetti
Quest’anno ricorre il trentesimo
anniversario della tragedia dell’Heysel a Bruxelles
dove, poco prima della partita fra Juventus e Liverpool,
morirono trentanove persone e oltre seicento rimasero
ferite. Il salone del libro di Torino di quest’anno è
stata l’occasione per intervistare due scrittori, uno
italiano, Gian Luca Favetto, e l’altro inglese, Antony
Cartwright, che a quattro mani hanno fatto rivivere
quella drammatica giornata nel loro libro "Il giorno
perduto: racconto di un viaggio all’Heysel". La
particolarità di questo libro è stata la decisione dei
due autori d’immaginare le aspettative ed i sogni di
italiani ed inglesi prima della partita attraverso due
viaggi, uno di un gruppo di amici della Valchiusella e
l’altro di un giovane solitario inglese di Newport,
entrambi diretti verso la capitale belga.
Il primo pensiero che mi è venuto
leggendo il tuo libro è il titolo che per me simboleggia
l’occasione mancata. Un giorno che fino all’ultimo sa di
festa, descritto bene dalla partita di calcio nella
piazza centrale di Bruxelles, ma soprattutto da questa
frase "E’ uno stringersi di mani, darsi pacche sulle
spalle tra quelli del Liverpool e quelli della Juventus"
(pag. 275), ma che all’improvviso si tinge di sangue e
di orrore. Come hai scelto questo titolo ?
"La decisione del titolo non fu
facile perché l’editore voleva che in poche parole
riassumessimo il senso del libro per cui ci confrontammo
molto fra di noi. L’idea però mi venne una volta in cui
ero rilassato in montagna ed assistevo, per caso, alla
preparazione di una festa di paese con tutta la passione
ed il coinvolgimento che c’è nel celebrare un evento che
si aspetta con trepidazione. Ho immaginato lo stato
d’animo di ragazzi che hanno aspettato un evento, per
loro memorabile, e poi all’improvviso dopo aver
viaggiato dal loro paesino fino al centro dell’Europa
tutto svanisce colorandosi di sangue".
Mi sono chiesto, in un momento in
cui vanno di moda i grandi campioni e le grandi star del
passato pubblicano le loro autobiografie, cosa t’abbia
spinto a mettere nel tuo libro come riferimento, per dei
giovani tifosi di quel periodo, un giocatore come
Koetting ai più sconosciuto ?
"Nel romanzo abbiamo sempre cercato
di creare una sorta di contrasto nel viaggio parallelo
dei giovani protagonisti. Gli italiani sono un gruppo
coeso di quattro amici che provengono da un paesino di
campagna, mentre Christie l’inglese è un solitario,
caratterizzato bene dal suo soprannome Monk, che viene
da Newport una città industriale inglese. Cosi in questa
forma di contrasti, mentre l’inglese ha nel romanzo come
beniamini due grandi stelle del calcio inglese come Ian
Rush e Dalglish, abbiamo scelto che il giocatore di
riferimento per gli italiani non dovesse essere famoso.
Nel mio paese, dice Favetto, ha vissuto questo giocatore
Koetting è quindi m’è sembrato logico sceglierlo come
personaggio di riferimento per i quattro amici
juventini".
Il viaggio come momento di
passaggio per tutti i protagonisti. Mi sembra che nel
tuo libro, attraverso le voci sia dei quattro italiani
che del giovane inglese, ci sia una visione chiara del
passato, una consapevolezza del momento presente, ma il
futuro sembra sfumato, come un ombra misteriosa di cui
avere paura. Hai pensato ai giovani d’oggi che nella
costante precarietà vedono il futuro incerto quando hai
fatto chiedere ai tuoi personaggi cosa desiderassero per
il loro futuro ? (Cit. "Qual è il desiderio più forte ?
Cosa desideriamo per il nostro futuro ? pag. 221)
"Nel libro s’è cercato di fondere
due temi che sono spesso presenti sia nella vita che
nella letteratura. Il primo tema, presente in ogni
cultura ed in ogni epoca, è quello del passaggio dalla
giovinezza all’età adulta e l’altro è quello di come i
giovani di ogni generazioni debbano affrontare
ciclicamente le crisi economiche e sociali. Il modo
scelto per affrontare questo passaggio è stato il
viaggio verso una meta specifica dove c’è un prima fatto
di speranze e sogni, ma, obbligatoriamente, alla fine di
questo percorso ci sarà un futuro che si dovrà
affrontare".
Com’è stato per te che (forse) hai
vissuto quella giornata rivivere nella scrittura quel
tragico giorno ? Il giorno perduto.
"Ho pensato che per rendere meglio
l’idea dovessi entrare nei miei personaggi e rivivere le
loro vite. Io ed il mio collega inglese abbiamo pensato
di dilatare il tempo dei protagonisti e vivere con loro
la preparazione della trasferta, il lungo viaggio verso
Bruxelles e la giornata stessa della partita. Credo che
solo togliendo il nostro vissuto, ma immaginando lo
stato d’animo di cinque adolescenti diversi con i loro
sogni e le loro speranze si potesse cogliere al meglio
quei momenti".
Mi ha colpito l’impotenza
dell’allenatore del Liverpool di fronte allo scempio di
quei teppisti. Avevi in mente un immagine specifica
quando hai descritto il suo tentativo, quasi solitario,
di arginare quella turba scatenata ?
"L’allenatore del Liverpool Joe
Fagan era un simbolo della classe operaia (working class)
che si sentiva fiero del suo esser parte della comunità
attraverso il lavoro. Una persona che credeva
nell’integrità, nel duro lavoro e nella collaborazione
all’interno di un gruppo. Fagan aveva visto la follia
della guerra e non capiva come si potesse riprodurre
nuovamente il caos incontrollato. L’immagine che m’è
venuta in mente è quella di un capitano solo in mezzo
alla burrasca che cerca di governare una nave oramai in
preda alle onde sempre più alte e minacciose".
C’è un motivo particolare per cui
l’inglese Chrystie, detto Monk, viaggia da solo ?
Un racconto a quattro mani, a
montaggio alternato, dai campi della Valchiusella e dai
sobborghi di Liverpool, direzione Bruxelles, una
traversata in auto lunga trent’anni fino al 29 maggio
1985. S’intitola Il giorno perduto. Racconto di un
viaggio all’Heysel, il romanzo di Gian Luca Favetto e
Anthony Cartwright, edito da 66thand2nd.
"Sarà mica una città Bruxelles ! È
una vacanza. Una vacanza di città abitata da stranieri -
tutti forestieri nel cuore dell’Europa, anche i belgi
residenti. Il suo centro ha qualcosa di fuori dal tempo,
pensa, è un abbozzo di futuro con dentro molto passato:
come se mancasse il presente". È il racconto di
un’occasione mancata, sospesa nella memoria, il romanzo
sulla tragedia dell’Heysel, il giorno della finale di
Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, trent’anni
fa, di Gian Luca Favetto, scrittore, giornalista e
drammaturgo torinese, e Anthony Cartwright, autore
originario del Black Country, nelle Midlands occidentali
inglesi, terra di miniere di carbone, fonderie di ferro
e centri siderurgici. Un’avventura letteraria che parte
da due geografie diverse, "raccontate in una lingua
diversa", riporta Gian Luca Favetto, "confluite nella
scrittura, dove uno è stato il primo lettore dell’altro
e siamo arrivati alla fine ad adottare quasi un
linguaggio comune, ritmicamente affine". Favetto, in
italiano, e Cartwright, in inglese (con traduzione di
Daniele Petruccioli), raccontano il primo le storie di
Charlie, Mich, Angelo e Miranda, quattro "sopravvissuti
all’adolescenza" che partono in una Renault 4 bianca
dalla Valchiusella, e il secondo il viaggio di
Christopher, detto Christy, 23 anni, poche aspirazioni,
fuoriuscito dalla generazione dei minatori distrutti
dall’amianto. Una cronaca settimanale della preparazione
alla finale di Coppa dei Campioni, di un buco nero nella
storia dello sport internazionale, ma anche dell’epilogo
di una generazione, di uomini che, tirando un calcio a
un pallone, erano finiti nei sogni di altri uomini, il
lieto fine perduto di disperazioni singole e
irreparabili. Una narrazione che si dilata, giorno dopo
giorno, seguendo il viaggio, la vera posta in gioco,
ancora prima del fischio d’inizio.
Si parte allora, ma
l’immaginazione del viaggio si rivela più intensa del
viaggio stesso: la strada che dai sobborghi di Liverpool
porta a Bruxelles ha lo stesso grigio della periferia,
"il treno scivola in una interminabile schiera di case
popolari, casermoni lunghi e stretti e facciate fatte
con la ghiaia tipiche del dopoguerra", si piomba in un
fotogramma di un vecchio film di Mark Herman, "Grazie,
signora Thatcher", ci si aspetta da una pagina all’altra
di sentire gli ottoni della banda dei minatori in
sciopero suonare per l’ultima volta, prima di soccombere
al giro di vite della lady di ferro. E anche dalla
Valchiusella, poco lontano da Torino, la strada sembra
annientare, una dopo l’altra, le illusioni della
partenza, anche la piazza più famosa di Londra, Piccadilly Circus. Quando c’è una bolgia si dice "sembra
Piccadilly Circus", e adesso eccola qua, proprio di
fronte a lui, ma questa folla non è niente, rivoli di
persone senza meta". L’eccitazione sembra dissolversi
nei chilometri, "tre giorni fa si bagnava in Chiusella e
ora è qui e non sa che cosa volere". Vorrebbe non
desiderare di essere altrove, per una volta, vorrebbe
godersi quello che sta vivendo, quello che sta
aspettando, godersi l’ora il minuto il luogo dove si
trova e, arrivati di fronte allo stadio, anche il famoso
Heysel pare quasi il Pistoni di Ivrea. "Christy non ha
un lavoro, ha 23 anni, non è un ancora un uomo ma non è
più un ragazzo", racconta Cartwright, "il tifo per la
squadra di calcio se lo ritrova quasi tra le mani, come
unico appiglio per darsi un’identità". Christy parte per
vedere il Liverpool, ma anche per sfuggire all’apatia
del confine acqueo del mondo, la riva del fiume Mersey
dove ha trascorso tutta la vita, alle domande della
nonna, ai polmoni del padre che traboccano di amianto, a
una vita scandita dai sussidi di disoccupazione. Per
essere finalmente "un uomo, con una meta, un uomo che
allargherà la sua cerchia di conoscenze", anche se ha
ancora i soldi in tre posti diversi, come gli ha
consigliato la nonna prima di prendere il treno. La
partita era l’inizio di tutto, di una esistenza altra.
Allo stadio dell’Heysel non poteva che essere così,
c’era stato anche Mennea. "Grande Mennea, porta fortuna
!".
La Grand Place, il 29 maggio 1985, poche ore prima
del fischio d’inizio, non esiste, è un luogo smarrito
nel "viavai delle persone, a gruppi chiassosi, a coppie,
a tribù, singole figure solitarie, turisti, cittadini
frettolosi, giovani, vecchi, bambini tenuti per mano; un
affollamento in quell’angolo, un altro laggiù; mute di
tifosi inglesi, con sciarpe, birre e schiamazzi; gli
italiani festosi e invadenti; due poliziotti, quattro,
cinque, soltanto cinque poliziotti; grida, cori,
canzoni: non fai in tempo a registrarlo, e tutto per un
attimo svanisce - il lungo attimo in cui, mentre entri,
si manifesta la piazza". La piazza appare fugace, "è il
luogo dove io e Anthony ci siamo incontrati, di persona,
alla fine del nostro viaggio", racconta Favetto,
svelando il dietro le quinte del libro, "abbiamo rifatto
i passi che i nostri protagonisti avrebbero potuto fare,
gli stessi che qualcuno avrà sicuramente fatto quel
pomeriggio di trent’anni fa". "Non ridete", è
un’ammonizione preventiva quella di Favetto, alla
presentazione del libro, "ma abbiamo voluto fare poesia,
raccontare una storia e non restituire i fatti, creare
letteratura e non trascrivere una cronaca". Nelle pagine
finali, la narrazione di quello che accadde tra le 19.21
e le 21.40 all’Heysel è diluita nello spazio bianco del
foglio: "per raccontare i fatti, abbiamo dovuto
allontanarci", una pura scelta stilistica, si lascia
spazio a qualche trafiletto di giornale, a ricordi
confusi e poi ai nomi e alle età delle 39 vittime, il
settore Z compare una sola volta. La letteratura diventa
rarefatta, anche graficamente, come se i ricordi fossero
frammenti che scivolano da un lato all’altro della
pagina, rimasti lì in un angolo della testa dopo
trent’anni. "Era un bellissimo imbrunire", riporta
Favetto. La narrazione rallenta.
Juventus-Liverpool: la finale
maledetta di Coppa dei Campioni e un viaggio che cambia
le vite dei protagonisti di un romanzo firmato da
Favetto e Cartwright.
Ultrasport - Anthony Cartwright e
Gian Luca Favetto scrivono a quattro mani un romanzo che
segue i tifosi da Liverpool e da Torino (ed.
66thand2nd).
Trent’anni fa la finale di Coppa
Campioni, oggi Champions League, ebbe come epilogo una
tragedia con alcune decine di morti allo stadio Heysel
di Bruxelles. Poco prima del calcio d’inizio, in un
piccolo stadio assiepato fino all’inverosimile, le
tifoseria bianconera e quella dei Reds del Liverpool
erano divisi da una recinzione del tutto inconsistente
per frenare la furia degli hooligans inglesi, che in
massa avevano deciso di attaccare il settore bianconero.
Lo spostamento improvviso di alcune migliaia di corpi,
cui si aggiunse quello dei bianconeri, provocò il
cedimento delle tribune, il soffocamento e lo
schiacciamento dei tifosi che cercavano una via di fuga.
Morirono in tanti, ma i più furono gli juventini. Una
morte ignorata dalla spettacolo della partita, che si
disputò comunque, in nome dello spettacolo che doveva
continuare. L’indicazione che arrivò dalla Rai al
telecronista fu quella di tenersi sul vago, di ignorare
il più possibile il riferimento a quei corpi privi di
vita, che giacevano uno di fianco all’altro sotto le
tribune, questa volta senza distinzione di tifo. Corpi
inermi che indossavano le maglie della Juventus o del
Liverpool, (NdR:
all’Heysel non è morto nessun tifoso
del Liverpool !) e al collo le sciarpe delle rispettive
squadre, mentre le due compagini in campo disputavano la
finale. La Juve usufruì di un rigore realizzato da
Platini, alzò la coppa al cielo e fece un giro festoso
intorno al campo. Quella tragedia fu rapidamente rimossa
dalla chiacchiera del Bar Sport Italia, che proprio in
quegli anni prendeva piede, dalle Tv private al nefasto
Processo del Lunedi di Biscardi in onda su Rai 3. Una
tragedia caduta nell’oblio, sostituita dalla costruzione
festosa degli stadi di Italia ’90 e dalle tangenti che
rimpinguavano le casse dei partiti della prima
repubblica. A chi appartenevano quei corpi posti uno a
fianco all’altro all’Heysel ? Alle periferie degradate
di Torino e di Liverpool (NdR: repetita iuvant, all’Heysel non è morto nessun tifoso del Liverpool !),
dove la classe operaia aveva rispettivamente perso con i
35 giorni dello sciopero alla Fiat e la rimozione della
scala mobile, e con il pugno di ferro di Margaret
Thatcher sullo sciopero dei minatori inglesi. Anthony
Cartwright, scrittore nato nel Black Country inglese e
già noto al pubblico italiano con il romanzo sportivo Heartland, ambientato durante i mondiali di calcio del
2002, e Gian Luca Favetto di Torino, da angolazioni
diverse raccontano il lungo viaggio dei tifosi dalle
rispettive città fino all’Heysel nel bel libro Il giorno
perduto (66thand2nd, 18 euro).
Anthony Cartwright e Gian Luca
Favetto - Il giorno perduto
di Gianluigi Bodi
Si può parlare di qualcosa di così
terribile e triste anche senza scadere nel patetico,
senza far leva sul facile sentimentalismo da centro
commerciale, senza scadere nei meccanismi della lacrima
da strappare a tutti i costi. Anthony Cartwright e Gian
Luca Favetto raccontano ne "Il giorno perduto" la triste
vicenda della tragedia dell’Heysel con un esercizio di
pura letteratura, eppure una lacrima scende. Per chi non
sapesse cos’è l’Heysel. L’Heysel è il nome di uno
stadio, ma è anche il nome di una tragedia. Finale di
Coppa dei Campioni 85 tra Juventus e Liverpool. Poco
prima dell’inizio della partita una frangia ubriaca e
violenta della tifoseria del Liverpool carica i tifosi
della Juventus stipati nel settore Z. Spinti dalla paura
i tifosi indietreggiano, fino a che non incontrano un
muro che delimitano uno degli ingressi al campo. Il muro
cede. 39 persone muoiono CALPESTATE e SCHIACCIATE. Ho
affrontato questo romanzo con molta cautela,
avvicinandomi a piccoli passi. La strage dell’Heysel è
una di quelle cose che ricorderò con tristezza per tutta
la vita. Quella sera ero davanti alla TV, come milioni
di altri spettatori, per guardare una partita. Ho visto
la bestialità umana. Per questo e per altri motivi
desideravo ardentemente che "Il giorno perduto" non
fosse un’operazione commerciale. Un tentativo di
speculare sul sentimento relativo a quel fatto di
sangue. Per rispetto alla memoria, per rispetto delle
famiglie di chi non c’è più. Mano a mano che le pagine
scorrevano, mentre facevo conoscenza con Christy e con
la controparte italiana Mich e i suoi amici, mi sono
trovato a sprofondare in un romanzo denso e toccante. Da
una parte un ragazzo schivo e solitario, soprannominato
Monk. Dall’altra un gruppo di amici, che si è portato
gli strumenti per suonare e far festa, che pensa alle
ragazze e al futuro. I due autori ci presentano due
parti di uno schieramento che, prima di arrivare allo
stadio, si sfiorerà nella Grand Place, con il suo essere
essa stessa una sorta di stadio. Con il suo essere forse
il palcoscenico ideale per una sfida più grande della
sfida calcistica, la sfida al futuro. Una marcia di
avvicinamento ad un giorno, un luogo, un evento, che
strapperà a molti la giovinezza. Perché non tutti quelli
che sono usciti vivi da quella esperienza l’hanno
lasciata alle spalle. Uno dei motivi che mi fa dire che
Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto sono riusciti a
passare indenni attraverso le sabbie mobili del ricordo
e del rispetto di questo ricordo è lo stesso motivo che
mi fa dire di aver letto un romanzo toccante. Sono
riusciti ad umanizzare le vittime e i carnefici. Sono
riusciti a costruire il percorso che li ha portati lì
quella sera, non solo un percorso spaziale, ma anche
temporale. Leggendo, non puoi far meno di apprezzare la
loro vitalità, i loro difetti, il loro odio, la loro
fede calcistica. La strage dell’Heysel è qualcosa che
non si può dimenticare. E’ la stessa tifoseria juventina
a chiederlo. Ci sarebbero questioni riguardanti il
rapporto tra tifosi e società in riferimento a questo
particolare evento che sono importanti, ma non possono
essere sviluppate all’interno di quella che è, a tutti
gli effetti, una recensione. Mi piace pensare che ci
sia, da parte di Cartwright e Favetto la volontà di
conservare questo ricordo attraverso la storia. Ho
conosciuto Favetto, ci ho parlato alcuni minuti e ho
percepito l’urgenza di raccontare un fatto così distante
nel tempo che continua ad avere effetti sul presente.
Chiedete alle famiglie di chi non c’è più. Chiedete a
chi da quello stadio è uscito a metà.
Favetto: "Heysel ’85, quel giorno
perduto da non dimenticare"
di Vera Schiavazzi
Un
libro scritto a quattro mani,
dove ciascuno scrittore è anche il primo lettore
dell'altro. Il che, per Gian Luca Favetto, è la cosa più
importante, "altrimenti non si direbbe letteratura ma
scritteratura". "Il giorno perduto" (66thand2nd) è la
storia di un viaggio verso Bruxelles compiuto da due
parti dell'Europa, la Valchiusella nel Torinese e
Liverpool, in Inghilterra, da quattro ragazzi tifosi, e
con Favetto l'ha scritto Anthony Cartwright.
Come è andata ?
"È stata una cosa sorprendente.
L'editore me l'ha proposto e subito ho pensato che
volevo farlo, sia per l'idea di essere in due sia per la
storia, quel giorno di trent'anni fa che nella memoria
di tantissimi che conosco è rimasto come qualcosa che
non si vuole ricordare. Conosco gente che non è andata
più allo stadio, o non è più tornata in Belgio".
Avete scritto a distanza ?
"Alcune parti insieme, altre
separatamente inviandocele l'uno con l'altro. A
settembre ci siamo trovati a Bruxelles per parlarci e
costruire una mappa, e ci siamo trovati. Ci siamo
raccontati i nostri personaggi, il suo Christy, un cuore
solitario detto da tutti Monk, e i miei, Mich di Rueglio
che fa ingegneria e forse non la finirà, Angelo,
Charlie, Miranda (che è maschio ma viene chiamato così
dal nome della zia tabacchina) e la loro R4. Tutti
partono la domenica, Monk lo fa in treno e in traghetto,
e attendono con ansia la partita".
Un'avventura ?
"Esattamente. Tutti sono in cerca
di una ragazza, o pensano già di averla, tutti vedono la
Grande Place di Bruxelles e ne restano estasiati,
pensano che è lì che dovrebbe svolgersi la partita, e lì
ci sarà la festa, poiché entrambe le tifoserie pensano
di avere la vittoria in tasca. E si preparano, si
caricano in attesa della gara".
Come finisce ? Qualcuno di loro
muore all'Heysel ?
"È difficile da dire. Ma due
capitoli, il primo e l'ultimo, sono ambientati ora, nel
2015. Il nostro racconto è un po' un sabato del
villaggio, spiega soprattutto quel che succede prima.
Poi, quella partita è vuoto, gelo, orrore. Un giorno
perduto, dove chiunque ha memoria si ricorda dov'era, ma
che si preferirebbe non ricordare. E naturalmente non
posso svelare il finale".
Naturalmente. Che cosa si aspetta
da questo Salone ?
Due libri rivivono e romanzano la
tragedia dei 39 morti, per gli incidenti occorsi prima
della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e
Liverpool allo stadio di Bruxelles.
Bologna: Il giorno perduto Racconto
di un viaggio all’Heysel
di Giulia Tardelli
27 maggio 2015 presso Libreria modo
infoshop a Bologna. Un libro di Anthony Cartwright e
Gian Luca Favetto.
Di Rueglio, paese delle valli
piemontesi, che montano su una Renault 4 per raggiungere
in Belgio il loro amico Gianni Koetting, riserva nella
Juve, e inseguire un sogno: la Coppa campioni. È il
viaggio di una vita, da assaporare a parole prima ancora
di averlo vissuto - pallone, donne e boccali di Chimay.
E poi via, oltre le Alpi e attraverso la Francia fino a
Bruxelles, teatro della grande sfida sul campo da
calcio. Oltremanica, sulle sponde del Mersey, vive un
loro coetaneo, Christy detto Monk, un ragazzo solitario
costretto a fare i conti con la fuga della madre e con
la lenta malattia del padre, di cui ha assorbito i
ricordi di guerra e del duro lavoro nella provincia
inglese. La capitale belga è anche la meta di Christy -
che vuole andarci da solo, per dimostrare qualcosa a sé
stesso, esorcizzare le proprie paure, in cui si
riflettono quelle di un paese strangolato dalla cura
Thatcher. Christy prende il traghetto e attraversa il
fiume, da Liverpool raggiunge Londra e infine sbarca sul
continente. Divisi dalla fede calcistica, i tanti
protagonisti di questo romanzo denso e lieve, scritto a
quattro mani da Anthony Cartwright e Gian Luca Favetto,
si incontreranno tutti, sfiorandosi senza saperlo, nel
grande catino della Grand Place di Bruxelles, in un
giorno che cambierà per sempre il loro futuro. È il 29
maggio 1985, il giorno in cui sembra non accadere
niente, tranne che nel fatiscente stadio Heysel la
Juventus batte il Liverpool 1-0, con un rigore di
Platini, e conquista finalmente la coppa Campioni. Sul
campo rimangono trentanove vittime che trasformano la
partita in una tragedia. A trent’anni di distanza, due
autori (diversi per età, origini e lingua) provano a
interrogare la propria memoria individuale, e quella
collettiva, e ridare così un significato a quel "giorno
perduto" - per il calcio e per la recente storia
europea. E ritrovare il senso dello sport come festa,
come gioco che avvicina, accogliendo in un abbraccio chi
vi partecipa, atleti e spettatori, senza distinzione.